Sulla strada per Corleone

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Sulla strada per Corlene, storie di mafia tra Italia e Germania. di Petra Reski

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Titolo originale: Von Kamen nach Corleone

© 2010 by Hoffmann und Campe Verlag, Hamburg

© 2011, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milanowww.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277

Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100%

Finito di stampare nel mese di maggio 2011 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)

Nel libro si menzionano inchieste e atti giudiziari. Tutte le persone citate,coinvolte in indagini o processi, sono, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, da considerarsi innocenti fino a condanna definitiva.

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PETRA RESKI

SULLA STRADAPER CORLEONE

Storie di mafia tra Italia e Germania

Traduzione di Fabio Cremonesi

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Avevo vent’anni, quando mi infilai in una vecchia Renault 4 e andai da Kamen a Corleone. Solo perché mi ero letta Il Padrino. Standomene sdraiata sul letto, sotto un tetto spiovente tappez-zato a motivi floreali. In quella stanza avevo studiato il golpe in Cile, soffermandomi in particolare sulla riforma agraria di Allen-de e sulla privatizzazione delle miniere di rame, avevo imparato a memoria i verbi irregolari francesi e, come avevo fatto leggen-do Macbeth, mi ero posta i grandi interrogativi sulla coscienza e sulla colpa. E nel frattempo avevo letto Il Padrino.

Johnny trangugiò il giallo liquido di fuoco e porse il bicchiere perché fosse riempito di nuovo. Cercò di apparire baldanzoso. “Non sono ricco, Padrino. Sto affogando. Avevi ragione. Non avrei mai dovuto lasciare moglie e figli per quella vagabonda che ho sposato. Non ti biasimo per essere stato in collera.”Il Don si strinse nelle spalle. “Ero preoccupato, tu sei il mio fi-glioccio, ecco tutto.”

Frasi del genere mi suonavano comprensibili. Più di Macbeth. Se si è cresciuti in una famiglia della Prussia Orientale, si sa tutto sulla forza dei vincoli di sangue. Mia nonna, ha dominato la fa-

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miglia fino all’ultimo istante della sua vita. Generosa con i paren-ti, severa con il resto del mondo: è così che ha tenuto insieme il clan. Mia madre, che viene dalla Slesia, ancora oggi divide il ge-nere umano in “noi” e “gli altri”. Una volta, ci diedero un com-pito d’inglese che consisteva nello spiegare l’espressione “il san-gue non è acqua”. Fui l’unica della classe che sapeva cosa volesse dire quella frase. Me l’aveva fatto capire mia nonna.Ero la sua prima nipote. Figlia unica del suo figlio maggiore. Che era morto a ventisette anni, facendo il minatore. Quando mia madre, sei anni dopo la morte di mio padre, smise di vestirsi di nero, mia nonna non volle più vederla. Da quel momento in poi, andai da sola alle feste di famiglia, ero io che sedevo al po-sto d’onore accanto a mia nonna. E quando mia madre più tardi mi domandava com’era andata la festa, com’erano vestite le mie zie e che regali mi avevano fatto, io tacevo.

A don Vito Corleone tutti si rivolgevano per aiuto senza mai ve-nire delusi. Non faceva vane promesse e neppure avanzava scuse vili di aver le mani legate da forze più potenti. Non era neces-sario che fosse amico, e neppure avere i mezzi con cui ripagar-lo. Una sola cosa era fondamentale. Che il supplicante, lui, lui stesso, proclamasse la sua amicizia.

Orgoglio e fierezza. Vecchi perbene, che non dicevano mai una parola di troppo. Una famiglia che c’era sempre, per qualunque cosa. Mafiosi 1 che non uccidevano donne e bambini. E che ri-spettavano la loro madre. Avevo in mente qualcosa del gene-re quando per la prima volta partii per la Sicilia. Con il mio ragazzo, che amavo per il suo aspetto efebico, i lunghi capelli biondi e il fisico minuto, la bocca da ragazza. Eravamo già sta-

1 In italiano. Qui e altrove i termini riportati in italiano nel testo originale sono indicati in corsivo.

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ti insieme in Spagna, Francia e Grecia. La Grecia ci era parsa sopravvalutata, la Spagna disperatamente oppressa, la Francia sciovinista ma simpatica. L’Italia non mi aveva mai interessa-to, se non sotto forma di pizza quattro stagioni senza prosciut-to. O di cozze gratinate.Andavamo sempre in motorino in un ristorante italiano non lontano da Dortmund. In sala c’era Giuseppe, un ragazzo tene-ro, all’incirca della mia età, con i ricci neri. Mi aiutava a sfilar-mi il cappotto e mi serviva come se fossi la regina di Saba e non una liceale che poteva permettersi soltanto mezza pizza ai frutti di mare e un bicchiere di frizzantino. Per un Natale, Giuseppe mi regalò un panettone, il primo della mia vita, e il mio ragazzo disse: «Credo che sia innamorato di te».La mia conoscenza dell’Italia si limitava soltanto alla cucina, per il resto Roma e Firenze non mi attraevano, e di Venezia sapevo solo che stava sull’acqua. Le mie zie erano solite trascorrere le va-canze sulla costa adriatica, perciò non avevo mai preso in conside-razione l’Italia. Finché non lessi Il Padrino. E venni a conoscenza della mafia. E sentii che le mie zie rabbrividivano.Una cupa mattina di marzo ci mettemmo in cammino. Albeg-giava. Su di noi incombevano le nubi grigie di una perturbazio-ne atlantica e il mio ragazzo era impegnato a togliere con uno straccio la condensa che si era depositata nella notte sul para-brezza della Renault. Sistemai nel portaoggetti le cassette che avevamo preso per il viaggio: Genesis, Follow me, follow you; Supertramp, Give a little bit; Rod Stewart, Da Ya Think I’m se-xy; Roxy Music, Dance Away. E naturalmente moltissimo Bob Dylan. Per i miei gusti, decisamente troppe cassette di Bob Dy-lan. Il mio ragazzo aveva appena iniziato ad andare a lezione di chitarra, spinto dal suo amore per Dylan. Per controbilan-ciarlo, avevo portato con me una cassetta di chanson di Michel Polnareff. La poupée qui fait non. «Musica da ragazzine» disse il mio ragazzo, tagliente come al solito. Poi tirò fuori tabacco e

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cartine e si rollò la prima sigaretta. In uno degli scomparti la-terali della Renault c’erano l’atlante d’Europa della Shell, un pacchetto di gomma da masticare alla menta e quattro tavolet-te di cioccolato Ritter-Sport allo yogurt. Il primo giorno vole-vamo arrivare fino alle Alpi. Ancora la sera prima mia madre mi aveva chiesto perché dovevo andare proprio in Sicilia, e io le avevo risposto: «Perché là fa già caldo. È quasi Africa». Mi sembrava evidente. Noi eravamo in partenza e lei se ne stava sul ciglio della strada, con il freddo che faceva; guardando la ruggine che si stava mangiando le portiere della Renault, disse: «Non arriverete mai fino in Sicilia».

E adesso, parcheggiata sotto casa, c’è una spider. L’umidità del mattino autunnale si è depositata in piccole gocce sul tettuccio e sul cofano. Non si può dire che sia un’auto che passa inosser-vata. Accanto agli edifici delle miniere di carbone di Kamen, un’Alfa Romeo Spider bianca sembra una chimera. Aggressiva e scintillante. Già solo i cerchioni ad anelli intrecciati hanno un aspetto prezioso. Il bianco naturalmente è un colore da donna, ma che ci vuoi fare! Quattro tubi di scappamento cromati, cer-chi in lega e le mie iniziali come targa. Come mi ha fatto nota-re mio zio, glisso sul fatto che in questo caso PR probabilmen-te significa public relations. Cosa ci posso fare se ho un debole per le spider? Centosettanta cavalli. Non sapevo neppure che esistessero auto da centosettanta cavalli, ero rimasta ai sessanta cavalli della mia vecchia Peugeot 205. Non è che io ne sappia molto di auto, soprattutto da quando mi sono trasferita a Ve-nezia e ho regalato la Peugeot.«È una bomba» dice mio zio.«Centosettanta cavalli» gli rispondo, «sei marce».Parlo come se prendessi soldi dall’Alfa Romeo. Sfacciatamente. A dire il vero il bagagliaio lascia un po’ a desiderare. Se ne accor-ge lo zio, che mi ha aiutato a portare le valigie fino alla macchi-

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na. Si affanna per riuscire a stipare le mie borse in quello spazio angusto che chiamano vano bagagli. Poi fa qualche passo indie-tro e gira intorno alla macchina. Osserva tutto, la carrozzeria, i cerchioni, il tettuccio, ed esclama: «Quattro tubi di scappamen-to! Che roba, mai visto niente del genere».Mi sento come una bambina a Natale. Tutta orgogliosa, mostro allo zio il deflettore frangivento collocato tra le due roll bar e il sistema di lavaggio dei fari, poi apro la capote, giusto così, a sco-po dimostrativo. Con un lieve ronzio il tettuccio apribile si ri-piega e va a finire in uno scomparto posteriore. «Che sciccheria!» commenta lo zio. E si informa sul consumo di benzina. «È diesel» rispondo io.«Diesel!» dice lo zio allibito. «Non va bene. Un diesel non ce la fa.»«Centosettanta cavalli» ripeto brusca.«E va bene, sarà come dici» replica, e si mette a braccia con-serte. «Cosa sarebbe, una prova su strada? Poi devi scrivere un articolo?»«Sì» taglio corto. «Un resoconto della prova.»Poi richiudo la capote prima che inizi a piovere. Non vorrei che ci finissero dentro delle foglie d’acero. Quelle poche foglie che sta-notte sono cadute sul marciapiede dall’acero che abbiamo in giar-dino. In Germania l’autunno viene spazzato in mucchietti ordina-ti. In attesa che un esercito di aspiratori di foglie lo faccia sparire.Alla fine anche mia madre esce di casa a salutarmi. Mi abbraccia. E se ne sta sul ciglio della strada, con il freddo che fa.«Dove te ne vai stavolta?» mi chiede sospettosa.«A Stoccarda, no, a Monaco» le rispondo.«E vai là a restituire la macchina?»«Sì, vado là a restituire la macchina.»Poi salgo in fretta perché non sono capace di dire bugie.Kamen-Corleone: 2.448 chilometri. O per lo meno così dice Go-ogle Maps. Potrei arrivarci in circa un giorno e un’ora. Se faces-

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si una tirata unica. Mi domando in base a quali calcoli Google Maps arrivi a questo risultato. Tiene in considerazione i limiti di velocità in Italia? Centotrenta? E i cantieri? E le soste per fa-re pipì? La prima volta ci avevamo messo quattro giorni. E non ci eravamo mai fermati, se non per far benzina. D’accordo, era una Renault e non una spider, ma insomma... Google Maps è un programma molto ottimista, credo.Il sedile mi avvolge come il guscio di una cozza, finalmente ca-pisco il significato dell’espressione “poltrona a guscio”. Mi ri-prometto che d’ora in poi viaggerò solo in automobili con i se-dili “a cozza”. A parte il caffè, quella Spider fa praticamente tut-to. Cambia CD automaticamente, ha i sedili riscaldati, calcola il consumo medio di benzina e si mette a far casino quando con il paraurti ci si avvicina troppo a un ostacolo.Distratta dal profondo rispetto per il miracolo nel quale sono se-duta, non mi accorgo che il semaforo è diventato verde. Voglio partire, rapida ed elegante, ma faccio spegnere la macchina del-le meraviglie. È solo questione di abitudine, mi dico. Quando guido, mi capita di parlare da sola. Specialmente ora che non ri-esco a far ripartire la Spider, perché non mi riesce di abituarmi al fatto che al giorno d’oggi non si deve più girare la chiave nel blocchetto dell’accensione: basta premere un pulsante. Spingo il pulsante. Non succede niente. Qualcuno inizia a suonare il clac-son. La vendetta dei guidatori di macchine piccole. Se ne stan-no nelle loro Renault arrugginite e suonano il clacson a un’Al-fa Romeo Spider bianca. Senza perdere la calma, o almeno co-sì la racconto io, finalmente riavvio la Spider, e il navigatore mi dice: tenere la destra.Poi mi infilo nella tangenziale ovest, trovo una corsia libera e schiaccio un po’ l’acceleratore, giusto per togliermi rapidamente di torno quell’insulso proprietario di Renault, ecco a cosa servono centosettanta cavalli. Datemi un’auto e io sono felice. Da questo punto di vista Venezia non è il posto giusto per una come me,

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che in un’altra vita deve aver fatto la collaudatrice. Non si trat-ta solo dell’ebbrezza della velocità, è anche il fatto che al volante si può imprecare impunemente. Che razza di idiota, non dovreb-bero dare la patente alle donne, stupida capra. Quando cammino per le calli veneziane, devo reprimermi, anche se c’è una ciccio-na americana che mi impedisce di avanzare, un’americana con i pantaloni tirati su al punto da costringermi a vedere il solco tra le sue chiappe. Nel guscio protettivo di una macchina, i panta-loni tirati troppo su non si vedono, mentre a Venezia posso solo sibilare un cortese permesso, e persino questo suscita occhiatac-ce. È uno degli svantaggi della vita senz’auto. L’altro è che non si può cantare a squarciagola. Con Lucio Dalla, quando canta di una puttana ottimista e di sinistra. Un pezzo perfetto per la Spi-der. Naturalmente la cosa migliore è cantarlo senza capote. Ma il cruscotto segna otto gradi, è autunno in Germania.A un certo punto ho deciso che per il reportage in Sicilia non avrei noleggiato un’anonima Fiat-qualcosa, e nemmeno un car-rozzone familiare, volevo una spider. In fin dei conti avevo un buon motivo: in Sicilia c’è sempre bel tempo. Alla decisione non è stata estranea una certa protervia, lo ammetto. Una volta, nei pressi di Marsala, su una spider ero rimasta bloccata da una pro-cessione. Ancora oggi ho nell’orecchio una voce di donna che mi sibilava in siciliano bottana, mentre passava accanto alla macchi-na con un rosario in mano. Una parola che in una processione non andrebbe proprio usata.A nord dello svincolo autostradale di Kamen, in ogni caso, la stagione delle cabrio è già terminata da un pezzo. Mentre pren-do l’A1, degli uccelli migratori mi sorvolano, puntini neri che si uniscono a uno stormo fremente. Li seguo, a sud c’è il paradiso. O per lo meno così diceva una carta geografica medievale che ho visto una volta a Venezia, alla biblioteca Marciana: il paradiso si trova sulla terra, in Africa, presso le sorgenti del Nilo.Cumuli di nubi attraversano il cielo, si fondono e tornano a se-

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pararsi. Ogni tanto il sole riesce a farsi strada, illumina come un gigantesco riflettore l’asfalto che brilla per l’umidità, mentre il cielo ridiventa scuro e ricomincia a piovere. La luce cambia ve-locemente, come se fossimo in riva all’Atlantico. Le foglie stan-no già mutando colore, qualche albero è ormai rosso fuoco. Se vivessi ancora in Germania, le sfumature delle foglie in autun-no mi sarebbero indifferenti, ma da quando mi sono trasferita in Italia guardo l’autunno tedesco come fosse una visione. A Ve-nezia quasi non ci sono alberi, e a Palermo crescono soprattutto palme, magnolie e melograni, alberi le cui foglie non si sognano di cambiare colore.Davanti a me, un camion si muove lentamente mentre attraver-siamo un cantiere, il terzo in pochi chilometri. Le autostrade te-desche non sono più quelle di una volta. Di malumore, seguo il camion. Per chilometri. Poi posso finalmente dare gas. Non c’è niente da fare: se si ha un’auto veloce, si vuole andare velo-ce. Volare, correre, sfrecciare. E cantare a squarciagola. Non so se hai presente una puttana ottimista e di sinistra.Dietro di me, qualcuno mi lampeggia con gli abbaglianti. Ave-vo scordato anche questo. La gente che va di fretta. Qui succe-dono ancora cose del genere. Altezzosa e senza guardare, mi spo-sto sull’altra corsia e cerco di concentrarmi sul paesaggio, che sembra espandersi man mano che procedo lungo l’autostrada. E mi stupisco quando vedo il cartello di fine del limite di velocità, un cartello che gli italiani si sognano. Al di sopra dei centotren-ta scatta l’autovelox. Per giunta, questo piacere in Germania è gratis. Niente caselli, zero. Libertà di viaggio per liberi cittadini. Almeno per qualche chilometro dopo Kamen. Fino al prossimo cantiere. Fino alla prossima coda. O per lo meno, suppongo che il motivo della coda in cui mi ritrovo sia un cantiere. Erano an-ni che non stavo ferma in coda. Ho perso tempo in altri modi, negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie, con i controlli di sicu-rezza o seduta su un aereo. Ma ora siamo bloccati in autostrada,

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qualunque movimento è impedito. Cerco una stazione radio che dia notizie sul traffico, sulla lunghezza dell’incolonnamento e su eventuali percorsi alternativi. Di sicuro in questa macchina me-ravigliosa c’è anche un programma che rileva le code, è solo che non ho ancora imparato a usarlo.Il cielo si è momentaneamente rischiarato, quando finalmente il conduttore parla della nostra coda: l’autostrada è chiusa perché un camion si è ribaltato. È come se avesse appena annunciato la cancellazione di un volo. Scendo dall’automobile e cerco di scor-gere qualcosa, invano naturalmente. Accanto a me è fermo un ca-mion, l’autista guarda la Spider e mi fa i complimenti per i cerchi in lega. Per i quali, peraltro, non ho alcun merito. Ma non bado a queste sottigliezze, e accetto i complimenti, soddisfatta come se i cerchi in lega li avessi fatti con le mie mani.Scrivo mail per quella che mi pare un’eternità, poi mi perdo nel mondo virtuale, scorro le pagine dell’edizione online de il Fatto Quotidiano, guardo le previsioni del tempo su Yahoo e poi mi ri-trovo sulle pagine di Spinoza, il mio blog italiano preferito, che si ispira alla frase del filosofo: la sostanza in sé (cioè Dio) non con-tiene né volontà né intelletto. Spinoza.it commenta ciò che ac-cade nel mondo con frasi lapidarie. Eccone qualcuna: Angelina Jolie in visita alle truppe statunitensi in Iraq. Già quattro i mari-ne adottati. Oppure: Panico all’aeroporto di Milano. Scoperto un rudimentale ordigno esplosivo da cui spuntavano alcuni cavi elet-trici: era un aereo Alitalia. O ancora: Berlusconi: non possiamo far arrabbiare Obama. Non vi immaginate neppure quanto è sensibi-le quel negro. Mentre ridacchio e rimpiango di non poter condi-videre con nessuno queste battute, l’autista del camion bussa in maniera un po’ irriverente sul cofano della mia Spider per far-mi notare che la fila sta iniziando a muoversi. Premo di nuovo il pulsante dell’accensione. Di nuovo inutilmente. C’è qualcosa che sbaglio. Speriamo che il camionista non si accorga che non riesco a mettere in moto il gioiello.

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Sulla cabina di guida del camion è appesa una bandiera tedesca. Ogni volta che vengo in Germania, quelle bandiere mi colpisco-no. Ornano i giardini davanti alle case, sono appese alle entra-te dei garage e sbiadiscono su vecchie antenne della televisione e ringhiere dei balconi. Le bandiere sono una novità in Germa-nia. Almeno per me.Anche alla barra per stendere i tappeti della casa vicino alla no-stra hanno recentemente appeso una bandiera della Germania. Ogni volta che vado a trovare mia madre non riesco a evitare di paragonare i posti della mia infanzia con i luoghi del presente. Sovrappongo l’oggi allo ieri e valuto le differenze. Anche stavolta me ne sono stata alla finestra della mia camera di un tempo, ho scostato un po’ le tendine di pizzo drappeggiate con tanto amo-re da mia madre e guardato in strada. C’erano degli anziani con il berretto da marinaio che si affrettavano, probabilmente attesi dalle loro mogli per pranzo. Un camion per il trasporto di rotta-mi di metallo stava passando davanti a casa e produceva un suo-no curioso, una specie di flauto elettrico, lo stesso suono che fa-ceva il robivecchi della mia infanzia. Di fronte a quella melodia la mia reazione era sempre un misto di sospetto e curiosità, per-ché del robivecchi si diceva fosse un gitano. E i gitani rubavano i bambini, era risaputo. In effetti il robivecchi aveva i capelli neri e la pelle scura. I gitani e quelli che venivano dal sud erano comu-nemente ritenuti tipi loschi. Un giudizio che io ritenevo avven-tato, dato che l’italiana della gelateria Cortina persino in piena estate era pallida come i minatori che andavano da lei a compra-re il gelato al limone per i loro figli. Adoravo osservare l’italiana che faceva le palline di gelato e le metteva nella coppetta d’argen-to; quella coppetta era ricoperta da un velo di brina ed era co-sì fredda che le mie dita ci restavano attaccate. I capelli dell’ita-liana erano neri con un accenno di grigio, come il carbon coke. Aveva una voglia pelosa sul mento. Non sorrideva mai. Ho sem-pre sospettato che sentisse nostalgia del suo Paese.

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Giù in strada c’erano dei turchi con i capelli bianchi che si re-cavano alla moschea all’angolo. Prima c’era una stireria, ricordo ancora l’odore delle lenzuola che, fumanti dopo essere state sti-rate, andavano a finire in una cesta. Dove un tempo delle don-ne sudate piegavano le lenzuola ancora calde, oggi si prega. Nel-la stireria la temperatura era così alta che sotto il camice le don-ne non indossavano altro che la biancheria, cosa che da bambina mi faceva molta impressione. Le donne portavano le vesti mez-zi sbottonate, tanto che riuscivo a vedere i loro giganteschi reg-giseni. Ogni volta che vedo i turchi con i capelli bianchi, mi do-mando se ai tempi in cui si trasferirono nella Ruhr si sarebbero mai immaginati di invecchiare in una comunità di minatori. Tra una moschea, che un tempo era una stireria, e una videoteca che fino a qualche anno fa era un’osteria in cui aveva sede il circo-lo ricreativo delle amiche di mia nonna. Prima non c’erano nep-pure turche velate, al massimo portavano un fazzoletto colorato. Alla fermata sotto casa, delle anziane con il deambulatore aspet-tavano l’autobus; nella mia infanzia là c’erano i minatori, li pas-sava a prendere il bus della miniera. Portavano con sé delle bor-se di cuoio con il thermos e i panini imburrati. Sotto casa nostra passava il treno della miniera. Oggi quel tratto di strada ferrata è diventato una pista ciclabile su cui pedalano pensionati avvol-ti nelle giacche a vento, e gli orti delle case dei minatori, in cui un tempo crescevano le verze, oggi sono magicamente diventa-ti giardini da fiaba, con finti pozzi e stagni in miniatura attra-versati da ponticelli di legno in plastica degni di Biancaneve e i sette nani. Prima le case dei minatori erano grigie come il cielo in un giorno di pioggia, oggi alcune di esse sono state dipinte di giallo vaniglia, cosa che fa sembrare le altre ancor più grigie. Da una grondaia penzola una bandiera tedesca. Come dalla cabina di guida del camion accanto a me in autostrada.Non è che io abbia fatto tanta strada. Forse cinque chilometri. Me ne restano ancora duemilaquattrocentoquaranta. Traffico un

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po’ con il navigatore, ingrandisco, rimpicciolisco. La sua voce mi fa venire in mente quella della mia insegnante di lavori manuali. Brutti ricordi. Ogni tanto mi sogno ancora quando dovevo rica-mare quattro righe a punto croce su un pezzo di batista che le mie mani, sudate per la paura, avevano reso grigiastro e umidiccio.Le uscite si susseguono: Dortmund-Wickede, Unna, di lì si pren-de la superstrada della Ruhr. L’ho fatta giusto ieri, per andare a Dortmund a mangiare in un ristorante italiano. Giuseppe, lo smil-zo cameriere della mia gioventù, lavora ancora là. È rimasto pres-sappoco uguale, non è giovane, ma neppure vecchio. È ancora te-nero, e continua ad avere i riccioli neri. Ho ordinato cozze gratina-te, più per nostalgia che per convinzione. Da quando vivo in Italia ho delle riserve sulla cucina italiana in Germania. Come al solito, io parlo in italiano, Giuseppe in tedesco. Tede-sco della Ruhr. «Sai, Petra, era un bel po’ che non ti facevi vedere.»Giuseppe sostiene che il mio italiano è migliore del suo: non cre-do sia un complimento, ma una semplice constatazione. Lui è ar-rivato in Germania da piccolissimo; in casa sua si parlava in dia-letto siciliano, a scuola in tedesco. Dice di aver imparato la lingua da adulto, facendo il cameriere insieme ad altri italiani. Si entu-siasma quando mi sente parlare in italiano e tradisce un certo or-goglio patriottico quando sente che riesco a usare il congiuntivo imperfetto. A me fa piacere che lui sia orgoglioso del mio italia-no, come se fosse merito suo. Per un po’ ha anche gestito un ri-storante, e io l’ho seguito fedelmente, per amicizia, anche se sua moglie, una trapanese, mi teneva d’occhio diffidente da dietro il bancone. Ogni volta che andavo a cenare da lui con mia madre, ci offriva sempre una sambuca flambé con due chicchi di caffè. Quando mi sono trasferita in Italia, ho scoperto con stupore che al ristorante nessuno, a parte i tedeschi, ordina una sambuca, un liquore passato di moda fin dagli anni Sessanta. Giuseppe mi ha mostrato le foto plastificate delle sue quattro fi-glie e io gli ho fatto vedere l’Alfa Romeo Spider parcheggiata di

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fronte al ristorante. E lui l’ha approvata con un certo orgoglio nazionalistico, come se riconoscere l’eleganza di un’Alfa Spider richiedesse un talento speciale, come se non a tutti fosse conces-so usare senza errori il congiuntivo imperfetto.Si è chinato verso di me per chiedermi: «E vai con quella fino in Sicilia? Davvero?». Poi ha incidentalmente accennato al fatto che l’agosto scorso è andato con moglie e figlie fino a Trapani in un’unica tirata. Un giorno e una notte. Un record.Mi ha raccontato che la festa italiana a Unna quell’estate era sta-ta un successo senza precedenti, peccato che io me la fossi per-sa. La festa si tiene ogni due anni; la gioia di vivere italiana vie-ne celebrata con grappa, limoncello e patate al rosmarino, l’iso-la pedonale non è più un’isola pedonale, ma diventa un corso, la Marktplatz diventa una piazza e ovunque vengono allestiti pal-chi su cui dei cantanti con il colletto della camicia alzato canta-no Azzurro. Oppure Felicità.E mentre Giuseppe si entusiasmava per gli sbandieratori di Pisa, i danzatori di tarantella e le decorazioni luminose pugliesi che allietano ogni processione, mi sono ricordata che aveva ceduto il ristorante dopo che il suo socio era stato minacciato. Non mi aveva mai raccontato i dettagli, si era limitato a dirmi che un pa-io di siciliani di Paternò avevano cercato di estorcergli dei soldi. Avevano fatto irruzione in casa di Antonio, mentre sua moglie dormiva in camera da letto, con i mitra in pugno, per risultare più convincenti. Ma i siciliani non avevano considerato che in Giuseppe e Antonio la fiducia nella polizia tedesca era più forte della paura. La polizia aveva installato delle telecamere e arresta-to gli estorsori quando si erano presentati per riscuotere il dena-ro. Tuttavia, nonostante la sua fiducia nello stato di diritto te-desco, poco tempo dopo Giuseppe aveva venduto il ristorante e aveva ripreso a fare il cameriere.Quando gliene ho parlato, ha assunto un’aria indifferente, co-me se quella storia non lo riguardasse. Come se si fosse trattato

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di un episodio di un poliziesco televisivo, in cui lui aveva sem-plicemente fatto la comparsa e del quale oggi si ricorda a sten-to. A parte la scena della consegna dei soldi. C’erano poliziotti nascosti persino sugli alberi. Poi ha aggiunto che quelli non era-no mafiosi ma semplici opportunisti, come se quella precisazio-ne bastasse a tranquillizzarmi.Mi domando in cosa gli opportunisti siano meno minacciosi dei mafiosi. È perché si tratta di criminali semplici, senza pedigree? Forse c’entra il fatto che ho scritto un libro sulla mafia. Da quan-do Giuseppe lo sa, si preoccupa per me. Alcuni dei protagoni-sti li conosce personalmente. Non serve spiegargli cosa sia il clan Pelle-Romeo, il clan della ’ndrangheta coinvolto nella strage di Duisburg – “coinvolto” è un eufemismo, visto che i sei morti di Duisburg erano tutti membri del clan.Giuseppe è contento che si sia placato il polverone alzatosi dopo quella carneficina. Come molti altri italiani, anche lui si vergo-gnava quando sui giornali apparivano titoli come “Duisburg in odore di mafia” o “I killer sono stati più veloci” oppure “Strage di mafiosi: arresti in Nord Reno-Westfalia e in Italia”. Per for-tuna il ricordo è lentamente svanito, come il fumo azzurrogno-lo di una sigaretta. Duisburg è ridiventata Duisburg, e non è più sinonimo di presenza della mafia in Germania. Giuseppe ha ri-preso a occuparsi del record mondiale di tarantella. E delle de-corazioni luminose, che quest’anno sono arrivate da Bari. Quat-trocentomila lampadine, mi ha detto. Poi mi ha accompagnato alla macchina. Fuori l’aria era fredda e profumava di terra umida. Giuseppe ha fatto un giro intorno alla macchina e mi ha domandato perché an-dassi in Sicilia in automobile, con un volo low-cost ci avrei messo molto meno. C’è anche un diretto Colonia-Palermo, mi ha det-to. Gli ho raccontato del mio primo viaggio, quando avevo sedi-ci anni. E gli ho detto che certi viaggi vanno fatti due volte. Per-ché si cambia. E perché cambiando, si vedono altre cose rispetto

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alla prima volta. Giuseppe se n’è stato là, in silenzio, stringendosi nelle spalle. Poi ha detto: «Stai attenta, quella è gente pericolosa».Il vento agitava il suo grembiule da cameriere mentre mi porge-va una manciata di torroncini. Da mangiare in viaggio, mi ha detto. Poi mi ha salutato con un bacio su una guancia, come se fossi una bambina.

Quando si attraversa la Ruhr, ogni tanto nel paesaggio spuntano delle torri di raffreddamento, come in altri luoghi spuntano le chiese barocche. Se non ci sono le barriere antirumore che chiu-dono l’orizzonte, le torri sono circondate da piccole, esili betulle le cui foglie sembrano fatte d’oro. Il che me le rende simpatiche, perché di solito le betulle mi mettono malinconia, mi ricordano l’est, e l’est mi ricorda la patria che la mia famiglia ha perso per sempre; ma ora, con quelle foglie dorate, mi sembrano di buon auspicio, impavide, quasi allegre.Mi chiedo se anche gli italiani, quando vengono in Germania, diventano malinconici quando vedono le betulle, e se evocano loro le profondità dell’animo tedesco. Il romanticismo tedesco e Caspar David Friedrich. L’essere umano che, minuscolo, si perde nella natura infinita. Anche se il romanticismo tedesco fa un po’ a pugni con il fatto che il mondo, e la natura, siano nascosti die-tro le barriere antirumore. Se Caspar David Friedrich rinascesse, forse questo sarebbe un tema interessante: l’essere umano che si perde nelle infinite barriere antirumore. Di sicuro per i residen-ti è un sollievo non essere infastiditi dal frastuono dell’autostra-da. Ma in qualche modo la perfezione con cui vengono protet-ti dal rumore è anche inquietante. E quanto più viaggio lungo le betulle e le barriere di protezione, tanto più desidero arrivare al sud, dove c’è rumore, dove ci sono i cipressi. Probabilmente per colpa del mio romantico animo tedesco. Nel tempo della mia infanzia le barriere antirumore non esiste-vano, l’autostrada passava accanto al balcone dei miei nonni e il

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baccano si sentiva anche con le finestre chiuse. Sembravano on-de che si frangevano. Per lo meno a me, quando chiudevo gli oc-chi e, sul balcone che i miei nonni avevano pavimentato con il prato artificiale, mi mettevo a sognare il sud. E il sole, e il cielo senza nubi. E le zagare. E i paesini ornati di ghirigori barocchi, in cui ogni pezzo di marciapiede è più antico e prezioso di tutta la Ruhr messa insieme. In fondo le mie aspettative sul sud non erano diverse da quelle delle generazioni precedenti, i viaggiatori del Grand Tour, per i quali il viaggio in Italia rappresentava una sorta di “curriculum dell’esperienza delle cose del mondo e del-la formazione personale”. Per i figli dei patrizi, che a causa del clima e dell’atmosfera sensuale cadevano in preda a un’ebbrezza estatica. Per le dame aristocratiche, che si lamentavano dell’aria malsana nelle Paludi pontine. Purtroppo a quei tempi io non sa-pevo ancora nulla del Grand Tour. Tutt’al più sapevo qualcosa della pizza quattro stagioni.Il giorno prima di partire con la Spider, ho fatto anche un giretto nel centro di Kamen, guardandomi intorno. In cerca del passato, mi sono resa conto che la Posta non c’è più ed è rimasta un’uni-ca, minuscola pizzeria. In compenso ci sono un sacco di discount, negozi a buon mercato e altri che vendono fondi di magazzino. Ho anche visto volti che conosco. O che conoscevo. Compagni di scuola. Quando li riconoscevo, mi sembrava di avere di fron-te il loro volto da bambini, ma in un batter d’occhio ritornava-no alla loro vera età. Mi è successo anche quando ho incontrato il mio insegnante di latino.«Allora, Petra, ancora viva?» mi ha detto, e si è messo a ridere.«Sì» gli ho risposto. «Ancora.»L’ho incrociato ai grandi magazzini Karstadt, tra due tavoli di li-bri in svendita. Kamasutra per principianti e Fai da te le tue fioriere a 2 euro e mezzo l’uno. A Kamen non c’è nessuno che non sappia che il mio ultimo libro parla della mafia. E che alcune persone ci-tate nel mio libro mi hanno querelato e minacciato. Quando mia

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madre va al mercato, le chiedono: «Allora, quante querele ha rice-vuto tua figlia?» come se fosse una battuta spiritosa.Anche il mio professore di latino sembrava divertirsi. «Quanto si spende per commissionare un omicidio alla mafia?» mi ha chie-sto senza smettere di ridere. Mi sono accorta che i suoi capelli so-no ancora lunghi, come quando ha iniziato il tirocinio nella mia scuola. Allora era biondo, oggi ha i capelli bianchi.«Niente» gli ho detto. «I mafiosi uccidono per convinzione.»«Sul serio?» mi ha risposto stupito. Poi ha aggiunto: «Ma là, in Italia, proprio non riescono a risolvere la questione della mafia».«Mah» gli ho risposto.«E adesso ti... proteggono?» ha domandato il mio insegnante di latino, e si è rimesso a ridacchiare. «Voglio dire: sei sotto scorta?»Forse dipendeva dai mucchi di Kamasutra per principianti. Op-pure di Fai da te le tue fioriere. Era un vero idillio, la mafia assor-biva ogni pensiero. Le mie labbra si sono sigillate. Volevo rispon-dere. Ma non sono stata abbastanza rapida. Volevo dire: anche qui in Germania c’è... Ma non riuscivo a dirlo. Quando final-mente sono riuscita ad aprire bocca, il mio insegnante di latino se n’era già andato.

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