Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

145
AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE Preludio di una filosofia dell'avvenire 1886

description

Al di là del bene e del male: Preludio di una filosofia dell'avvenire (Jenseits von Gut und Böse, 1886) è uno dei testi fondamentali della filosofia del XIX secolo, di Friedrich Nietzsche.Pubblicato nel 1886 a spese dell'autore, il libro non ricevette inizialmente molta attenzione. Nietzsche vi attaccava quella che considerava la vacuità morale dei pensatori del suo secolo, la mancanza di senso critico dei filosofi e la loro passiva accettazione della morale. Al di là del bene e del male ripercorre tutti i temi fondamentali della maturità filosofica di Nietzsche e in parte può essere letto come una spiegazione, in termini più diretti, delle idee che l'autore aveva già proposto, in modo più immaginifico e metaforico, in Così parlò Zarathustra (Also Sprach Zarathustra).

Transcript of Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Page 1: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE Preludio di una filosofia dell'avvenire

1886

Page 2: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Titolo originale: Jenseits von Gut und Bòse Traduzione di Silvia Bortoli Cappelletto

Page 3: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Un mondo «fluido»

Che la menzogna sia necessaria per vivere, anche ciò fa parte di questo terribile e problematico

carattere dell'esistenza.

F. NIETZSCHE

Nel quadro delle più recenti interpretazioni, di derivazione poststruttu¬ ralista e post heideggeriana, del filosofo dello Zarathustra — merito delle quali è indubbiamente quello di aver trasferito fuori dall'ambito accademi­co o semiaccademico della storiografia filosofica e quindi dai moduli ora irrazionalistico-esistenziali, ora antologizzanti di una «lettura» divenuta scolastica, la forza d'impatto di un pensiero irriducibilmente inquietante e non facilmente esorcizzabile dal contesto più vivo della cultura moderna — hanno un significativo rilievo le tesi espresse da Gianni Vattimo segnata­mente nel suo libro II soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione. Nella preoccupazione di prendere le distanze dalle posizioni marcusiane, che restano tuttavia alla base dell'accentuazione positiva data da Vattimo alla pars construens della filosofia nietzscheana (basti pensare alla teoria dell'«oltreuomo» con cui verrebbe ricuperata una produzione simbolica di senso concepita altresì come «attività teorico-pratica di tra­sformazione del mondo»1), il citato autore sottolinea, in una nota che avrebbe meritato ben altra collocazione e svolgimento, l'importanza da lui stesso attribuita al «problema del passaggio»: la morte di Dio come pas­saggio all'«oltreuomo», il «ripercorrimento genealogico della metafisica con il conseguente smarrimento dei suoi feticci simbolici» ecc.2. Proprio questa analisi, infatti, sarebbe venuta a colmare una lacuna largamente cri­ticata in Marcuse e riferibile al «passaggio dal mondo della repressione, e della repressione addizionale, al mondo liberato»3.

Sta di fatto, tuttavia, che, sia pure in termini diversi, una critica non dis­simile, nella sua sostanza, da quella rivolta a Marcuse, può essere mossa a Vattimo o, più precisamente, a quella parte della sua interpretazione che sposta l'asse del pensiero nietzscheano dal tema della contraddizione — che è insieme smascheramento e trasfigurazione della contraddizione stessa — a quella della «liberazione», vale a dire all'assunzione positiva del mes­saggio «rivoluzionario» di Nietzsche-Zarathustra, «vincitore di Dio e del nulla», maestro dell'«eterno ritorno» e profeta del Superuomo. È infatti proprio questo stato intermedio, questo «nichilistico Zwischenzustand», questo intermezzo critico (nel suo doppio significato) di mutamento e di distacco a costituire, a nostro avviso, il carattere «decisivo» del filosofare nietzscheano, la cui sostanza difficilmente potrebbe essere ricondotta alle ordinate e armoniche sequenze di un itinerario verso il sistema o quanto meno di un'ipotesi sistematico-totalizzante, comunque possa essere intesa. Occorre tenere nel dovuto conto il carattere proprio del movimento proble­matico di un pensiero che si gioca tutto all'interno di una tensione speri-

1 G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, 1974, p. 302.

2 Ivi, p. 307, n. 15. 3 Ibid.

Page 4: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

420 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

mentale sulla quale si struttura appunto la «prospettiva» come modalità specìfica della nietzscheana Experimentalphilosophie4. Se è l'ottica dell'e­stremo ad articolare questo movimento, e quindi a radicalizzare, mediante una vera e propria assimilazione sensibile, corporea (Einverleibung), il po­tenziale distruttivo (autodistruttivo)-rovesciante della contraddizione (l'eterno ritorno, come il superuomo, sono prospettive emergenti nella lotta con le altre), si dovrà ammettere che non è possibile configurare questo pensiero al di fuori del contesto problematico del «passaggio», vale a dire di quello stadio storico-sociale di transizione in cui esso, in definitiva, si risolve. An­che la logica occulta del dominio, nella quale s'incarna la volontà di poten­za, è innervata sul «regime del simbolico» (Vattimo) e la trasmutazione di tutti i valori per cui questa logica si discopre come genealogia del nichili­smo è ancora una «ritessitura» del simbolico in cui si è liberato il «senso»: tutto ciò non comporta in alcun modo la premessa di una modificazione reale dei rapporti di dominio storicamente determinati.

Se è vero che Nietzsche non può essere considerato, al pari di Hegel, un «filosofo del crepuscolo», non è neppure accettabile il contrario: che egli possa, cioè, essere idealmente collocato, al di là del periodo fra le due guer­re, in un progetto di rifondazione neoumanistica o antiumanistica varia­mente intrecciata alle suggestioni di certe riletture radicali-libertarie del marxismo utopico. L'importanza di Nietzsche, viceversa, sta proprio nel suo porsi al limite tra due periodi storici, tra l'Ottocento idealista e liberal¬ conservatore e la fine dell'«età della sicurezza», ad una soglia epocale pro­fondamente segnata dal rilancio imperialistico del capitalismo monopoli­stico e insieme dall'affermazione vittoriosa della Rivoluzione d'Ottobre. La stessa incidenza del pensiero nietzscheano nel contesto delle avanguar­die novecentesche e della dissoluzione critico-ideologica del mondo bor­ghese fa di questo filosofo una figura singolarmente ed esemplarmente contraddittoria, nella quale appunto la coscienza delle contraddizioni non ha costituito soltanto il risultato di una penetrazione e decifrazione pro­fonda delle loro radici «genealogiche», ma anche la conseguenza dello svi­luppo estremo delle contraddizioni stesse. Neil 'autocoscienza tragica della contraddizione è da cogliersi dunque l'approdo di un'operazione ermeneu­tica che dal nichilismo «illuminista» di Umano troppo umano coinvolge le «trivellazioni» di Aurora e la nechyia di Zarathustra fino a complicarsi in tutti i sottili smascheramenti genealogici della Umwertungszeit.

In questo percorso, al tempo stesso sinuoso e insinuante, — così comesi viene delineando nelle pieghe labirintiche della scrittura aforistica e nelle ditirambiche sequenze dello Zarathustra — la contraddizione è colta come articolazione immanente dell'intera eredità storica della metafisica platoni­co-cristiana occidentale: da questa decifrazione, a cui la semantica genea­logica e psicologica ha offerto uno strumento singolarmente «radioatti­vo», emerge non tanto il superamento della contraddizione, anche se natu­ralmente Nietzsche parla di autosuperamento del nichilismo, quanto un rapporto diverso (non passivo-reattivo, ma attivo) verso la contraddizione stessa. Il passaggio, cui fa riferimento Vattimo, è propriamente lo spazio in cui il nichilismo attivo si pone come radicalizzazione estrema del nichili­smo, costituendo in tal modo le condizioni di possibilità del suo rovescia­mento. Un rovesciamento — si badi bene — che non coincide, né può coin­cidere con il superamento storico, oggettivo, del nichilismo, ma solo con

4 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1888-1889», in Opere di Friedrich Nietzsche, 8 voli., a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, 1964 ss, vm, 3, p. 281 (d'ora innanzi FP 4).

Page 5: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

UN MONDO «FLUIDO». INTRODUZIONE DI FERRUCCIO MASINI 421

l'autosuperamento dei suoi presupposti e del suo Hintergrund metafisico e quindi di quella «falsa coscienza» proprio della soggettività che ne costitui­sce la struttura portante. Il potenziale attivo-distruttivo che agisce nel ni­chilismo stesso (attivo) per provocarne l'autosoppressione viene messo al servizio della vita; viene ricuperato nell'ottica di un cammino ascendente della vita, l'ottica appunto della volontà di potenza. L'operazione erme­neutica è anche, in questo senso, un 'operazione semiologica: essa «produ­ce» un nuovo nichilismo mutandone il segno, vale a dire, produce una con­versione o meglio una trasformazione di forza. Il segno nuovo e diverso, rovesciato, è il risultato di un radicalizzarsi della negatività, più precisa­mente di una «volontà dì verità» intesa con una consequenzialità così rigo­rosa, con una così crudele assolutezza, da esigere la sua stessa autosoppres­sione nella «volontà di menzogna». Lo sguardo, il «doppio-sguardo» dio­nisiaco, fa così cadere e per così dire annulla il «cattivo sguardo» della dé-cadence. Il discorso del «passaggio» — e sta qui la rilevanza storica della filosofia nietzscheana nel quadro dei processi di dissoluzione, senza alibi e senza dissimulate ristrutturazioni, dell'ideologia borghese — concerne dunque le articolazioni simboliche fatte di sedimenti metaforici, di opzioni illusorie, di poeticizzazioni (Erdichtungen), di paesaggi interiori, di dislo­cazioni e rimozioni di forze, quali si sono andate addensando in una scrit­tura intesa come ri-trascrizione di un testo strappato alle sue ingannevoli omologie, alle sue falsificanti dicotomie, ai suoi rinvìi trascendenti, alle sue chiose dettate dallo «spirito della vendetta» dei «malriusciti» e dei «soc­combenti». Un testo che in quanto viene ri-trascritto, viene restituito alla contraddizione, alle discrasie e alle disarmonie, al difficile tracciato delle menzogne e delle nude opzioni vitali, ad un 'innocenza che lo redime dalla «ragna dei fini» e delle «interpretazioni morali», ad una terribile, sovru­mana innocenza «al di là del bene e del male». In questo senso essa diventa inseparabile dalla negatività che è quella stessa che lo costituisce, nel senso che lo struttura e lo destruttura continuamente, ma che appunto per questo s'identifica con la potenza immanente del suo «divenire».

Il punto di fuga è la volontà di potenza, ma questa è anche il «luogo geo­metrico» dove si dissolve la soggettività, dove, cioè, tutte le linee prospetti­che s'incontrano, perché sta proprio in rapporto a quell'assenza di signifi­cato, o meglio a quest'unico significante, mai compiutamente oggettivabi­le, — la vita —, che si pone la volontà creatrice, « Wille, zum Schaffen», come volontà di inventare forme, di plasmare forme e ritmi, volontà di gioco e volontà di divenire.

A quest'orizzonte ermeneutico è forse possibile ricondurre la tensione tra «volontà di verità» e «volontà d'illusione», il cui sigillo è dato dalla maschera che — come osservava acutamente Klossowski — «cache l'ab-sence d'unephysionomie déterminée — recouvre la relation avec l'imprévi-sible et l'insondable Chaos»5. Anche il vagheggiato abbozzo di un sistema della volontà di potenza, cui si riferiscono Colli-Montinari proprio in ordi­ne al Nietzsche dell'ultimo periodo, che si apre appunto con Al di là bene e del male, non deve indurci in inganno*. Non a caso questi stessi insigni stu­diosi sottolineano giustamente che questa storia (della volontà di poten­za) «prima ancora di essere sviluppata [...] è agli occhi dell'autore null'al-

3 P. Klossowski, Nietzsche et lecercle viciewc. Paris, 1969, p. 323. 6 F. Nietzsche, «Al di là del bene e del male», trad. it. di F. Masini, in Opere di F. N.f cit.,

vni, 2, p. 371 (nota dei curatori).

Page 6: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

422 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

tro che un'espressione essoterica del suo pensiero»1. Ma proprio l'essoteri­co è ancora una volta una «maschera», allo stesso modo della citazione da Schopenhauer, e quella che viene definita, alla luce dei quaderni postumi, «la coesistenza di una elaborazione essoterica tendente alla divulgazione di un approfondimento segreto, personale del suo pensiero»*, è in realtà non già una semplice «coesistenza», bensì il sovrapporsi di una maschera sul­l'altra, il tentativo, cioè, di costruire con i relitti, le rovine o anche sempli­cemente il materiale di scavo di una metafisica abbattuta dalle fondamen­ta, una nuova «impensabile» maschera. La parola «divulgazione», per Nietzsche, può suonare soltanto come l'equivalente di una deliberata pro­vocazione, di una maliziosa sollecitazione al fraintendimento. «Non do­vrebbe essere soprattutto /'opposto il giusto travestimento nel quale avan­za il pudore di un dio?9»

Nota ancora Klossowski: «La masque qui forme tuot de mime une phy-sionomie déterminée, quand il cache l'absence de celle-ci, appartient à l'in-terpétation extérieure et répond à un désir de suggestion venant de l'inté-rieur: bien plus, il révèle que celui qui semble le porter doit aussi avoir dé­cide tel visage à l'égard de "soi-mème"»10.

La presunta teoria nietzscheana di un «sistema» della volontà di potenza è dunque solo una commedia di chi ormai concepisce la sua stessa filosofia come teatro: «teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli ed istantanee, dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno»11. Del resto la «commedia» si adatta perfettamente al genealogista delle «verità» che la volontà di poten­za si è andata costruendo nella lunga tessitura storica dei suoi inganni, dei suoi mondi dissimulati o rovesciati, assumendo la volontà del nulla come volontà dell'essere, scambiando i ruoli e cristallizzando alla fine in due sfe­re separate un «mondo reale» e un «mondo apparente», un mondo vero e un mondo falso, un mondo buono e un mondo cattivo.

Questo «genealogista» è ancora troppo fedele alla sua diffidenza per ogni dicotomia assiologica e antologico-metafisica per dare alla volontà di verità un fondamento che sia qualcosa di diverso dall'illusione, dal calcolo e dalla sapienza artistica dei fabbricatori d'illusione. «Illusione — dirà Nietzsche in un tardo frammento — come la intendo io, è la vera e unica realtà delle cose... Un nome preciso per questa realtà sarebbe "la volontà di potenza", se viene designata dall'interno, e non in base alla sua inaffer­rabile e fluida natura proteiforme.12»

Il «pregiudizio fondamentale» è ancora e sempre, per Nietzsche, quello dell'ordine sistematico: e il fatto che egli possa o voglia mimare parodisti­camente una volontà di sistema, non elimina la consapevolezza del mecca­nismo «illusorio» che ne sta alla base, del sospetto che accompagna, inse­parabile, l'ombra maestosa dei «sistematici» . «Ma il pregiudizio fonda­mentale è che l'ordine, la perspicuità, la sistematicità debbano inerire al

7 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1885-1887», in Opere di F.N., cit., vin, 1, p. 326 (no­ta dei curatori) (d'ora innanzi FP2).

8 Ivi, p. 325 (nota dei curatori). 9 F. Nietzsche, Aldi là del bene e del male (d'ora innanzi ABM), in questa edizione, p. 460

(40). 10 P. Klossowski, op. cit., ivi. 11 M. Foucault, Theatrum Philosophicum, introduzione a G. Deleuze, Differenza e ripeti­

zione, trad. it. di G. Guglielmi, Bologna, 1971, p. xxiv. 12 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1884-1885», in Opere di F.N., cit., VII, 3, p. 342

(d'ora innanzi FPI). «Io perciò — spiega ancora Nietzsche nello stesso frammento — non contrappongo "illusione" e "realtà", ma prendo viceversa l'illusione come realtà, che si con­trappone alla trasformazione in un "mondo di verità" immaginario.»

h FP4, p. 264.

Page 7: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

UN MONDO «FLUIDO». INTRODUZIONE DI FERRUCCIO MASINI 423

vero essere delle cose, mentre il disordine, il caos, l'insondabilità derive­rebbero solo da un mondo falso e incompletamente conosciuto — sarebbe-ro insomma un errore — il che è un pregiudizio morale, ricavato dal fatto che l'uomo veritiero e degno di fede suol essere un uomo dell'ordine, delle massime, e in complesso qualcosa di prevedibile e di pedantesco. Ora però non è affatto dimostrabile che l'in sé delle cose sia conforme a questa ricet­ta di funzionario modello.H»

Non esiste dunque un «in sé delle cose»; non c'è un senso nell'«in sé», perché il senso è «necessariamente senso di relazione e prospettiva», «ogni senso è volontà di potenza» [...]15.

«Al di là del bene e del male» vuol dire appunto questo: la potenza è né più né meno che un incremento, una Steigerung, della volontà d'illusione che si complica in se stessa fino ad affondare profondamente le sue radici in quel labirinto della «volontà di verità» per il quale non è dato alcun «fi­lo d'Arianna» che sia diverso dalla «buona coscienza» della falsità, dalla «sicurezza con cui ci si serve delle parole e atteggiamenti più grandi e splen­didi» — una sicurezza necessaria per la vita. «Pensiero fondamentale: la falsità appare così profonda, così infinitamente sfaccettata, la volontà è a tal punto rivolta contro il diretto conoscere se stessi e chiamarsi per nome, che ha grandissima verosimiglianza questa supposizione: la verità la volon­tà di verità sarebbe in realtà qualcosa di affatto diverso, e anche solo un travestimento.16»

Con Also sprach Zarathustra la navigazione ha rivolto la rotta nelle ac­que maggiormente insidiose, nel senso che gli istinti più affamati sono di­venuti un momento di correnti sottomarine che trascina irresistibilmente verso una meta imprevedibile. In un frammento dell' '85 Nietzsche parla della conquista dì «nuove forze e territori» ed enumera quattro forme della volontà: «la volontà di falsità, la volontà di crudeltà, la volontà di voluttà, la volontà di potenza» . Ma cosa sono queste forze, questi territori mai percorsi, forse impraticabili, se non gli elementi distruttivi della filosofia come «filosofia di proscenio»? Infatti — osserva ancora Nietzsche nell'a­forisma 289 di Al di là del bene e del male — «l'eremita non crede che un filosofo — posto che un filosofo sia sempre stato, prima di tutto, un ere­mita — abbia mai espresso in libri le sue reali e definitive opinioni: i li­bri non si scrivono proprio per nascondere ciò che si custodisce dentro di sé? —»18. Dunque l'«al di là» non è solo la negazione dell'«in sé» delle co­se, non è soltanto una modalità semantica di quel sospetto che vede nella volontà di verità una volontà di travestimento ed evoca quindi le volontà diffamate ed empie, le forme della trasgressione (falsità, crudeltà, voluttà e potenza): «al di là» significa anche la curvatura di quell'esperimento di pensieri che si ripiega su se stesso e riflettendo sul suo fondo «scopre» un altro fondo. Dietro «ogni caverna» c'è «un'altra caverna». «Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera. »19 Andare al di là, porsi al di là, interrogare al di là è scoprire (inventare, fingersi) «un mondo più vasto, più strano, più ricco al di sopra di ogni superficie, un abisso sotto ogni fondo, ogni

u FP2, p. 318. 15 Ivi, p. 86. 14 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1887-1888», in Opere di F.N., cit., vm, 2, p. 309

(d'ora innanzi FP3). I FP2t p. 24. 18 ABM, p. 556(289). n Ibidem.

Page 8: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

424 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

"fondazione"»: quelle volontà perverse e trasgressive, quelle volontà ca­lunniate e interdette, quegli «istinti» articolano il linguaggio di una filoso­fia di proscenio che è sprofondata all'interno di se stessa, nel suo «labirin­to». Il filosofo del sottosuolo ha finito per esprimere la sua volontà d'ap­parenza, di menzogna, di maschera nel gioco e nel piacere eterno della su­perficie; ha finito per celebrare la volontà di una causa prima nella creazio­ne di un «olimpo dell'apparenza». Anche i pensieri appartengono ad esso, quei pensieri che sono «segni di un gioco e di una lotta degli affetti» e «ri­mangono sempre collegati con le loro radici nascoste»20. La semiotica dei pensieri, la sintomatologia21 delle spiegazioni che sono sempre «interpreta­zioni», abbreviazioni e falsificazioni, ha costituito la base per quell'erme­neutica della potenza che ha osato il grande rovesciamento. L'ha osato a partire dall'ai di là, cioè, in questo caso, dal sottosuolo, opponendo ai pre­giudizi dei filosofi («Come potrebbe qualcosa nascere dal suo contrario? Ad esempio, la verità dall'errore? O la volontà di verità dalla volontà d'il­lusione? O l'azione disinteressata dall'egoismo?») una serie di domande «strane, maligne e problematiche»22. In tal modo essa ha ricondotto le cose di valore supremo a quel «mondo effimero, seduttore, illusorio, irrilevan­te», a quel «guazzabuglio di follia e avidità»23 che non poteva, anzi non doveva in alcun modo costituirne l'origine. La profondità del segno altro non era se non la liquidazione nichilista di quei valori su cui si era costruita una «filosofia di proscenio», ma questo segno ora non ha altro referente che se stesso, il gioco e la vicissitudine inenarrabile della superficie. La pro­fondità sta nella superfìcie.

Per questo i filosofi «del pericoloso forse» — come li chiama Nietzsche — quel nuovo genere di filosofi che si sta avvicinando, vengono dal «sotto­suolo» dove non esiste un bello, un vero, un bene, ma solo un «guazzabu­glio di follia e avidità» dove scattano i meccanismi reattivi del ressenti-ment, dell'invidia, della vendetta, delle ipercompensazioni del nichilismo: costoro sanno anche troppo bene che «la falsità di un giudizio non è anco­ra (...) un 'eccezione contro di esso». «Il problema è — dirà Nietzsche —fi­no a che punto esso promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura ne disciplini la crescita.24» Ma anche il fatto che proprio la pro­mozione e la conservazione della vita passi attraverso la sua «sofferenza», non attraverso il decadimento, bensì le stazioni atroci del suo calvario, at­traverso la sua temporanea eclisse, anche questo fatto non è per nulla un'obiezione contro la vita stessa. Una vita che è potenza, in quanto cresce attraverso la lotta e le sue stesse ricorrenti mutilazioni e sconfitte e ha addi­rittura bisogno di questa lotta per innalzarsi su se stessa, «oltre» se stessa.

Il discorso del «dio ambiguo e tentatore» Dionysos, che chiude le ultime pagine di Al di là, riconduce a una figura mitica proprio le domande «mal­vagie, bizzarre e problematiche» osate dai «filosofi del pericoloso forse». «Così egli disse una volta: "In certe circostanze io amo l'uomo", — e allu­deva ad Arianna che era presente — "l'uomo è per me un piacevole, valo­roso, inventivo animale che non ha pari sulla terra, in ogni labirinto si tro­va ancora a suo agio. Gli sono amico: penso spesso a come condurlo anco­ra più avanti, a come renderlo più forte, più malvagio e più profondo di

20 FP2, p. 22. 21 «I moti sono sintomi, i pensieri sono anch'essi sintomi; dietro le due cose ci sono sempre

i desideri, e il desiderio fondamentale è la volontà di potenza», ivi, p. 18. 22 ABM, p. 437(1). 23 Ibidem. 24 Ivi, pp. 437, 438(2,4).

Page 9: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

UN MONDO «FLUIDO». INTRODUZIONE DI FERRUCCIO MASINI 425

quanto egli sia".25» È evidente da queste parole come il dio della contraddi' zione e della scissione — Dionysos — adombri in sé anche la potenza del­l'autosuperamento. La sua ideale preistoria sta nell'immagine del Freigeist che «odia ogni regola e abitudine, tutto quel che ha durata ed è definiti­vo»26 e impara a amare quel che fino a quel momento aveva odiato e vice­versa27. L'uomo dionisiaco è l'uomo «ritradotto» nel «terribile testo origi­nario homo-natura»; egli guarda /'«altra natura con gli occhi privi di pau­ra di Edipo e le orecchie tappate di Odisseo, sordo agli adescamenti dei vecchi uccellatori metafisici, che troppo a lungo gli hanno suonato sul loro flauto: "Tu sei di più! Tu sei superiore! Tu sei di un 'altra origine!"»29.

L'interpretazione di un Nietzsche «antidialettico»29 per quanto seducen­te possa essere, risulta, in ultima analisi, fuorviante, come potrebbe essere, all'opposto, quella di un Nietzsche «dialettico». In realtà quella di Nietz­sche è propriamente un'ottica speculare del dionisiaco articolata come estasi degli estremi, per cui l'estremo, appunto in quanto tale, cioè poten­ziato fino a questo punto, ribalta nel suo opposto30 Questo rovesciamento \ costituisce la modalità strutturale di una «filosofia della maschera» per la quale il gioco delle figure di pensiero resta costantemente segnato dal pote­re della contraddizione o — che è lo stesso — dalla «magia dell'estremo». Infatti è sempre un rovesciamento di un estremo nell'altro a moltiplicare la contraddizione, a potenziarla e a provocare l'ebbrezza di un accrescimento di potenza. Il Grundtext homo-natura31 è da intendersi, in questa ottica, come la «profondità» dionisiaca alla quale giunge l'uomo della conoscenza («DER Erkennende»), la cui psicologia è quella stessa del «tragico» intesa come psicologia della crudeltà. L'uomo, o meglio il «filosofo del sottosuo­lo», ha una destinazione tragica, nel senso che distrugge tutte quelle certez­ze su cui si costruisce la dialettica della ragione. Nel gioco delle prospettive è quella della «profondità» a muovere la sua ricerca, «quel sublime impul­so dell'uomo della conoscenza, la quale afferra e vuole afferrare le cose in profondità, nella loro complessità, alla base». Nietzsche fa notare che que­sta inclinazione — che è poi un'inclinazione al problematico — agisce con­tro «la volontà di apparenza, di semplificazione, di maschera, di mantello, insomma di superficie»32. Ma questa prospettiva non è, in realtà, l'opposto dell'altra. La profondità non è l'opposto della superficie o, se lo è, lo è ap­punto nel senso di un 'opposizione «estatica»33. Profondità e superficie so-

25 Ivi, p. 559 (295). 26 F. Nietzsche, «Menschliches, Allzumenschlisches i», in Werke, Kristische Gesamtausga-

be,3Q voli., a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin, 1967 ss. iv, 2, p. 288 (427). Trad. it. «Umano, troppo umano», in F.W. Nietzsche, Opere 1870-1881, Roma, Newton Compton, 1993, p. 710.

27 Ibidem. u ABM, p. 520-21. 29 Si veda soprattutto G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Paris, 1970, pp. 9 ss. Nota

Deleuze: «A Pélément spéculatif de la négation, de l'opposition ou de la contradiction, Nietz­sche substitue l'élément pratique de la différence: objet d'affirmation et de jouissance», ivi, p. 10.

30 Questa tesi è ampiamente sviluppata nella mia Alchimia degli estremi (Parma, 1967). 31 «Jenseits von Gut und Bòse», in Werke, cit., vi, 2, p. 175 (230). 32 ABM, p. 520(230). 33 Diverse sono le argomentazioni di Lefebvre a questo proposito, dirette a dimostrare che

la reciprocità di identità e differenza (identità nella differenza, differenza nell'identità) dissol­ve la ragion d'essere dei «rapporti filosofici» come «apparenza-realtà», «superficie-profon­dità», «manifestazione-latenza» (H. Lefebvre, La fine della storia, trad. it. di L. Buffarmi, Milano, 1970). Ma l'obiettivo di Lefebvre è appunto quello di ricondurre il divenire alla sua

Page 10: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

426 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

no compresi nella caratteristica specularità degli estremi, per cui l'uno — come si è detto — ribalta nell'altro. La profondità nella superficie, la su­perficie nella profondità. Quest 'ottica presuppone che siano sovvertite dal­le fondamenta le dicotomie, le cristallizzazioni delle antitesi, e che sia rag­giunto, proprio in quanto questa è l'ottica della volontà di potenza, il pun­to di vista del sì, della Bejahung, per la quale i termini antitetici scorrono gli uni negli altri, diventano fluidi, si richiamano reciprocamente in uno stato d'ebbrezza o meglio di straripamento creativo-distruttivo che è ap­punto quello dionisiaco. Perché sia possibile vedere nell'uomo «una plura­lità di "volontà di potenza": ciascuna con una pluralità di espressioni e di forme»34 — questo significa ritradurre l'uomo nel «testo fondamentale» uomo-natura — occorre «padroneggiare le molte vanitose e fantasiose in­terpretazioni e significazioni marginali le quali fino ad oggi vennero scara­bocchiate e dipinte su quest'eterno testo base homo-natura». La «lettura» genealogica consente di individuare le chiose come tali, di ricondurre cioè le antitesi tra «vero» e «falso» a antitesi tra le «"abbreviazioni dei segni" e i segni stessi»35. Questo è possibile se le Wertsetzungen, le valutazioni, ven­gono interpretate come posizioni-di-valore volute dagli istinti36.

La volontà di potenza, questo «desiderio fondamentale», questa «unità dei desideri», articola il passaggio dalla profondità alla superficie, dall'uo­mo della conoscenza all'artista creatore, dall'incorporazione dell'esperien­za attraverso la mediazione e il tropismo intellettuale dei concetti, al gioco della dissimulazione e dell'inganno, al «narcisistico godimento di ogni ar­bitraria estrinsecazione di potenza». Il regno della superficie è quello in cui «lo spirito [...] assapora la molteplicità delle sue maschere e la sua astuzia, egli gode anche la sensazione della propria sicurezza, — proprio attraverso le sue arti proteiformi egli si difende e si nasconde nel modo migliore»31.

La maschera è dunque la modalità propria della «scrittura» con cui la volontà di potenza trascrive nella superficie l'esperienza del profondo; nel­la «danza» il labirinto della profondità diventa inestinguibile seduzione, corporeità vivente dove assumono forma visibile la musica del divenire e il piacere della pura apparenza. La volontà di potenza appare come trasfigu­rata in questa profondìtà del Selbst divenuta appunto l'estasi della superfi­cie, l'estasi della caducità. «Si potrebbe interpretare la caducità come godi­mento della forza che genera e distrugge, come creazione costante.3*»

Acutamente T. W. Adorno osservava che «in una maniera paradossale e profonda Nietzsche ha insieme mantenuto e negato il concetto del prof on­do». Pur avvertendo la «tentazione della profondità», inforza dell'esigen­za di accertare «ciò che la reificazione dell'essenza soltanto nasconde», Nietzsche infatti ha saputo sottrarsi al pericolo di «ipostatizzare ed esaltare questa essenza nascosta considerandola come il contenuto della facciata, ciò che essa esprime». «Invece — scrive ancora Adorno — è in certo modo

trasparenza attraverso la messa in evidenza di una totalità, altra da quella hegeliana, quella della «ripetizione» come «genealogia della differenza».

34 FP2, p. 18. 35 Ivi, p. 10. 36 Scrive Sarah Kofmann: «La lecture généalogique (...) découvre que Pantithèse "egoiste-

désintéressée" intervient seulement lorsque déclinent les évaluations aristocratiques. L'oppo-sition des concepts est symptomatique de Pinstinct du troupeau qui impose les évaluations par réaction contre les évaluations nobiliaires», S. Kofmann, Nietzsche et la métaphore, Paris, 1972, p. 75.

37 ABM, pp. 521(230). n FP2, p. 101.

Page 11: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

UN MONDO «FLUIDO». INTRODUZIONE DI FERRUCCIO MASINI 427

la punta della sua filosofia il fatto che la superficie, e cioè la vita immedia­ta, appassionata, che si manifesta sensibilmente, sia proprio il contenuto sostanziale.» Adorno traduce in termini hegeliani il concetto dialettico di «profondità», per il quale è lo stesso sviluppo logico dei concetti a farli di­versi da quello che dicono, e in questo senso definisce la profondità come «una certa posizione rispetto all'obiettività, un rapporto tra la coscienza e la realtà, e cioè quel rapporto che insiste, senza però ipostatizzare e presup­porre qualcosa che risiederebbe all'interno della cosa, oppure, viceversa, nel soggetto stesso»39. Per Nietzsche, ovviamente, la questione si pone in termini diversi: la profondità altro non è che la modalità speculare dell'ot­tica degli estremi, per cui la profondità, la Tiefe, si rovescia nella Oberflà-che, nello Schein. Si potrebbe dire che profondità e superficie si rispecchia­no l'una nell'altra. Se la saggezza dei Greci, come arte di vivere,~è sapersi-«arrestare animosamente alla superficie»40, perché questo sia possibile oc­corre aver compiuto la propria discesa nel regno dei morti. Se la volontà di profondità è la crudeltà dell'uomo della conoscenza, che «costringe il pro­prio spirito a conoscere contro la tendenza dello spirito e abbastanza spes­so anche contro i desideri del suo cuore — cioè a dire no dove vorrebbe di­re sì, dove vorrebbe amare, adorare»41, è lo stesso «incremento di forza», è lo stesso «senso della crescita» che induce la volontà a «lasciarsi ingannare e a ingannarsi». Proprio quella smisurata pienezza (Uberfùlle) dionisiaca, che incalza ad uscire da sé, ad appropriarsi del problematico e del negati­vo, fino a incarnare la contraddizione medesima, provoca /'/ rovesciamen­to: la crudeltà come «inclinazione al problematico» diventa così l'estasi di quelle anime che se ne stanno «in silenzio come uno specchio, perché si ri­specchi in esse il cielo profondo»42.

Al gioco profondità-superficie si riconnette strettamente un tema ricor­rente in Al di là, quello della «maschera». La maschera implica come tale la negazione dell'identità: è il segno della differenza, nel senso che pone la differenza tra chi appare e chi si nasconde. Quel che appare, appare come maschera, il suo apparire è un dissimularsi: è altro da sé nella maschera e tuttavia è se stesso proprio come maschera. Il linguaggio della maschera è un linguaggio ermetico che irride se stesso, esaspera o contraffa l'espres­sione: è un linguaggio deformante nelle sue stesse figure metonimiche o metaforiche. Tutti i meccanismi del pensiero sono riconducibili al gioco della dissimulazione, alla fenomenologia dell'impostura. L'impostura, cioè la maschera, altera, produce fratture nella credibilità del tramandato, s'insinua, disgregandoli, nei codici dei segni quotidiani: costituisce così una strategia della negazione che al pari della metafora presuppone la «perdita del "proprio" inteso come essenza del mondo»43.

Anche la strategia della negazione o della differenza rappresentata dalla maschera è una strategia prospettica e in questo senso è compresa nell'otti­ca degli estremi. Essa, infatti, manifesta, nel modo dello sviamento signifi­cante, il negativo, cioè la trasgressione, la prevaricazione, la declinazione

39 T.W. Adorno, Terminologia filosofica, 2 voli., trad. it. di A. Solmi, Torino, 1975, i, pp. 128 ss.

40 La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, in Opere di F.N., cit., v, 2, p. 19 (Prefazione alla nediz.,4).

41 ABM, p. 520(229). 42 Ivi, p. 558 (295). 4J Si veda S. Kofmann, op. cit., p. 26: «D'autre part, la métaphore est liée à la perte du

"propre" entendu comme "essence" du monde: celle-ci est indéchiffrable, l'homme ne peut en avoir que des représentations toutes "impropres"».

Page 12: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

428 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

del problematico e degli aspetti «malvagi» dell'esistenza, esprimendo quin­di quell'attrazione dell'estremo che sfida la censura e viola l'interdetto. Con la maschera dell'«uomo folle» Nietzsche annuncia, nella Gaia scien­za, la morte di Dio, l'avvento del nichilismo radicale come totale perdita di significato dell'esistenza. In questo caso è la follia che vale come masche­ra: essa tronca i circuiti logici come abbatte i limiti invalicabili delle con­venzioni morali, della legge, grazie alla deterritorializzazione del messag­gio che appunto in quanto proveniente dalla follia, affidato alla follia, può essere sopportato e tollerato. Non occorre che la ragione prenda posizione di fronte alla follia, che è appunto sospensione o assenza dei procedimenti e delle giustificazioni razionali. La maschera, in questo caso, stabilisce un rapporto con il profondo; è la follia a costituirne semiologicamente un «sintomo». Ma proprio questo rapporto è ribaltante, nel senso che quel profondo viene alla superficie, diventa, cioè, la superficie della maschera, o meglio la superficie come maschera. Il potere annientante della contrad­dizione nichilista non può manifestarsi nella sua compiutezza in altro mo­do, giacché solo così quello stesso che incarna la contraddizione può sop­portarla in se medesimo e proteggersi dall'orrore di quella comunicazione di cui egli è tramite.

Deleuze osserva che in Nietzsche «tutto è maschera». «La sua salute è una prima maschera per il suo genio; le sue sofferenze sono una seconda maschera per il suo genio e la sua salute»44 e cita l'enigmatica confessione: «E talvolta la follia stessa è la maschera che cela un sapere fatale e troppo sicuro». Ma non bisogna dimenticare che la maschera si presenta come una doppiezza significante: se, da un lato, rende possibile il rapporto col nega­tivo e mette a nudo l'irruzione di esso come affermazione della differenza, dall'altro trasfigura questa irruzione stessa nell'«estasi» della superficie, cioè nell '«estasi» stessa del negativo. L'ottica di questa doppiezza, che è poi gioco e tensione di forze, è /'ottica della volontà di potenza.

Ma la maschera è anche un altro termine per indicare l'illusione. Se l'il­lusione è «la vera e unica realtà delle cose» la maschera è dunque soltanto la volontà di potenza vista dall'esterno. Scriveva Nietzsche in un frammen­to del 1886: «Questa fede nella verità è spinta in noi alle ultime conseguen­ze — sapete come esse suonino: che, se in genere c'è qualcosa da adorare, è /'illusione che deve essere adorata; che la menzogna e non la verità è divi­na»45. Il problema della «veracità» fa trasparire nel suo fondo, come deter­minazione prima e fondamentale, la «volontà d'apparenza» (Wille zum Schein) su cui si fonda lo stabilimento delle prospettive, le «leggi» dell'otti­ca, vale a dire l'atto stesso del «"porre" il non vero come vero»46. Tutto questo — e Nietzsche lo ripete insistentemente — è indispensabile alla vita, a tal punto che la stessa «volontà di verità» può considerarsi, anche soltan­to come ipotesi, un «travestimento»41.

La ragione sta dunque nella verità come l'illusione alla maschera: la vo­lontà d'apparenza è anche una volontà di maschera che non soltanto ha contrabbandato il discorso della follia nella cittadella della ragione, ma ha spodestato la sovranità della verità levando contro di essa l'immediatezza

44 G. Deleuze, op. cit., p. 17. 45 FP2, p. 230. 46 «Das Problem der Wahrhqftigkeit. Das Erste und Wichtigste ist nàmlich der Wille zum

Schein, die Fes/rtellung der Perspektiven, die "Gesetze" der Optik d.h. das Setzen des Un-wahren als wahr usw», «Nachgelassene Fragmente. Frùhjahr bis Herbst 1884», in Werke, cit., VII, 2, p. 242.

ij FP2, p. 310.

Page 13: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

UN MONDO «FLUIDO». INTRODUZIONE DI FERRUCCIO MASINI 429

vitale degli stati mimici e multipli» glorificanti l'ebbrezza del divenire e del­l'apparenza. «Ma posto che noi non siamo tanto stolti da stimare la verità, in questo caso l'incognita, più dell'illusione, posto che siamo decisi a vive­re, allora non saremo scontenti di questo carattere illusorio delle cose e so­lo baderemo bene che nessuno interrompa l'esposizione di questa prospet­tività di fronte a un secondo fine, il che in realtà è avvenuto finora a quasi tutti i filosofi, perché essi avevano tutti secondi fini e amavano le loro "ve­rità48»

Occorre, a questo punto, chiarire un equivoco nel quale sono incorse l'interpretazione heideggeriana di Nietzsche e anche quelle che indiretta­mente si richiamano a Heidegger. Secondo quest'ultimo, la distinzione av-versata da Nietzsche, di razionalità e animalità, corrisponde a quella tra mondo «vero» e mondo «apparente». Poiché la filosofia di Nietzsche si pone come «platonismo rovesciato», al mutare del rapporto tra i due mon­di si accompagnerebbe l'eliminazione dell'antinomia tra ratio e animalitas, «sottoumanità e sovraumanità sono la stessa cosa: s'implicano reciproca­mente, allo stesso modo con cui nel metafisico animai rationale il "sotto" dell'animalità e il "sopra" della ratio sono indissolubilmente accoppiati si­no a corrispondersi»49. Secondo Heidegger, questa «corrispondenza» fa sì che la ragione si riduca a strumento della strategia pianificata dell'istinto come volontà di potenza, vale a dire come volontà di dominio e di organiz­zazione totalizzante del lavoro umano, diretto a fondare la propria supre­mazia sull'ente50.

È evidente che questa tesi si appoggia all'inseparabilità di volontà e po­tenza sottolineata da Heidegger allo scopo di fondare su di essa l'afferma­zione, giunta in Nietzsche al suo apice, della incondizionata soggettività5*. Intanto la volontà tende alla potenza, in quanto già nella sua stessa essenza è volontà di potenza. Correlativamente non si potrebbe parlare di potenza se non in termini di volontà, dal momento che volendo quella sormontare costantemente se stessa, è «volontà di volere» fWille zum Willen>. Volontà e potenza s'identificano dunque nel senso di una essenziale appartenenza reciproca nell'unità dell'essenza52.

Per quanto finemente e coerentemente strutturata, questa interpretazio­ne lascia tuttavia incomprensibile il senso di quella critica del soggetto che costituisce la sostanziale nervatura antimetafisica del pensiero nietzschea­no. La critica del soggetto o meglio, la liquidazione di una sua presunta so­stanzialità («l'esistenza apparente del soggetto») è espressa in Al di là nei termini di un'ironica omologia grammaticale: «Una volta, infatti, si crede­va ali'"anima" come si credeva alla grammatica e al soggetto grammatica­le: si diceva, "io" è condizionale, "penso" è predicato e condizionato —

48 FPI, p. 335. 49 M. Heidegger, Vortràge und Aufsatze, Pfullingen, 1954, p. 91. 50 Si veda M. Heidegger, «Zur Seinsfrage», in Wegmarke, Frankfurt a.M. 1967, pp. 224-

228. 51 Si veda M. Heidegger, Nietzsche 2, 2 voli. Pfullingen, 1961, u, p. 307; «Die metaphysi-

sche Fest-stellung des Menschen zum Tìer bedeutet die nihilistische Bejahung des Uebermen-schen. Nur wo das Seiende als solches Wille zur Macht und das Seiende im Ganzen ewige Wiederkunft des Gleichen ist, kann sich die nihilistische Urnkehrung des bisherigen Menschen zum Uebermenschen vollziehen und muss der Uebermensch seins als das von der unbedingten Subjektivitàt des Willens zur Macht fùr sich aufegerichtete hòchste Subjekt ihrer selbst».

52 Si veda ivi, il, pp. 265-6: «Das Wesen der Macht ist Wille zur Macht, und dass Wesen des Willenst ist Wille zur Macht. Nur aus diesem Wissen des Wesens kann Nietzsche statt "Wille" auch "Macht" und statt "Macht" schlechthin "Wille" sagen».

Page 14: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

430 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

pensare è un 'attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si tentò allora, con un 'astuzia e una tenacia degne di ammirazione, se non ci si potesse trar fuori da questa rete, se non fosse forse vero il con­trario: "penso" condizione, "io" condizionato, "io" dunque solo una sinte­si che viene operata dal pensiero stesso. Kant voleva in fondo dimostrare che partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato [...]»53. Ma questa rottura della grammatica ontologico-metafisica del soggetto non si ferma alla fondazione o alla deduzione di una grammatica trascen­dentale dell'io e delle sue gerarchie categoriali: va più in profondità, si spinge fino a quel fondo primordiale della vita dove il movimento della po­tenza, cioè dell'affermazione-negazione non ha alcun tratto soggettivo, non è riconoscibile in termini soggettivi, anche se percorre, per affermarsi, le gerarchie dei centri di volontà o di forza, le gerarchie creative della sog­gettività, prospettive multiple, e in lotta tra loro, di differenti statuizioni di valore (Wertsetzungen).

Quell'«animale profondo» che viene rivelato dalla ragione, ma non è ra­gione, dal quale si diparte il faticoso e impervio cammino della ragione, ma che può in ogni momento sconvolgere la linea di questo cammino nelle tortuosità del labirinto e delle vie oblique, è al di là del soggetto ed è quindi radicalmente estraneo al quadro antropologico e antropocentrico della me­tafisica occidentale. È un orizzonte mitico-ebraico, archetipico, attraversa­to dalle figure centauresche e anfibie, germinato dalla sapienza antepredi­cativa e adialettica del corpo54. L'elemento fisiologico della animalitas è ciò che Nietzsche chiama la «grande ragione» («der Leib ist eine grosse Vernunft, eine Vielheit mit einem Sinn»55), manifestantesi nella totalità delle operazioni vitali. Per questo la critica del soggetto coincide con la fi­siologia della volontà di potenza nella quale il corpo come physis56 e la tra­scendenza del Selbst come «estasi del corpo» si oppongono come l'asse an-thropo-cosmica del divenire. Il corpo appare in tal modo come l'«altra» grammatica necessaria per articolare la scrittura della volontà di potenza che si serve del soggetto ma non è il soggetto. Il corpo come senso (signifi­cato) è trascendente rispetto ai segni che lo manifestano, allo stesso modo con cui l'apprezzamento di valore (Wertschatzung) trascende la cristalliz­zazione dei valori già voluti e valutati come tali. Nel corpo s'inscrive dun­que l'alfabeto elementare della volontà di potenza: esso è, per usare un'e­spressione di Hamann, il «libro elementare della nostra conoscenza», «al­gebra e costruzione secondo equazioni che per sé non significano nulla e per analogiam significano l'intero possibile e l'intero reale»51.

È evidente, a questo punto, che l'animalitas o il corpo non può coincide-

53 ABM, p. 468(54). Si veda anche FMP1, p. 203. 54 Si vedano le suggestive pagine di G. Colli a proposito dell'origine della dialettica dall'e­

nigma «nell'ambito della visione mantica, delfica del mondo» (Dopo Nietzsche, Milano, 1974, pp. 47 ss.), tenendo conto tuttavia della definizione che dà Colli della dialettica stessa come «rito» e «agone» da cui è evidentemente distante il significato attribuito a questo con­cetto nel contesto del presente saggio.

55 F. Nietzsche, «Also sprach Zaratustra», in Werke, cit., vi, 1, p. 35 («Von den Veràch-tern des Leibes»).

56 Si veda J. Granier, Le problème de la Vérité dans la philosophie de Nietzsche, Paris 1966, p. 343: «Le corps est nature, au sens grec du mot <yùoic, et c'est seulement par référence à cette <póai$ que la philosophie peut ètre caractérisée par Nietzsche comme uphysiologie", il faut lire le terme "physiologie" comme les Grecs le lisaient: Xó-yo? de la <pu<n$. C'est parce que la philosophie s'applique à pénétrer la sagesse du corps qu'elle mérite son nom méme de "phi­losophie"».

57 CU. Gildemeister, Hamanns Leben undSchriften, 6 voli., Gotha, 1857-1873, v, p. 509.

Page 15: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

UN MONDO «FLUIDO». INTRODUZIONE DI FERRUCCIO MASINI 431

re in alcun modo con l'affermazione assoluta della ratio come volontà di potenza tecnologica organizzante il dominio totale. Se così fosse, si verreb­be a risolvere in un codice determinato ciò che di per sé è incodificabile perché costituisce il «luogo» delle metafore assolute, ovvero, per usare un'espressione di Derrida, si verrebbe a confondere l'archi-traccia o l'ar­chi-scrittura (il corpo) con la parola (o la grafia) che si sovrappone alla cancellazione dell'archiscrittura medesima.

Alla base della «coscienza» e dello «spirito» in cui la volontà di potenza s'incarna, non c'è un soggetto, ma semplicemente una «lotta che vuole conservarsi»58. «La volontà di potenza — si legge in un frammento dell'an­no 1887—può manifestarsi solo contro delle resistenze; cerca quel che le si contrappone — questa la tendenza originaria del protoplasma, quando mette fuori pseudopodi e si tasta intorno. L'appropriazione e l'assimilazio­ne è anzitutto un voler sopraffare, un formare, un modellare a rimodellare finché il vinto sia passato interamente sotto il potere dell'aggressore, accre­scendolo. — Se quest'annessione non riesce, la struttura si sfascia; e la dualità appare come conseguenza della volontà di potenza.59» Questa lotta per l'appropriazione e l'accrescimento s'innesta dunque sulla contraddizio­ne inseparabile dall'essenza della volontà di potenza, che si esercita appun­to su una resistenza trionfandone oppure dà luogo alla dualità, vale a dire al permanere della scissione. Già nel movimento «eccedente» ed esondante dello Ùberschwang dionisiaco è preformata questa volontà di potenza, giacché questo al pari di quella è connesso alla sovrabbondanza, ha biso­gno e cerca il suo opposto, il suo «altro» in cui riversarsi, così come quella ha bisogno e cerca una «resistenza». Il movimento del «traboccare», a cui si riconduce /'ottica degli estremi come ottica «estatica» — è anche un mo­vimento o meglio un processo d'appropriazione e d'assimilazione (una «nutrizione»). Il fatto che esso sia costitutivo della volontà di potenza spie­ga anche il ristagno di essa, il suo decomporsi che si determina allorquando l'assimilazione non riesce e l'«attivo» si muta in «reattivo»: a questo punto la struttura si sfascia e la dualità appare come «conseguenza della volontà di potenza».

Se la filosofia di Nietzsche è, in quanto filosofia dell'esperimento, non tanto una filosofia compiuta, quanto un diverso «modo» di filosofare, sta nella dimensione prospettivista della «scepsi» e quindi nel potenziale criti­co della «diffidenza» di cui si serve V esperimento come provocazione (non è lUmwertung aller Werte una «provocazione» a ri-concepire il senso del valore a partire dalla trasgressione nei confronti della «totalità» dei valori umanistici platonico-cristiani?) il nodo della sua ambivalenza fondamenta­le. Non è possibile, a nostro parere, sfuggire alla ambiguità tragica della maschera in virtù della quale si dà l'interpretazione medesima del mondo come volontà dì potenza, vale a dire come mondo «fluido», dionisiaco, della doppia voluttà del distruggere e del creare, al quale corrisponde l'au­tosuperamento del nichilismo come autosuperamento dell'uomo. L'Uber-mensch diventa, a questo punto, l'ulteriorità mitica di quell'animale com­plesso, menzognero artificioso e impenetrabile, estraneo agli altri animali meno per la sua forza che per l'astuzia»*0, in cui si esprime quella natura dedalea, quella physis per la quale soltanto ci è concesso amare l'arte:

58 «Ciò che noi chiamiamo "coscienza" e "spirito" è solo un mezzo e strumento, con "cui" non un soggetto, ma una lotta vuole conservarsi», FP2, p. 31.

59 FP3, p. 77. 60 ABM, p. 557(291).

Page 16: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

432 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

«[...] e amiamo l'arte, quando essa è la fuga dell'artista dinnanzi all'uomo o l'ironia dell'artista sull'uomo o l'ironia dell'artista su se stesso...»61.

In AI di là del bene e del male, che può indubbiamente essere considera­to un sia pure parziale commento di alcuni temi centrali del Così parlò Za­rathustra, la figura di Dioniso appare come la chiave del rapporto che col­lega alla volontà di potenza, in guanto «principio interpretativo», il discor­so mitico. L'interpretazione tende ad acquistare dunque i contorni del mi­to. Ciò avviene non soltanto perché — come osserva la Kofman — «le lan-guage mytique est aussi une tentative pour dépasser le language métaphysi-que»62, ma perché l'interpretazione è proposta da Nietzsche come «inat­tuale», cioè come riplasmazione di un mito capace di attivarne le segrete valenze significanti. In questo senso l'interpretazione che da un lato sem­bra retrocedere al di qua della metafisica ponendosi come creazione mitica (la «fisiologia» dei presocratici), dall'altro si protende oltre la fine della metafisica. L'inattuale non è soltanto chi si pone non già fuori, ma contro il proprio tempo, bensì e anche e soprattutto chi guadagna la preistoria di una tradizione, cioè il momento «archeologico» in cui questa tradizione non ha ancora dato inizio alla coniazione di monete false (Falschmùnze-rei), non è divenuta falsificazione nichilista (metafisica platonico-cristiana e conseguente sistemazione dei valori etici), interpolazione e obliterazione del «testo fondamentale homo-natura». Da questa «preistoria» è possibile gettare un «ponte» fino alla saturazione nichilista della tradizione, fino al­la sua contraddizione «ideologica» estrema, e quindi fino alla sua autodi­struzione. Nel «genio del cuore», in Dioniso, si nasconde l'invito di Zara­thustra a «varcare il ponte». L'inattuale è anche colui «che va oltre». L'es­sere inattuale prefigura appunto questo hinùbergehen, questo andare oltre, nel senso che con la caduta degli estremi esiti dialettici di questa tradizione si ha contemporaneamente la morte di Dio e la morte dell'uomo: l'assassi­no di Dio è infatti l'«uomo più brutto», la cui vista è intollerabile.

Allorché la filosofia diventa prassi del filosofare, cioè prassi di un signi­ficare il cui sistema di riferimento non è e non può essere mai dato perché l'atto del significare trascende sempre i valori di volta in volta significati (questo è il senso della Wertsetzung), la stessa ambivalenza che si annida nella contraddizione, intesa come struttura portante dell'ottica degli estre­mi, si scioglie nell'affermazione incondizionata e totale, cioè nel pronun­ciarsi del sì. Chi altri infatti se non il presentimento del sì è questo «genio del cuore» «che zittisce ogni voce acuta e ogni compiacimento di sé e inse­gna ad ascoltare, che spiana le anime aspre e fa loro gustare un nuovo desi­derio»?6*.

Non spiegazioni dunque, ma «interpretazioni»64: su questa linea il lavo­ro della «trasvalutazione» prosegue, in Al di là, coincidendo in maniera sempre più chiara con la conoscenza di una «nuova grandezza dell'uomo». Conoscenza legata all'esperimento e al piacere dello sperimentare, che se

61 La gaia scienza, cit., p. 259 (379). 62 S. Koffmann, Nietzsche et la métaphore cit., p. 205. 63 ABM, p. 558(295). 64 Cfr. FP2, p. 88: Aldilà del bene e del male, seconda e ultima parte, prefazione: «Inter­

pretazione, non spiegazione. Non c'è nessun fatto concreto, tutto è fluido, inafferrabile, ce­devole; le cose più durature sono ancora le nostre opinioni. Conferire senso alle cose — nella maggior parte dei casi si tratta di una nuova interpretazione riguardo a una antica divenuta incomprensibile, che ora è solo un segno.»

Page 17: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

UN MONDO «FLUIDO». INTRODUZIONE DI FERRUCCIO MASINI 433

presuppone «la fuga da ogni insanabile certezza» e quindi «adora la ma­schera come la sua ultima divinità e redentrice»65, non per questo indie­treggia di fronte alla durezza di quel compito che non è già riservato ai fi­losofi, bensì a coloro che «di rado si sentirono amici della saggezza», «ma piuttosto sgradevoli buffoni e pericolosi punti interrogativi» .

FERRUCCIO MASINI

65 FP2, pp. 68-9. 66 ABM, pp. 509(212).

Page 18: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male
Page 19: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Prefazione

Ammesso che la verità sia una donna —, e perché no? Non è fondato il sospetto che tutti i filosofi, nella misura in cui furono dogmatici, si inten­dessero poco di donne? che la terribile serietà, la goffa invadenza con cui essi fino ad ora erano soliti accostarsi alla verità, costituissero dei mezzi sgraziati e inopportuni per conquistare appunto una donna? Certo è che essa non si è lasciata sedurre: — e ogni sorta di dogmatica oggi se ne sta lì, in atteggiamento afflitto e scoraggiato. Se pure è ancora in piedi! Poiché ci sono degli schernitori che sostengono che sarebbe caduta, che ogni dogma­tica giacerebbe a terra, e più ancora, che ogni dogmatica sarebbe in ago­nia. Parlando seriamente, ci sono buoni motivi per sperare che in filosofia ogni dogmatizzare, per quanto abbia assunto forme solenni, definitive e decisive, possa essere stato soltanto una nobile fanciullaggine e una cosa da principianti; e forse è molto vicino il tempo in cui si comprenderà sem­pre meglio che cosa veramente è bastato per porre le basi di tali sublimi e assolute costruzioni dei filosofi, quali i dogmatici le hanno edificate fino ad oggi, — una qualche superstizione popolare di tempi immemorabili (co­me la superstizione dell'anima, che ancor oggi, come superstizione del sog­getto e dell'io, non ha cessato di creare disordini), un qualche gioco di pa­role forse, una seduzione da parte della grammatica o una temeraria gene­ralizzazione di fatti molto limitati, molto personali, molto umani — trop­po umani. La filosofia dei dogmatici è stata, vogliamo sperare, solo una promessa per i secoli futuri: come in tempi ancora più lontani lo è stata l'a­strologia, al servizio della quale forse è stato impiegato più lavoro, denaro, acume, pazienza di quanto non si sia fatto finora per qualsiasi vera scien­za: — si deve ad essa e alle sue pretese «ultraterrene» in Asia e in Egitto lo stile grandioso dell'architettura. Sembra che tutte le cose grandi, per iscri­versi nel cuore dell'umanità con le loro eterne esigenze, debbano prima percorrere la terrà come terrificanti e mostruose caricature: una simile cari­catura è stata la filosofia dogmatica, per esempio la dottrina dei Vedanta in Asia, il platonismo in Europa. Non siamole ingrati, per quanto si debba senz'altro ammettere che il peggiore, il più durevole e il più pericoloso di tutti gli errori sia stato fino ad oggi un errore da dogmatici, cioè l'invenzio­ne platonica dello spirito puro e del bene in sé. Ma ora che esso è superato, che l'Europa respira di nuovo dopo questo incubo e può godere almeno un sonno più sano, siamo noi, il cui compito è appunto quello di vegliare, gli eredi di tutta quella forza che la lotta contro quest'errore ha alimentato e accresciuto. Effettivamente parlare dello spirito e del bene, come ha fatto Platone, significa capovolgere la verità e negare il carattere prospettico, la condizione fondamentale di ogni vita: anzi, come medici si può porre que­sta domanda: «Da dove è giunta una tale malattia al rampollo più bello dell'antichità, Platone? Lo ha dunque corrotto il maligno Socrate? Socrate sarebbe stato realmente il corruttore della gioventù? e avrebbe meritato la sua cicuta?». — Ma la lotta contro Platone, o per dirla in modo più com-

Page 20: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

436 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

prensibile e adatto al popolo, la lotta contro la secolare oppressione cristia­no-ecclesiastica — poiché il cristianesimo è il platonismo per il «popolo» — ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito, come non c'e­ra mai stata prima sulla terra: con un arco così teso si può mirare ormai al­le mete più lontane. Indubbiamente, l'uomo europeo sente questa tensione come stato di necessità; e si è già tentato due volte, in grande stile, di allen­tare l'arco, una prima volta con il gesuitismo, la seconda con l'illuminismo democratico: — come quello che grazie alla libertà di stampa e alla lettura dei giornali, poteva in effetti arrivare a far sì, che lo spirito non sentisse più così facilmente se stesso come «angustia»! (I Tedeschi hanno inventato la polvere — Una cosa notevole! ma hanno di nuovo pareggiato — hanno inventato la stampa.) Ma noi, che non siamo né gesuiti, né democratici e neppure abbastanza tedeschi, noi buoni europei e liberi, liberissimi spiriti — noi la sentiamo ancora, tutta l'angustia dello spirito e tutta la tensione del suo arco! E forse anche la freccia, il compito, chissà? lo scopo...

Sils Maria, Alta Engadina, giugno 1885

Page 21: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte prima Sui pregiudizi dei filosofi

1. La volontà di verità, che ci sedurrà ancora a molte imprese arrischiate,

quella famosa veridicità dì cui fino ad oggi tutti i filosofi hanno parlato con venerazione: quali domande ci ha già proposto, questa volontà di veri­tà! Quali strane, maligne, problematiche domande! È già una lunga storia, — e tuttavia non sembra che sia appena iniziata? Ci si può meravigliare se finalmente, per una volta, diventiamo diffidenti, perdiamo la pazienza, ci rivoltiamo con impazienza? che noi, a nostra volta, impariamo da questa sfinge a porre delle domande? Chi è propriamente che ora ci pone doman­de? Che cosa in noi tende propriamente «alla verità»? In realtà, ci siamo fermati a lungo di fronte al problema della causa di questa volontà, — fino a che, alla fine, ci siamo fermati completamente di fronte a un problema ancora più fondamentale. Abbiamo posto il problema del valore di questa volontà. Posto che vogliamo la verità: perché non piuttosto la non verità? E l'incertezza? E addirittura l'ignoranza? — Il problema del valore della verità ci è comparso dinnanzi, — oppure siamo stati noi a porci di fronte a questo problema? Chi di noi è qui Edipo? Chi la Sfinge? È un incontrarsi, come pare, di problemi e di punti interrogativi. E sì potrebbe credere che alla fine ciò comincia a darci l'impressione che il problema non sia stato fi­nora mai posto — che sia stato scorto, preso di mira, osato per la prima volta da noi? Poiché esso comporta un rischio, e forse non ce n'è uno mag­giore.

2.

«Come potrebbe qualcosa nascere dal suo contrario? Ad esempio, la ve­rità dall'errore? O la volontà di verità dalla volontà d'illusione? 0 l'azione disinteressata dall'egoismo? O la pura, solare contemplazione del saggio della concupiscenza? Una tale origine è impossibile. Chi sogna di ciò è un folle, anzi peggio; le cose di altissimo valore devono avere un'altra origine, un'origine loro propria — non possono essere fatte discendere da questo mondo effimero, seduttore, illusorio, irrilevante, da questo guazzabuglio di follia e avidità! Piuttosto in seno all'essere, nell'imperituro, nel dio na­scosto, nella "cosa in sé" — lì deve essere la loro origine, e in nessun altro luogo!» — Questo modo di giudicare costituisce il tipico pregiudizio dal quale si fanno riconoscere i metafisici di tutti i tempi; questo genere di giu­dizi di valore sta sullo sfondo di tutti i loro procedimenti logici; proceden­do da questa loro «fede» essi si sforzano di raggiungere il loro «sapere», qualcosa che alla fine viene battezzato «la verità». La fede di fondo dei metafisici è la fede nelle contrapposizioni dei valori. Neppure i più attenti tra loro hanno mai pensato di dubitare già su questa soglia, proprio dove era massimamente necessario: persino quando avevano espresso la loro lo-

Page 22: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

438 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

de per il «de omnibus dubitandum». Si può infatti dubitare, per prima co­sa, se in generale esistano contrapposizioni, secondariamente, se quelle va­lutazioni popolari e contrapposizioni di valore, sulle quali i metafisici han­no impresso il loro sigillo, non siano forse altro che valutazioni pregiudi­ziali, prospettive provvisorie, per di più ricavate forse da un angolo, forse dal basso verso l'alto, in un certo qual modo prospettive dal sotto in su, per prendere a prestito un'espressione ricorrente tra i pittori? Malgrado il valore che può essere attribuito al vero, al veritiero, al disinteressato, sa­rebbe possibile che all'apparenza, alla volontà d'illusione, all'interesse per­sonale e all'avidità si dovesse attribuire un valore superiore e più fonda­mentale per ogni vita. Sarebbe perfino possibile che ciò che stabilisce il va­lore di quelle cose buone e venerate consistesse proprio nel fatto d'essere ingannevolmente imparentate, legate, agganciate a quelle cose cattive, in apparenza contrapposte, forse di essere loro addirittura essenzialmente si­mili. Forse! — Ma chi vorrà occuparsi di tali pericolosi «forse»! Per que­sto si deve aspettare l'arrivo di un nuovo genere di filosofi, tali che abbia­no gusti e inclinazioni in qualche modo diversi e opposti rispetto agli attua­li — filosofi del pericoloso «forse» in ogni senso. E detto in tutta serietà; io vedo avvicinarsi questi nuovi filosofi.

3.

Dopo aver Ietto abbastanza a lungo i filosofi tra le righe e averli tenuti d'occhio mi dico che dobbiamo considerare ancora come attività dell'istin­to la gran parte del pensiero cosciente, persino nel caso del pensiero filoso­fico; dobbiamo trasformare qui il nostro modo di vedere, come si è fatto a proposito dell'ereditarietà e deII'«innatismo». Come l'atto della nascita ha poca importanza nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, altrettanto poco l'«essere cosciente» può essere contrapposto, in un qualche modo de­cisivo, all'elemento istintivo, — la parte maggiore del pensiero cosciente di un filosofo è guidata segretamente dai suoi istinti e costretta in binari fissi. Anche dietro ogni logica e l'apparente dispotismo dei suoi movimenti stan­no giudizi di valore, detto con maggiore chiarezza, esigenze fisiologiche per il mantenimento di un determinato tipo di vita. Per esempio, che il de­terminato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza abbia me­no valore della «verità»: tali valutazioni, pur con tutta l'importanza nor­mativa che hanno per noi, potrebbero essere tuttavia soltanto valutazioni pregiudiziali, un determinato tipo di niaiserie, quale può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri come noi. Ammesso, cioè che non proprio l'uomo sia la «misura delle cose»...

4.

Per noi la falsità di un giudizio non è ancora un'eccezione contro di es­so; qui il nostro nuovo linguaggio suona forse estremamente inconsueto. Il problema è fino a che punto esso promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura ne disciplini la crescita; e noi siamo in linea di principio disposti a sostenere che i giudizi più falsi (tra i quali rientrano i giudizi sintetici a priori) sono per noi i più necessari, che senza un persiste­re del valore delle funzioni logiche, senza un commisurare la realtà al mon­do, puramente inventato, dell'assoluto, dell'uguale-a-se-stesso, senza una continua falsificazione del mondo per mezzo del numero, l'uomo non po­trebbe vivere — che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vi-

Page 23: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE PRIMA. SUI PREGIUDIZI DEI FILOSOFI 439

ta, un negare la vita. Ammettere la non-verità come condizione di vita: ciò vuol dire davvero opporsi pericolosamente agli abituali sentimenti di valo­re: e una filosofia che osa questo si pone, con ciò soltanto, al di là del bene e del male.

5.

Quel che ci stimola a guardare tutti i filosofi un po' con diffidenza e un po' con sarcasmo, non sta nel fatto che si viene continuamente in chiaro di quanto essi siano innocenti — di quanto spesso e con quanta facilità errino e si confondano, insomma del loro infantilismo e della loro ingenuità — ma del fatto che essi non sono abbastanza onesti: anche tutti insieme man­dano alte e virtuose grida non appena il problema della veracità viene sfio­rato, sia pur da lontano. Essi si presentano tutti come se avessero scoperto e raggiunto le proprie opinioni attraverso l'autonomo sviluppo ai una dia­lettica fredda, pura, divinamente indifferente (a differenza dei mistici di ogni rango, che sono più onesti e più sciocchi di loro — parlano d'«ispira­zione»): mentre, in fondo, una tesi enunciata anticipatamente, una trova­ta, una «suggestione», per lo più un desiderio intimo reso astratto e filtrato vengono da essi difesi con ragioni cercate a posteriori — sono tutti quanti avvocati che non vogliono essere chiamati tali, e invero per lo più addirit­tura astuti patrocinatori dei propri pregiudizi, battezzati come «verità» — e molto lontani, inoltre, dal coraggio della coscienza che questo, proprio questo, confessa a se stessa, molto lontani dal buon gusto del coraggio, che fa comprendere anche ciò, sia per mettere sull'avviso un amico o un nemi­co, sia per tracotanza e per farsi gioco di se stesso. La tartuferia tanto rigi­da quanto virtuosa del vecchio Kant, con la quale egli ci attira sulle vie tor­tuose della dialettica, che guidano o più esattamente ci seducono al suo «imperativo categorico» — questo spettacolo fa sorridere noi raffinati, nei che troviamo non poco piacere nel controllare sottili malizie di vecchi mo­ralisti e predicatori di morale. O proprio quel gioco di prestigio di forma matematica, con il quale Spinoza mascherava la sua filosofia e la difende­va come con una corazza di bronzo — in ultima istanza, «l'amore per la propria saggezza», se si interpretano queste parole giustamente e ragione­volmente — per scuotere così sin dall'inizio il coraggio dell'aggressore che osasse gettare lo sguardo su questa vertigine indomabile, questa Pallade Atena — questa timidezza e fragilità tradisce questa mascherata di un ma­lato solitario!

6.

Poco per volta mi è venuto in chiaro che cosa è stata finora ogni grande filosofia: cioè il confessarsi del suo autore; e una specie di mémoires non volute e improvvise; e anche il fatto che i propositi morali (o immorali) hanno formato il vero e proprio nucleo vitale di ogni filosofia, dal quale si è sviluppata ogni volta l'intera pianta. In realtà si procede bene (e con av­vedutezza) se, per spiegare in che modo le più remote asserzioni metafisi­che di un filosofo si siano determinate, ci si chiede sempre per prima cosa a quale morale tutto questo (luì stesso) s'indirizza. Di conseguenza non mi pare che il padre della filosofia sia un «istinto conoscitivo», ma che un istinto diverso, qui come in altre occasioni, si sia servito della conoscenza (e della conoscenza sbagliata!) soltanto come di uno strumento. Ma chi prende in esame gli impulsi fondamentali dell'uomo, per vedere fino a che

Page 24: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

440 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

punto essi, proprio qui, possano aver svolto il loro ruolo di geni ispiratori (o di demoni o di coboldi), troverà che tutti questi hanno già praticato una volta la filosofia, — e che ognuno di loro vorrebbe rappresentare se stesso anche troppo volentieri come fine ultimo dell'esistenza e signore legittimo di tutti gli altri istinti. Poiché ogni istinto è avido di signoreggiare: e come tale si sforza di far filosofia —. Effettivamente, tra i dotti, tra gli uomini specificamente di scienza, la cosa può configurarsi in termini diversi — «migliori», se si vuole —, in realtà può esserci qualcosa come un istinto di conoscenza, un qualche piccolo autonomo meccanismo d'orologeria, che, ben caricato, svolga validamente il proprio lavoro, senza che tutti i restanti istinti del dotto vi siano sostanzialmente implicati. Gli effettivi «interessi» del dotto si stabiliscono perciò, di solito, in tutt'altro luogo, magari nella famiglia o nel guadagno o nella politica; è quasi indifferente che il suo pic­colo meccanismo venga applicato a questo o a quell'ambito determinato della scienza e che il giovane lavoratore «pieno di speranze» faccia di sé un buon filologo o un esperto di funghi o un chimico: — non lo contraddistin­gue il fatto di diventare questo o quello. Al contrario nel filosofo non c'è assolutamente nulla d'impersonale; e in particolare la sua morale offre una testimonianza decisa e decisiva di chi egli è — e cioè in quale ordine gerar­chico si collocano gli uni rispetto agli altri gli impulsi più profondi della sua natura.

7.

Quanto possono essere maligni i filosofi! Non conosco nulla di più vele­noso dello scherzo che Epicuro si permise contro Platone e i platonici: egli li chiamò Dionjsiokolakes. Ciò significa, alla lettera e secondo l'evidenza, «adulatori di Dioniso», dunque seguaci dei tiranni e piaggiatori; ma oltre a tutto ciò significa anche «sono tutti commedianti, non c'è nulla di genui­no» (poiché Dionjsokolax era una denominazione popolare dell'attore). E quest'ultimo significato è proprio la stoccata maligna che Epicuro inferse a Platone: lo infastidiva la maniera grandiosa, il mettersi in mostra, cosa in cui Platone e tutti i suoi discepoli erano tanto abili, — mentre Epicuro non lo era affatto! Lui, il vecchio maestro di scuola di Samo, che sedeva nasco­sto nel suo giardinetto di Atene e scrisse trecento libri, chissà? forse per ambizione, e in odio a Platone? Ci vollero cento anni perché la Grecia arri­vasse a capire chi era stato questo Epicuro, dio degli orti. Ma lo scoprì mai?

8.

In ogni filosofia c'è un punto, nel quale entra in scena la «convinzione del filosofo»: o, per dirla con il linguaggio di un antico mistero:

adventavit asinus pulcher et fortissimus.

9.

«Secondo natura» volete vivere? O voi, nobili stoici, che impostura dalle parole! Immaginatevi un essere come la natura, sperperatrice senza misu­ra, indifferente senza misura, priva di fini e di riguardi, senza pietà e giu­stizia, feconda e sterile e contemporaneamente insicura, pensate l'indiffe-

Page 25: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE PRIMA. SUI PREGIUDIZI DEI FILOSOFI 441

renza stessa come potenza — come potreste vivere conformemente a que­sta indifferenza? — Vivere — non è proprio un voler essere diversi da ciò che questa natura è? Vivere non è forse valutare, preferire, essere ingiusti, essere limitati, voler essere diversi? E nell'ipotesi che il vostro imperativo «vivere secondo natura» significhi in fondo lo stesso che «vivere secondo la vita» — come potreste non vivere in questo modo? Perché fare un prin­cipio di ciò che voi stessi siete e dovete essere? — In verità la cosa è com­pletamente diversa: mentre voi, rapiti in estasi, date ad intendere di leggere nella natura il canone della vostra legge, volete qualcosa di opposto, voi bizzarri commedianti e autoingannatori! La vostra superbia vuole prescri­vere e fare assumere alla natura, perfino alla natura, la vostra morale, il vostro ideale, e pretendete che essa sia natura «secondo la Stoa» e vorreste che ogni esistenza esistesse solo secondo la vostra propria immagine - c o ­me una mostruosa, eterna esaltazione e generalizzazione dello stoicismo! Con tutto il vostro amore per la verità, vi costringete così a lungo, con tale perseveranza, con tale ipnotica fissità, a vedere la natura falsamente, cioè stoicamente, che non siete più in grado di vederla diversamente — e una qualche abissale superbia vi dà alla fine anche la folle speranza che, poiché sapete tiranneggiare voi stessi — stoicismo è tirannide verso se stessi —, anche la natura si lasci tiranneggiare: lo stoico non è infatti un frammento della natura?... Ma questa è una vecchia, eterna storia: ciò che accadde un tempo con gli stoici, accade ancora oggi, basta che una filosofia inizi a cre­dere in se stessa. Essa crea sempre il mondo a propria immagine, non può fare diversamente; la filosofia è questo stesso impulso tirannico, la più spi­rituale volontà di potenza, di «creazione del mondo», di una causa prima.

10.

Lo zelo e l'acutezza, vorrei dire addirittura l'astuzia, con la quale oggi dappertutto in Europa si affronta il problema «del mondo reale e del mon­do apparente» dà materia al pensare e all'ascolto e chi qui percepisce, nello sfondo, soltanto una «volontà di verità» e null'altro, non gode certamente di un orecchio acutissimo. In singoli e rari casi può realmente essere inte­ressata una tale volontà di verità, un qualche eccessivo e avventuroso co­raggio, un'ambizione metafisica di una sentinella perduta che alla fine pre­ferisce pur sempre una manciata di «certezza» a un intero carro di belle possibilità; possono esserci persino puritani fanatici della coscienza, che preferiscono morire su un nulla sicuro piuttosto che su di un incerto qual­cosa. Ma questo è nichilismo e segno di un'anima in preda alla disperazio­ne, stremata fino alla morte, sebbene possano apparire gagliardi gli atteg­giamenti di una tale virtù. Ma nei pensatori più vigorosi, più vitali, più as­setati di vita la cosa pare porsi in modo diverso: mentre essi prendono par­tito contro l'apparenza e pronunciano già con superbia la parola «prospet­tico», mentre valutano là credibilità del proprio corpo ali'incirca tanto scarsa quanto la credibilità dell'apparente evidenza che dice «la terra è im­mobile», e in tal modo con apparente buon umore si lasciano sfuggire dalle mani il più sicuro possesso (poiché cosa si crede, oggi, più certa del proprio corpo?) — chissà se in fondo non vogliono riconquistare qualcosa che in altri tempi era stato posseduto in modo ancora più certo, un qualcosa del­l'antico possedimento della fede d'allora, forse «l'anima immortale», for­se «l'antico dio», in breve, idee sulle quali si potè vivere in modo migliore, vale a dire più rigoroso e più sereno che sulle «idee moderne»? V'è qui dif­fidenza contro queste idee moderne, v'è incredulità verso tutto ciò che ieri

Page 26: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

442 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

e oggi è stato costruito; v'è forse frammischiato un leggero fastidio e sarca­smo, che non sopporta più il bric-à-brac di concetti della più diversa prove­nienza, quali oggi il così detto positivismo porta sul mercato, la nausea del gusto più raffinato davanti alla ridda di colori da fiera e ai modi cenciosi di tutti questi filosofastri della realtà, nei quali non c'è nulla di nuovo e di au­tentico se non questa ridda di colori. Bisogna qui, mi pare, dar ragione a questi scettici odierni nemici della realtà e microscopisti: il loro istinto, che li spinge lontani dalla realtà moderna, è inconfutabile — che ci importano le loro vie tortuose e regressive! L'essenziale in loro non è che essi vogliano tornare «indietro», ma che vogliano — andarsene via. Un po' di forza, di slancio, d'ardimento, di spirito artistico ed essi tenderebbero ad andare avanti, e non indietro!

11.

Mi sembra che oggi ci si sforzi ovunque di sottrarsi al peculiare influsso che Kant ha esercitato sulla filosofia tedesca, e in particolare, di tralasciare saggiamente il valore che egli stesso si attribuì e Kant fu soprattutto e pri­ma di tutto fiero della sua tavola delle categorie; con questa tavola fra le mani egli disse: «Questa è la cosa più difficile che mai si sia potuto intra­prendere a vantaggio della metafisica». — Si intenda dunque questo «si sia potuto»! Egli era fiero di aver scoperto nell'uomo una nuova facoltà, la facoltà di giudizi sintetici a priori. Poniamo che in questo egli si sia ingan­nato: ma lo sviluppo e la rapida fioritura della filosofia tedesca dipendono da questo orgoglio e dallo spirito di emulazione di tutti i più giovani, nello scoprire se possibile qualcosa di ancora più superbo — e comunque «nuo­ve facoltà»! — Ma riflettiamo poiché è il momento di farlo! Come sono possibili giudizi sintetici a priori? si domandava Kant, — e cosa rispose in realtà? in virtù di una facoltà: purtroppo, però, non in tre parole, ma con tale prolissità, con tale ostentazione di rispettabilità e con un tale spiega­mento di germanica profondità e infiorettatura che ci sfuggì l'allegra niai-serie allemande nascosta in una tale risposta. Si era addirittura fuori di sé per questa nuova facoltà e il giubilo toccò l'apogeo, quando Kant scoprì in sovrappiù nell'uomo anche una facoltà morale — poiché allora i Tedeschi erano ancora morali, e per nulla affatto «politicamente realisti». — Giunse la luna di miele della filosofia tedesca; tutti i giovani teologi della fonda­zione di Tubinga scesero subito in caccia, — tutti andavano alla ricerca di «facoltà». E quante cose non si trovarono — in quell'innocente, ricca, an­cor giovane epoca dello spirito tedesco, nella quale il Romanticismo, la fa­ta malefica, insinuava bisbigli e canti, in quel periodo in cui non si sapeva ancora tenere distinti «trovare» e «inventare»! Soprattutto una facoltà per il «soprannaturale»: Schelling la battezzò intuizione intellettuale e venne così incontro ai più fervidi desideri dei suoi Tedeschi, avidi, in fondo, di devozione. Non si può fare torto maggiore a tutto questo movimento sfre­nato ed entusiasta, che era giovinezza, per quanto si fosse astutamente am­mantato di concetti grigi e senili, che prenderlo sul serio e trattarlo persino con indignazione moralistica; oh, sì! si divenne vecchi, —- e il sogno si dile­guò. Venne un tempo in cui ci si passò la mano sulla fronte: e lo facciamo ancora oggi. Era stato un sogno: e il primo a farlo era stato il vecchio Kant. «In virtù di una facoltà» — aveva detto, o per lo meno inteso. Ma è poi una risposta questa? Una spiegazione? O non piuttosto una ripetizione della domanda? Come fa dormire l'oppio? «Grazie ad una facoltà», cioè alla virtus dormitiva — risponde quel tal medico in Molière,

Page 27: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE PRIMA. SUI PREGIUDIZI DEI FILOSOFI 443

quia est in eo virtus dormitiva, cujus est natura sensus assoupire.

Ma tali risposte appartengono alla commedia, ed è tempo finalmente di sostituire alla domanda kantiana «come sono possibili giudizi sintetici a priori?» un'altra domanda «perché è necessaria la fede in tali giudizi?» — è tempo, cioè, di comprendere, che tali giudizi debbono essere creduti veri allo scopo di conservare gli esseri della nostra specie; per cui naturalmente potrebbero essere anche falsi giudizi! O, detto più chiaramente, duramente e definitivamente: giudizi sintetici a priori non dovrebbero affatto «essere possibili»: non ne abbiamo alcun diritto, sulla nostra bocca essi sono sol­tanto falsi giudizi. Ora, d'altro canto, la fede nella loro verità è necessaria, in quanto fede pregiudiziale e apparenza che appartiene all'ottica prospet­tica della vita. — E per considerare infine ancora l'enorme influenza, che «la filosofia tedesca» — si comprenderà, come spero, il suo diritto alle vir­golette? — ha esercitato su tutta l'Europa, non si dubiterà, allora, che vi fosse implicata una certa virtus dormitiva: si era estasiati, in mezzo a nobili poltroni, virtuosi, mistici, artisti, cristiani per tre quarti e oscurantisti poli­tici di tutte le nazioni, di avere, grazie alla filosofia tedesca, un controvele­no contro il sensualismo ancora strapotente, che dal secolo precedente straripava in questo, in breve — «sensus assoupire»...

12.

Quanto all'atomistica materialistica essa appartiene alle teorie che furo­no meglio confutate; e forse oggi in Europa non c'è più nessuno così incol­to, tra i dotti, da attribuirle ancora, se non per comodità d'uso quotidiano e domestico (cioè come un'abbreviazione dei mezzi espressivi), una seria importanza — grazie soprattutto a quel polacco, Boscovich, che insieme al polacco Copernico è stato fino ad oggi il massimo avversario dell'apparen­za e quello che ha raccolto.maggiori vittorie. Infatti, mentre Copernico ci ha convinti a credere, contro tutti i sensi, che la terra non sta ferma, Bo­scovich ci ha insegnato a rinnegare la fede nell'ultima cosa che della terra «stava ferma», la fede nella «sostanza», nella «materia», nell'atomo — estrema riduzione della terra e piccola massa: — fu questo il massimo trionfo sui sensi mai raggiunto finora sulla terra. — Ma bisogna procedere oltre e dichiarare guerra, una guerra spietata all'arma bianca — anche al «bisogno atomistico», che continua ancora sempre a sopravvivere perico­losamente, in campi dove nessuno lo suppone, come quel famoso «bisogno metafisico»: — per prima cosa si deve dare il colpo di grazia anche a quel­l'altra e più fatale atomistica, che il cristianesimo ha tanto bene e a lungo insegnato, l'«atomistica delle anime». Con questa parola mi sia concesso di definire quella fede che considera l'anima un qualcosa di indistruttibile, di eterno, di indivisibile, una monade, un atomon; questa fede dev'essere eliminata dalla scienza! Sia detto tra noi, non è per nulla affatto necessario eliminare con ciò anche l'«anima» e rinunciare a una delle ipotesi più anti­che e più degne: come suole accadere a quei naturalisti maldestri, i quali non appena giungono a sfiorarla, subito la perdono. Ma la via verso nuove concezioni e raffinamenti dell'ipotesi-anima rimane aperta: e concetti co­me «anima mortale» e «anima come pluralità del soggetto» e «anima come struttura sociale degli impulsi e delle passioni» vogliono fin da ora avere diritto di cittadinanza nella scienza. Mentre il nuovo psicologo prepara una fine alla superstizione, che proliferava con un rigoglio quasi tropicale in-

Page 28: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

444 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

torno alla rappresentazione dell'anima, egli in realtà si è spinto, per così dire, in un nuovo deserto e in una nuova diffidenza — può essere che la condizione degli psicologi più antichi fosse più comoda e più divertente — ma alla fine egli si sa, con ciò, condannato anche ad inventare — e, chissà? forse a trovare. —

13.

I fisiologi dovrebbero riflettere prima di fare dell'istinto di conservazio­ne un impulso cardinale di un essere organico. Un'entità vivente vuole pri­ma di tutto liberare la propria forza — la vita stessa è volontà di poten­za —: l'istinto di conservazione ne è soltanto una delle conseguenze più in­dirette e più comuni. — In breve, qui come dappertutto, prudenza di fron­te ai superflui principi teologici! — com'è quello dell'istinto di conserva­zione (lo si deve all'inconseguenza di Spinoza). Così infatti impone il me­todo che deve essere sostanzialmente parsimonia di princìpi.

14.

Oggi cinque o sei cervelli cominciano a rendersi conto che anche la fisica è soltanto un'interpretazione e una sistemazione del mondo (secondo noi! se ci è lecito dirlo) e non una spiegazione del mondo; ma nella misura in cui essa si fonda sulla fede nei sensi, essa ha un valore superiore e a lungo an­dare ne dovrà avere ancora di più, dovrà valere, cioè, come spiegazione. Essa ha a suo vantaggio gli occhi e le dita, essa ha l'apparenza e la tangibi­lità; ciò esercita un effetto magico su un secolo il cui gusto dominante è plebeo, un effetto di persuasione, di convinzione, si adegua anzi istintiva­mente al canone di verità del sensualismo che è eternamente popolare. Co­s'è chiaro, cos'è «chiarito»? Solo ciò che si può vedere e toccare, — fino a questo punto dev'essere spinto ogni problema. Al contrario il fascino del pensiero platonico stava proprio nell'opporsi all'evidenza sensibile, ed era un pensiero aristocratico, — forse tra gli uomini che godevano di sensi per­sino più forti ed esigenti di quelli dei nostri contemporanei, ma che sapeva­no trovare un più alto trionfo nel restarne padroni: e ciò per mezzo di pal­lide, fredde, grige reti di concetti che costoro gettavano sul variopinto vor­tice dei sensi — la plebaglia dei sensi, come diceva Platone. In questo as­soggettamento e interpretazione del mondo secondo Platone c'era un godi­mento di specie diversa da quella che ci offrono i fisici di oggi, come pure i darwinisti e gli antiteleologici tra i lavoratori della fisiologia, con il loro principio della «minima forza possibile» e della stoltezza più grande possi­bile. «Dove l'uomo non ha più nulla da vedere e da afferrare, non ha nep­pure più nulla da cercare.» Questo in verità è un imperativo diverso da quello platonico, che tuttavia può essere proprio l'imperativo giusto per una rude e laboriosa stirpe di meccanici e costruttori di ponti dell'avvenire, che non hanno da svolgere che un grossolano lavoro.

15.

Per praticare la fisiologia con tranquilla coscienza, bisogna tener presen­te che gli organi sensori non sono fenomeni nel senso della filosofia ideali­stica: come tali non potrebbero essere cause! Il sensualismo almeno come ipotesi regolatrice, se non vogliamo ammetterlo come principio euristi­co — Come? E altri affermano persino che il mondo esteriore sarebbe opera

Page 29: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE PRIMA. SUI PREGIUDIZI DEI FILOSOFI 445

dei nostri organi? Ma allora persino il nostro corpo, in quanto frammento di questo mondo esterno, sarebbe opera dei nostri organi! Ma allora i no­stri stessi organi sarebbero — opera dei nostri organi! Questo è, mi sem­bra, una radicale reductio ad absurdum: ammesso che il concetto di causa sui sia radicalmente assurdo. Conseguentemente, il mondo esterno non è opera dei nostri organi? —

16.

Ci sono ancor sempre candidi osservatori di sé, che credono che esistano «certezze immediate», ad esempio «io penso», oppure, secondo la super­stizione di Schopenhauer, «io voglio»: come se qui il conoscere fosse in grado di comprendere il suo oggetto nella sua nuda purezza, come «cosa in sé», e non si potesse avere nessuna falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell'oggetto. Ma che «certezza immediata» come anche «asso­luta conoscenza» e «cosa in sé» racchiudono una contradictio in adjecto, lo ripeterò cento volte: ci si dovrebbe pur sbarazzare alla fine, della sedu­zione delle parole! Creda pure il popolo che conoscere sia un conoscere de­finitivo, il filosofo deve dirsi: se analizzo il procedimento che è espresso nella proposizione «io penso», ottengo una serie di asserzioni arrischiate, la cui giustificazione è difficile, forse impossibile, — come per esempio, che sia io colui che pensa che debba esistere generalmente un qualcosa, che pensi, che pensare sia un'attività e un effetto di un essere che è pensato co­me causa, che esista un «io», infine, che sia accertato che cos'è definibile in termini di pensiero, — che io sappia che cos'è pensare. Poiché se io non avessi già risposto al riguardo, in base a che cosa potrei giudicare che, quanto sta appunto accadendo, non sia piuttosto un «volere» o un «senti­re?» Insomma, quell'aio penso» presuppone che io metta a confronto la mia condizione attuale con altre condizioni, che conosco per la mia espe­rienza, per stabilire così che cosa essa sia: a causa di questo riferimento a un diverso «sapere», essa non costituisce più per me, in nessun caso, una certezza immediata. — Al posto di quella «certezza immediata», alla quale il popolo, nel caso dato, può credere, il filosofo si trova in tal modo tra le mani una serie di questioni metafisiche, veri e propri problemi di coscienza dell'intelletto, che si esprimono così: «Da dove prendo il concetto di pen­sare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare di un io e addirittura di un io come causa e infine ancora di un io come causa del pensiero?». Chi, invocando una specie di intuizione della cono­scenza, si sentisse in grado di rispondere subito a queste interrogazioni me­tafisiche, come fa colui che dice: «io penso e so che almeno questo è vero, reale, certo» — non troverebbe oggi in un filosofo che un sorriso e due punti interrogativi. «Signor mio, gli farebbe forse capire il filosofo, è inve­rosimile, che lei non sbagli: ma perché poi una verità assoluta?»

17.

Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò di sot tolineare un piccolo, breve dato di fatto, che viene ammesso mal volentier da questi superstiziosi, cioè che un pensiero viene quando «lui» lo vuole, < non quando «io» lo voglio; cosicché dire: il soggetto «io» è condizione de predicato «penso», è una falsificazione dello stato dei fatti, Esso pensa ma che questo «esso» sia proprio quel vecchio famoso «io», è per dirla coi indulgenza, solo una supposizione, un'affermazione, e soprattutto non i

Page 30: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

"T

446 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

affatto una «certezza immediata». E infine già dicendo «esso pensa» si è detto troppo: già questo «esso» contiene una spiegazione del processo e non appartiene al processo stesso. Si conclude qui, secondo l'uso gramma­ticale: «Pensare è un'attività, ogni attività suppone un soggetto attivo, di conseguenza —» all'incirca secondo lo stesso schema l'antico atomismo ol­tre alla forza, che agisce, cercava anche quella piccola massa di materia, nella quale essa risiede, dalla quale essa esercita la sua azione, l'atomo; spi­riti più rigorosi hanno finalmente appreso a cavarsela anche senza questo «residuo terrestre», e forse un giorno ci si abituerà, compresi i logici, a fa­re a meno di quel piccolo «esso» (nel quale si è volatilizzato l'onesto, vec­chio io).

18.

II fatto che una teoria sia confutabile, non è il suo fascino più insignifi­cante: proprio per questo essa attrae le intelligenze più acute. Sembra che la teoria cento volte confutata del «libero arbitrio» debba la sua durata an­che a questo fascino —: c'è sempre qualcuno che arriva e si sente abbastan­za forte per confutarla.

19.

I filosofi hanno l'abitudine di parlare della volontà come se essa fosse la cosa più nota al mondo; Schopenauer diede anzi ad intendere che solo la volontà ci sarebbe effettivamente nota, assolutamente nota, senza detra­zioni od aggiunte. Ma sono sempre più convinto che, anche in questo caso, Schopenauer abbia fatto solo ciò che appunto i filosofi usano fare: che egli abbia accolto e enormemente ampliato un pregiudizio popolare. La volon­tà mi sembra prima di tutto qualcosa di complicato, qualcosa che ha un'u­nità soltanto verbale, — e appunto nell'unità della parola è racchiuso il pregiudizio popolare, che ha prevalso sulla sempre scarsa cautela dei filo­sofi. Siamo dunque per una volta più cauti, siamo «meno- filosofi» —, di­ciamo: in ogni volere c'è prima di tutto una pluralità di sensazioni, e cioè la sensazione della condizione, dalla quale ci si vorrebbe allontanare, la sensazione della condizione verso la quale si vorrebbe andare, la sensazio­ne di questo stesso «da» e «verso», e poi ancora una simultanea sensazione muscolare, la quale, anche senza che noi mettiamo in movimento «brac­cia» e «gambe», per una specie di abitudine comincia il suo gioco non ap­pena noi «vogliamo». Come dunque si deve riconoscere il sentire e più pre­cisamente un sentire molteplice come ingrediente della volontà così, in se­condo luogo, anche il pensare dev'essere riconosciuto tale: in ogni atto del­la volontà c'è un pensiero che comanda; — e non si deve credere di poter disgiungere questo pensiero dal «volere», come se poi potesse ancora rima­nere la volontà! In terzo luogo non soltanto la volontà è un complesso di sensazioni e pensieri, ma anche e prima di tutto una passione: e più preci­samente quella passione del comando. Ciò che si chiama «libertà del vole­re» è essenzialmente il sentimento della superiorità nei confronti di colui che deve obbedire: «io sono libero, "egli" deve obbedire» — in ogni volere si nasconde questa coscienza come pure quella attenzione tesa, quello sguardo diritto che si fissa esclusivamente su una cosa, quell'illimitata va­lutazione «ora è necessario questo e non un'altra cosa», quella interiore certezza che si sarà obbediti, e tutto quanto ancora appartiene alla condi­zione di chi impartisce ordini. Un uomo che vuole — comanda a qualche

Page 31: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE PRIMA. SUI PREGIUDÌZI DEI FILOSOFI 447

cosa in sé che obbedisce o alla cui obbedienza egli crede. Ma ora si osservi ciò che è più strano nella volontà, — in questa cosa così complessa, per la quale il popolo ha solo una parola: in quanto noi in un dato caso, siamo nello stesso tempo colui che impartisce l'ordine e colui che obbedisce, e co­nosciamo, in quanto obbedienti, i sentimenti della costrizione, della spin­ta, dell'oppressione, della resistenza, del movimento, che di regola hanno inizio immediatamente dopo l'atto del volere; in quanto noi, d'altro canto, abbiamo l'abitudine di non tener conto, di lasciarci ingannare da questo dualismo in virtù del concetto sintetico dell«io», si è legata al volere tutta una catena di conclusioni sbagliate e, di conseguenza, di false valutazioni del volere stesso, — cosicché colui che vuole crede in buona fede che per agire sia sufficiente la volontà. Poiché, nella maggior parte dei casi, si è espressa una volontà solo quando ci si poteva aspettare anche l'effetto del comando, dunque l'ubbidienza, dunque l'azione, allora l'apparenza si è trasferita nella sensazione, come se ci fosse lì una necessità d'effetto; in de­finitiva, colui che vuole crede con un considerevole grado di certezza, che volontà e azione siano in qualche modo una cosa sola —, egli attribuisce ancora alla volontà stessa la riuscita, l'attuazione del volere e gode in ciò una crescita di quella sensazione di potenza che ogni successo porta con sé. «Libertà del volere» — questa è la parola per quel complesso stato di pia­cere di colui che vuole, che comanda, e nello stesso tempo si identifica con l'esecutore, — che come tale partecipa al godimento del trionfo sulle resi­stenze, ma fra sé giudica che sia la sua volontà stessa, quella che effettiva­mente ha superato queste resistenze. Colui che vuole aggiunge in questo modo le sensazioni di piacere dei fruttuosi strumenti esecutivi, delle «vo­lontà inferiori» o anime inferiori poste al suo servizio — il nostro corpo è infatti soltanto una struttura sociale di molte anime — al piacere di sentirsi un essere che comanda —. L'effet c'est moi: avviene qui ciò che avviene in ogni comunità felice e ben organizzata, che la classe dominante si identifi­chi con i successi della comunità. In ogni volere si tratta in ogni modo di comandare e obbedire sulla base, come si è detto, di una struttura sociale di molte «anime»: per la qual cosa un filosofo dovrebbe arrogarsi il diritto di assumere il volere in sé già dal punto di vista della morale: intendendo cioè come morale la dottrina dei rapporti di potere dai quali prende origine il fenomeno «vita».

20.

Che i singoli concetti filosofici non abbiano nulla di arbitrario, nulla che si sviluppi autonomamente, ma crescano in relazione e affinità reciproca, e per quanto in apparenza facciano la loro comparsa nella storia del pensie­ro improvvisamente e arbitrariamente, appartengano tuttavia a un siste­ma, allo stesso modo di tutte le specie della fauna di una parte della terra: ciò si svela infine anche nella sicurezza con la quale i più diversi filosofi riempiono sempre di nuovo un determinato schema fondamentale di possi­bili filosofie. Sempre di nuovo, in balia di un invisibile incantesimo, essi percorrono ancora una volta lo stesso circuito: per quanto possano sentirsi così indipendenti l'uno dall'altro, con la loro volontà critica o sistematica, un qualcosa in loro li guida, qualcosa li incalza, in un ordine determinato, l'uno dopo l'altro: appunto quella innata e sistematica affinità concettua­le. Il loro pensare è di fatto molto meno una scoperta che un riconoscere, un ricordare di nuovo, un retrocedere e un ritornare a casa in una lontana, antichissima comune dimora dell'anima, dalla quale quei concetti sono na-

Page 32: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

448 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

ti una volta: — in quanto a questo filosofare, è una specie di atavismo di primissimo ordine. La strana somiglianza di famiglia di tutta la filosofia indiana, greca, tedesca si spiega in modo abbastanza semplice. Proprio lì dove è presente una parentela linguistica è inevitabile che grazie alla comu­ne filosofia della grammatica — intendo grazie all'inconsapevole dominio e guida esercitati da analoghe funzioni grammaticali — tutto sia predispo­sto già in precedenza per una evoluzione e una successione consimile dei si­stemi filosofici: così come appare quasi impedita la via a certe possibilità d'interpretazione del mondo. Con grande probabilità, i filosofi dell'area linguistica uralo-altaica (nella quale il concetto di soggetto si è sviluppato nel modo peggiore) guarderanno diversamente «il mondo» e seguiranno sentieri diversi da quelli degli Indogermani o dei Mussulmani: la magia di determinate funzioni grammaticali è in definitiva la magia di valutazioni e di condizionamenti razziali fisiologici. — Tutto ciò per respingere la super­ficialità di Locke riguardo all'origine delle idee.

21.

La causa sui è la più bella autocontraddizione che sia stata escogitata fi­no ad oggi, una specie di stupro e di violenza contro natura della logica: ma lo sfrenato orgoglio dell'uomo ha portato a rimaner profondamente e orrendamente preso proprio in questa assurdità. L'esigenza di «libertà del volere», in quello spirito superlativamente metafisico, quale purtroppo do­mina ancora sempre nelle teste dei semicolti, la pretesa di assumere da soli la completa ed estrema responsabilità per le proprie azioni e liberarne Dio, mondo, progenitori, caso, società, non è infatti niente di meno che quella causa sui e il trarsi fuori tirandosi per i capelli, con una temerarietà mag­giore di quella di Mùnchhausen, dalla palude del nulla all'esistenza delle cose. Posto che qualcuno giunga in tal modo a vedere la stolida dabbenag­gine di questo famoso concetto di «libero volere» e Io cancelli dalla sua mente, lo prego ora di fare un altro passo avanti e di cancellare dalla sua mente anche il contrario di quel non-concetto di «libero volere»: intendo la «volontà non-libera» che deriva da un abuso di causa ed effetto. Non biso­gna reificare erroneamente «causa» ed «effetto», come fanno i naturalisti (e chi come loro oggi adopera, nel pensiero, i mezzi delle scienze naturali), in conformità alla dominante goffaggine meccanicistica, che sostiene che la causa preme e spinge fino a «giungere all'effetto»; bisogna servirsi della «causa» e dell'«effetto» solo come di puri concetti, vale a dire come finzio­ni convenzionali che hanno come scopo la definizione, la connotazione, non la spiegazione. Nell'«in sé» non ci sono «legami causali», «necessità», «illibertà psicologiche», qui 1'«effetto» non segue «alla causa» e non do­mina alcuna «legge». Siamo soltanto noi che abbiamo immaginato le cau­se, la successione, la reciprocità, la relatività, la costrizione, il numero, la legge, la libertà, il motivo, lo scopo; e se noi ideiamo e innestiamo nelle co­se questo mondo di segni come se esistessero «in sé», allora operiamo an­cora una volta come abbiamo sempre operato, vale a dire facciamo della mitologia. «La volontà non libera» è mitologia: nella vita reale esistono solo volontà forti e deboli. — È già quasi sempre un sintomo della sua de­bolezza, che un pensatore in ogni «concatenamento causale» e «necessità psicologica» avverta la presenza della costrizione, della necessità, della ine­vitabilità delle conseguenze, dell'oppressione, della mancanza di libertà: proprio sentire in questo modo significa tradirsi da soli. E in genere, se ho osservato esattamente, la «non-libertà del volere» viene considerata come

Page 33: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE PRIMA. SUI PREGIUDIZI DEI FILOSOFI 449

problema da due lati completamente opposti, ma sempre in modo profon­damente «personale»: gli uni non vogliono abbandonare a nessun prezzo la loro «responsabilità», la fede in sé, il diritto personale al proprio merito (appartengono a questo gruppo le razze boriose —); gli altri al contrario, non vogliono alcuna responsabilità, non vogliono essere colpevoli di nulla e pretendono, per un intimo disprezzo di sé, di poter scalzar via se stessi in una qualsiasi direzione. Questi ultimi, quando scrivono libri, sono soliti as­sumere oggi le parti dei delinquenti, una specie di compassione socialista è la loro maschera preferita. E in effetti il fatalismo di questi deboli voleri si abbellisce sorprendentemente quando sa farsi passare come «la religion de la souffrance humaine»: questo il suo «buon gusto».

22.

Mi si conceda, come vecchio filologo che non può rinunciare alla mali­zia, di mettere il dito su certi cattivi metodi interpretativi: ma quella «nor­mativa della natura», di cui voi fisici parlate con tanto orgoglio, come se... — esiste solo grazie alla vostra interpretazione e alla vostra cattiva «filoso­fia», — essa non è un dato di fatto, non è un «testo», piuttosto solo un ria­dattamento ingenuo-umanitario e una distorsione, con i quali voi venite in­contro a sufficienza agli istinti democratici dell'anima moderna! «Ovun­que uguaglianza di fronte alla legge, — la natura non ha a questo proposi-,; to nulla di diverso e nulla di migliore di noi»: un garbato espediente menta­le, con il quale l'ostilità plebea contro tutto quanto è privilegiato e sovra-; no, si maschera ancora una volta come un secondo e più raffinato ateismo. «Ni dieu, ni maitre» — anche voi lo volete: e perciò «viva la legge di natu-' ra»! non è vero? Ma, come si è detto, questa è interpretazione, non testo; e potrebbe arrivare qualcuno che, con intenzione e metodo interpretativo opposto sapesse leggere nella medesima natura e in relazione ai medesimi fenomeni, proprio la imposizione di una potenza dispoticamente spregiu­dicata e impietosa — un interprete che in tal modo vi mettesse davanti agli occhi l'assolutezza senza eccezioni di ogni «volontà di potenza», in modo tale che quasi ogni parola e addirittura la parola «tirannia» finirebbe per sembrare inutilizzabile, oppure già una fiacca e blanda metafora — troppo umana; e tuttavia finirebbe con ciò per sostenere di questo mondo la stessa cosa che sostenete voi, e cioè che il suo corso è «necessario» e «calcolabi­le», ma non perché in esso dominano le leggi, ma perché le leggi vi manca­no assolutamente e ogni potenza in ogni momento giunge alla sua estrema conseguenza. Ammesso poi anche che ciò sia solo un'interpretazione — e voi vi affrettereste certo ad obiettare, — ebbene, tanto meglio.

23.

Tutta quanta la psicologia è rimasta impigliata fino ad oggi in pregiudizi e timori morali; essa non ha osato scendere nel profondo. Considerarla, come io la considero, quale morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: — è un punto che finora nessuno ha nep­pure sfiorato con il pensiero: per quanto almeno è consentito riconoscere, in ciò che è stato scritto fino ad ora, un sintomo di ciò che fino ad ora è stato taciuto. La forza dei pregiudizi morali è penetrata profondamente nel mondo più intellettuale, in apparenza più freddo e spregiudicato — e, co­me è ovvio, in modo dannoso, limitante, accecante, falsante. Una vera fi-

Page 34: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

450 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

sio-psicologia deve lottare contro inconsapevoli resistenze nel cuore del ri­cercatore, essa ha contro di sé il «cuore»: già una dottrina della reciproca dipendenza dei «buoni» e dei «cattivi» istinti provoca, in quanto immorali­tà più raffinata, in una coscienza ancora forte e rigorosa, pena e disgusto, — tanto più una teoria secondo la quale tutti gli istinti buoni derivano da quelli cattivi. Posto però che qualcuno consideri proprio le passioni dell'o­dio, dell'invidia, dell'avidità, del desiderio di potere, come passioni che condizionano la vita, come qualcosa che deve essere presente nell'econo­mia complessiva della vita come fondamentale e sostanziale, che quindi de­ve essere ulteriormente potenziato, se è vero che anche la vita deve essere ulteriormente potenziata, — egli soffrirebbe di un tale orientamento del suo giudizio come del mal di mare. E tuttavia anche quest'ipotesi è ben lontana dall'essere la più penosa e la più inusitata in questo immane e an­cor quasi nuovo regno di pericolose nozioni — e in realtà ci sono cento buoni motivi per restarne lontani, se si — può\ d'altra parte una volta che ci siamo spinti fin qui con la nostra nave, ebbene! avanti! stringendo ora coraggiosamente i denti! gli occhi aperti! la mano ferma sulla barra! navi­ghiamo sicuri oltre la morale, calpestiamo, annientiamo forse con ciò i no­stri ultimi residui di moralità, mentre facciamo e osiamo il nostro viaggio laggiù — ma che peso abbiamo noi! Mai prima d'ora si è dischiuso a viag­giatori temerari e ad avventurieri un più profondo mondo della conoscen­za: e lo psicologo, che in tal modo «compie il sacrificio» — che non è il sa­crificio dell'intelletto, al contrario! — avrà almeno il diritto di pretendere che la psicologia venga nuovamente riconosciuta come signora delle scien­ze, per il servizio e la preparazione della quale le altre scienze esistono. Poi­ché la psicologia è ormai di nuovo la via che conduce ai problemi fonda­mentali.

Page 35: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte seconda Lo spirito libero

24.

O sancta simplicitas! In quale strana semplificazione e falsificazione vive l'uomo! Non si finisce mai di meravigliarsi quando si è assistito ad un tale prodigio! Come abbiamo reso chiaro e libero e facile e semplice tutto quanto ci circonda! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un lascia-pas-sare per tutto ciò che è superficiale e al nostro pensiero una divina avidità di salti spavaldi e di paralogismi! — come abbiamo imparato fin dall'inizio a conservarci la nostra ignoranza, per godere di una libertà, una sicurezza, una imprudenza, una risolutezza, una serenità di vita appena concepibili, per godere della vita! E solo su questo fondo di ignoranza ormai saldo e granitico ha potuto erigersi finora la scienza; la volontà di sapere sulla base di una volontà molto più potente, della volontà di non- sapere, di incertez­za, di non-verità! Non come suo contrario, ma — come suo perfeziona­mento! Per quanto infatti il linguaggio, qui come altrove, non possa libe­rarsi e allontanarsi dalla sua goffaggine e continui a parlare di opposti, là dove non esistono che sottili e raffinate molteplicità di livelli; per quanto anche la congenita tartuferia della morale, la quale si è fatta ora per noi in­vincibile «carne e sangue» possa distorcere in bocca a noi sapienti persino il significato delle parole in bocca: di tanto in tanto lo comprendiamo, e ri­diamo di come proprio la scienza migliore voglia tenerci legati ancora, nel migliore dei casi, a questo mondo semplificato, completamente artefatto, ordinatamente poeticizzato e falsificato, di come, che lo voglia o no, essa ami l'errore, poiché essa, la vivente, — ama la vita!

25.

Dopo un preambolo così gaio non vorrei che rimanesse inascoltata una parola seria: essa si rivolge ai più seri. State in guardia voi filosofi e amici della conoscenza; e guardatevi dal martirio! Dalla sofferenza «per amore della verità»! E addirittura dalla difesa di voi stessi! Si guasta nella vostra coscienza ogni innocenza e ogni sottile neutralità, diventate ostinati contro le obiezioni e i drappi rossi, diventate stupidi, bestiali, vi trasformate in to­ri, quando nella lotta contro il pericolo, la diffamazione, il sospetto, il ri­fiuto, e le conseguenze ancora più rozze dell'ostilità dovete ricoprire alla fine persino il ruolo di difensori della verità sulla terra: — come se «la veri­tà» fosse una persona così indifesa e goffa, da aver bisogno di difensori! E proprio di voi, di voi cavalieri dalla triste figura, parassiti e tessitori di ra­gnatele intorno allo spirito! Alla fine lo sapete abbastanza bene che non può avere nessuna importanza, che proprio voi abbiate ragione, e che fino ad oggi ancora nessun filosofo abbia avuto ragione, e che in ogni piccolo punto interrogativo che voi mettete dopo le vostre parole predilette e le vo­stre teorie preferite (e all'occasione dopo voi stessi), potrebbe esserci una

Page 36: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

452 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

veridicità più degna di lode che non in tutti gli atteggiamenti solenni e trionfali che assumete di fronte agli accusatori e ai tribunali! Fatevi piutto­sto da parte! Correte a nascondervi! E usate la vostra maschera e l'astuzia perché vi si confonda con altri! O vi si tema un poco! E non dimenticate il giardino, il giardino dalle inferriate d'oro! E abbiate uomini intorno a voi che siano come un giardino, — o come musica sulle acque, quando è sera, e già il giorno diventa ricordo: — scegliete la buona solitudine, la libera, coraggiosa, lieve solitudine, che vi dà anche un diritto di restare ancora, in un certo senso, buoni! Come rendete velenosi, astuti, cattivi questa lunga guerra, che non si lascia condurre con violenza e a viso aperto! Come ren­de personali una lunga paura! Una lunga attenzione al nemico, a un nemi­co possibile! Questi respinti dalla società, eternamente perseguitati, istigati con perfidia, — compresi gli eremiti per forza, gli Spinoza e i Giordano Bruno — alla fine diventano sempre, e sia pure sotto la maschera più spiri­tuale, e forse addirittura senza saperlo, dei raffinati ricercatori di vendetta e avvelenatori (si porti alla luce una buona volta il fondamento dell'etica e della teologia di Spinoza!) — per non parlare della goffaggine dell'indigna­zione morale, che in un filosofo è il segno infallibile che gli è sfuggito l'hu-mor filosofico. 11 martirio del filosofo, il suo «sacrificio per la verità», porta alla luce ciò che v'è in lui dell'agitatore e dell'istrione; e posto che si­no ad oggi si sia guardato a lui solo con curiosità artistica, è certo com­prensibile, in relazione a molti filosofi, il pericoloso desiderio di vederli, per una volta, anche nella loro degenerazione (degenerati in «martiri», in strilloni da teatro e da tribuna). Ma chi prova un tale desiderio, deve aver chiaro ciò che vedrà: — solo una satira, solo una farsa finale, solo la conti­nua dimostrazione che la lunga vera tragedia è alla fine: ammesso che ogni filosofia sia stata, al suo nascere, una lunga tragedia. —

26.

Ogni persona eletta tende istintivamente al suo rifugio e alla sua intimi­tà, dove poter essere libera dalla massa, dai molti, dai troppi, dove poter dimenticare la regola «uomo», in quanto sua eccezione: — escluso l'unico caso, che egli venga spinto da un istinto ancora più forte direttamente su questa regola, come uomo della conoscenza in senso sublime ed ecceziona­le. Chi nel rapporto con gli uomini non ha assunto, secondo le circostanze, tutti i colori della pena, verde e grigio di nausea, fastidio, pietà, tetraggine, abbandono, non è certo un uomo di gusto superiore; ma se egli non si as­sume volontariamente tutti questi pesi e questo fastidio, se li elude sempre e rimane, come si è detto, silenzioso e superbo, rinchiuso nella sua torre, allora una cosa è certa: egli non è fatto, non è predestinato alla conoscen­za. Perché, se lo fosse, dovrebbe dirsi un giorno «al diavolo il mio buon gusto! la regola è più interessante dell'eccezione, — di me, che sono l'ecce­zione!» — e scenderebbe in basso, soprattutto «dentro». Lo studio del­l'uomo medio, lungo, severo che vuole molte simulazioni, superamenti di sé, fiducia, cattive compagnie — ogni compagnia è cattiva, eccetto quella dei propri pari —: costituisce una parte necessaria della biografia di ogni filosofo, forse la più sgradevole, la più maleodorante, la più ricca di delu­sione. Ma se egli ha fortuna, come si addice a un beniamino della cono­scenza, allora incontrerà chi gli abbrevierà e gli mitigherà il compito, — in­tendo i cosiddetti cinici, dunque quei tali che riconoscono semplicemente in sé la bestia, la volgarità, la «regola» e che oltre a ciò possiedono tuttavia

Page 37: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SECONDA. LO SPIRITO LIBERO 453

abbastanza spiritualità e sensibilità per sentire la necessità di parlare di sé e dei propri simili dinnanzi a testimoni: — talvolta si rotolano persino nei li­bri come nei loro stessi escrementi. Il Cinismo è l'unica forma nella quale anime volgari rasentano l'onestà; e di fronte al cinismo più rozzo o più raf­finato l'uomo superiore deve aprire bene le orecchie e congratularsi ogni volta con se stesso, se proprio di fronte a lui il pagliaccio sfrontato o il sati­ro della scienza parlano a voce alta. Ci sono persino casi nei quali alla nau­sea si mescola l'incanto: lì, cioè, dove per un capriccio della natura, il ge­nio è unito a un tale sfrontato caprone e a una scimmia, come nel caso del-PAbbé Galiani, l'uomo più profondo, il più acuto e forse anche il più spor­co del suo secolo — fu molto più profondo di Voltaire e di conseguenza anche molto più silenzioso. È accaduto già molto spesso che, come si è ac­cennato, si abbia una testa di scienziato su un corpo di scimmia, un intel­letto eccezionalmente fine in un'anima volgare — un caso per nulla raro, in particolare fra i medici e i fisiologi della morale. E ogni volta che si par­la senza amarezza, anzi tranquillamente dell'uomo come di un ventre con due bisogni e di una testa che ne ha uno solo; dovunque si veda, si cerchi e si voglia vedere sempre solo fame, libidine sessuale e presunzione, come se esse fossero gli unici e veri moventi delle azioni umane; in breve, dove si parli «male» dell'uomo — e neppure con cattiveria —, lì l'amante della co­noscenza, dovrà ascoltare con acuta attenzione e con zelo dovrà tendere l'orecchio soprattutto quando si parla senza indignazione. Poiché l'uomo indignato, e colui che sempre si strazia e si sbrana con i propri denti (o in sostituzione di sé strazia il mondo, o Dio, o la società), può sì secondo la morale, essere superiore al satiro che ride, pago di sé, ma in ogni altro caso è il caso più comune, più insignificante, meno istruttivo. E nessuno mente quanto l'indignato.

27.

È difficile essere compresi: soprattutto quando si pensa e si vive ganga-srotogatiy in mezzo a uomini che pensano e vivono diversamente, vale a di­re kurmagati o nel migliore dei casi maindekagati «che camminano come le rane» — faccio proprio tutto, per non essere compreso? — e bisogna esse­re riconoscenti di tutto cuore già per la buona volontà di interpretarci con qualche finezza. Ma per quanto riguarda «i buoni amici», che amano sem­pre troppo la comodità e che, proprio perché amici, credono di averne di­ritto: si fa dunque bene a concedere loro fin dal principio uno spazio di gioco e un'arena per il malinteso: — così avremo ancora motivo di ridere; — o di eliminarli del tutto, questi buoni amici, — e ancora di riderne!

28.

Ciò che più difficilmente si lascia tradurre da una lingua nell'altra è il ritmo del suo stile: che come tale ha il suo fondamento nel carattere della razza, detto in termini fisiologici, nel ritmo medio del suo «metabolismo». Esistono traduzioni, che pur fatte con oneste intenzioni, sono quasi delle falsificazioni, perché sono, involontariamente, volgarizzazioni dell'origi­nale, semplicemente perché non hanno potuto rendere anche il suo ritmo gagliardo e allegro, che supera d'un balzo e aiuta a superare, tutto quanto vi è di pericoloso nelle parole e nelle cose. Il tedesco è quasi incapace del presto nella sua lingua: e se ne può facilmente dedurre, che è incapace an-

Page 38: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

454 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

che di molte delle più squisite e ardite nuances del libero pensiero, proprio degli spiriti liberi. Come gli sono estranei per fisicità e coscienza il buffo e la satira, allo stesso modo Aristofane e Petronio sono per lui intraducibili. Ogni contegnosa gravità, pesantezza, solenne goffaggine, ogni specie di stile prolisso e noioso si sono sviluppati nei Tedeschi con una varietà di grande ricchezza, — mi si concederà che anche la prosa di Goethe, nella sua mescolanza di rigidità e di grazia, non fa eccezione, in quanto riflesso dei «buoni vecchi tempi» alla quale appartiene ed espressione del «gusto tedesco», nel tempo in cui esisteva ancora un «gusto tedesco»: che era un gusto «rococò», in moribus et artibus. Fa eccezione Lessing, grazie alla sua natura di attore, la quale comprendeva molto e di molto si intendeva: lui, che non per nulla fu il traduttore di Bayle, lui che si rifugiava spesso presso Diderot e Voltaire, e più ancora fra i poeti della commedia romana: — Lessing amava anche nel ritmo la libertà dello spirito, la fuga dalla Ger­mania. Ma quando mai la lingua tedesca fu in grado, sia pure nella prosa di un Lessing, di imitare il ritmo di Machiavelli, che nel suo Principe fa re­spirare la secca, sottile aria di Firenze e non può fare a meno di riferirci an­che le cose più serie in uno sfrenato allegrissimo: forse non senza una mali­ziosa percezione d'artista, di quale contrasto stesse osando, — pensieri, lunghi, gravi, duri, pericolosi e un ritmo da galoppo e l'estro migliore e più ardito. Chi infine potrebbe osare persino una traduzione tedesca di Petro­nio, che più di qualsiasi grande musicista fino ad oggi, è stato il maestro del presto, con le sue invenzioni, trovate, parole: — che importano infine tutte le paludi del mondo malato, cattivo, anche del «vecchio mondo», se si hanno come lui i piedi di un vento, il tratto e il respiro, il liberatorio sar­casmo di un vento che sana ogni cosa, mentre costringe ogni cosa a corre­rei E per ciò che riguarda Aristofane, quello spirito trasfigurante, comple­mentare, grazie al quale si perdona all'intera grecità di essere esistita, po­sto che si sia compreso fino in fondo quanto ogni cosa abbia bisogno di es­ser perdonata, trasfigurata e non saprei indicare nulla che mi abbia fatto sognare sulla natura enigmatica di Platone più di quel petit fait felicemente tramandato: che sotto il guanciale del suo letto di morte si sia trovata non una «Bibbia», non un'opera egiziana, pitagorica, platonica — ma Aristo­fane. Come avrebbe potuto, persino un Platone, sopportare la vita — una vita greca, alla quale egli aveva detto di no, — senza un Aristofane! —

29.

È di pochi, essere indipendenti: è privilegio dei forti. E chi tenta, anche avendone il miglior diritto, ma senza esservi costretto, dimostra con ciò di essere verosimilmente non solo forte, ma audace sino all'eccesso. Entra in un labirinto, moltiplica i pericoli che la vita già di per se stessa comporta; dei quali non è il minore il fatto che nessuno veda con i proprio occhi dove e come si stia smarrendo, si isoli e venga fatto a pezzi da un qualche speleo-minotauro della coscienza. Posto che un tale individuo vada verso la rovi­na, ciò avviene in modo così estraneo alla comprensione degli uomini, che essi non lo compatiscono e non lo sentono: — ed egli non può più tornare indietro! Non può più tornare neppure alla compassione degli uomini!

30.

Le nostre massimo conoscenze suonano necessariamente come follia (— e lo debbono —), e in alcune circostanze come delitti, se giungono in modo illecito all'orecchio di coloro che non vi sono adatti o predestinati. L'esso-

Page 39: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SECONDA. LO SPIRITO LIBERO 455

terico e l'esoterico, come si distinguevano dal punto di vista filosofico presso gli Indiani, i Greci, i Persiani e i mussulmani, in breve ovunque si credeva nella gerarchia e non nell'uguaglianza e nella parità dei diritti, — non si differenziano l'uno dall'altro perché l'essoterico sta al di fuori e ve­de, valuta, misura, giudica dall'esterno e non dall'interno: l'essenziale è che egli vede le cose dal basso — mentre l'esoterico dall'alto! Ci sono altez­ze dell'anima, vista dalle quali anche la tragedia cessa di avere un effetto tragico; e, uniti in uno solo tutti i dolori del mondo, chi potrebbe avere l'ardire di giudicare se questa vista indurrebbe e costringerebbe necessaria­mente proprio alla compassione e quindi alla moltiplicazione del dolore?... Ciò che è balsamo e nutrimento per la specie più elevata degli uomini, deve essere quasi veleno per una specie assai diversa e inferiore. Le virtù dell'uo­mo comune avrebbero forse in un filosofo il significato di vizio e di debo­lezza; sarebbe possibile che un uomo di tipo superiore, posto che degene­rasse e andasse in rovina, giungesse solo in questo modo a possedere le qualità in virtù delle quali fosse sentita la necessità di venerarlo come un santo, nel mondo abietto nel quale è sprofondato. Esistono libri che hanno per l'anima e per la salute un valore opposto a seconda che se ne serva un'anima volgare, un'inferiore forza vitale, oppure la più elevata e possen­te; nel primo caso quei libri sono pericolosi, stritolano e dissolvono, nel­l'altro sono i richiami dell'araldo che invitano i più prodi a dar prova del loro valore. I libri per tutti sono sempre libri maleodoranti: vi si attacca l'odore della piccola gente. Dove il popolo mangia e beve, persino dove adora, lì di solito c'è fetore. Non bisogna entrare in una chiesa, se si vuole respirare aria pura.

31.

Negli anni giovanili si venera e si disprezza ancora senza quell'arte della nuance che costituisce il miglior profitto della vita e giustamente bisogna scontare con severità l'aver aggredito in tal modo con un sì o un no uomini e cose. Tutto è disposto in modo che il peggiore dei gusti, il gusto dell'asso­luto venga orribilmente ingannato e che si abusi di lui, finché l'uomo non impari a porre un po' d'arte nei suoi sentimenti e meglio ancora finché non osi tentare l'artificio: come fanno i veri artisti della vita. Il sentimento del­l'iracondia e della venerazione, che sono propri della gioventù, sembrano non darsi pace se prima non hanno falsato uomini e cose tanto bene che ci si possa sfogare contro di essi: — la gioventù è già in sé qualcosa di falsifi­cante e ingannatore. Più tardi, quando la giovane anima, martoriata da acute disillusioni, si rivolta alla fine sospettosamente contro se stessa, an­cor sempre ardente e selvaggia, anche nella sua diffidenza e nei rimorsi del­la sua coscienza: come si incollerisce ora contro se stessa, come si dilania con impazienza, come si vendica per la sua lunga cecità, come se fosse sta­ta una cecità volontaria! In questo trapasso ci si punisce con la diffidenza verso il proprio sentimento; si tortura il proprio entusiasmo con il dubbio, si sente addirittura la buona coscienza come un pericolo, quasi come un autoffuscamento e un rilassamento della rettitudine più pura; e soprattutto si prende partito, si prende per principio partito contro la «gioventù». — Un decennio più tardi: e si comprenderà, che anche tutto ciò era ancora — gioventù!

Page 40: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

456 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

32.

Durante il periodo più lungo della storia dell'umanità — Io si chiama epoca preistorica — il valore o l'assenza di valore di un'azione era dettato dalle sue conseguenze: in tal modo l'interesse per l'azione in se stessa era scarso come quello per la sua origine, era piuttosto la forza retroattiva del successo o dell'insuccesso che guidava l'uomo a pensare bene o male di un'azione, così come ancora oggi in Cina l'onore o la vergogna si riflette dal figlio ai genitori. Indichiamo questo periodo come il periodo premorale dell'umanità: l'imperativo «conosci te stesso» era allora ancora sconosciu­to. Negli ultimi dieci millenni si è invece andati, passo passo, tanto avanti su alcune vaste pianure della terra, da lasciare che l'origine dell'azione e non più le conseguenze decida il suo valore: nell'insieme è un grande suc­cesso, un rilevante raffinamento dello sguardo e del metro di giudizio, l'in­conscio effetto retroattivo del dominio di valori aristocratici e della fede neIP«origine», il segno di un periodo che si può definire in senso più stret­to come morale: il primo tentativo di conoscenza di sé è con ciò compiuto. In luogo delle conseguenze, l'origine: che capovolgimento di prospettiva! E un capovolgimento raggiunto certamente solo dopo lunghe battaglie e tentennamenti! In verità: una nuova funesta superstizione, una singolare ristrettezza dell'interpretazione giunse appunto con ciò al predominio: si interpretò l'origine di un'azione nel senso più preciso possibile come origi­ne derivante da un'intenzione, ci si trovò d'accordo nel credere che il valo­re di un'azione fosse riposto nel valore della sua intenzione. L'intenzione come origine complessiva e preistoria di un'azione: secondo questo pregiu­dizio, (fin quasi ai tempi più recenti) su questa terra si è sempre moralmen­te lodato, biasimato, giudicato, e anche filosofato. — Ma non dovremmo oggi essere posti di fronte alla necessità di risolverci ancora una volta a un rovesciamento e una completa rimozione dei valori, grazie a una nuova ri­flessione su di noi e a un approfondimento dell'uomo — non dovremmo essere alle soglie di un periodo che dovrebbe essere designato negativamen­te, come extra-morale: oggi, dove per lo meno tra noi immoralisti si agita il sospetto che proprio in ciò che di non intenzionale vi è in un'azione, sia ri­posto il suo valore decisivo e che tutta la sua intenzionalità, tutto quello che di essa può essere visto, saputo, «reso cosciente», appartiene ancora alla sua superficie e alla sua epidermide — la quale, come ogni epidermide, scopre qualcosa, ma ancora di più nasconde! In breve, noi crediamo che l'intenzione sia soltanto un segno e un sintomo che ha bisogno prima di tutto di venir interpretato e oltre a ciò un segno che significa troppe cose di vario tipo e che di conseguenza non significa, per sé solo, quasi nulla; — crediamo che la morale, nella sua concezione odierna, dunque una morale di intenzioni, sia stata un pregiudizio, una premura eccessiva, una cosa forse provvisoria, un qualcosa più o meno del livello dell'astrologia e del­l'alchimia, ma in ogni caso qualcosa che deve essere superato. Il supera­mento della morale, in un certo senso perfino l'autosuperamento della mo­rale: possa essere questo il nome per quel lungo lavoro segreto che viene ri­servato alle più acute e oneste e anche alle più maligne coscienze attuali, pietre di paragone viventi dell'anima. —

Page 41: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SECONDA. LO SPIRITO LIBERO 457

33.

Non serve a nulla: bisogna chiedere implacabilmente ragione e trascinare in giudizio i sentimenti d'abnegazione, di sacrificio per il prossimo, tutta intera la morale altruistica: e così pure l'estetica della «idea disinteressa­ta», sotto la quale la svirilizzazione dell'arte cerca oggi, in modo abbastan­za seducente, di crearsi una coscienza pulita. C'è anche troppo fascino e troppa dolcezza in quei sentimenti del «per gli altri», del «non per me», per non sentire la necessità di diventare doppiamente sospettosi e di chiede­re: «non sono queste, forse seduzioni?». — Che esse piacciano — a chi le possiede, e a chi gode i loro frutti, anche al semplice spettatore, — non co­stituisce ancora un argomento in loro favore, ma porta per l'appunto alla cautela. Siamo dunque cauti!

34.

Da qualsiasi punto di vista filosofico ci si voglia oggi porre: l'erroneità del mondo, nel quale crediamo di vivere, vista da qualsiasi punto è la cosa più sicura e più salda della quale i nostri occhi possono appropriarsi: — troviamo a questo proposito mille motivi che vorrebbero adescarci a con­getture su un principio ingannatore nella «essenza delle cose». Ma chi at­tribuisce la responsabilità della falsità del mondo al nostro stesso pensiero, dunque «allo spirito» — onorevole via d'uscita, che ogni consapevole e in­consapevole advocatus dei percorre —: chi considerasse questo mondo, e lo spazio, il tempo, la forma, il movimento, come dedotto erroneamente, avrebbe per lo meno un buon motivo per imparare finalmente a diffidare di ogni pensiero: e non ci avrebbe giocato fino ad oggi i tiri peggiori? E quale garanzia abbiamo che non continuerebbe a fare ciò che ha sempre fatto? In tutta serietà: l'innocenza dei pensatori ha qualcosa che commuo­ve e incute rispetto, è questo che permette loro di porsi ancor oggi di fronte alla coscienza, con la preghiera che essa dia loro delle risposte oneste: per esempio se essa sia «reale», e perché mai essa tenga lontano da sé con tale decisione il mondo esterno, e altri problemi simili. La fede nelle «certezze immediate» è un'ingenuità morale che fa onore a noi filosofi: ma — noi non dobbiamo ormai essere uomini «soltanto morali»] A prescindere dalla morale, quella fede è una stupidaggine che ci fa poco onore! Nella vita ci­vile la diffidenza sempre vigile venga pure considerata come segno di «cat­tivo carattere» e appartenga pure di conseguenza alle sconsideratezze: qui tra noi, al di qua del mondo borghese e del suo sì o no, — cosa potrebbe impedirci di essere sconsiderati e di dire: dopo tutto il filosofo ha diritto al «cattivo carattere», in quanto è l'essere che più di ogni altro è stato finora beffeggiato sulla terra, — egli ha oggi il dovere di essere diffidente, di lan­ciare dagli abissi del suo sospetto gli sguardi più malevoli. — Mi si passi lo scherzo di questa cupa smorfia e di questa locuzione: poiché proprio io stesso, ho imparato da molto tempo a pensare e a valutare diversamente l'ingannare e l'essere ingannato e tengo pronti almeno un paio di colpi per la cieca rabbia con la quale i filosofi si rifiutano di essere ingannati. Perché no? Non è niente di più che un pregiudizio morale, che la verità valga più dell'apparenza; è addirittura l'opinione peggio dimostrata che ci sia al mondo. Pure si ammetta con se stessi che non ci sarebbe vita, se non sulla base di valutazioni e apparenze prospettiche; e se si volesse, con il virtuoso entusiasmo e la goffaggine di alcuni filosofi, eliminare completamente il

Page 42: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

458 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

«mondo apparente», bene, posto che voi lo possiate, — allora, non rimar­rebbe più nulla neppure della vostra «verità»! Già, cosa ci spinge general­mente ad ammettere che esista un'antitesi sostanziale di «vero» e «falso»? Non basta ammettere diversi gradi dell'apparenza e, per così dire, ombre e tonalità complessive più chiare e più scure dell'aspetto esteriore — valeurs diversi, per usare il linguaggio dei pittori? Perché non potrebbe essere una finzione, il mondo che in qualche modo ci concerne'} E a chi chiede qui: «ma per la finzione non è necessario un autore?» — non si potrebbe ri­spondere apertamente: Perché? questo «è necessario» non rientra forse nella finzione? Non è dunque permesso essere alla fine un po' ironici verso il soggetto, come verso il predicato e l'oggetto? Non potrebbe il filosofo sollevarsi al di sopra della fede nella grammatica? Tutto il rispetto per le governanti: ma non sarebbe giunto il momento per la filosofia di rinuncia­re ad avere fiducia nelle governanti? —

35.

Oh, Voltaire! Oh umanità! oh, stupidità! Ha pure qualche importanza la «verità», la ricerca della «verità»; e se l'uomo agisce qui in modo troppo umano — «il ne cherche le vrai que pour faire le bien» — scommetto che non troverà nulla!

36.

Posto che null'altro ci sia «dato» come reale se non il nostro mondo di avidità e di passioni, che non possiamo scendere o salire verso nessun'altra «realtà», se non appunto la realtà dei nostri istinti — poiché pensare è solo un reciproco atteggiamento di questi istinti —: non sarebbe permesso ten­tare e chiederci se questo «dato» non sia sufficiente a comprendere sulla base di dati simili, anche il così detto mondo meccanicistico (o «materia­le»)? E non intendo come un'illusione, una «apparenza», una «rappresen­tazione» (nel senso di Berkeley e di Schopenhauer), ma come un qualcosa con lo stesso grado di realtà che hanno anche i nostri affetti, — come una forma più primitiva del mondo degli affetti, nel quale giace ancora chiuso in una possente unità tutto ciò che poi si ramifica e prende forma nel pro­cesso organico (e anche, logicamente, si assottiglia e si indebolisce —), co­me una sorta di vita istintiva, nella quale sono ancora sinteticamente con­giunte l'una all'altra tutte le funzioni organiche, con l'autoregolazione, l'assimilazione, la nutrizione, la secrezione, il metabolismo, — come una prefigurazione della vita? Infine fare questo tentativo non soltanto è per­messo, ma partendo dalla coscienza del metodo, è imposto. Non accettare molte specie di causalità, fino a quando il tentativo di fare sì che ne sia suf­ficiente una sola non sia spinto sino al limite estremo (— fino all'assurdo, se mi è concesso dirlo): questa è una morale del metodo, alla quale non si ha oggi il diritto di sottrarsi; — deriva «dalla sua definizione», come direb­be un matematico. In fin dei conti, il problema è di sapere se riconosciamo effettivamente la volontà come agente, se crediamo alla causalità della vo­lontà: se lo facciamo — e in definitiva la fede in ciò è appunto la nostra fe­de nella causalità stessa — allora dobbiamo fare il tentativo di porre ipote­ticamente la causalità delle volontà come unica. La «volontà» non può na­turalmente agire che sulla «volontà» — e non sulla «materia» (non sui «nervi» ad esempio —): insomma, dobbiamo arrischiare l'ipotesi che, ovunque vengano ammessi «effetti», la volontà agisca sulla volontà — e

Page 43: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SECONDA. LO SPIRITO LIBERO 459

che ogni avvenimento meccanico, in quanto in esso diviene attiva una for­za, sia appunto la forza della volontà, effetto della volontà. Posto infine che si riuscisse a spiegare tutta la nostra vita istintiva come la evoluzione e la ramificazione di una unica forma fondamentale tipica del volere — cioè della volontà di potenza, com'è la mia tesi; ammesso che si potessero ri­condurre tutte le funzioni organiche a questa volontà di potenza e che si trovasse in questa anche la soluzione del problema della riproduzione e della nutrizione — ed è un problema unico — ci si sarebbe con ciò procura­ti il diritto di definire chiaramente ogni forza agente come: volontà di po­tenza. Il mondo visto dall'interno, il mondo definito e designato secondo il suo «carattere intelligibile» — esso sarebbe appunto «volontà di potenza» e nulla oltre a questo. —

37.

«Come? Ciò non significa, detto alla buona: Dio è confutato, ma il dia­volo no?» Al contrario! Al contrario, amici miei! E, per il diavolo, chi vi costringe a parlare alla buona?

38.

Come infine, in tutto lo splendore dei tempi nuovi, è successo ancora con la rivoluzione francese, quella farsa orribile e, a giudicarla da vicino, superflua, nella quale tuttavia i generosi ed entusiasti spettatori di tutta l'Europa hanno letto da lontano, per tanto tempo e con tanta passione, l'interpretazione dei propri sdegni ed entusiasmi, fino a che il testo è scom­parso sotto l'interpretazione: così a una nobile posterità potrebbe accadere di fraintendere ancora una volta l'intero passato e solo così renderne forse sopportabile la vista. — O piuttosto questo non è già accaduto? Non fum­mo noi stessi — questa «nobile posterità»? E tutto ciò non è finito proprio ora, nel momento in cui.lo comprendiamo?

39.

Nessuno riterrà vera così facilmente una dottrina solo perché essa rende felice, o virtuosi: esclusi forse i cari «idealisti», che si entusiasmano per il buono, il vero, il bello e che lasciano nuotare nel loro stagno ogni sorta di multicolori, goffi e bonari desideri. Felicità e virtù non sono argomenti. Si dimentica troppo volentieri, anche da parte di spiriti illuminati, che il ren­dere felici e il rendere cattivi sono contro argomenti di peso altrettanto scarso. Una cosa potrebbe essere vera, anche se dannosa e pericolosa in sommo grado; anzi potrebbe addirittura esser parte del carattere fonda­mentale dell'esistenza, che perisca chi giunge alla perfetta conoscenza, — cosicché la forza di uno spirito si misura a seconda di quanta verità sia an­cora in grado di sopportare, o detto più chiaramente, a seconda di quanto gli sia stato necessario assottigliarla, nasconderla, addolcirla, smussarla, falsificarla. Ma non c'è alcun dubbio che al fine di scoprire determinate parti di verità i cattivi e gli infelici siano avvantaggiati e abbiano una mag­giore probabilità di successo; per non parlare dei cattivi che sono felici, — una Species che viene taciuta dai moralisti. Forse durezza e astuzia offrono condizioni più favorevoli alla nascita dello spirito forte, indipendente, e del filosofo, di quella soave, lieve, remissiva docilità e di quell'arte del prendere alla leggera, che si apprezza e con ragione, nel dotto. A condizio-

Page 44: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

460 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

ne, e questo è pregiudiziale, che non si restringa il concetto di «filosofo» al filosofo che scrive libri — o che porta nei libri la propria filosofia! Sten­dhal collabora all'immagine del filosofo dallo spirito libero con un ultimo tratto che non voglio tralasciare di sottolineare, a vantaggio del gusto tede­sco: — poiché esso va conto il gusto tedesco. «Pour ètre bon philosophe», dice quest'ultimo grande psicologo, «il faut ètre sec, clair, sans illusion. Un banquier, qui a fait fortune, a une partie du caractère requis pour faire des découvertes en philosophie, c'est-à-dire pour voir clair dans ce qui est.»

40.

Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde prova­no perfino odio per l'immagine e il simbolo. Non dovrebbe essere soprat­tutto l'opposto, il giusto travestimento nel quale avanza il pudore di un dio? Una domanda problematica: sarebbe strano, se un qualche mistico non avesse già osato un tentativo di questo genere. Esistono fatti così deli­cati che si fa bene a coprirli e a renderli irriconoscibili sotto una grossolani­tà; esistono atti d'amore e di traboccante generosità, in seguito ai quali non c'è nulla di più consigliabile che prendere un bastone e picchiare di santa ragione il testimone oculare: e con ciò offuscare la sua memoria. Al­cuni sono disposti ad offuscare e a maltrattare la propria memoria per ven­dicarsi almeno di quest'unico testimone: il pudore è ingegnoso. Non sono le cose peggiori quelle di cui ci si vergogna di più: non c'è solo malignità dietro ad una maschera — c'è tanta bontà nell'astuzia. Potrei immaginare che l'uomo, che debba nascondere qualcosa di prezioso e di fragile, rotoli attraverso la vita goffo e rotondo come una vecchia botte di vino dai cerchi pesanti: lo vuole la finezza del suo pudore. Un uomo dotato di profondo pudore incontra anche il suo destino e le decisioni difficili su strade alle quali pochi giungono e la cui esistenza non è dato conoscere al più prossi­mo e ai più fidati: i pericoli che egli corre per la sua vita si celano ai loro occhi, come la sua riconquistata sicurezza di vivere. Un essere così riserva­to, che, per istinto, si serve dei discorsi per tacere e per nascondere e che è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che nei cuori e nei cervelli dei suoi amici prenda il suo posto una maschera; e posto che egli non lo voglia, un giorno gli si apriranno gli occhi sul fatto che ciò no­nostante vi è lì una sua maschera, — e che è bene così. Ogni spirito profon­do ha bisogno di una maschera: ancor più, intorno a ogni spirito profondo cresce in continuazione una maschera, grazie all'interpretazione costante­mente falsa, e cioè piatta, di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vi­ta che da lui si esprime.

41.

Occorre provare a se stessi di essere destinati all'indipendenza e al co­mando; e al momento giusto. Non ci si deve sottrarre alle proprie prove, nonostante esse siano forse il gioco più pericoloso che si possa giocare e in definitiva prove che vengono portate solo dinnanzi a noi stessi come testi­moni e a nessun altro giudice. Non bisogna restare attaccati a una persona; sia pure la più amata, — ogni persona è una prigione, e un rifugio. Non bi­sogna restare attaccati ad una patria: sia pure la più sofferente e la più bi­sognosa di aiuto, — è già meno difficile liberare il proprio cuore da una patria vittoriosa. Non bisogna restare attaccati alla compassione: sia pure

Page 45: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SECONDA. LO SPIRITO LIBERO 461

per uomini superiori, il cui singolare martirio e abbandono un caso ci ha permesso di conoscere. Non bisogna rimanere attaccati ad una scienza: an­che se ci alletta con le più preziose scoperte, tenute in serbo, in apparenza, proprio per noi. Non bisogna restare attaccati alla propria liberazione, a quella lontananza ed estraneità piena di gioia dell'uccello che vola sempre più in alto, per allargare sempre di più lo sguardo sotto di sé: — il pericolo di chi vola. Non bisogna restare attaccati alle nostre proprie virtù e diven­tare noi stessi, nella nostra totalità, la vittima sacrificale di una qualche singola parte, per esempio del nostro «spirito d'ospitalità»: che è il perico­lo dei pericoli nelle anime nobili e ricche che trattano se stesse con prodiga­lità, quasi con indifferenza e portano la virtù della liberalità quasi fino al vizio. Bisogna sapersi difendere: massima prova di indipendenza.

42.

Si sta formando un nuovo genere di filosofi: oso battezzarli con un no­me non privo di pericoli. Così come io li intuisco, così come essi si lasciano intuire — poiché è nella loro natura il voler restare in qualche modo degli enigmi — questi filosofi del futuro potrebbero avere il diritto, forse anche il torto, di essere definiti tentatori. Questo nome stesso non è infine che un tentativo, e, se si vuole, una tentazione.

43.

Sono nuovi amici della «verità», questi filosofi che stanno giungendo? Probabilmente lo saranno: poiché tutti i filosofi hanno amato finora le proprie verità. Ma sicuramente non saranno dogmatici. Dovrebbe essere contrario al loro orgoglio e al loro gusto, che la loro verità debba essere ancora una verità per tutti: ciò che è stato finora il desiderio segreto e il senso nascosto di ogni aspirazione dogmatica. «Il mio giudizio è il mio giu­dizio: non sarà facile che su di esso anche un altro possa vantare un dirit­to» — dirà forse un tale filosofo dell'avvenire. Bisogna tenar lontano da sé il cattivo gusto di voler essere d'accordo con molti. «Bene» non è più bene, se è pronunciato dalla bocca del vicino. E come potrebbe esserci addirittu­ra un «bene comune»! La parola contraddice se stessa: ciò che può essere comune, ha sempre solo uno scarso valore. Alla fine tutto deve essere co­me è sempre stato; le cose grandi restano riservate ai grandi, gii abissi ai profondi, le cose delicate e i brividi alle anime delicate, e in parole brevi e sintetiche, le cose rare agli spiriti rari.

44.

Dopo tutto ciò devo dire ancora, appositamente, che anch'essi saranno spiriti liberi, molto liberi, questi filosofi dell'avvenire, — per quanto sia certo che non saranno solamente spiriti liberi, ma qualcosa di più, di più elevato, di più grande e fondamentalmente diverso, che non vuol essere di­sconosciuto e confuso? Ma mentre dico questo, sento verso di loro quasi come verso di noi, noi che siamo loro araldi e precursori, noi spiriti liberi! — robbligo di soffiar via da noi, insieme, un vecchio sciocco pregiudizio e malinteso, che per troppo tempo, come una nebbia, ha reso «opaco» il concetto di «spirito libero». In tutti i paesi d'Europa e anche in America, si abusa oggi da parte di qualcuno di questo nome, una sorta di spiriti molto limitati, prigionieri, in catene, che vogliono pressappoco il contrario di

Page 46: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

462 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

quanto è nelle nostre intenzioni e nei nostri istinti — per non parlare poi del fatto che riguardo a quei nuovi filosofi che stanno sopraggiungendo es­si non devono essere che finestre ben chiuse e porte sbarrate. Essi appar­tengono, per dirla in poche parole, ai livellatori, che falsamente vengono chiamati «spiriti liberi» — in quanto schiavi, eloquenti e abili nell'usare la penna, del gusto democratico e delle sue «idee moderne»: tutti quanti uo­mini senza solitudine, senza una propria solitudine, goffi onesti ragazzotti ai quali non dobbiamo negare il coraggio né onesti costumi, ma solo il fat­to appunto di non essere liberi e di essere superficiali tanto da muovere al riso, soprattutto con la loro tendenza di fondo a vedere nelle forme della vecchia società esistita sino ad oggi, la causa di ogni miseria e fallimento umano: e così la verità viene ad essere felicemente capovolta! Ciò cui essi tenderebbero con ogni loro forza è la universale verde felicità campestre delle greggi, sicura, priva di pericoli, comoda e facile per tutti; le due can­zoni e le due dottrine, che essi cantano con maggior frequenza si chiamano «parità dei diritti» e «compassione per chiunque soffra», — e la sofferenza spesso viene presa da essi come qualcosa che deve essere eliminato. Noi, fatti a rovescio, noi che abbiamo aperti gli occhi e la coscienza al problema del dove e come sia cresciuta fino ad oggi con maggior vigore la pianta «uomo», crediamo che ciò sia accaduto ogni volta in condizioni opposte, che inoltre il pericolo della sua situazione fu costretto ad aumentare in mo­do semplicemente portentoso, la sua forza inventiva e dissimulatrice (il suo «spirito») dovette svilupparsi in sottigliezza e audacia sotto una lunga coercizione e costrizione, e la sua volontà di vita dovette essere potenziata fino all'illimitata volontà di potenza — noi crediamo che durezza, prepo­tenza, schiavitù, pericoli nelle strade e nel cuore, segretezza, stoicismo, tentazioni e diavolerie di ogni tipo, che ogni malvagità, mostruosità, tiran­nia, tutto quanto vi è di rapace e di viscido nell'uomo, serva alla sua eleva­zione quanto il suo contrario — e addirittura non diciamo abbastanza, quando diciamo solo questo, e in ogni caso, con le nostre parole e i nostri silenzi su questo punto, ci ritroviamo all 'altro capo di ogni ideologia mo­derna e dei desideri del gregge: come i suoi antipodi forse? Perché stupirsi, che noi «spiriti liberi» non siamo proprio gli spiriti più comunicativi? Che non abbiamo il desiderio di svelare, sotto ogni riguardo, da che cosa uno spirito possa liberarsi, e verso cosa egli verrà poi sospinto? E per quanto ri­guarda la pericolosa formula «al di là del bene e del male» con la quale per lo meno ci difendiamo dall'essere scambiati con altri: noi siamo diversi dai «libres-penseurs, «liberi pensatori», «Freidenker» o come vogliono chia­marsi tutti questi onesti intercessori delle «idee moderne». Siamo stati di casa, o perlomeno siamo stati ospiti in molte regioni dello spirito; siamo sempre nuovamente sfuggiti dagli oscuri piacevoli cantucci nei quali pare­vano confinarci predilezioni e odi pregiudiziali, giovinezza, origine, il caso di uomini e libri, o addirittura le fatiche del vagabondaggio; pieni di catti­veria contro gli allettanti strumenti della dipendenza, che sono nascosti ne­gli onori, nel denaro, o negli impieghi, o nell'esaltazione dei sensi; grati ad­dirittura alla miseria e alla mutevole malattia, poiché sempre ci hanno libe­rato da qualsiasi regola e dal suo «pregiudizio», grati a Dio, al diavolo, al­la pecora e al verme che sono in noi, curiosi fino al vizio, indagatori fino alla crudeltà, con dita pronte all'inafferrabile, con denti e stomaco per l'indigeribile, pronti a ogni mestiere che pretenda acutezza e sensi pronti, pronti a osare tutto, grazie a un'eccedenza di «libero volere», con anime manifeste e segrete, di cui nessuno può scorgere facilmente le ultime inten­zioni, con primi piani e retroscena che nessuno potrebbe percorrere fino al-

Page 47: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SECONDA. LO SPIRITO LIBERO 463

la fine» nascosti sotto il manto della luce, conquistatori, anche se siamo si­mili agli eredi e ai dissipatori, ordinatori e collezionatori da mattina a sera, avari della nostra ricchezza e dei nostri cassetti stipati, parsimoniosi nel-l'apprendere e nel dimenticare, ingegnosi negli schemi, di quando in quan­do fieri delle nostre tavole di categorie, a volte pedanti, a volte gufi del la­voro anche in pieno giorno; e, quando è necessario anche spauracchi — e oggi è necessario: in quanto siamo sin dalla nascita amici giurati e gelosi della solitudine, la più notturna e la più meridiana: — un tal genere di uo­mini siamo noi, noi liberi spiriti! e forse ci assomigliate, voi che state giun­gendo? voi nuovi filosofi? —

Page 48: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte terza L'essere religioso

45. L'anima umana e i suoi confini, l'ampiezza raggiunta fino ad oggi dalle

più intime esperienze umane, le altezze, le profondità e le lontananze di queste esperienze, tutta la storia dell'anima che si è compiuta fino ad oggi e le sue ancora inesaurite possibilità; tutto ciò è il terreno di caccia prestabili­to per uno psicologo nato e un amante della «caccia grossa». Ma quanto spesso deve dirsi con disperazione: «Un unico! ah! solo un unico e questa grande selva, questa selva primordiale!». E così si augura qualche centi­naio di battitori e di segugi ben addestrati, da poter spingere avanti nella storia dell'anima umana, per stanare la sua selvaggina. Invano: egli esperi­menta ogni volta di nuovo, fino in fondo e amaramente, come sia difficile trovare battitori e cani per tutte quelle cose che eccitano proprio la sua cu­riosità. L'inconveniente, nell'inviare i dotti in nuovi e pericolosi territori di caccia, nei quali sono necessari coraggio, intelligenza, acutezza in ogni sen­so, sta nel fatto che essi non sono più utili proprio là dove inizia la «caccia grossa», ma anche il grande pericolo: — proprio là essi perdono il loro oc­chio e il loro fiuto di segugio. Ad esempio, per decifrare e chiarire quale storia abbia avuto sino ad oggi il problema della scienza e della coscienza nell'anima degli homines religiosi, dovremmo essere forse noi stessi così profondi, così feriti, immensi, come lo era la coscienza intellettuale di Pa­scal: e poi occorrerebbe sempre ancora quel cielo aperto di chiara, scaltra spiritualità che riesce a dominare dall'alto in basso, a ordinare, a costrin­gere in formule questo agitarsi di esperienze pericolose e dolorose. — Ma chi mi renderebbe questo servizio! Ma chi avrebbe il tempo di attendere ta­li servitori! — Essi crescono visibilmente troppo di rado, sono così invero­simili, in ogni tempo! Alla fine bisogna fare ogni cosa da sé, per sapere noi stessi qualcosa: cioè si ha molto da fare! — Ora però una curiosità come la mia resta sempre il più piacevole di tutti i vizi, — scusate! volevo dire: l'a­more per la verità ha il suo premio in cielo e anche già sulla terra. —

46.

La fede, come l'ha pretesa e non di rado l'ha ottenuta il primo cristiane­simo, in un mondo scettico e libero di spirito come lo è quello meridionale, che aveva alle spalle e dentro di sé una lotta plurisecolare fra le scuole filo­sofiche, inclusa l'educazione alla tolleranza, che gli aveva dato l'imperituri Romanum, — questa fede non è quella candida e scontrosa fede da sudditi con la quale un Lutero o un Cromwell o un qualche altro nordico barbaro dello spirito sono legati al proprio dio e al cristianesimo; ma piuttosto già la fede di Pascal, che assomiglia in maniera spaventosa a un continuo sui­cidio della ragione, — di una ragione salda, longeva, vermiforme, che non si può colpire a morte in una sola volta e con un solo colpo. La fede cristia-

Page 49: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE TERZA. L'ESSERE RELIGIOSO 465

na è fin dal principio sacrificio: sacrificio di ogni libertà, di ogni orgoglio, di ogni coscienza di sé dello spirito; e contemporaneamente assoggetta­mento e mortificazione e mutilazione di sé, vi è orrore e un atteggiamento fenicio della religiosità in questa fede che si vuole ottenere da una coscien­za esausta, multiforme e molto viziata: il suo presupposto è che la sotto­missione dello spirito è incredibilmente dolorosa, che l'intero passato e ogni consuetudine di un tale spirito si rifiutano all'' absurdissimum sotto la cui forma la «fede» si avvicina loro. Gli uomini moderni, con la loro insen­sibilità alla nomenclatura cristiana, non sono più sensibili a quanto di orri­bilmente superlativo vi era per antico gusto, nel paradosso della formula «Dio in croce». Non era esistita mai e in nessun luogo una simile audacia nel rovesciamento, nulla di così terribile, così pieno di interrogativi e pro­blematico come questa formula: essa prometteva un sovvertimento di tutti gli antichi valori. — È l'Oriente, il profondo Oriente, è lo schiavo orientale che in questo modo prende la sua vendetta su Roma e sulla sua aristocrati­ca e frivola tolleranza, del «cattolicesimo» romano della fede: — e in ogni tempo non fu la fede, ma la libertà dalla fede, quella semistoica e sorriden­te noncuranza per la serietà della fede ciò che mosse a sdegno gli schiavi verso i loro padroni, contro i loro padroni, L'«illuminismo» provoca la ri­volta: lo schiavo vuole l'illuminato, comprende solo la tirannia anche nella morale, ama come odia, senza sfumature, fin nel profondo, fino al dolore, fino alla malattia, — il suo molto nascosto soffrire si sdegna contro il gu­sto raffinato, che sembra negare la sofferenza. Lo scetticismo di fronte al dolore, in fondo solo un'attitudine della morale aristocratica, non è stato l'ultimo a contribuire al nascere dell'ultima grande rivolta degli schiavi, iniziata con la rivoluzione francese.

47.

Ovunque la nevrosi religiosa si è presentata fino ad ora sulla terra, la troviamo collegata a tre pericolose prescrizioni dietetiche: solitudine, di­giuno e castità, — senza tuttavia che qui si possa decidere con sicurezza quale ne sia la causa, quale l'effetto e se vi sia in generale un rapporto di causa ed effetto. A giustificazione di quest'ultimo dubbio sta il fatto che ai sintomi più costanti della nevrosi, tra i popoli selvaggi come tra quelli civi­li, appartiene anche la più improvvisa e sfrenata libidine la quale poi, al­trettanto improvvisamente, si capovolge in uno spasimo di espiazione e di negazione del mondo e della volontà: interpretabili forse entrambi come epilessia camuffata? Ma in nessun altro caso più che in questo dovremmo liberarci dalle interpretazioni: intorno a nessun fenomeno tipico è cresciuta fino ad oggi una tale quantità di sciocchezze e di superstizioni, nessuno fi­no ad oggi sembra aver interessato di più gli uomini e gli stessi filosofi — sarebbe ora il momento di diventare, proprio su questo punto, un po' più freddi, di imparare la prudenza, meglio ancora: di guardare oltre, di anda­re oltre. Perfino sullo sfondo della filosofia più recente, di quella schopen-haueriana, sta ancora, quasi come il problema per eccellenza, questo terri­ficante interrogativo della crisi e del risveglio religioso. Com'è possibile la negazione della volontà? com'è possibile il santo? — questo sembra essere veramente stato il problema dal quale Schopenhauer iniziò e divenne filo­sofo. E fu dunque una conseguenza veramente schopenhaueriana che il suo più convinto seguace (forse anche l'ultimo, per quanto riguarda la Germania), Richard Wagner, portasse a termine proprio in questo modo l'opera di tutta la sua vita e finisse da ultimo col rappresentare ancora sulla

Page 50: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

466 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

scena il tipo terribile ed eterno di Kundry, type vécu, in carne e ossa; in quello stesso periodo, nel quale gli psichiatri di quasi tutti i paesi europei avevano l'occasione di analizzarlo da vicino, in tutti i luoghi nei quali la nevrosi religiosa — o come io la chiamo «l'essenza religiosa» — ha fatto la sua ultima irruzione e apparizione epidemica come «esercito della salvez­za». — Se tuttavia ci si chiede che cosa propriamente, nel complesso del fe­nomeno del santo, sia stato così assolutamente interessante per gli uomini di ogni tipo e di ogni epoca, compresi i filosofi, è senza dubbio l'apparenza del miracolo che gli è connessa, cioè l'immediata successione di opposti, di condizioni dell'anima cui la morte attribuisce valori antitetici: si credeva qui di toccare con mano la possibilità che un «uomo cattivo» divenisse di un tratto un «santo» un uomo buono. Su questo punto, la psicologia, qua­le è stata fino ad ora, ha fatto naufragio e tutto ciò non dovrebbe essere ac­caduto soprattutto perché essa si era posta sotto il dominio della morale, perché essa stessa credeva nelle opposizioni morali di valore, e leggeva, ve­deva e interpretava queste opposizioni all'interno del testo e dello stato di fatto? — come? Il «miracolo» esclusivamente un errore d'interpretazione? Un difetto di filologia?

48.

Sembra che le razze latine siano legate al proprio cattolicesimo con mol­ta maggiore interiorità di quanto noi gente del nord siamo in generale lega­ti all'intero cristianesimo; e che di conseguenza l'incredulità dei paesi cat­tolici abbia un significato del tutto diverso da quello che ha nei paesi prote­stanti, — cioè in una specie di ribellione contro lo spirito della razza, men­tre da noi è piuttosto un ritorno allo spirito (o al non spirito...) della razza. Noi gente del nord discendiamo indubbiamente da razze barbare, anche per ciò che concerne la nostra disposizione alla religione: di cui siamo mal dotati. Si può far eccezione per i Celti, i quali per questo motivo hanno fornito il terreno più fertile per l'espansione, al nord, della infezione cri­stiana: — l'ideale cristiano, per quanto glielo permise il pallido sole del nord, giunse a fioritura in Francia. Quanto è strana per il nostro gusto, la devozione persino di questi ultimi scettici francesi, per quel poco di sangue celtico nella loro origine! Com'è cattolico, non-tedesco per noi l'odore del­la sociologia di Auguste Comte, con la sua logica romana degli istinti! Co­m'è gesuitico quello dell'amabile e saggio Cicerone di Port-Royal, Sainte-Beuve, nonostante la sua inimicizia verso i gesuiti! E persino Ernest Re­nan: come suona irraggiungibile per noi nordici il linguaggio di un tale Re­nan, in cui in ogni istante un nonnulla di tensione religiosa distrugge l'e­quilibrio della sua anima in un senso più sottile voluttuosa e pigra! Si ripe­tano una volta queste sue belle frasi — e malizia e tracotanza si agiterebbe­ro subito in risposta nella nostra anima probabilmente meno bella e più dura, cioè più tedesca!... — «disons donc hardiment que la religion est un produit de l'homme normal, que l'homme est le plus dans le vrai quand il est le plus religieux et le plus assuré d'une destinée infinie... C'est quand il est bon qu'il veut que la vertu corresponde à un ordre éternel, c'est quand il contemple les choses d'una manière désinteressée qu'il trouve la mort ré-voltante et absurde. Comment ne pas supposer que c'est dans ces mo-ments-là, que l'homme voit le mieux?...». Queste frasi sono così in contra­sto con le mie orecchie e le mie abitudini, che quando le scoprii il mio pri­mo moto d'ira mi fece scrivervi accanto «la niaiserie religieuse par excel-lence!» — finché l'ultimo moto d'ira le trovò persino amabili queste frasi

Page 51: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE TERZA. L'ESSERE RELIGIOSO 467

con la loro verità capovolta! È così bello, così caratterizzante, avere i pro­pri antipodi!

49.

Ciò che stupisce nella religiosità degli antichi Greci è l'illimitata pienezza di gratitudine, che da essa emana — è un genere nobilissimo di quello che sta così dinnanzi alla natura e alla vita! — più tardi, quando in Grecia la plebe prende il sopravvento, la paura arriva a soffocare anche la religione; e il cristianesimo si stava preparando.

50.

La passione di Dio: ci sono modi rozzi, ingenui e pressanti, come quelli di Lutero — tutto il protestantesimo sfugge alla delicatezza meridionale. Vi è qui un essere-al-di-fuori-di-sé orientale, come in uno schiavo graziato o innalzato senza suo merito, per esempio in Agostino, che manca in modo offensivo di nobiltà negli atteggiamenti e nei desideri. Vi è in ciò una tene­rezza e un desiderio femminile, che freme con pudore e inconsapevolmente verso una un'io mystica et physica: come in Madame de Guyon. In molti casi questa passione appare, in modo abbastanza singolare, come un trave­stimento della pubertà di una ragazza e di un giovinetto; a volte persino co­me isteria di una vecchia zitella, e anche come la sua ultima ambizione — la Chiesa ha già santificato altre volte la donna in casi simili.

51.

Finora gli uomini più potenti si sono sempre inchinati con venerazione di fronte al santo, come di fronte all'enigma del superamento di sé e del­l'ultima volontaria rinuncia: perché si inchinavano? Essi presentivano in lui — e per così dire dietro l'interrogativo del suo aspetto fragile e misero — la forza superiore che voleva sperimentare tale superamento, la forza della volontà, nella quale essi riconoscevano e sapevano di onorare la pro­pria forza e il piacere dì esercitare la sovranità: essi onoravano qualcosa di sé quando onoravano il santo. Si aggiunse a ciò che la vista del santo desta­va in loro un sospetto: un tale portento di negazione, di contro-natura non sarà stata desiderata invano. Così dicevano e si domandavano. Esiste una ragione per tutto ciò, un enorme pericolo che l'asceta, grazie ai suoi segreti consolatori e visitatori, vorrebbe indagare più da vicino? Insomma, i po­tenti della terra impararono dinnanzi a lui un nuovo timore, presentirono una nuova potenza, un nemico ignoto, non vinto ancora: — la «volontà di potenza» era ciò che li costringeva a fermarsi di fronte al santo. Essi dove­vano interrogarlo...

52.

Nell'Antico Testamento ebraico, il libro della giustizia divina, ci sono uomini, cose e discorsi descritti con uno stile così grandioso che le scritture greche e indiane non hanno nulla da contrapporgli. Ci si arresta con terro­re e riverenza di fronte a queste portentose reliquie di ciò che una volta fu l'uomo, e si medita con tristezza sulla antica Asia, e sull'Europa, la sua piccola penisola avanzata, che vorrebbe assolutamente rappresentare di fronte all'Asia il «progresso degli uomini». Certo chi non è altro che un

Page 52: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

468 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

delicato e mite animale domestico e conosce solo bisogni da animale dome­stico (come i nostri uomini colti di oggi, compresi i cristiani del cristianesi­mo «colto»...), non deve meravigliarsi, né turbarsi di fronte a quelle rovi­ne — il gusto per il Vecchio Testamento è una pietra di paragone per il «grande» e il «piccolo» —: forse egli sentirà sempre più vicino al suo cuore il Nuovo Testamento, il Libro della Grazia (in esso c'è molto dell'odore ve­ramente dolciastro e muffoso proprio dei bigotti e delle anime limitate). Aver incollato, per farne un unico libro, la Bibbia, il Libro in sé, questo Nuovo Testamento, una specie di rococò del gusto da ogni punto di vista, e il Vecchio Testamento: questa è forse la maggior impudenza e il maggior «peccato contro Io spinto» che l'Europa letteraria abbia sulla coscienza.

53.

Perché l'ateismo oggi? — In Dio «Il Padre» è radicalmente confutato; come «il giudice», «il ricompensatore». Ugualmente il suo «libero arbi­trio»: egli non ode, — e se udisse non saprebbe dare aiuto. La cosa peggio­re è che egli sembra incapace di comunicare in maniera chiara: è oscuro? Questo è quanto io sono riuscito a scoprire, con infiniti colloqui, interro­gando e ascoltando, tra le cause del decadimento del teismo europeo; mi sembra che l'istinto religioso abbia in verità una crescita poderosa — ma che esso rifiuti con profonda diffidenza proprio l'appagamento teistico.

54.

Ma cosa fa in fondo tutta la nuova filosofia? Da Descartes — e in realtà più per ostinazione verso di lui che sulla base del suo esempio — da parte di tutti i filosofi, sotto l'apparenza di una critica del concetto di soggetto e predicato, si attenta all'antico concetto di anima — cioè: si attenta al pre­supposto fondamentale della dottrina cristiana. La nuova filosofia, in quanto scepsi gnoseologica, è nascostamente o apertamente, anticristiana: nonostante che, sia detto per orecchie più acute, non sia affatto antireligio­sa. Una volta, infatti, si credeva all'«anima» come si credeva alla gramma­tica e al soggetto grammaticale: si diceva «io» è condizione, «penso» è pre­dicato e condizionato — pensare è un'attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si tentò allora, con un'astuzia e una tenacia de­gne di ammirazione, se non ci si potesse trar fuori da questa rete, se non fosse forse vero il contrario: «penso» condizione, «io» condizionato, «io» dunque solo una sintesi, che viene operata dal pensiero stesso. Kant voleva in fondo dimostrare che, partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato — neppure l'oggetto: la possibilità di un'esistenza apparente del soggetto, dunque «dell'anima», non può essergli stata sempre estranea, quel pensiero che è già esistito una volta sulla terra, con immenso potere, come filosofia dei vedanta.

55.

Esiste una grande scala della crudeltà religiosa, con molti pioli, ma tre di questi sono i più importanti. Un tempo si sacrificarono uomini al proprio Dio, forse proprio quelli che si amavano di più — come nel caso dei sacri­fici dei primogeniti, caratteristici di tutte le religioni preistoriche, e del sa­crificio dell'imperatore Tiberio nella grotta di Mitra, nell'isola di Capri, il

Page 53: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE TERZA. L'ESSERE RELIGIOSO 469

più terribile tra tutti gli anacronismi romani. Poi, nell'epoca morale dell'u­manità, si sacrificarono al proprio Dio gli istinti più forti che si possedeva­no, la propria «natura»; questa gioia solenne brilla nell'occhio crudele del­l'asceta; dell'uomo entusiasticamente «contronatura». Cosa rimane anco­ra, infine, da sacrificare? Non si dovette alla fine sacrificare una buona volta tutto quanto vi è di consolante, di santo, di risanatore, ogni speran­za, ogni fede in una segreta armonia, in future beatitudini e giustizie? Non si dovette sacrificare Dio stesso e, per crudeltà verso di sé, adorare la pie­tra, la stupidità, la pesantezza, il destino, il nulla? Sacrificare Dio per il nulla — questo paradossale mistero della estrema crudeltà rimase riservato alla generazione che appunto ora sta avanzando, noi tutti ne sappiamo già qualcosa.

56.

Chi come me, si è sforzato a lungo di pensare il pessimismo in tutta la sua profondità, con una specie di enigmatica avidità, e di liberarlo dell'an­gustia e dall'ingenuità, metà cristiana e metà tedesca con la quale esso di recente si è manifestato in questo secolo, cioè nella forma della filosofia schopenhaueriana; chi realmente, con occhio asiatico e più che asiatico, ha guardato una volta dentro e sotto questa attitudine del pensiero, quella più di ogni altra negatrice del mondo, — al di là del bene e del male e non più come Budda e Schopenhauer nell'illusione e nell'incanto della morale, — costui con ciò, senza proprio volerlo, ha forse aperto gli occhi sull'ideale opposto: l'ideale dell'uomo più arrogante, più vitale, più affermatore del mondo, che non solo ha imparato ad adattarsi e a sopportare ciò che fu ed è, ma vuole riaverlo così come esso fu ed è, per tutta l'eternità, gridando instancabilmente da capo, non rivolgendosi soltanto a sé, ma all'intero dramma e spettacolo, e non solo a uno spettacolo, ma in fondo a quello, al quale questo spettacolo è necessario — e che lo rende necessario: poiché ha sempre nuovamente bisogno di sé — e si rende necessario — Come? E que­sto non sarebbe — circulus vitiosus deus!

57.

Con la potenza del suo sguardo e della sua penetrazione intellettuale au­menta la lontananza e, per così dire, lo spazio intorno all'uomo: il suo mondo diventa più profondo, sempre nuovi astri, sempre nuovi misteri e immagini gli diventano visibili. Forse tutto ciò su cui l'occhio dello spirito ha esercitato la sua acutezza e la sua capacità di penetrazione di pensiero era appunto solo un pretesto per il suo esercizio, un gioco, qualcosa per i fanciulli e per anime fanciullesche. Forse un giorno i concetti più gravi, quelli per i quali si è lottato e sofferto, i concetti di «Dio» e di «peccato» non ci sembreranno più importanti di quanto appaia a un vecchio un gio­cattolo e un dolore infantile — e forse allora «il vecchio» sentirà di nuovo il bisogno di un nuovo giocattolo e di un nuovo dolore, sempre ancora ab­bastanza bambino, un eterno bambino!

58.

Si è mai osservato quanto sia necessario, per una vita realmente religiosa (e tanto per il suo microscopico e prediletto lavoro che è l'esame di sé, quanto per quella dolce pacatezza che si chiama «preghiera» e che è una

Page 54: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

470 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

continua preparazione air«avvento di Dio» —), l'ozio esteriore o quello stato di quasi ozio, intendo l'ozio con tranquilla coscienza, di lontana ori­gine, innato, al quale non è del tutto estraneo il sentimento aristocratico che il lavoro porti disonore — svilisca cioè l'anima e il corpo? E che, di conseguenza, la moderna, chiassosa operosità che sa sfruttare il tempo, or­gogliosa di sé, stupidamente orgogliosa di sé, educhi e prepari, più di ogni altra cosa all'«incredulità»? Tra coloro che, ad esempio, nella Germania d'oggi, vivono lontani dalla religione, vedo uomini che offrono i più vari tipi ed origini di «libero pensiero», ma soprattutto vedo che alla gran parte di loro l'operosità ha soffocato, di generazione in generazione, gli istinti religiosi: cosicché essi non sanno più a che cosa servono le religioni e regi­strano, per così dire, la loro presenza nel mondo con una specie di opaco stupore. Si sente già abbondantemente assorbita dai propri affari e dai propri piaceri, questa brava gente, senza parlare della «patria» e dei gior­nali e dei «doveri di famiglia»: pare che essi non abbiano più tempo per la religione e principalmente che sia loro poco chiaro se, in questo caso, si tratta di un nuovo affare o di nuovo piacere — poiché è impossibile — essi dicono — andare in chiesa soltanto per perdere il buonumore. Essi non so­no nemici dei riti religiosi; e se in determinati casi lo Stato esige che essi prendano parte a tali riti, essi fanno ciò che si pretende, come si fanno tan­te cose —, con una serietà paziente e modesta e senza molta curiosità e ma­lessere — essi vivono, appunto, troppo in disparte e sono troppo al di fuo­ri, per sentire in sé la necessità anche solo di essere prò o contro in tali que­stioni. A questi indifferenti appartiene oggi la maggioranza dei protestanti tedeschi dei ceti medi, soprattutto nei grandi e laboriosi centri del commer­cio e del traffico; e così pure la maggioranza degli scienziati operosi e tutti quanti fan parte delle università (esclusi i teologi la cui esistenza e possibili­tà, in questi luoghi, è per lo psicologo un enigma sempre più frequente e più difficile da risolvere). Raramente gli uomini pii o anche soltanto prati­canti possono farsi un'idea di quanta buona volontà, potremmo dire vo­lontà spontanea, sia oggi necessaria a uno scienziato tedesco per prendere sul serio il problema religioso: per il suo lavoro (e come si è detto, per la la­boriosità artigianale alla quale lo costringe la sua coscienza di uomo mo­derno) è predisposto a una superiore, quasi bonaria, giovialità, verso la re­ligione, alla quale si mescola talvolta una lieve disistima per quella «sordi­dezza» spirituale, che egli presuppone onnipresente ovunque ci si riconosca ancora nella Chiesa. Solo con l'aiuto della storia (e dunque non con l'espe­rienza personale), il dotto riesce a considerare la religione con una riveren­te serietà e con un certo rispetto; ma anche se egli avesse innalzato il suo sentimento addirittura alla riconoscenza, egli non si sarebbe avvicinato neppure di un passo a quello che ancora sussiste come Chiesa o devozione religiosa: forse il contrario. La indifferenza pratica verso le cose religiose, nella quale egli è nato ed è stato educato, è solita sublimarsi, in lui, nella cautela e nella pulizia, che evita il contatto con uomini e cose religiose; e può essere addirittura la profondità della sua tolleranza e della sua umani­tà che gli fa evitare quei sottili stati di crisi interiore che proprio la tolleran­za comporta. — Ogni tempo ha la sua particolare divina specie di ingenui­tà, la scoperta della quale può essergli invidiata da altre epoche — e quanta ingenuità, degna di stima, infantile e illimitatamente goffa, c'è in questa fede del dotto, nella propria superiorità, nella tranquilla coscienza della sua tolleranza, nella sicurezza semplice e sincera, con cui istintivamente tratta l'uomo religioso come un tipo inferiore e minorato che egli ha oltre­passato dal quale si è allontanato e che ha superato, — lui, il piccolo nano

Page 55: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE TERZA. L'ESSERE RELIGIOSO 471

petulante, il plebeo, questo svelto e zelante lavoratore che opera con il braccio e la mente nel campo delle «idee», le «idee moderne».

59. Chi ha guardato profondamente nel mondo indovina bene quale saggez­

za vi sia, nella superficialità degli uomini. L'istinto di conservazione inse­gna loro ad essere mutevoli, leggeri e falsi. Nei filosofi e negli artisti si tro­va qua e là un'appassionata ed esagerata adorazione delle «forme pure»: nessuno può dubitare che chi ritiene necessario a questo modo il culto del superficiale, può, qualche volta, aver fatto un infelice tentativo di andare in profondità. E forse c'è persino una gerarchia di questi fanciulli bruciati, di questi artisti nati, che trovano ancora il piacere della vita solo nell'inten­zione di falsificare la sua immagine (per così dire in una lunga e complicata vendetta contro la vita): si potrebbe dedurre il grado di disgusto che la vita ispira loro dalla misura in cui essi desiderano veder falsificata, assottiglia­ta, proiettata nel trascendente, divinizzata la sua immagine, — si potrebbe­ro collocare gli homines religiosi nel numero degli artisti, come grado più elevato della loro gerarchia. È il profondo e sospettoso timore di fronte a un pessimismo insanabile che costringe interi millenni a conficcare i denti in un'interpretazione religiosa dell'esistenza; la paura di quell'istinto, che teme che si possa giungere troppo presto alla verità, prima che l'uomo sia divenuto abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista... La de­vozione, la «vita in Dio», guardate con questo occhio apparirebbero come l'ultima e la più raffinata creazione del timore di fronte alla verità, come adorazione ed ebbrezza dell'artista di fronte alla più coerente di tutte le falsificazioni, come volontà di capovolgimento della verità, volontà di non verità a qualsiasi prezzo. Forse non c'è stato fino ad oggi nessuno strumen­to più efficace per abbellire l'uomo stesso, se non appunto la devozione: per suo mezzo l'uomo può divenire a tal punto arte, superficie, giuoco di colori, bontà, da non far soffrire più alla sua vista.

60.

Amare l'uomo per amore di Dio — questo è stato, fino ad oggi, il senti­mento più nobile e più lontano che sia stato raggiunto tra gli uomini. L'a­more per l'uomo, senza un qualche santificante scopo segreto, è una scioc­chezza e una bestialità in più, la propensione a questo amore degli uomini deve ricevere la sua misura, la sua finezza, il suo granello di sale e la sua polvere d'ambra solo da un'inclinazione superiore — chiunque sia stato l'uomo che per primo ha sentito e «ha vissuto» tutto questo, per quanto abbia incespicato, quando tentò di esprimere una tale tenerezza, egli rimar­rà per noi in tutti i tempi santo e degno di venerazione, in quanto l'uomo che ha volato più in alto finora e si è sviato nel modo più bello!

61.

Il filosofo come noi lo intendiamo, noi spiriti liberi —, come l'uomo dalla più varia responsabilità, che ha coscienza per il completo sviluppo dell'umanità: questo filosofo si servirà delle religioni per la sua opera di educazione e di disciplina culturale, allo stesso modo con cui si servirà del­ie condizioni politiche ed economiche del suo tempo. L'influenza selettiva, formatrice cioè, tanto distruttiva quanto creativa e formativa, che può ve-

Page 56: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

472 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

nire esercitata con l'aiuto delle religioni, è molteplice e diversa a seconda del tipo di uomini che vengono posti sotto il loro potere e la loro protezio­ne. Per i forti, gli indipendenti, pronti e predestinati al comando, nei quali prendono corpo la ragione e l'arte di una razza dominatrice la religione è un mezzo in più per superare gli ostacoli, per poter regnare: come una cate­na che unisce dominatori e sudditi e svela e consegna ai primi la coscienza degli ultimi, quanto vi è in loro di più segreto e più intimo che sfuggirebbe volentieri all'obbedienza; e se alcuni di questi individui di così nobile origi­ne fossero propensi, per la loro alta spiritualità, a una vita più ritirata e contemplativa e si riservassero il carattere più raffinato del dominio (quel­lo esercitato sui discepoli o i confratelli prescelti), allora la religione stessa potrebbe venire impiegata come mezzo per procurarsi la pace tra il rumore e la fatica imposti dalla grossolanità del governare, nonché la purezza di fronte al necessario sudiciume di ogni politica attiva. Lo compresero per esempio i bramini: con l'aiuto di un'organizzazione religiosa essi si attri­buirono il potere di nominare i re del loro popolo, mentre essi stessi si sen­tivano e si tenevano in disparte e al di fuori, in quanto uomini con compiti più alti e superiori a quelli di un re. Nel frattempo la religione serve da gui­da anche a una parte dei dominati e offre loro l'occasione di prepararsi al futuro governo e al comando, a quelle classi cioè e a quei ceti che stanno lentamente salendo e nei quali, grazie a felici costumi matrimoniali, la for­za e il piacere della volontà, la volontà di autodominio, va crescendo in continuazione — per loro la religione costituisce uno stimolo e una tenta­zione sufficienti per percorrere il cammino — di una superiore spiritualità, per mettere alla prova i sentimenti del grande autosuperamento, del silen­zio e della solitudine — ascetismo e puritanesimo sono strumenti di educa­zione e nobilitazione quasi indispensabili, per una razza che vuol vincere la sua origine plebea ed elevarsi al futuro dominio. Agli uomini comuni, infi­ne, alla maggior parte, che esistono per servire e per l'utilità generale e sol­tanto per questo possono esistere, la religione offre l'inestimabile capacità di accettazione della loro situazione e del loro modo di essere, la molteplice pace dell'anima, una nobilitazione dell'obbedienza, una maggiore comu­nanza di felicità e dolore con i loro simili e una specie di trasfigurazione e di abbellimento, qualcosa come la giustificazione dell'intera quotidianità, dell'intera bassezza, di tutta la povertà semi-bestiale della loro anima. La religione e il valore religioso della vita gettano una luce solare su questi uo­mini tormentati e rendono loro sopportabile persino la propria vista; essa esercita, come la filosofia epicurea lo esercita di solito sui sofferenti di ran­go superiore, un influsso ristoratore, che affina, che si serve per così dire della sofferenza santificandola infine e giustificandola. Forse non c'è (nel cristianesimo e nel buddismo) nulla di più degno di stima della loro abilità di insegnare ai più umili a collocarsi, con la devozione, in un apparente or­dine superiore delle cose, e a conservare così la loro accettazione dell'ordi­ne reale, nel quale esse conducono una vita dura — e proprio questa durez­za è necessaria! —

62.

Indubbiamente, infine, per fare anche il riscontro negativo e mettere in luce la loro sinistra pericolosità, bisogna dire che si paga sempre a caro prezzo e in modo terribile il fatto che le religioni non siano strumenti di educazione e di evoluzione nelle mani dei filosofi, ma governino da sole e con poteri sovrani, e che vogliono essere il fine ultimo e non strumenti ac-

Page 57: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE TERZA. L'ESSERE RELIGIOSO 473

canto ad altri strumenti. V'è tra gli uomini, come in ogni altra specie di animale, una eccedenza di tarati, di malati, di degenerati, di fragili, di ne­cessariamente sofferenti; i casi riusciti, anche tra gli uomini, sono sempre l'eccezione, e persino, tenendo presente il fatto che l'uomo è l'animale non ancora definitivamente accertato, un'eccezione rara. Ma v'è ancora di peg­gio; più è elevato il tipo che un certo uomo rappresenta, più cresce l'impro­babilità che egli riesca: il caso, la legge dell'assurdo nell'economia generale dell'umanità si mostra nel modo più terribile, nel suo effetto più distrutti­vo sugli uomini superiori, le cui condizioni di vita sono delicate, multifor­mi e difficili da calcolare. Come si comportano ora le due suddette mag­giori religioni di fronte a questo eccesso di casi falliti? Esse cercano di con­servare, di tenere in vita ciò che in qualche modo si può conservare, anzi, si schierano per principio dalla loro parte, in quanto religioni dei sofferenti, danno ragione a tutti coloro che soffrono della vita come di una malattia, e vorrebbero far sì che ogni altro sentimento della vita fosse sentito come falso e impossibile. Per quanto si voglia tenere in buon conto questa cura attenta e provvida in quanto essa è stata ed è di giovamento, oltre che a tutti gli altri, anche al più alto, fino ad oggi quasi sempre anche il più sof­ferente, tipo umano: alla resa dei conti le religioni esistenti fino ad oggi, cioè le religioni sovrane, sono tra le cause principali che mantennero il tipo «uomo» ad un livello inferiore, — esse conservarono troppo di ciò che do­veva andar perduto. Bisogna esser loro riconoscenti per qualcosa di inesti­mabile; e chi ha in sé tanta riconoscenza, da non diventar povero dinanzi a tutto ciò che, ad esempio, i «sacerdoti» del cristianesimo hanno fatto fino ad oggi per l'Europa? e tuttavia, se diedero conforto ai sofferenti, corag­gio agli oppressi e ai disperati, un bastone e un sostegno a chi ne aveva bi­sogno, e attirarono lontano dalla società, nei conventi e nelle carceri dell'a­nima coloro che erano intimamente distrutti e si erano inselvatichiti: che cosa dovettero fare, oltre a ciò, per lavorare con tranquilla coscienza, in modo così basilare, alla tutela di tutto ciò che è malato e sofferente, cioè nei fatti e in verità, al deterioramento della razza europea. Capovolgere ogni misura di valore — questo dovettero fare! e distruggere i forti, infet­tare le grandi speranze, rendere sospetta la felicità nella bellezza, piegare ogni sovranità, virilità, spirito di conquista, avidità di potere, ogni istinto proprio al «tipo umano» più alto e meglio riuscito, per mutarlo in insicu­rezza, in angoscia della coscienza, in autodistruzione, tramutare in odio tutto l'amore per ciò che è terreno e per il dominio sulla terra, in odio con­tro la terra e il terreno — questo si prefisse e dovette prefiggersi la Chiesa come compito, finché ai suoi occhi si fusero insieme in un unico sentimen­to la «rinuncia al mondo», la «rinuncia alla sensualità» e «l'uomo superio­re». Posto che si potesse dominare, con l'occhio sarcastico e indifferente di un dio epicureo, la commedia meravigliosamente dolorosa e insieme rozza e sottile del cristianesimo europeo, io credo che non finiremmo più di stu­pirci e di ridere: non sembra infatti che solo la volontà di trasformare l'uo­mo in un sublime aborto abbia dominato l'Europa per diciotto secoli? Ma se con opposte esigenze, non più da epicureo, ma con un divino martello nella mano, ci si avvicinasse a questa quasi arbitraria degenerazione e a questa atrofia dell'uomo, che sono proprie dell'europeo cristiano (di Pa­scal, per esempio), non si dovrebbe gridare con rabbia, pietà e orrore: «O voi sciocchi, arroganti, compassionevoli sciocchi, che cosa avete fatto!! Era questo un lavoro per le vostre mani! Come avete sfregiato e guastato la mia pietra più bella! Che cosa vi siete permessi, voi!». — Volevo dire: il cri­stianesimo è stato fin ad oggi la più fatale specie di arroganza. Uomini non

Page 58: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

474 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

abbastanza grandi né abbastanza duri per poter dare, da artisti, forma al­l'uomo; uomini non abbastanza forti né lungimiranti da far valere, con un sublime superamento di sé, la legge primària dei mille e mille fallimenti e naufragi; uomini non abbastanza nobili da vedere la profondità delle di­verse gerarchie e dell'abisso tra uomo e uomo — questi uomini, con la loro «uguaglianza di fronte a Dio», hanno dominato fino ad oggi le sorti del­l'Europa, finché si è giunti ad allevare una specie rimpicciolita, quasi ridi­cola, un animale che vive in branco, arrendevole, malaticcio e mediocre, l'europeo di oggi...

Page 59: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte quarta Aforismi e intermezzi

63.

Chi è maestro da cima a fondo prende sul serio solo le cose che riguarda­no i suoi allievi, — perfino se stesso.

64.

«La conoscenza per amore della conoscenza» questo è l'ultimo tranello che la morale ci tende: così, ancora una volta, vi siamo completamente coinvolti.

65.

Il fascino della conoscenza sarebbe minimo se sulla sua strada non do­vessimo superare tanta vergogna.

65a.

Si è estremamente disonesti verso il proprio Dio: egli non può peccare!

66.

La tendenza a screditarsi, a lasciarsi derubare, ingannare, e sfruttare po­trebbe essere il pudore di un Dio tra gli uomini.

67.

L'amore per uno solo è una barbarie, poiché essa viene esercitata a sca­pito di tutti gli altri. Anche l'amore verso Dio.

68.

«Ho fatto questo» dice la mia memoria. «Non posso aver fatto questo» — dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine — è la memoria a ce­dere.

69.

Si è osservata male la vita se non si è vista anche la mano, che, dolce­mente — uccide.

Page 60: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

476 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

70.

Quando si ha carattere, si ha anche una propria tipica esperienza, che si ripete sempre.

71.

Il saggio come astronomo. — Fino a che continuerai a sentire le stelle ancora come cosa «al di sopra di te», ti mancherà lo sguardo dell'uomo che possiede la conoscenza.

72-Non la forza, ma la costanza di un alto sentimenti fa gli uomini superio­

ri.

73.

Chi raggiunge il proprio ideale, proprio con ciò lo oltrepassa.

73a.

I pavoni nascondono a volte agli occhi di tutti la loro ruota — e ciò è la loro superbia.

74.

Un uomo di genio è insopportabile, se non ha almeno altre due qualità: gratitudine e purezza.

75.

Grado e natura della sessualità di un uomo si estendono sino al vertice ultimo del suo respiro.

76.

In tempo di pace l'uomo guerriero si accanisce contro se stesso.

77.

I propri princìpi servono a tiranneggiare o giustificare o onorare o vitu­perare o nascondere le proprie abitudini: — due uomini con gli stessi prin­cìpi vogliono probabilmente nonostante ciò qualcosa di fondamentalmente diverso.

78.

Chi disprezza se stesso, si apprezza tuttavia sempre ancora come disprez-zatore.

Page 61: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUARTA. AFORISMI E INTERMEZZI 477

79. Un'anima che si sa amata, ma che non sa amare, rivela la propria feccia

— ciò che vi è di più basso viene in superficie.

80.

Una cosa che si chiarisce, smette di interessarci. — Cosa voleva dire quel Dio che suggerì: «Conosci te stesso!». Voleva forse dire: «Smetti di inte­ressarti a te stesso! diventa obiettivo!». E Socrate? — E l'«uomo scientifi­co»?

81.

È terribile morire di sete nel mare. Dovete proprio mettere tanto sale nel­la vostra verità, così che non possa più spegnere la sete?

82.

«Pietà per tutti» — sarebbe durezza e tirannia per te, mio signor vicino! —

83.

L'istinto. — Quando la casa è in fiamme si dimentica persino il pranzo. — Sì: ma lo si va a riprendere nella cenere.

84.

La donna impara a odiare nella misura in cui disimpara ad affascinare.

85.

Le medesime passioni hanno nell'uomo e nella donna un ritmo diverso: perciò uomo e donna continuano a fraintendersi.

86.

Proprio le donne hanno, nel fondo della loro vanità personale, ancor sempre un loro impersonale disprezzo — per «la donna».

87.

Cuore legato, spirito libero. — Se si incatena strettamente il prorio cuo­re e lo si tiene prigioniero, si possono concedere al proprio spirito molte li­bertà: l'ho già detto una volta. Ma non mi si crede, posto che non lo si sap­pia già...

88.

Si comincia a diffidare delle persone molto prudenti, quando appaiono imbarazzate.

Page 62: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

478 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

89.

Esperienze terribili ci fanno riflettere se non sia per caso terribile colui che le ha vissute.

90.

Uomini gravi, malinconici diventano più leggeri e salgono a volte alla superficie proprio a causa di ciò che rende gravi altri, a causa dell'amore e dell'odio.

91.

Così freddo, così glaciale che su di lui ci si brucia le dita! Ogni mano che lo tocca inorridisce! E appunto per questo molti lo credono ardente.

92.

Chi non si è già una volta sacrificato per il suo buon nome? —

93.

Nell'affabilità non vi è odio per gli uomini, ma appunto perciò fin trop­po disprezzo.

94.

Maturità dell'uomo: cioè aver ritrovato la serietà che da bambini si met­teva nel gioco.

95.

Vergognarsi della propria immoralità: è un gradino della scala in cima alla quale ci si vergogna anche della propria moralità.

96.

Ci si deve separare dalla vita come Odisseo si separò da Nausicaa — più benedicendo che amando.

97:

Come? un grand'uomo? Io vedo sempre solo l'attore del suo ideale.

98.

Se si ammaestra la propria coscienza essa ci bacia mentre morde.

99.

Parla il deluso. — «Ho ascoltato per udire l'eco e ho sentito solo lodi.»

Page 63: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUARTA. AFORISMI E INTERMEZZI 479

100. Davanti a noi stessi ci rappresentiamo più semplici di quanto non siamo:

così ci riposiamo dei nostri simili.

101.

Oggi il sapiente vorrebbe sentirsi come Dio che si fa bestia.

102.

Scoprire l'amore ricambiato dovrebbe veramente far rinsavire l'amante sul conto dell'essere amato. «Come? È tanto modesto da amare perfino te? o tanto stupido? o — o —.»

103.

Il pericolo della felicità. — «Ora tutto torna da andare per il meglio, amo oramai ogni destino: — chi vuol essere il mio destino?»

104.

Non il loro amore per gli uomini, ma l'impotenza del loro amore per gli uomini impedisce ai cristiani di oggi di — mandarci al rogo.

105.

Allo spirito libero, al «devoto della conoscenza» — la pia fraus ripugna ancor più (è più contraria alla sua «devozione») che la impia fraus. Da ciò la sua profonda incomprensione verso la Chiesa, — che è la sua non libertà — poiché egli appartiene al tipo di «spirito libero».

106.

Grazie alla musica le passioni godono di se stesse.

107.

Una volta deciso bisogna chiudere le orecchie anche al migliore degli ar­gomenti opposti, questo è un segno di forte carattere. Dunque un'occasio­nale volontà di stupidità.

108.

Non esistono fenomeni morali, ma solo un'interpretazione morale dei fenomeni...

109.

Il delinquente molto spesso non è all'altezza della sua azione: egli la ri­duce e la denigra.

Page 64: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

480 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

110. Gli avvocati di un delinquente sono di rado abbastanza artisti da volgere

il bell' orrore dell'azione a profitto del suo autore.

111.

La nostra vanità è più duramente offesa proprio quando è stato appunto il nostro orgoglio ad essere ferito.

112.

Chi si sente predestinato alla contemplazione e non alla fede, trova tutti i credenti troppo rumorosi e pressanti: si tiene lontano da loro.

113.

«Vuoi sedurlo? Mostrati imbarazzato di fronte a lui.»

114.

L'enorme aspettativa riguardo all'amore sessuale e la vergogna per que­sta aspettativa rovinano sin dall'inizio alle donne ogni prospettiva.

115.

Dove non concorrono amore e odio, la donna gioca mediocremente.

116.

Le grandi epoche della nostra vita sono quelle nelle quali troviamo il co­raggio di ribattezzare il nostro male come la cosa per noi migliore.

117.

La volontà di superare una passione alla fine non è che una volontà di un'altra o di parecchie passioni.

118.

C'è un'innocenza dell'ammirazione: la possiede chi non ha mai pensato di non poter essere anch'egli una qualche volta ammirato.

119.

Il disgusto di fronte al sudiciume può essere tanto grande da impedirci di purificarci, — di «giustificarci».

120.

La sensualità spesso affretta la crescita dell'amore così che la radice ri­mane debole e facile da strappare.

Page 65: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUARTA. AFORISMI E INTERMEZZI 481

121.

Fu raffinato Dio, che imparò il greco quando volle diventare scrittore — e che non lo imparò meglio.

122.

Rallegrarsi di una lode è per molti solo una cortesia del cuore — e pro­prio il contrario di una vanità dello spirito.

123.

Anche il concubinato è stato corrotto: — dal matrimonio.

124.

Chi esulta ancora sul rogo non trionfa sul dolore, ma sul fatto di non sentire alcun dolore lì dove se lo aspettava. Un'allegoria.

125.

Quando dobbiamo cambiare opinione su qualcuno allora gli facciamo pagare duramente il disagio che così ci procura.

126.

Un popolo è la disgressione della natura per giungere a sei, sette grandi uomini. — Sì: e poi per aggirarli.

127.

Per tutte le vere donne la scienza va contro il pudore. Si sentono come se volessero guardar loro sotto la pelle — ancor peggio! sotto le vesti e gli or­namenti.

128.

Quanto più astratta è la verità che vuoi insegnare tanto più devi sedurre a lei anche i sensi.

129.

Il diavolo ha verso Dio la visuale più ampia, perciò si tiene così lontano da lui — il diavolo, cioè il più vecchio amico della conoscenza.

130.

Un uomo comincia a pelesarsi per quello che è quando il suo talento di­minuisce, — quando egli smette di mostrare ciò chepwd. Il talento è anche un ornamento: un ornamento è anche un nascondiglio.

Page 66: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

482 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

131.

I sessi si illudono l'uno a proposito dell'altro: ciò fa sì che essi amino e onorino in fondo solo se stessi (o il proprio ideale, per dirla in modo più garbato —). Così l'uomo vuole la donna mansueta, — ma proprio la don­na è essenzialmente inquieta, come la gatta, per quanto si sia esercitata a mostrarsi mansueta.

132.

Si vieni puniti soprattutto per le proprie virtù.

133.

Chi non sa trovare la strada per il proprio ideale, vive con maggiore noncuranza e sfrontatezza dell'uomo senza ideali.

134.

In primo luogo dai sensi viene ogni cosa degna di fede, ogni buona co­scienza, ogni aspetto della verità.

135.

II fariseismo non è una corruzione dell'uomo: buona parte di esso è piut­tosto la condizione di ogni esser-buono.

136.

L'uno cerca un ostetrico per i suoi pensieri, l'altro uno da poter aiutare: così nasce un buon dialogo.

137.

Frequentando i dotti e gli artisti ci si sbaglia facilmente nella direzione opposta: dietro a un dotto straordinario si trova non di rado un uomo me­diocre e dietro un artista mediocre si trova spesso perfino — un uomo ve­ramente straordinario.

138.

Lo facciamo nella veglia come nel sonno: prima inventiamo e immagi­niamo l'uomo con il quale trattiamo e subito lo dimentichiamo.

139.

Nella vendetta e nell'amore la donna è più barbarica dell'uomo.

140.

Consiglio come enigma. — «Perché il legame non si spezzi — devi prima morderlo.»

Page 67: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUARTA. AFORISMI E INTERMEZZI 483

141.

Il bassoventre è la causa per la quale l'uomo non può credersi tanto fa­cilmente un dio.

142.

La frase più casta che io abbia mai sentito: «Dans le véritable amour, c'est l'àme qui enveloppe le corps».

143.

Ciò che facciamo meglio, proprio questo la nostra vanità vorrebbe che fosse ciò che facciamo con più difficoltà. Per l'origine di alcune morali.

144.

Quando una donna ha tendenze dotte, di solito qualcosa non è in ordine nella sua sessualità. Già la sterilità dispone a una certa virilità del gusto; l'uomo è cioè, con vostro permesso, «l'animale sterile».

145.

Paragonati nel complesso uomo e donna, possiamo dire: la donna non avrebbe il genio dell'ornamento se non avesse l'istinto del suo ruolo secon­dario.

146.

Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare con ciò un mo­stro. E se guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso guarderà in te.

147.

Da vecchie novelle fiorentine, inoltre — dalla vita: buona femmina e mala femmina vuol bastone. Sacchetti, Nov. 86.

148.

Sedurre il prossimo a una buona opinione e poi credere con credulità a questa opinione del prossimo: chi è più abile delie donne in questo pezzo di bravura?

149.

Ciò che sembra un male a un'epoca, è solitamente un contraccolpo inat­tuale dì ciò che un tempo fu sentito come buono, — l'atavismo di un anti­co ideale.

150.

Intorno all'eroe tutto diventa tragedia, intorno al semidio tutto diventa satira e intorno a Dio tutto diventa — cosa? «mondo» forse?

Page 68: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

484 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

151.

Avere talento non è sufficiente: bisogna avere anche il permesso da parte vostra, — come? amici miei?

152.

«Dov'è l'albero della conoscenza c'è sempre il paradiso»: così parlano i serpenti più vecchi e i più giovani.

153.

Ciò che si fa per amore lo si fa sempre al di là del bene e del male.

154.

L'eccezione, il cambiar discorso, l'allegra diffidenza, il piacere della bef­fa sono segni di buona salute: ogni assoluto appartiene alla patologia.

155.

Il senso del tragico cresce e diminuisce con la sensualità.

156.

La demenza è rara nei singoli, — ma è la regola nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche.

157.

Il pensiero del suicidio è un efficace strumento di consolazione: con esso si superano bene molte cattive notti.

158.

AI nostro istinto più forte, al tiranno che è in noi si sottomette non solo la nostra ragione, ma anche la nostra coscienza.

159.

Si deve contraccambiare il bene e il male: ma perché proprio alla perso­na che ci ha fatto il bene o il male?

160.

Non si ama più la propria conoscenza, quando si comincia a comunicar­la.

161.

I poeti non hanno il pudore delle proprie esperienze: le sfruttano.

Page 69: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUARTA. AFORISMI E INTERMEZZI 485

162. «Il nostro prossimo non è il nostro vicino, ma il vicino del vicino» —

Questo pensa ogni popolo.

163.

L'amore porta alla luce le qualità elevate e nascoste di un amante — ciò che vi è in lui dì raro e di eccezionale: e così esso trae facilmente in inganno su ciò che in lui costituisce la regola.

164.

Gesù disse ai suoi Giudei: «La legge era fatta per i servi, — amate Dio come io lo amo, come suo figlio! che importa della morale a noi figli di Dio!».

165.

Di fronte a ogni partito — a un pastore occorre sempre anche una peco­ra guida, — o, altrimenti, dovrà farsi pecora lui stesso.

166.

Si può mentire con la bocca; ma con l'espressione che si ha in quel mo­mento si dice pur sempre la verità.

167.

Negli uomini duri i sentimenti appartengono al pudore, — e sono una cosa preziosa.

168.

Il cristianesimo fece bere a Eros il veleno: — in realtà egli non ne morì, ma degenerò in vizio.

169.

Parlare molto di sé può anche essere un modo per nascondersi.

170.

Nella lode c'è più invadenza che nel biasimo.

171.

Nell'uomo della conoscenza la compassione provoca quasi il riso, come le mani delicate in un Ciclope.

Page 70: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

486 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

172.

Talvolta per amore degli uomini si abbraccia il primo venuto (poiché non si possono abbracciare tutti gli uomini): ma è proprio ciò che non si può rivelare al primo venuto...

173.

Non si odia finché la stima è ancora poca, ma solo quando si stima qual­cuno come uguale o superiore.

174.

Voi utilitaristi, anche voi amate ogni utile solo come veicolo delle vostre inclinazioni, — anche voi in verità trovate insopportabile il rumore delle sue ruote?

175.

Infine si ama il proprio desiderio e non la cosa desiderata.

176.

La vanità altrui va contro il nostro gusto solo quando va contro la no­stra vanità.

177.

Forse nessuno è stato ancora abbastanza sincero su ciò che è «veracità».

178.

Non si crede alle follie degli uomini prudenti: quale perdita per i diritti dell'uomo!

179.

Le conseguenze delle nostre azioni ci prendono per i capelli, completa­mente indifferenti al fatto che nel frattempo noi ci siamo «migliorati».

180.

C'è un'innocenza nella menzogna che è il segno della buona fede in una cosa.

181.

È disumano benedire lì dove uno viene maledetto.

182.

La familiarità del superiore irrita, perché non può essere ricambiata.

Page 71: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUARTA. AFORISMI E INTERMEZZI 487

183. «Non che tu mi abbia ingannato, ma che io non ti creda più, mi ha scon­

volto.» —

184.

C'è un'arroganza della bontà che si presenta come cattiveria.

185.

«Egli mi dispiace.» — Perché? «Non sono alla sua altezza.» — Ha mai risposto così un uomo?

Page 72: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte quinta Per la storia naturale della morale

186. Il sentimento morale è oggi in Europa tanto sottile, vecchio, complesso,

irritabile, raffinato, quanto la «scienza della morale» che ad esso attiene è ancora giovane, esordiente, goffa e grossolana — contrasto affascinante, che a volte diventa esso stesso visibile e vitale nella persona di un morali­sta. — Già il termine «scienza della morale», se si tien conto di ciò che vie­ne in tal modo designato, è fin troppo altezzoso e contrario al buon gusto, il quale preferisce sempre espressioni più modeste; dovremmo confessare a noi stessi, con grande rigore, che cosa, qui sarà ancora necessario per mol­to tempo, e che cosa ha legittimità solo temporaneamente: e cioè la raccol­ta del materiale, la sistematizzazione e organizzazione concettuale di un re­gno immenso di teneri sentimenti e differenze di valore che vivono, cresco­no, procreano e vanno in rovina — e, forse, i tentativi di rendere evidenti le strutture ricorrenti e più frequenti di questa cristallizzazione vivente — come preparazione a una tipologia della morale. In verità: non si è mai sta­ti fino ad oggi così modesti. Tutti i filosofi nessuno escluso, non appena si occuparono della morale come scienza, pretesero con un rigida serietà che muove al riso, qualcosa di molto più alto, di più presuntuoso, di più grave: essi vollero la fondazione della morale, — e ogni filosofo era convinto fi­nora di aver fondato la morale; ma la morale stessa era considerata però come «data». Come era lontano dalla loro goffa arroganza quel compito poco apparente e lasciato alla polvere e alla muffa di una descrizione, ben­ché per esso potessero essere sufficienti le mani più abili e i sensi più raffi­nati! Proprio perché i filosofi della morale conoscevano ìfacta morali solo in modo approssimativo, in un compendio arbitrario o come casuale ab­breviazione quasi come moralità del loro ambiente, della loro cerchia, del­la loro chiesa, dello spirito del loro tempo, del loro clima e della loro regio­ne, — proprio perché riguardo ai popoli, alle epoche, al passato, erano male informati e addirittura poco avidi di sapere, essi non si trovarono mai di fronte ai veri problemi della morale: come tali essi emergono tutti solo da un confronto di molte morali. In ogni «scienza della morale» finora esi­stita è mancato per quanto strano possa suonare anche il problema stesso della morale. È mancato il sospetto che si celasse qui qualcosa di proble­matico. Ciò che i filosofi chiamavano «fondamento della morale» e che pretendevano da se stessi, era, visto nella sua giusta luce, solo una forma dotta della buona fede nella morale dominante, un nuovo mezzo della sua espressione, dunque uno stato di fatto all'interno di una determinata mo­ralità, addirittura, in definitiva, una sorta di negazione che questa morale potesse essere considerata come problema: — e in ogni caso il contrario di una verifica, di una dissezione, di una messa in dubbio, di una vivisezione, appunto, di questa fede. Si badi ad esempio, con quale innocenza, quasi

Page 73: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

RARTE QUINTA. PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE 489

degna di venerazione, anche Schopenhauer presentì il proprio compito, e si traggano le conclusioni sulla scientificità di una «scienza», i cui più recenti maestri parlano ancora come ne parlerebbero dei fanciulli e delle vecchie donnette: — «Il principio, egli dice (p. 136 dei Problemi fondamentali dell'etica)y la regola fondamentale sul contenuto del quale tutti i teorici della morale sono veramente d'accordo, è: neminem laede, immo omnis, quanto potest, iuva — questa è la proposizione che tutti i maestri della mo­rale si sono sforzati di fondare... Il fondamento effettivo dell'etica che vie­ne cercato da millenni come la pietra filosofale» — la difficoltà di fondare la proposizione citata può essere effettivamente grande — come è noto non ci sono riusciti neppure gli schopenhaueriani —; e chi una volta ha sentito profondamente quanto sìa assurdamente falsa e sentimentale questa pro­posizione in un mondo la cui essenza è volontà di potenza —, dovrà ricor­dare che Schopenhauer, pur essendo pessimista, in realtà — suonava il flauto... Ogni giorno, dopo aver pranzato, si leggano a questo proposito i suoi biografi. E una domanda di passaggio: un pessimista, un negatore di Dio e del mondo che si ferma di fronte alla morale, — che dice di sì alla morale e suona il flauto, alla morale del laede neminem: è veramente — un pessimista?

187.

Tralasciando anche il valore di affermazioni come «vi è in noi un impe­rativo categorico», si può sempre ancora domandare che cosa dice una tale affermazione su colui che l'afferma? Vi sono morali che hanno il compito di giustificare il loro autore di fronte ad altri; altre devono tranquillizzarlo e metterlo in accordo con se stesso; con altre egli stesso vuol mettersi sulla croce e umiliarsi; con altre egli vuole vendicarsi, con altre nascondersi, con altre trasfigurarsi e porsi al di fuori, in alto e lontano; questa morale serve al suo autore per dimenticare, quella per far dimenticare sé o qualcosa di sé; taluni moralisti vorrebbero esercitare sull'umanità forza e estro creati­vo; altri, e forse persino lo stesso Kant, danno ad intendere con la loro mo­rale: «quello che vi è di stimabile in me è che io so ubbidire — e per voi non deve essere diverso» — insomma, anche le morali sono soltanto una mimi­ca delle passioni.

188.

Ogni morale è, in opposizione al laisser aller, una specie di tirannia con­tro la «natura», e anche contro la «ragione»: questa non è però ancora un'obiezione contro di essa, poiché allora noi stessi dovremmo già di nuo­vo decretare, partendo da una qualche morale, che ogni tipo di tirannia e di irrazionalità è proibita. Quanto vi è di essenziale e di inestimabile in ogni morale è che essa è una lunga coercizione: per comprendere lo stoicismo o Port Royal o il puritanesimo ci si ricordi della coercizione sotto la quale fi­no ad oggi ogni linguaggio ha raggiunto forza e libertà, — coercizione me­trica, tirannia della rima e del ritmo. A quanti affanni si sono assoggettati in ogni popolo i poeti e gli oratori! Non esclusi alcuni prosatori di oggi le cui orecchie sono dimora di una coscienza spietata — «per amore di una follia», come dicono i babbei utilitaristi, che con ciò si ritengono intelli­genti, — «per sottomissione a leggi arbitrarie», come dicono gli anarchici che con ciò si suppongono «liberi» addirittura liberi spiriti. Il fatto curioso

Page 74: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

490 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

è però che tutto ciò che esiste od è esistito sulla terra in fatto di libertà, di finezza, di coraggio, di danza e di magistrale sicurezza, sia nel pensiero stesso o nel governare, o nel parlare e persuadere, nelle arti come nei costu­mi morali, si è sviluppato solo grazie alla «tirannia di tali leggi arbitrarie» e, con ogni serietà, a questo proposito è assai probabile che proprio questo sia «natura» e «naturale» — e non quel laisser atteri Ogni artista sa quanto sia lontana dal sentimento del lasciarsi andare la sua condizione «più natu­rale» la libertà di ordinare, stabilire, disporre, formare nei momenti di «ispirazione», — e quanto proprio allora egli debba attenersi con rigore e maestria a mille leggi, che si beffano di ogni formulazione per concetti pro­prio in base alla loro rigidezza e determinazione (anche il concetto più sal­do ha di fronte ad esse qualcosa di vago, di molteplice, di ambiguo —). La cosa essenziale, «in cielo e sulla terra», è, a quanto pare, per ripeterlo an­cora una volta, che si ubbidisca a lungo e in una sola direzione: a lungo an­dare ne risulta e ne è risultato sempre qualche cosa per cui vale la pena di vivere sulla terra, per esempio virtù, arte, musica, danza, ragione e spiri­tualità, — qualcosa di trasfigurante, di raffinato, di folle e di divino. La lunga servitù dello spirito, la diffidenza e la coercizione nella comunicabili­tà dei pensieri, la disciplina alla quale il pensatore si sottoponeva all'inter­no di una norma ecclesiastica o di corte, o in base a presupposti aristoteli­ci, la costante volontà dello spirito di interpretare tutto ciò che accade se­condo uno schema cristiano e di riscoprire e giustificare ancora una volta in ogni contingenza il Dio cristiano, — tutte queste forze violente, arbitra­rie, dure, orribili, contrarie alla ragione si sono dimostrare Io strumento con il quale è stata istillata nello spirito europeo la forza, la spregiudicata curiosità e la fine mobilità: ammesso che in tal modo dovette essere schiac­ciata, soffocata e corrotta irreparabilmente molta della sua forza e del suo spirito (poiché qui come dappertutto «la natura» si mostra qual essa è, in tutta la sua prodiga e indi/ferente grandezza, che muove a sdegno, e pure è nobile). Che per millenni i pensatori europei abbiano meditato solo per di­mostrare qualcosa — oggi al contrario è sospetto per noi ogni pensatore che «voglia dimostrare qualcosa» —, che per loro fosse sempre già stabili­to, ciò che doveva uscir fuori come risultato della loro più severa medita­zione, quasi come accadeva un tempo nell'astrologia asiatica o ancora oggi nell'innocua interpretazione cristiano-morale dei più intimi avvenimenti personali «in gloria di Dio» e «per la salvezza dell'anima»: — questa tiran­nia, questo arbitrio, questa severa e sublime stupidità hanno educato lo spirito; la schiavitù, a quanto sembra, è, per l'intelligenza più rozza come per quella più sottile, lo strumento irrinunciabile per la disciplina e l'edu­cazione spirituale. Si può guardare in quest'ottica ad ogni morale: in essa è la «natura» che insegna ad odiare il lassier atler, la troppa libertà. E fa at­tecchire l'esigenza di orizzonti limitati, di compiti immediati — che insegna a limitare la visuale e dunque in un certo senso insegna la stupidità come condizione di vita e di sviluppo. «Devi ubbidire, non importa a chi, e per lungo tempo, altrimenti ti perderai e perderai ogni rispetto per te stesso» — questo mi sembra essere l'imperativo morale della natura che indubbia­mente non è «categorico», come lo pretendeva il vecchio Kant (perciò 1'«altrimenti» —), né si rivolge ai singoli (cosa importa a lei del singolo?) ma piuttosto ai popoli, alle razze, alle epoche, alle classi, ma soprattutto all'animale «uomo», agli uomini.

Page 75: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUINTA. PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE 491

189. Le razze laboriose trovano grande fastidio nel sopportare l'ozio: fu un

capolavoro dell'istinto inglese santificare e rendere a tal punto noiosa la domenica che nell'inglese il desiderio di ritornare ai giorni feriali della set­timana nasce inconsapevolmente: — come una specie di digiuno escogitato e inserito con intelligenza, come se ne possono trovare molti anche nel mondo antico (se pure, come è logico nei popoli meridionali, non proprio in riferimento al lavoro —). Devono esserci digiuni di varia natura; e ovun­que istinti e abitudini sono violenti, i legislatori devono provvedere a intro­durre giorni di intervallo, nei quali tali istinti vengano imbrigliati e impari­no ancora di nuovo a soffrire la fame. A guardare le cose da una certa al­tezza intere epoche e generazioni se vengono contagiate da un qualche fa­natismo morale, risultano simili a tali intervalli di costrizione e di digiuno durante i quali un istinto impara a umiliarsi e piegarsi, ma anche a purifi­carsi e ad affinarsi; anche singole sette filosofiche (ad esempio la Stoa nella civiltà ellenistica e nella sua atmosfera lasciva e appesantita da profumi afrodisiaci) permettono un'interpretazione analoga. — In ciò vi è anche un accenno di spiegazione di quel paradosso per cui l'istinto sessuale si è subli­mato fino all'amore (amour-passion), proprio nel periodo cristiano del­l'Europa e soprattutto sotto la spinta dei giudizi cristiani di valore.

190.

Nella morale di Platone vi è qualcosa che non è propriamente di Plato­ne, ma si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, quasi contro Platone stesso: vale a dire il socratismo per il quale egli era in verità troppo aristo­cratico. «Nessuno vuol fare danno a se stesso, perciò ogni azione cattiva avviene involontariamente. Poiché il malvagio porta danno a se stesso: non lo farebbe se sapesse che il male è male. Di conseguenza il malvagio è malvagio solo per errore; se gli si toglie il suo errore lo si rende necessaria­mente — buono.» Questo modo di trarre le conclusioni esala odore di ple­be poiché la plebe vede in colui che agisce male soltanto le conseguenze pe­nose e giudica propriamente che «è stupido agire male»; mentre identifica senz'altro buono con utile e piacevole. Si può attribuire questa stessa origi­ne a ogni utilitarismo della morale e fidarsi del proprio fiuto: di rado ci si sbaglierà. — Platone ha fatto ogni sforzo per interpretare le tesi del suo maestro in modo da trovarvi qualcosa di raffinato e di nobile soprattutto per trovarvi se stesso —, il più audace di tutti gli interpreti che aveva preso tutto Socrate dalla strada solo come un tema e una canzone popolare per portarvi infinite e impossibili variazioni: cioè tutte le proprie maschere e molteplicità. Detto scherzando e alla maniera di Omero: che cos'è il Socra­te di Platone se non npóoBe nXàtùjv omOev te nXdrajv y.é<7<jr\ te Xfacxipot.

191.

L'antico problema teologico di «fede» e «scienza» — o, più chiaramente di istinto e ragione•— il problema, quindi, se riguardo alla valutazione del­le cose l'istinto debba prevalere sulla ragionevolezza, la quale esige che si valuti e che si agisca secondo motivi, secondo un «perché?» come secondo l'opportunità e l'utilità, — è ancora sempre quel vecchio problema morale, quale si presentò per la prima volta con Socrate e che ha già diviso gli spiri-

Page 76: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

492 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

ti molto tempo prima del cristianesimo. Socrate stesso si era posto in real­tà, grazie al gusto del suo talento — il gusto di un dialettico di prim'ordine — dalla parte della ragione; e in verità cos'ha fatto per tutta la sua vita se non ridere sulla goffa inettitudine dei suoi aristocratici ateniesi, che non erano uomini dell'istinto come tutti gli aristocratici e che non potevano mai giustificare a sufficienza i motivi del loro operare? Ma in definitiva, in silenzio e in segretezza, egli rideva anche di se stesso: egli trovò in sé da­vanti alla sua più raffinata coscienza e nell'esame di se stesso tutta la mede­sima difficolta e la stessa incapacità. Ma a che scopo, si diceva, liberarsi perciò dagli istinti! È necessario aiutarli e con essi anche la ragione ad af­fermare il loro diritto, — è necessario seguire gli istinti, ma persuadere la ragione, ad aiutarli meno con buoni motivi. Questa fu la vera falsità di quel grande ironico ricco di segreti: egli portò la sua coscienza ad accon­tentarsi con una specie di autoinganno: in fondo egli aveva penetrato l'ir­razionale insito nel giudizio morale. — Platone, più innocente in tali cose e privo della scaltrezza del plebeo, volle dimostrare a se stesso impiegando tutta la sua forza — una forza superiore a quella che mai un filosofo aves­se impiegato fino ad allora! che ragione e istinto tendono di per se stessi ad un unico scopo, al bene, a «Dio»; e dopo Platone tutti i teologi e i filosofi seguono la stessa strada, — cioè, fino ad oggi, nelle questioni della morale ha prevalso l'istinto o, come lo chiamano i cristiani, «la fede» o, come lo chiamo io «il gregge». Si dovrebbe escludere Descartes, il padre del razio­nalismo (e di conseguenza nonno della rivoluzione) che riconobbe autorità solo alla ragione: ma la ragione è solo uno strumento e Descartes era su­perficiale.

192.

Chi ha seguito la storia di una singola scienza troverà nella sua evoluzio­ne un filo conduttore per la comprensione dei più antichi e comuni proce­dimenti di ogni «sapere e conoscere»: lì come qui sono le ipotesi affrettate, le invenzioni, la buona stupida volontà di «credere», la mancanza di diffi­denza e di pazienza che si sono sviluppate per prime — i nostri sensi impa­rano tardi e mai completamente ad essere organi sottili, fedeli, attenti del conoscere. Per il nostro occhio è più comodo riprodurre in una data occa­sione un'immagine prodotta già molte volte, che ritenere in sé ciò che vi è di diverso e di nuovo in un'impressione: questo esige più forza, più «mora­lità». Udire suoni nuovi è penoso e difficile all'orecchio: ascoltiamo mal volentieri una musica sconosciuta. Involontariamente tentiamo, ascoltan­do un'altra lingua, di formare i suoni uditi in parole che risuonino più fa­miliari e più consuete: così per esempio il tedesco formò una volta dalla pa­rola arcubalista che aveva udito, la parola Armbrust. Il nuovo trova ostili e contrari anche i nostri sensi e soprattutto anche nei «più semplici» pro­cessi della sensibilità dominano passioni come paura, amore, odio, com­prese le passioni passive della pigrizia. — Com'è difficile oggi che un letto­re legga completamente le singole parole (o addirittura le sillabe) di una pa­gina — su venti parole egli ne prende piuttosto a caso cinque e «indovina» il senso che presumibilmente si può attribuire loro —, così è altrettanto dif­ficile vedere con esattezza e completamente un albero, le sue foglie, i rami, il colore, la forma; ci riesce molto più facile fantasticare un'immagine ap­prossimativa di albero. Anche durante la più strana esperienza agiamo nel­lo stesso modo: ci immaginiamo la maggior parte delle esperienze ed è dif­ficile costringerci a non far la parte degli «inventori» di fronte ad un qual-

Page 77: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUINTA. PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE 493

siasi avvenimento. Tutto ciò vuol dire che noi siamo abituati alla menzo­gna fin dalle origini, da tempo immemorabile. O, per esprimerci in modo più virtuoso e più ipocrita, in breve, in modo più piacevole: si è molto più artisti di quanto non si creda. — Durante un colloquio animato vedo spes­so il volto della persona con la quale parlo, a seconda del pensiero che essa esprime o che io credo di aver evocato in lei, con tale chiarezza e definito con tanta finezza che questa chiarezza va molto al di là della forza della mia facoltà visiva: — la finezza del gioco muscolare e dell'espressione degli occhi deve dunque essere immaginata da me. Probabilmente la persona aveva un viso completamente diverso oppure non aveva espressione.

193.

Quidquid luce fuit, tenebris agit: ma anche al contrario: ciò che noi vi­viamo nel sogno, ammesso che noi lo viviamo spesso, appartiene in defini­tiva all'economia generale della nostra anima, come una qualsiasi esperien­za «veramente» vissuta: grazie ad esso noi siamo più ricchi o più poveri, abbiamo un'esigenza in più o in meno e infine nella chiara luce del giorno e anche negli attimi più sereni del nostro spirito desto, venivamo adescati un po' dalle abitudini dei nostri sogni. Se uno sogna spesso di volare e non ap­pena comincia a sognare diventa cosciente della sua forza e della sua capa­cità di volare come di un suo privilegio e come di una sua propria invidia­bile fortuna, se un simile individuo crede di poter compiere ogni tipo di evoluzioni con il più lieve impulso e conosce la sensazione di una certa divi­na leggerezza, un «andar verso l'alto» senza tensione e senza sforzo e uno «scendere in basso» senza cedimento e abbassamento — senza gravitai — come non dovrebbe un uomo di tali esperienze e abitudini nel sogno, non trovare infine anche durante il giorno nella parola «felicità» un diverso co­lore e un diverso significato! Come non dovrebbe pretendere una diversa felicità! Lo «slancio» come viene descritto dai poeti, a paragone del suo «volare» dev'essere per lui già troppo terreno, troppo muscolare, troppo violento, già troppo «pesante».

194.

La diversità degli uomini si mostra non solo nella differenza delle loro misure di valore, dunque nel fatto che essi ritengono desiderabili beni di­versi e sono discordi anche sul maggiore o minor valore, sulla posizione ge­rarchica dei beni generalmente conosciuti: — tale differenza si mostra an­cor più in ciò che per essi ha valore come effettivo possesso di un bene. Trattandosi di una donna, ad esempio, il disporre del suo corpo e l'appa­gamento sessuale vale già, per il più modesto, come segno sufficiente e soddisfacente del possesso, un altro, più diffidente e più esigente, vedrà il «punto interrogativo», il lato solo apparente di un tale avere, e vorrà prove più sottili, soprattutto per sapere se la donna non soltanto gli si dà, ma la­scia anche, per lui, ciò che ha o che vorrebbe avere —: solo in questo modo essa sarà per lui «posseduta». Un terzo però non finirà neppure con ciò di diffidare e di desiderare di possedere; egli si chiederà se la donna che ab­bandona tutto per lui, non lo faccia per una immagine fantastica che di lui si è creata: prima di tutto egli vuole essere conosciuto a fondo, anzi nelle sue abissali profondità, per poter essere soprattutto amato egli osa lasciarsi indovinare —. Solo allora egli sentirà l'amata completamente in suo pos­sesso, solo quando ella non si ingannerà più su di lui, quando lo amerà per

Page 78: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

494 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

la sua diavoleria e la sua nascosta insaziabilità come per la sua bontà, per la sua pazienza e la sua spiritualità. Un'altro vorrebbe possedere un popolo e a questo scopo gli vanno bene tutte le arti più sottili di un Cagliostro e di un Catilina. Un altro ancora con una più raffinata avidità di possesso dice a se stesso: «Non si può ingannare, quando si vuol possedere» — si irrita, si impazientisce al pensiero che una sua maschera domina il cuore del po­polo: «dunque io devo farmi conoscere e, prima di tutto devo conoscere me stesso!». Tra uomini soccorrevoli e benefici si incontra quasi sempre della grossolana astuzia che acconcia a proprio vantaggio colui che deve essere soccorso come se, ad esempio, egli «meritasse» aiuto, desiderasse proprio il loro aiuto e come se si dimostrasse loro profondamente grato, affezionato, sottomesso per ogni aiuto, — immaginando queste cose essi dispongono del bisognoso come di una loro proprietà poiché essi sono uo­mini pronti a beneficare e a soccorrere soprattutto per avidità di possesso. Si troverà che essi sono gelosi, quando qualcuno incrocerà la loro strada e li preverrà nell'aiuto. I genitori fanno involontariamente del proprio figlio qualcosa di simile a loro — essi chiamano ciò «educazione» —, nessuna madre dubita nel fondo del suo cuore di aver generato a se stessa, nel fi­glio, una sua proprietà, nessun padre si negherà il diritto di poterlo sotto­mettere ai suoi concetti e valutazioni. Sì, una volta ai padri pareva giusto di disporre a discrezione della vita e della morte dei nuovi nati (come tra gli antichi Germani). E, come il padre, così anche il maestro, la casta, il prete, il principe vedono ancora oggi in ogni nuovo essere umano una facile occa­sione per un nuovo possesso. Ne segue...

195.

Gli Ebrei — un popolo «nato per la schiavitù», come dicono Tacito e tutto il mondo antico , «il popolo eletto tra i popoli» come essi stessi affer­mano e credono — gli Ebrei hanno realizzato quel capolavoro di rovescia­mento dei valori, grazie al quale la vita sulla terra ha ricevuto per un paio di millenni un fascino nuovo e pericoloso: — i loro profeti hanno fuso in una sola cosa le parole «ricco», «empio», «cattivo», «violento», «sensua­le», e hanno coniato per la prima volta la parola mondo in una parola ol­traggiosa. In questa inversione dei valori (la quale comprende l'uso della parola «povero» come sinonimo di «santo» e «amico») sta l'importanza del popolo ebraico: con esso ha inizio la rivolta degli schiavi nella morale.

196.

Si può desumere che vi siano accanto al sole innumerevoli corpi oscuri, — tali che non li vedremo mai. Questa, detto tra noi, è una allegoria; e uno psicologo della morale legge tutta la scrittura degli astri solo come un lin­guaggio simbolico e allegorico, con il quale si possono tacere molte cose.

197.

Si fraintendono profondamente l'animale rapace e l'uomo rapace (per esempio Cesare Borgia), si fraintende la «natura» fin tanto che si cerca an­cora il «patologico» in fondo a queste belve e queste creature, le più sane di tutti i tropici, o addirittura un «inferno» a loro innato come hanno fatto fino ad oggi quasi tutti i moralisti. Si direbbe che nei moralisti ci sia odio per la foresta vergine e per i tropici! E che l'«uomo dei tropici» debba ve-

Page 79: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUINTA. PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE 495

nir diffamato a tutti i costi sia come malattia e degenerazione dell'uomo sia come inferno e tortura di sé? Perché dunque? A favore delle «zone tem­perate»? A favore dell'uomo medio? «Dei «morali»? Dei mediocri? — Questo per il capitolo «morale come pavidità».

198.

Tutte queste morali che si rivolgono alla persona singoia, come si usa di­re, per la sua «felicità», — cosa sono d'altro se non proposte sulla condot­ta da tenere in rapporto al grado del pericolo nel quale la singola persona vive con se stessa; ricette contro le sue passioni, le sue buone e cattive ten­denze, in quanto esse hanno la volontà di potenza e vorrebbero avere il ruolo del dominatore; piccole e grandi astuzie e artifici saturi dell'odore muffoso di vecchi rimedi casalinghi e di una saggezza da vecchie donnette; tutte quante barocche e irrazionali nella forma — poiché esse si rivolgono a tutti, poiché esse generalizzano dove non è ammesso generalizzare —, parlando tutte in termini di assoluto, avendo atteggiamenti assoluti, tutte quante condite non solo con un unico grano di sale, ma piuttosto appena sopportabili e a volte perfino seducenti quando imparano ad emanare un profumo troppo carico e pericoloso, soprattutto quello deil'«al di là»: tut­to ciò, misurato con l'intelletto, è di poco valore e bel lontano dall'essere «scienza» e tantomeno «saggezza», ma, detto ancora una seconda volta e una terza, solo sagacia, sagacia, sagacia, commista a stupidità, stupidità, stupidità — sia che si tratti di quella indifferenza e statuaria freddezza con­tro l'ardente follia delle passioni, quale la consigliarono e la raccomanda­rono gli stoici; o anche di quel non più ridere e non più piangere di Spino­za, della sua così ingenuamente raccomandata distruzione delle passioni per mezzo della loro analisi e vivisezione; o di quel livellamento delle pas­sioni a una inoffensiva mediocrità nella quale esse possano essere soddi­sfatte, cioè dell'aristotelismo della morale; o che si tratti addirittura della morale come godimento delle passioni in una intenzionale rarefazione e spiritualizzazione mediante il simbolismo dell'arte, ad esempio come musi­ca, o come amore verso Dio e verso l'uomo per amor di Dio — poiché nel­la religione le passioni hanno di nuovo diritto di cittadinanza, posto che...; o che si tratti infine di quello stesso compiacente e malizioso abbandonarsi alle passioni come lo hanno insegnato Hafis e Goethe, quell'intelligente al­lentare le redini, quella licentia morum spirituale e carnale, nel caso ecce­zionale di vecchi e saggi originali e beoni, nei quali ciò «presenta ormai po­co pericolo». Anche questo per il capitolo «morale come pavidità».

199.

Poiché in ogni tempo, da quando sono esistiti gli uomini, sono esistite anche greggi umane (gruppi familiari, comunità, stirpi, popoli, Stati, Chie­se) e sempre molti che obbediscono in rapporto al piccolo numero di chi comanda, — tenuto conto dunque che l'ubbidienza fino ad oggi è stata esercitata e insegnata tra gli uomini più di ogni altra cosa e più a lungo, possiamo giustamente supporre che oggi, in media, il bisogno di ubbidien­za è innato in ognuno, come una specie di coscienza formale, che ordina: «tu devi fare qualche cosa incondizionatamente, devi lasciare qualche cosa incondizionatamente», in breve «tu devi». Questo bisogno cerca di soddi­sfarsi e di riempire la propria forma con un contenuto; essa afferra, secon­do la sua forza, impazienza e tensione, poco schizzinosa, come un grosso-

Page 80: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

496 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

lano appetito e accetta ciò che le vien gridato all'orecchio da chiunque co­mandi — genitori, maestri, leggi, pregiudizi di casta, opinione pubblica —. La strana limitatezza dello sviluppo umano, il suo lato più dubitoso, peno­so, spesso regressivo e tortuoso si basa sul fatto che l'istinto del gregge al­l'ubbidienza viene ereditato più di ogni altro e a spese dell'arte del coman­do. Se si pensa per una volta al progredire di questo istinto fino alle sue ul­time aberrazioni, si vedrà che alla fine i depositari del comando e gli indi­pendenti mancheranno addirittura; o soffriranno interiormente di una cat­tiva coscienza e avranno bisogno di costruirsi un'illusione, prima di poter comandare: cioè di ubbidire anche loro. Questa effettivamente è la condi­zione esistente oggi in Europa: io la chiamo la falsità morale di chi coman­da. Essi non sanno proteggersi dalla loro cattiva coscienza in altro modo che atteggiandosi a esecutori di più antichi o più alti ordini (degli antenati, della costituzione, dei diritto, delle leggi o persino di Dio) o prendono in prestito addirittura, dal modo di pensare delle greggi, massime da greggi, per esempio «primo servitore del suo popolo» o «strumento del bene co­mune». D'altro lato l'uomo delle greggi si fa passare oggi in Europa come l'unico tipo d'uomo permesso e onora le proprie qualità, grazie alle quali egli è mansueto, socievole e utile al gregge, come virtù autenticamente umane: dunque senso comune, benevolenza, rispetto, zelo, misura, mode­stia, indulgenza, compassione. Per i casi tuttavia nei quali si crede di non poter evitare un capo e un montone-guida si fanno oggi tentativi su tentati­vi per sostituire i detentori del comando addizionando insieme gli uomini savi del gregge: questa è l'origine per esempio di tutte le costituzioni basate sul principio di rappresentanza. L'apparizione di Napoleone testimonia quale beneficio, quale liberazione da un'oppressione che sta diventando in­sopportabile, sia, nonostante tutto ciò, la comparsa di un uomo che co­manda in modo assoluto, per il gregge degli Europei: — la storia dell'in­fluenza di Napoleone è quasi la storia della più alta fortuna arrisa a questo intero secolo nei suoi uomini e momenti più preziosi.

200.

L'uomo di un periodo di dissoluzione, che mescola le razze, che come tale ha in sé l'eredità di un'origine eterogenea, cioè impulsi e metri di giudi­zio antitetici e spesso neppure soltanto antitetici, che lottano l'uno con l'al­tro e raramente trovano pace, — un tale uomo delle culture in declino e delle luci abbassate sarà generalmente un uomo più debole: il suo desiderio più intenso è che la guerra, che egli stesso è, abbia finalmente fine; la felici­tà gli sembra in armonia con una medicina e un modo di pensare tranquil­lizzanti (per esempio epicurei o cristiani) come la felicità del riposo, della tranquillità, della sazietà, della raggiunta unità, come «sabato dei sabati», per dirla con il santo retore Agostino che era pure un tale uomo. — Ma se in una tale natura il contrasto e la guerra agiscono maggiormente come un'eccitazione e uno stimolo della vita — ed egli d'altro canto ha ereditato e coltivato vicino ai propri possenti e implacabili istinti anche una vera maestria e finezza nel condurre la guerra contro di sé, dunque l'autodomi-nio, e l'autoinganno: nascono allora quegli uomini magicamente imprendi­bili e inimmaginabili, quegli uomini enigmatici predestinati alla vittoria e alla seduzione le cui più belle espressioni sono Alcibiade e Cesare (— ai quali io vorrei aggiungere volentieri secondo il mio gusto Federico 11 Ho-henstaufen il primo europeo), e tra gli artisti forse Leonardo da Vinci. Essi fanno la loro comparsa esattamente nelle stesse epoche nelle quali avanza

Page 81: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUINTA. PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE 497

in primo piano quel tipo più fragile con la sua pretesa di pace: entrambi i tipi sono strettamente connessi e nascono da identiche cause.

201.

Fino a quando l'utilità che domina nei giudizi morali di valore, sarà solo l'utilità del gregge, fino a quando lo sguardo sarà rivolto unicamente alla conservazione della comunità, e in ciò che appare pericoloso per la sussi­stenza della comunità verrà precisamente ed esclusivamente cercato l'im­morale, fino ad allora non potrà esistere ancora nessuna «morale dell'a­mor del prossimo». Posto che anche lì si trovi già una piccola costante con­suetudine di rispetto, pietà, equità, mitezza, reciprocità nell'aiuto, posto che anche in questo stato della società agiscano già tutti quegli istinti che più tardi verranno indicati col nome onorifico di «virtù» e che finiscono per coincidere quasi con il concetto di «moralità»: a quell'epoca essi non appartengono ancora per nulla al regno dei giudizi morali di valore — essi sono ancora extramorali. Una azione caritatevole per esempio nell'epoca migliore della romanità non avrà ancora un significato né buono né catti­vo, né morale né immorale; e se pure viene lodata, a questa lode si accom­pagna ancora benissimo una specie di sdegnosa disistima non appena que­sta azione venga confrontata con una qualsiasi azione che serva all'avanza­mento del tutto, della res publica. Infine l'«amore del prossimo» è sempre qualcosa di collaterale, in parte di convenzionale e che appare arbitrario se è messo in rapporto con la paura del prossimo. Dopo che la struttura della società nel suo complesso appare stabilita e assicurata contro i pericoli esterni, è questa paura del prossimo che torna a creare nuove prospettive alla valutazione morale dei valori. Certi istinti violenti e pericolosi come lo spirito d'iniziativa, l'audacia, la sete di vendetta, l'astuzia, l'avidità di pre­da, la sete di dominio — che fino ad ora non dovevano essere soltanto onorati nel proposito di un bene comune — sotto nomi diversi, come è giu­sto, da quelli ora scelti —, ma fatti crescere e coltivati (poiché si aveva co­stantemente bisogno di loro" nei pericoli della comunità contro i nemici del­la comunità), vengono ormai sentiti con doppia intensità nella loro perico­losità — ora che mancano per essi i canali di riflusso — e un po' alla volta vengono marcati a fuoco in quanto immorali e abbandonati alla calunnia. Ora gli istinti e le inclinazioni opposte vengono onorate come morali, l'i­stinto del gregge trae a poco a poco le sue conseguenze. Quanto o quanto poco pericolo per la collettività, pericolo per l'uguaglianza vi sia in un'opi­nione, in una condizione e in una passione, in una volontà, in un impegno, questa è ora la prospettiva morale: la paura è anche qui, di nuovo, la ma­dre della morale. Contro gli istinti più alti e più forti, quando essi, erom­pendo appassionatamente, trascinano il singolo molto al di là e oltre la me­dia e la bassezza della coscienza del gregge, perisce la coscienza di sé della comunità, la sua fede in sé, si spezza, per così dire, la sua spina dorsale: di conseguenza si preferisce addirittura bollare a fuoco e calunniare appunto questi istinti. La alta, autonoma spiritualità, la volontà di solitudine, la grande ragione vengono già sentite come pericolo; tutto ciò che innalza il singolo sopra il gregge e incute timore al prossimo prende d'ora in poi il si­gnificato di cattivo', l'atteggiamento equo, modesto, l'atteggiamento di chi si inserisce, l'uguaglianza, la mediocrità dei desideri vengono onorati e de­signati come morali. Infine, in condizioni molto pacifiche, manca sempre più l'occasione e la necessità di educare i propri sentimenti al rigore e alla durezza; e ora ogni rigore, anche nella giustizia, comincia a disturbare le

Page 82: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

498 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

coscienze; un'elevata e dura nobiltà e autoresponsabilità offende quasi e suscita diffidenza, «l'agnello», ancor più «la pecora» cresce in considera­zione. C'è un punto nella storia della società di morboso infiacchimento e spossatezza nel quale la società stessa prende le parti di chi le porta danno, del delinquente e con tutta serietà e onestà. Punire: questo le sembra in un certo qual modo ingiusto, — certo è, che il concetto della «punizione» e del «dover punire» la fa soffrire, le incute paura. «Non è sufficiente ren­derlo innocuo? Perché anche punirlo? Il punitore stesso è una cosa terribi­le!» Con questa domanda la morale del gregge, la morale della pavidità trae la sua estrema conseguenza. Posto che, in generale, si potesse elimina­re il pericolo, il motivo del timore, si sarebbe eliminata questa morale: essa non sarebbe più necessaria, essa non si riterrebbe più necessaria! — Chi prende in esame la coscienza dell'europeo di oggi dovrà trarre dalle mille pieghe e nascondigli morali sempre lo stesso imperativo, l'imperativo della pavidità del gregge: «noi vogliamo, che ad un certo punto non ci sia più motivo di temerei» Ad un certo certo punto — la volontà e la via per arri­varvi oggi, in Europa, si chiama dappertutto «progresso».

202.

Diciamo subito una volta ancora ciò che abbiamo già detto cento volte: poiché le orecchie oggi non sono ben disposte per tali verità — per le nostre verità. Sappiamo già abbastanza quanto suoni urtante quando qualcuno in generale pone l'uomo tra gli animali, crudamente e fuor di metafora; ma ci verrà imputata quasi a colpa di aver usato proprio in riferimento agli uo­mini delle «idee moderne», costantemente, le espressioni «gregge», «istinti del gregge» e altre simili. Che cosa importa! Non possiamo fare diversa­mente: poiché proprio qui sta la nostra nuova conoscenza. Abbiamo trova­to, che in tutti i fondamentali giudizi morali l'Europa è diventata unanime, compresi i paesi nei quali domina l'influsso europeo: evidentemente si sa in Europa ciò che Socrate credeva di non sapere, e ciò che il vecchio e famoso serpente aveva promesso un tempo di insegnare, — si «sa» oggi che cosa è bene e male. Ora deve suonare duramente e male all'orecchio che ogni vol­ta noi sosteniamo nuovamente che chi crede qui di sapere, chi onora qui se stesso con la lode e il biasimo e si chiama buono è l'istinto dell'uomo-ani-male del gregge: come tale è arrivato a sfondare, a prevalere, a dominare su altri istinti e avanza sempre di più nella misura della crescente conver­genza e assimilazione fisiologica di cui è il sintomo. La morale è oggi in Europa una morale di gregge: — dunque, secondo il nostro modo di inten­dere le cose, solo una specie di morale umana, accanto alla quale, davanti alla quale, dopo la quale sono o dovrebbero essere possibili molte altre e soprattutto più elevate morali. Contro una tale «possibilità», contro un ta­le «dovrebbe» questa morale si difende però con tutte le sue forze: essa af­ferma, ostinata e implacabile «io sono la morale stessa, e nulla oltre a me è morale!» — Anzi con l'aiuto di una religione che sottostava ai comandi delle più sublimi brame delle bestie del gregge e le lusingava, si è giunti al punto, che noi troviamo anche nelle istituzioni politiche e sociali un'espres­sione sempre più evidente di questa morale: il movimento democratico co­stituisce l'eredità di quello cristiano. Ma il suo ritmo sembra però ancora troppo lento e pigro agli impazienti, ai malati e ai tossicomani dell'istinto nominato e lo dimostra il tumulto che diventa sempre più furioso, il digri­gnar di denti sempre più palese dei cani anarchici, che si aggirano oggi per le strade della cultura europea: in apparente contrasto con i laboriosi e pa-

Page 83: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE QUINTA. PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE 499

cifici democratici e gli ideologi della rivoluzione e ancor più con gli scioc­chi filosofastri e fanatici della fratellanza, che si proclamano socialisti e vogliono la «libera società», ma in verità sono d'accordo con tutti costoro nella drastica e istintiva ostilità contro ogni forma di società diversa da quella del gregge autonomo (arrivando sino al rifiuto del concetto «padro­ne» e «servo» — ni dieu ni maitre dice una formula socialista —); unanimi nella tenace opposizione ad ogni pretesa particolare, ad ogni diritto e privi­legio particolari (cioè in definitiva ad ogni diritto: poiché quando tutti so­no uguali nessuno ha più bisogno di «diritti») — unanimi nella diffidenza verso la giustizia punitiva (come se essa fosse una violenza sul più debole, un arbitrio contro la necessaria conseguenza di tutte le società preceden­ti —); ma altrettanto unanimi nella religione della pietà, nella simpatia, ovunque si senta, si viva, si soffra (scendendo fino all'animale, innalzan­dosi fino a Dio: — la bizzarria di una «pietà verso Dio» appartiene a una epoca democratica —); tutti uniti nel grido e nell'impazienza della pietà, nell'odio mortale contro ogni sofferenza, nella quasi femminile incapacità di rimanere, di fronte a ciò, spettatore, di poter lasciar soffrire; unanimi nell'obbligato incupimento e infiacchimento sotto il cui incantesimo l'Eu­ropa sembra minacciata da un nuovo buddismo; unanimi nella fede in una morale della pietà comune, come se essa fosse la morale in sé, la cima, la vetta raggiunta dall'uomo, l'unica speranza del futuro, il conforto del pre­sente, la grande remissione di ogni colpa passata: — tutti unanimi nella fe­de nella comunità redentrice, nel gregge dunque, in «sé»...

203.

Noi, che abbiamo un'altra fede — noi, per i quali il movimento demo­cratico non è solo una forma di decadenza dell'organizzazione politica ma una forma di decadenza e cioè di riduzione dell'uomo, un suo diventare mediocre e perdere di valore: dove dobbiamo rivolgerci noi, con le nostre speranze? Verso nuovi filosofi, non rimane altra scelta; verso spiriti abba­stanza forti e indipendenti da poter stimolare opposti giudizi di valore e ri­valutare e capovolgere «valori eterni»; verso precursori, verso uomini del futuro, che già oggi formano quei lacci e quei nodi che costringeranno la volontà di millenni verso nuove strade. Per insegnare all'uomo che il suo futuro è volontà, dipendente da una volontà umana e per preparare grandi avventure e tentativi collettivi di disciplina e di educazione per metter fine in tal modo all'orribile dominazione dell'assurdo e del caso che si è chia­mata «storia» — l'assurdo della «maggioranza» è solo la sua forma più re­cente —: perciò sarà necessario un giorno un nuovo tipo di filosofi e di de­tentori del comando di fronte alla cui immagine tutti gli spiriti nascosti, terribili e benefici che sono esistiti sulla terra, figureranno pallidi e defor­mi. L'immagine di tali condottieri è quella che ci sta davanti agli occhi: — posso dirlo forte, voi spiriti liberi? Le circostanze, che bisognerebbe in par­te creare in parte sfruttare per la loro nascita, le presumibili vie e le prove, grazie alle quali un'anima potrebbe giungere a una tale altezza e a una tale potenza da sentire il vincolo a questi compiti; un capovolgimento dei valo­ri, sotto la cui nuova pressione e sotto il cui martello una coscienza verreb­be temperata come acciaio e un cuore trasformato in bronzo, così da poter reggere al peso di una tale responsabilità; d'altro canto la necessità di tali condottieri, il terribile pericolo che essi possano mancare o fallire e degene­rare — queste sono le nostre vere preoccupazioni e i turbamenti, lo sapete voi, voi spiriti liberi? Questi sono i nostri pesanti, lontani pensieri e le tem-

Page 84: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

500 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

peste che passano nel cielo della nostra vita. Ci sono pochi dolori così acuti come l'aver visto, indovinato, e partecipato al modo in cui un uomo straordinario si è allontanato dalla sua strada ed è degenerato: chi però possiede la rara attenzione al comune pericolo che l'uomo stesso degeneri, chi come noi ha riconosciuto la mostruosa casualità che finora ha giocato il suo gioco sul futuro dell'uomo — un gioco al quale non ha partecipato né una mano e neppure un «dito di Dio»! — chi scopre la fatalità che giace nascosta nella idiota ingenuità e nella fiduciosa credulità delle «idee mo­derne», e ancor più in tutt'intera la morale cristiano-europea: costui soffri­rà un'angoscia con la quale nessun'altra si lascia paragonare, — con un unico sguardo egli abbraccerà tutto ciò che con una concentrazione e un incremento favorevole di forze e di compiti ci sarebbe ancora da ottenere con l'educazione dall'uomo, egli sa con tutto il sapere della sua coscienza come l'uomo non sia ancora esaurito per le massime possibilità e come il ti­po «uomo» sia stato già spesso vicino a decisioni segrete e a nuove vie: — egli sa ancor meglio per un suo ricordo dolorosissimo contro quali misera­bili cose un essere in divenire, di altissimo rango, fino ad oggi si sia infran­to, sfasciato, sia colato a picco, sia divenuto miserabile. La totale degene­razione dell'uomo giù fino a ciò che oggi appare ai babbei socialisti e alle teste vuote come il loro «uomo del futuro», — come il loro ideale — que­sta degenerazione e deprezzamento dell'uomo a perfetto animale del greg­ge (o come essi dicono in uomo della «società libera»), questo abbrutimen­to dell'uomo in bestiola con uguali diritti ed esigenze è possibile, non vi è alcun dubbio! Chi ha pensato a questa possibilità fino in fondo, almeno una volta, conosce una nausea in più rispetto agli uomini, — e forse anche un nuovo compito !...

Page 85: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte sesta Noi dotti

204.

Con il pericolo che anche qui il moralizzare si dimostri ciò che è sempre stato — cioè un coraggioso montrer ses plaies, secondo Balzac — vorrei osare d'oppormi a un ingiusto e dannoso spostamento gerarchico, che mi­naccia oggi di porsi, senza farsi notare e con tranquilla coscienza, fra scienza e filosofia. Intendo che bisogna trarre dalla propria esperienza — esperienza significa, come a me pare, sempre brutta esperienza? — il dirit­to di prendere la parola su un tale superiore problema di gerarchia: per non parlare, come i ciechi quando parlano di colori o le donne e gli artisti, con­tro la scienza («ah, questa maledetta scienza», sospira il loro istinto e il lo­ro pudore «viene sempre a capo di tutto»). La dichiarazione d'indipenden­za dello scienziato, la sua emancipazione dalla filosofia, è uno degli effetti più sottili dall'essere e del non-essere democratico: l'autoglorificazione e l'arroganza del dotto sono oggi dappertutto in piena fioritura e nella loro migliore primavera, — con ciò non si può ancora dire che in questo caso una tale lode di sé abbia un profumo gradevole. «Via tutti i signori!» — così vuole qui anche l'istinto della plebe; e dopo che la scienza si è difesa con gran successo dalla teologia, di cui è stata troppo a lungo l'«ancella», ora, nella sua assoluta arroganza e dissennatezza tende a imporre le leggi alla filosofia e a fare anche lei, per una volta, da «padrona» — che cosa di­co! — a recitare il ruolo del filosofo. La mia memoria — la memoria di un uomo di scienza, con il vostro permesso! — rigurgita delle arroganti inge­nuità che ho sentito sulla filosofia e sui filosofi da parte di giovani natura­listi e vecchi medici (per non parlare dei più colti e presuntuosi di tutti i dotti, i filologi e i maestri, che hanno per professione entrambe queste qua­lità). Ora era lo specialista, che sta rintanato nel suo angolo, che istintiva­mente si mette in guardia contro tutti i compiti e le capacità sintetiche; ora il laborioso operaio che aveva sentito odor di otium e di signorile prosperi­tà nell'economia spirituale dei filosofi e se n'era sentito danneggiato e smi­nuito. Ora quel daltonismo dell'uomo utilitario, che nella filosofia non ve­de altro che una serie di sistemi confutati e un prodigo dispendio che «non giova» a nessuno. Ora appare all'improvviso il timore di un misticismo ca­muffato e di una correzione dei confini della conoscenza; ora il disprezzo per alcuni filosofi, che si era arbitrariamente esteso in disprezzo per la filo­sofia. Più spesso infine ho trovato nei giovani dotti, dietro l'arrogante disi­stima della filosofia persino l'influsso negativo di un filosofo, al quale si era in verità rifiutata l'ubbidienza, senza essere però sfuggiti al fascino del­le sue sprezzanti valutazioni di altri filosofi: — con il risultato di uno stato d'animo complessivamente negativo contro ogni filosofia. (Di questo ge­nere mi sembra ad esempio l'influenza di Schopenhauer sulla Germania moderna: con la sua stupida rabbia contro Hegel ha portato tut-

Page 86: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

502 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

ta l'ultima generazione di Tedeschi a interrompere un rapporto con la cul­tura tedesca, la quale, tutto considerato, è stata una vetta e un divinatorio perfezionamento del senso storico: ma Schopenhauer stesso, proprio su questo punto era povero, non ricettivo, non tedesco fino alla genialità.) In generale, calcolando le cose all'ingrosso, può essere che sia stato soprattut­to l'umano, troppo umano, in breve la stessa meschinità dei nuovi filosofi, ciò che ha recato un danno definitivo alla venerazione per la filosofia e aperto le porte all'istinto plebeo. Confessiamoci dunque, fino a che grado si discosti dal nostro mondo moderno l'intero gruppo degli Eraclito, dei Platone, degli Empedocle, o comunque si siano chiamati tutti questi regali e splendidi eremiti dello spirito; e a che diritto, di fronte a tali rappresen­tanti della filosofia, che oggi grazie alla moda, sono tanto in voga quanto poco compresi, — come ad esempio, in Germania, i due leoni di Berlino, l'anarchico Dùhring e l'amalgamista Edmond von Hartmann — un onesto scienziato possa sentirsi di più alta origine. Particolarmente lo spettacolo di quei filosofi della confusione, che si chiamano «filosofi della verità» o «positivisti», è in grado di gettare una pericolosa diffidenza nell'anima di un giovane dotto ambizioso: essi stessi, nel migliore dei casi, sono dotti e specialisti, lo si coglie con mano! — essi sono tutti quanti dei vinti, ricon­dotti sotto il dominio della scienza, essi che un giorno hanno chiesto a se stessi qualche cosa di più, senza aver diritto a questo «più» e alla sua re­sponsabilità — e che oggi rappresentano con la parola e con l'azione l'in-credulità verso la missione di guida e la sovranità della filosofia, in modo dignitoso, rabbioso, vendicativo. Ma infine: come potrebbe essere altri­menti! La scienza oggi fiorisce e porta chiaramente in volto la sua tranquil­la coscienza, mentre ciò contro cui è in generale affondata tutt'intera la fi­losofia moderna, questo avanzo di filosofia che oggi abbiamo, provoca contro di sé diffidenza e malumore, se non scherno e pietà. Filosofia ridot­ta a «teoria della conoscenza», in effetti non più di una timida epochistica e una teoria dell'astinenza: una filosofia, che non è in grado di superare la soglia e rifiuta penosamente a se stessa il diritto d'ingresso — questa è una filosofia in agonia, una fine, un morire, qualcosa che muove a pietà. Come potrebbe una tale filosofia dominarci

205.

I pericoli per Io sviluppo del filosofo oggi in verità sono così vari che si potrebbe dubitare se questo frutto potrà mai giungere a maturazione. Il terreno e la torre delle scienze sono cresciuti a dismisura, come anche la probabilità che il filosofo si stanchi già da allievo o si fermi in qualche luo­go e «si specializzi»: e così non giungerà più alla vetta, cioè alla visione d'insieme, circolare, alla visione di ciò che sta sotto. O vi giungerà troppo tardi, quando il suo miglior tempo e la sua energia saranno già svaniti; o danneggiati o resi più grossolani, degenerati, cosicché la sua vista, il suo giudizio complessivo di valore avranno un significato sempre minore. Pro­prio la delicatezza della sua coscienza intellettuale lo farà forse esitare ed indugiare lungo il cammino; egli teme la seduzione del dilettantismo, del millepiedi e milletentacoli, egli sa troppo bene che uno che abbia perso il ri­spetto di sé, non comanda più, non guida più, anche se è un uomo della co­noscenza, egli dovrebbe allora accettare di diventare il grande attore, il Ca­gliostro filosofo e il cacciatore di topi degli spiriti, in breve il seduttore. Dopo tutto questo è un problema di gusto: se non fosse addirittura un prò-

Page 87: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SESTA. NOI DOTTI 503

blema della coscienza. A ciò si aggiunge, per moltiplicare ancora la diffi­coltà del filosofo, che egli pretende da sé un giudizio, un sì o un no, non sulla scienza, ma sulla vita e il valore della vita — che egli impara a stento a credere di avere un diritto o addirittura un dovere a questo giudizio e che deve cercare la via verso quel diritto e quella fede solo dopo numerose esperienze — forse importune e distruttrici — e spesso indugiando, dubi­tando e ammutolendo. In realtà per molto tempo la massa ha disconosciu­to il filosofo e lo ha confuso sia con lo scienziato e il dotto ideale, sia con l'entusiasta dell'elevata religiosità, desensualizzato, «smondanizzato» o con l'ebbro di Dio; e se ancor oggi si sente lodare qualcuno perché vive da «saggio» o «da filosofo», ciò non significa quasi niente di più che «accor­tamente e in disparte». Saggezza: alla plebe ciò sembra una specie di fuga, un mezzo e un'acrobazia per trarsi fuori con successo da un gioco rischio­so; ma il vero filosofo — non pare così a noi, amici miei? — vive «non da filosofo» e «non da saggio», e soprattutto senza accortezza e sente il peso e l'obbligo di cento tentativi e cento tentazioni della vita: — egli rischia co­stantemente se stesso, egli gioca il gioco rischioso...

206.

Di fronte a un genio, vale a dire a un essere che procrea e partorisce prendendo entrambi i termini nel loro significato più alto — il dotto, lo scienziato medio, ha sempre un qualcosa della vecchia zitella: poiché come lei, non capisce nulla delle due più pregevoli realizzazioni umane. In effetti si riconosce ad entrambi, al dotto e alla vecchia zitella, come risarcimento, la rispettabilità — si sottolinea, in tali casi la rispettabilità, e si ha anche, di fronte alla costrizione di un tale riconoscimento, la stessa dose di fastidio. Ma guardiamo con maggior attenzione: che cos'è l'uomo di scienza? Pri­ma di tutto un tipo d'uomo privo di distinzione con le virtù d'un uomo non nobile, cioè non dominatore, non autoritario e neppure bastante a se stesso: egli possiede operosità, paziente capacità di classificazione e alli­neamento, regolarità e misura nelle possibilità e nei bisogni, egli ha l'istin­to dei suoi simili e di ciò di cui i suoi simili hanno bisogno, ad esempio di quella dose di indipendenza e di verdi prati senza i quali non esiste alcuna pace nel lavoro, quella pretesa all'onore e al riconoscimento (che presup­pone prima e al di sopra di tutto conoscenza e capacità di discernere —) quella solarità del buon nome, quel costante suggello del suo valore e della sua utilità con i quali si deve sempre superare l'interiore diffidenza, il sedi­mento del cuore di ogni uomo dipendente e di ogni animale del gregge. Il dotto ha, come è giusto, anche le malattie e le cattive maniere di una stirpe non nobile: è ricco di piccole invidie e ha un occhio acutissimo per quanto vi è di basso in quella natura alla cui altezza egli non può più giungere. È fiducioso, tuttavia soltanto come uno che si lascia andare e non fluire, e proprio di fronte all'uomo dal grande flusso egli se ne sta lì, tanto più fred­do e chiuso, — il suo occhio è allora come un piatto lago ripugnante che nessun entusiasmo, nessuna partecipazione increspa più. La cosa peggiore e la più pericolosa di cui sia capace un dotto gli viene dall'istinto della me­diocrità della sua specie: da quel gesuitismo della mediocrità il quale lavora istintivamente alla distruzione dell'uomo d'eccezione e cerca di spezzare — o meglio ancora! — di allentare ogni arco teso. Allentare naturalmente con attenzione, con mano leggera —, allentare con amichevole pietà: questa è la vera e propria arte del gesuitismo, che ha sempre saputo farsi passare co­me religione della pietà. —

Page 88: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

504 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

207.

Per quanto si possa andare sempre con gratitudine incontro allo spirito oggettivo — e chi non si è mai sentito sazio, almeno una volta, fino a mo­rirne, di tutto il soggettivo e del suo maledetto solipsismo — tuttavia alla fine bisogna imparare a stare in guardia contro la propria gratitudine e contenere l'esagerazione con la quale ultimamente la rinuncia in sé e alla spersonalizzazione vengono celebrate come uno scopo in sé, come reden­zione e trasfigurazione: come suole cioè avvenire nella scuola pessimista, la quale ha anche buoni motivi per tributare i massimi onori alla «conoscenza disinteressata». L'uomo oggettivo, che non maledice e non impreca più, come il pessimista, il dotto ideale nel quale l'istinto scientifico giunge a fio­ritura e sfiorisce dopo mille insuccessi completi e parziali, è sicuramente uno degli strumenti più preziosi che ci siano: ma è in possesso di uno più potente. Egli è solo uno strumento, diciamo: è uno specchio, — non un «fine a sé». L'uomo oggettivo è in effetti uno specchio: soprattutto abitua­to alla sottomissione a tutto ciò che vuole essere conosciuto, senza alcuna altra gioia che quella che gli dà il conoscere, il «rispecchiare», — egli aspet­ta fino a che qualcosa giunga e si dispiega poi delicatamente, perché anche i passi leggeri e il lieve passaggio di esseri spettrali sulla sua superficie e la sua pelle non vadano perduti. Ciò che ancora gli resta della sua «Persona», gli appare casuale, spesso arbitrario, ancora più spesso importuno: tanto è diventato egli stesso un passaggio e un riflesso di figure e di avvenimenti sconosciuti. Egli riflette su di «sé» con fatica, non di rado in modo errato; si scambia facilmente con un altro, si sbaglia nei riguardi dei suoi propri bisogni ed è, soltanto qui, rozzo e trascurato. Forse lo tormenta la salute e la meschinità o l'aria di chiuso della donna e dell'amico, o la mancanza di compagni e di compagnia, — sì, egli si costringe a riflettere sul suo tormen­to: invano! Già il suo pensiero vaga e si allontana verso il caso più generale e domani egli saprà tanto poco come lo sapeva ieri come si potrebbe por­targli aiuto. Ha perduto la serietà per se stesso, anche il tempo: è gaio, non per assenza di pena, ma per assenza di dita e di appigli per la sua pena. L'usuale condiscendenza verso ogni cosa e ogni esperienza, la solare e na­turale ospitalità con cui accoglie tutto ciò che incontra, il suo genere di du­ra benevolenza, di pericolosa indifferenza per il sì e per il no: oh, sono nu­merosi i casi nei quali egli deve scontare le sue virtù! e soprattutto come uomo egli diviene perfino troppo facilmente il caput mortuum di queste virtù. E si vuole da lui amore e odio, voglio dire amore e odio come lo in­tendono dio, la donna e l'animale —: farà ciò che può, e darà ciò che può. Ma non dobbiamo meravigliarci se non è molto, — se egli si mostra in ciò addirittura inautentico, fragile, incerto e fatiscente. Il suo amore è voluto, il suo odio artificioso e più che altro un tour de force, una piccola vanità e una piccola esagerazione. Egli è autentico soltanto nella misura in cui può essere obiettivo: solo nel suo sereno totalismo egli è ancora «natura» e «naturale». La sua anima che riflette ed eternamente si placa non sa più af­fermare più negare: egli non comanda, e neppure distrugge. «Je ne méprise presque rien» — egli dice con Leibnitz: non si faccia finta di non sentire e non si sottovaluti il presque rien! Egli non è neppure un uomo modello; non precede né segue nessuno, egli si situa in generale troppo lontano per avere motivo di prendere partito per il bene e il male. Se per tanto tempo lo si è confuso con il filosofo, con l'educatore cesareo o il violento della cul­tura, gli si sono resi onori troppo alti e non si è mirato all'essenziale in lui,

Page 89: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SESTA. NOI DOTTI 505

— egli è uno strumento, un oggetto di schiavitù, anche se certamente della specie più sublime, ma nulla in se stesso, — presque rienl L'uomo obietti­vo è uno strumento, un prezioso, fragile strumento di misura e un capola­voro di specchio di cui bisogna aver cura e che bisogna onorare; ma non è uno scopo, un esito e un'ascesa, non un uomo complementare di cui si giu­stifica la restante esistenza, una conclusione — e ancor meno un inizio, una generazione e causa prima, nulla di solido, possente, fondato su di sé, che voglia dominare: piuttosto soltanto un fragile vaso plasmabile in molte forme, soffiate, delicate, mutevoli, il quale deve aspettare un qualche con­tenuto e valore per «formarsi» secondo quest'ultimo, — è di solito un uo­mo senza alcun contenuto e valore, un uomo senza «se stesso»! Di conse­guenza un nulla anche per le donne, in parenthesi.

208.

Se oggi un filosofo dà ad intendere di non essere uno scettico, — spero che lo si comprenda dalla descrizione dello spirito obiettivo appena data — tutto lo ascoltano mal volentieri; lo si guarda con un certo imbarazzo, si vorrebbe porgli tante domande, interrogarlo... anzi, fra gli ascoltatori pa­vidi come ce ne sono oggi nella massa, egli verrà definito da questo mo­mento pericoloso. Per loro è come se, nel suo rifiuto dello scetticismo, sen­tissero, in lontananza, un rumore cattivo e minaccioso, come se da qualche parte venisse sperimentato un nuovo esplosivo, una dinamite dello spirito, forse una nichilina russa scoperta da poco, un pessimismo bonae volunta-tis che non dice soltanto, non vuole soltanto il no, ma — terribile a pensar­si! lo mette in pratica. Contro questo tipo di «buona volontà» — una vo­lontà di reale, effettiva negazione della vita — non esiste oggi, notoriamen­te, nessun sonnifero e calmante migliore dello scetticismo, il tenero, ama­bile, soporifero papavero dello scetticismo; e lo stesso Amleto viene pre­scritto oggi dai medici del tempo contro lo «spirito» e i suoi rumori sotter­ranei. «Non si hanno dunque già piene le orecchie di rumori sgradevoli?» dice lo scettico, amico della tranquillità e quasi una specie di agente di pub­blica sicurezza: «questo no» sotterraneo è terribile! Tacete dunque, voi, talpe pessimistiche! Vale a dire che lo scettico, questo essere delicato, si spaventa troppo facilmente; la sua coscienza è abituata a sobbalzare ad ogni no, anzi già ad ogni deciso e duro sì, e a sentirsi quasi mordere. Sì! e no! — per lui queste sono cose contrarie alla morale; egli ama al contrario festeggiare la sua virtù con la nobile astensione, per esempio dicendo con Montaigne: «cosa sono io?». O con Socrate: «so di non sapere nulla». O: «Qui non mi fido, qui per me non c'è nessuna porta aperta». O: «e se fosse aperta, perché entrare subito?». O: «a che cosa servono tutte le ipotesi av­ventate? Astenersi dal fare delle ipotesi potrebbe benissimo essere conve­niente al buon gusto. Dovete proprio assolutamente raddrizzare subito ciò che è storto? Tappare assolutamente ogni buco con un qualsiasi straccio? Non c'è forse tempo per questo? Non ha forse tempo il tempo? O voi, dia­voli che siete, non potete dunque aspettare! Anche l'incerto ha il suo fasci­no, anche la sfinge è una Circe, anche la Circe era un filosofo». — Dunque lo scettico si consola; ed è vero che ha bisogno di qualche conforto. Lo scetticismo infatti è l'espressione più spirituale di una certa complessa con­dizione fisiologica che nel linguaggio comune viene chiamata fragilità di nervi e salute cagionevole; essa appare non appena razze o ceti per lungo tempo divisi tra loro si incrociano bruscamente e all'improvviso. Nella nuova generazione che riceve in eredità, nel proprio sangue, misure e vaio-

Page 90: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

506 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

ri diversi, tutto è inquietudine, disagio, dubbio, tentativo; le forze migliori agiscono in modo inibitorio, le virtù stesse si ostacolano reciprocamente nella crescita e nel loro rafforzamento, corpo e anima mancano di equili­brio, di peso, di perpendicolare sicurezza. Ma ciò che in tali ibridi più pro­fondamente si ammala e degenera è la volontà: essi non conoscono più l'indipendenza nella decisione, il coraggioso piacere nell'esercizio della vo­lontà, — essi dubitano della «libertà del volere» persino nei loro sogni. La nostra Europa attuale, teatro di un tentativo insensatamente repentino di radicale mescolanza dei ceti e di conseguenza delle razze, è perciò scettica in ogni altezza e profondità, ora di quell'inabile scetticismo che salta con impazienza e avidità da un ramo all'altro, ora fosca come una nuvola gon­fia di punti interrogativi, — e sazia, spesso, fino alla morte, della sua vo­lontà! Paralisi della volontà: dove mai oggi non si trova seduta questa in­ferma! E come è adornata! In che modo attraente si è adornata! Ci sono i più splendidi vestiti di gala e di menzogna per questa malattia; e che ad esempio la massima parte di ciò che oggi si espone come «oggettività», «scientificità», «l'art pour l'art», «pura conoscenza immune dalla volon­tà», sia soltanto adornato scetticismo e paralisi della volontà, — per que­sta diagnosi della malattia europea voglio garantire io — La malattia della volontà si è diffusa in Europa in maniera irregolare: essa si mostra con maggiore intensità e multiformità là dove la cultura ha sede già da lunghis­simo tempo, scompare nella misura in cui «il barbaro» fa valere — o torna a far valere — il suo diritto sotto la veste ciondolante dell'educazione occi­dentale. Nella Francia contemporanea, per conseguenza, come si può al­trettanto facilmente arguire quanto toccare con mano, la volontà è malata nel modo più grave e la Francia, che ha sempre avuto un insuperabile ta­lento nel capovolgere anche i più infausti mutamenti del suo spirito in qualche cosa di seducente e di allettante, mostra oggi, proprio in quanto scuola e teatro di ogni incanto dello scetticismo, il suo dominio culturale sull'Europa. La forza di volere, e cioè di volere a lungo una volontà, è già un po' più salda in Germania, e al nord più salda che al centro; considere­volmente più forte in Inghilterra, Spagna e Corsica, legata lì alla flemma, qui alla durezza del cranio, — tralasciando l'Italia, che è troppo giovane per sapere già cosa vuole, e che prima deve dimostrare di saper volere —, ma più forte e più stupefacente che mai in quell'immenso impero di mezzo, in cui l'Europa per così dire rifluisce nell'Asia, in Russia. Qui la forza di volontà si è conservata e accumulata da lungo tempo, qui la volontà atten­de — e non è chiaro se come volontà di negazione o di affermazione — in atteggiamento minaccioso di venire scatenata, per adoperare il termine preferito dei fisici contemporanei. Potrebbero rendersi necessarie, non sol­tanto guerre indiane e complicazioni in Asia affinché l'Europa venga libe­rata dal suo maggior pericolò, ma rivolgimenti interni, la frantumazione dell'Impero in piccoli corpi e soprattutto l'introduzione dell'idiozia parla­mentare, compreso l'obbligo per ognuno di leggere il giornale a colazione. Non dico questo perché Io desidero: il mio cuore vorrebbe piuttosto il con­trario, — intendo un tale aumento della pericolosità in Russia da costrin­gere l'Europa a decidere di divenire a sua volta minacciosa a conseguire cioè, per mezzo di una nuova casta dominante sopra l'Europa, un'unica volontà, una lunga terrificante volontà propria capace di porsi compiti a distanza di millenni: — per mettere fine alla commedia a lungo tramata del suo particolarismo politico come pure alla sua multiforme velleità dinasti­ca e democratica. Il tempo della piccola politica è passato: già il prossimo

Page 91: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SESTA. NOI DOTTI 507

secolo porta con sé la lotta per la dominazione mondiale, — la costrizione alla grande politica.

209.

Sino a che punto la nuova epoca guerriera in cui noi Europei siamo evi­dentemente entrati, possa essere favorevole forse anche alla evoluzione di un diverso e più rigoroso tipo di scetticismo, potrei esprimerlo per il mo­mento solo con una allegoria che gli amici della storia tedesca comprende­ranno sicuramente. Quell'entusiasta senza scrupoli degli splendidi alti gra­natieri che, come il re di Prussia, diede vita a un genio militare e scettico — e con ciò, in fondo, quel nuovo tipo di tedesco che ora si è appunto vitto­riosamente affermato —, il padre inquieto e stravagante di Federico il Grande, ebbe almeno in un punto il tocco e la mano felice del genio: egli sapeva cosa mancava allora in Germania, e quale carenza fosse cento volte più impellente e più urgente della carenza, ad esempio, di cultura e forme sociali — la sua avversione al giovane Federico veniva dall'ansia di un istinto profondo. Mancavano gli uomini; ed egli sospettava, con amarissi-mo rincrescimento che il suo stesso figlio non fosse uomo abbastanza. In ciò si ingannava: ma chi non si sarebbe ingannato al suo posto? Vedeva suo figlio abbandonato all'ateismo, all'esprit, alla voluttuosa spensieratez­za dei Francesi geniali: vedeva sullo sfondo il grande succhiatore di san­gue, il ragno dello scetticismo, sospettava l'insanabile miseria di un cuore che non è più abbastanza duro né per il male né per il bene, di una volontà spezzata, che non comanda più, che non può più comandare. Ma nel frat­tempo cresceva in suo figlio quella nuova più pericolosa e più dura specie di scetticismo — chi sa quanto favorita proprio dall'odio del padre e dalla gelida malinconia di una volontà formatasi nella solitudine — lo scettici­smo di una virilità audace, che è strettamente imparentato al genio della guerra e della conquista e che fece il suo ingresso in Germania con la figura del grande Federico. Questo scetticismo disprezza e tuttavia attira a sé; dis­sotterra e si appropria; non crede, ma non si perde in ciò; dà allo spirito una pericolosa libertà, ma mantiene duro il cuore; è la forma tedesca dello scetticismo, che come un federicianismo continuato e spiritualmente raf­forzato ha condotto l'Europa, per lungo tempo, sotto il dominio dello spi­rito tedesco e della sua diffidenza critica e storica. Grazie allo spirito virile, tenacemente forte e virile dei grandi filologi e dei grandi critici storici tede­schi (i quali, se si guarda bene, erano tutti anche artisti della distruzione e della disgregazione) poco per volta e nonostante ogni romanticismo si de­terminò nella musica e nella filosofia una nuova concezione dello spirito tedesco nella quale si manifestava in modo determinante il tratto dello scetticismo virile: sia ad esempio nel coraggio dello sguardo, nel valore e nella durezza della mano distruttrice, sia nella tenace volontà di pericolosi viaggi esplorativi, di spirituali spedizioni artiche sotto cieli deserti e perico­losi. Può darsi che vi siano buoni motivi se uomini umanitari, superficiali e dal sangue caldo si sono fatti il segno di croce proprio davanti a questo spi­rito: cet esprit fataliste, ironique, méphistophélique io chiama, non senza orrore Michelet. Ma per comprendere quanto sia indicativo questo timore di fronte ali'«uomo» nello spirito tedesco, che svegliò l'Europa dal suo «sonno dogmatico», si ricordi l'antico concetto che si dovette per suo mez­zo superare — e si ricordi che non è passato troppo tempo da quando una donna mascolinizzata osò, con sfrenata presunzione, raccomandare i Tede­schi all'interesse dell'Europa, come dolci poetici sciocchi, buoni di cuore e

Page 92: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

508 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

deboli di volontà. Si comprenderà infine lo stupore di Napoleone quando incontrò Goethe: esso svela ciò che per secoli si era pensato dello spirito te­desco. «Voilà un homme!» — Ciò voleva dire: «È proprio un uomo! E io mi ero aspettato soltanto un tedesco!». —

210.

Posto che nell'immagine dei filosofi del futuro un qualche tratto ci fac­cia capire che dovranno forse essere, nel senso indicato per ultimo, degli scettici, si sarebbe indicato in tal modo soltanto un qualche loro lato, — e non loro stessi. Con ugual diritto potrebbero farsi chiamare crìtici; e senza dubbio saranno degli sperimentatori. Con il nome con cui ho osato battez­zarli, ho già sottolineato esplicitamente lo sperimentare e il piacere dello sperimentare: ciò è avvenuto perché costoro, in quanto critici del corpo e dell'anima amano far uso dell'esperimento in un senso nuovo, forse più vasto, forse più pericoloso? Debbono procedere, nella loro passione per la conoscenza, con esperimenti audaci e dolorosi, al di là di quanto possa am­mettere il gusto morbido e infiacchito di un secolo democratico? — Non c'è dubbio: per lo meno questi che verranno non potranno fare a meno dì quelle qualità serie e non innocenti che differenziano il critico dallo scetti­co; voglio dire la sicurezza della misura di valore, la cosciente utilizzazione di un'unità di metodo, l'astuto coraggio, lo stare da soli e il sapersi assu­mere una responsabilità; sì, essi ammettono in sé un piacere nel dire di no e nel sezionare, e una certa avveduta crudeltà che sa guidare il coltello con si­curezza e finezza anche quando il cuore sanguina. Essi saranno più duri (e forse non sempre contro di sé) di quanto uomini umani possano desidera­re, non avranno a che fare con la «verità» perché essa «piaccia» loro o li «innalzi» o li «entusiasmi»: — piuttosto la loro fede nel fatto che proprio la verità comporti tali piaceri per il sentimento sarà minima. Sorrideranno, questi spiriti rigorosi, se qualcuno dirà di fronte a loro: «Quel pensiero mi eleva: come potrebbe non essere vero?». Oppure: «Quell'opera mi estasia: come potrebbe non essere bella?». Oppure: «Quell'artista mi rende più grande: come potrebbe non essere grande?» — essi non avranno forse sol­tanto un sorriso, ma un vero e proprio disgusto per tutto quanto è in tal modo estasiato, idealistico, effeminato, ermafrodita, e chi sapesse seguirli fin nel segreto del loro cuore, vi troverebbe con difficoltà il proponimento di conciliare «sentimenti cristiani» con il «gusto antico» e anche addirittu­ra con il «moderno parlamentarismo» (e un tale carattere conciliante, nel nostro secolo molto incerto e di conseguenza molto conciliante si trova perfino nei filosofi). Questi filosofi del futuro non solo pretenderanno da sé disciplina critica e ogni attitudine che conduca alla purezza e al rigore nelle cose dello spirito: essi potrebbero esibirle addirittura come il loro or­namento — e tuttavia non vogliono per questo essere chiamati critici. Non sembra loro una umiliazione di poco conto quella che viene inflitta alla fi­losofia quando si decreta, come oggi accade spesso e volentieri: «La filoso­fia in se stessa è critica e scienza critica — e null'altro!». Questa valutazio­ne della filosofia gode pure del consenso di tutti i positivisti di Francia e Germania (— e sarebbe possibile che essa avesse sedotto persino il cuore e il gusto di Kant: si ricordi il titolo delle sue opere principali —), ciò nono­stante i nostri nuovi filosofi diranno: i critici sono strumenti dei filosofi e proprio per ciò, in quanto strumenti, ben lontani dall'essere essi stessi filo­sofi! Anche il grande cinese di Kònigsberg fu soltanto un grande critico. —

Page 93: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SESTA. NOI DOTTI 509

211.

Insisto perché si smetta finalmente di confondere gli operai della filoso­fia e in generale gli uomini di scienza con i filosofi — si dia appunto qui, con rigore, «ad ognuno il suo» e non troppo a quelli e troppo poco a que­sti. Può essere che sia necessario per l'educazione del vero filosofo che lui pure si sia soffermato una volta su tutti i gradini sui quali i suoi servitori, gli operai scientifici della filosofia, si fermano — devono fermarsi; egli stesso dev'essere stato forse critico e scettico e dogmatico e storico e inoltre poeta e raccoglitore e viaggiatore e scioglitore di enigmi e moralista e pro­feta e «libero spirito» insomma tutto, per percorrere l'ambito dei valori umani e dei sentimenti di valore umani e per poter guardare, con molteplici sguardi e coscienze, dall'alto verso ogni lontananza, dalla profondità verso ogni altezza, dall'angolo verso ogni ampiezza. Ma tutte queste cose non sono altro che condizioni preliminari del suo compito: questo stesso com­pito esige qualcosa di diverso, — esso pretende che egli crei dei valori. Quegli operai filosofici secondo il nobile modello di Kant e di Hegel hanno il compito di determinare e costringere in formule ogni vasta fattispecie di stima di valore — cioè di antiche definizioni, di creazioni di valori, che so­no diventate predominanti e per un certo periodo sono state chiamate «ve­rità» — sia nell'ambito della logica che della politica (morale) o dell'arte. Spetta a questi ricercatori il compito di rendere chiari, intellegibili, afferra­bili, maneggevoli tutti gli avvenimenti e le valutazioni che si sono avute si­no ad oggi, abbreviare ogni lunghezza, il «tempo» stesso, e vincere l'intero passato: un compito immenso e splendido in grado di appagare sicuramen­te ogni sottile ambizione, ogni ostinata volontà. Ma i veri filosofi sono co­loro che comandano e dettano legge: essi dicono «così dev'essere!» essi de­terminano per prima cosa la direzione e lo scopo dell'uomo e dispongono con ciò del lavoro preliminare di tutti gli operai filosofici, di tutti i domina­tori del passato — essi tendono verso il futuro la loro mano creatrice e tut­to ciò che è e fu diventa con ciò per essi mezzo, strumento, maglio. Il loro «conoscere» è creare, il loro creare è dettar leggi, la loro volontà di verità è — volontà di potenza. Ci sono oggi tali filosofi? Vi furono mai tali filoso­fi? Dovranno essercene?...

212.

Sono portato sempre di più a credere che il filosofo in quanto uomo ne­cessario del domani o del dopodomani si sia trovato e abbia dovuto trovar­si in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: per lui il nemico fu ogni volta l'ideale dell'oggi. Finora tutti questi straordinari promotori dell'uo­mo, che vengono chiamati filosofi e che di rado si sentirono amici della saggezza; ma piuttosto sgradevoli buffoni e pericolosi punti interrogativi — hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile com­pito, infine però anche la sua grandezza nell'essere la cattiva coscienza del loro tempo. Mentre immergevano il coltello, proprio nel petto delle virtù del tempo, essi tradivano ciò che era il loro proprio segreto: conoscere una nuova grandezza dell'uomo, una nuova via, mai percorsa, per la sua eleva­zione. Ogni volta scoprirono quanta falsità, indolenza, quanto lasciarsi an­dare e lasciarsi cadere, quante menzogne fossero nascoste sotto il tipo maggiormente onorato della moralità contemporanea, quanta virtù fosse sopravvissuta; ogni volta essi dissero: «dobbiamo andare là, uscire di là,

Page 94: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

510 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

dove voi oggi vi sentite maggiormente estranei». Di fronte a un mondo del­le «idee moderne», che vorrebbe confinare ognuno nel suo angolo e nella sua «specialità», un filosofo, se mai oggi potessero esservi dei filosofi, sa­rebbe costretto a porre la grandezza dell'uomo, il concetto di «grandezza» proprio nella sua estensione e molteplicità, nella sua interezza in molte co­se: egli determinerebbe addirittura il valore e il grado a seconda di quante o quali cose uno può portare e prendere su di sé, a seconda del limite fino al quale uno può dilatare la propria responsabilità. Oggi il gusto e la virtù dell'epoca indeboliscono e assottigliano la volontà, nulla è tanto affine a quest'epoca quanto l'indebolimento della volontà: dunque, nell'ideale del filosofo, proprio la forza del volere, la durezza e l'attitudine a decisioni durevoli deve essere parte del concetto di «grandezza»; allo stesso modo con cui la dottrina opposta e l'ideale di una stupida, rinunciataria, sotto­messa altruistica umanità erano conformati a un'epoca opposta, tale che, come il secolo xvi, soffriva per l'accumulazione di energia della sua volon­tà e per le più irruente e selvagge tempeste del suo egoismo. Al tempo di Socrate, tra uomini dall'istinto ormai spossato, tra vecchi Ateniesi conser­vatori, che si lasciavano andare — «verso la felicità», come essi dicevano, ma da quel che facevano verso il piacere, — e che nello stesso tempo ave­vano sempre sulle labbra le antiche fastose parole che per la loro vita non avevano più da lungo tempo il diritto di pronunciare era forse necessaria l'ironia per la grandezza spirituale, quella socratica maligna sicurezza del vecchio medico e del plebeo, che incideva senza pietà la sua propria carne, come la carne e il cuore del «nobile», con uno sguardo che con sufficiente chiarezza diceva: «non fingete di fronte a me! Qui — siamo uguali!». Oggi è l'opposto, qui in Europa, dove solo l'animale del gregge ottiene onori e onori distribuisce, dove «l'uguaglianza dei diritti» potrebbe anche troppo facilmente mutarsi in uguaglianza dei torti: voglio dire nella lotta comune contro ogni tratto raro, sconosciuto, privilegiato dell'uomo superiore, del­l'anima superiore, del superiore dovere, della superiore responsabilità, del­la pienezza del potere creativo e dell'attitudine al dominio — oggi l'essere nobili, il voler essere per se stessi, il poter essere diversi, il restare soli e l'e­sigenza di vivere a modo proprio appartengono al concetto di «grandez­za»; e il filosofo scoprirà una parte del suo proprio ideale, se stabilirà: «Sarà il più grande chi saprà essere il più solitario, il più nascosto, il più derogante, l'uomo al di là del bene e del male, il padrone delle proprie vir­tù, il più ricco di volontà; questo appunto dovrà chiamarsi grandezza: il poter essere tanto molteplice quanto intero, tanto vasto quanto colmo». E ancora una volta si pone la domanda: è possibile, oggi, la grandezza?

213.

Che cosa sia un filosofo, lo si può imparare con difficoltà, perché non Io si può insegnare; bisogna «saperlo» per esperienza, o si deve essere tanto orgogliosi da non volerlo sapere. Ma che al giorno d'oggi tutti parlino di cose, delle quali non possono avere nessuna esperienza, vale soprattutto, e con maggiore gravità, per il filosofo e le situazioni filosofiche: pochissimi le conoscono e sono in grado di conoscerle e tutte le opinioni popolari al loro riguardo sono false. Così, ad esempio, è sconosciuta, per diretta espe­rienza, alla maggior parte dei pensatori e dei dotti, e perciò, nel caso che qualcuno volesse parlarne di fronte a loro, incredibile, quella coesistenza veramente filosofica di una ardita briosa spiritualità, il ritmo del cui fluire è il presto, con un rigore e una necessità dialettica che non commette alcun

Page 95: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SESTA. NOI DOTTI 511

passo falso. Essi si rappresentano ogni necessità come pena, come penosa obbedienza e costrizione; e il pensiero stesso è per loro qualcosa di lento, di incerto, quasi un affanno e abbastanza spesso «degno del sudore dei nobi­li» ma assolutamente mai qualcosa di lieve, di divino e di strettamente affi­ne alla danza, alla sfrenatezza. «Pensare» e «prendere sul serio» una cosa, «considerarla con gravità» — questo è tutt'uno per loro: solo così essi lo hanno «vissuto». Gli artisti probabilmente hanno già a questo proposito un fiuto più sottile: essi, che sanno anche troppo bene che proprio quando non fanno più nulla di «arbitrario», ma tutto per necessità, proprio allora il loro senso di libertà, sottigliezza, pieno potere, del porre, disporre, for­mare creativo, raggiunge la sua massima altezza — in breve che per loro necessità e «libertà del volere» sono proprio allora un'unica cosa. Esiste infine una gerarchia degli stati psichici alla quale corrisponde la gerarchia dei problemi: e i massimi problemi respingono inesorabilmente chiunque ha osato avvicinarsi a loro senza essere predestinato alla loro soluzione dall'altezza e dalla forza della sua spiritualità. Invano agili cervelli esperti e goffi onesti meccanici ed empirici premono intorno a loro, per così dire in­torno a questa «corte delle corti», come oggi avviene così spesso, con la lo­ro ambizione di plebei! Ma simili tappeti non dovranno mai essere calpe­stati da rozzi piedi: a ciò si è già provveduto nella legge primordiale delle cose; le porte restano chiuse a questi invadenti, anche se vi battono contro e vi si rompono il capo! Si è destinati per nascita ad ogni mondo elevato, detto più chiaramente bisogna esservi stati allevati: si ha un diritto alla fi­losofia — prendendo la parola in senso lato — solo grazie alla propria ori­gine, gli antenati, il «sangue» decidono anche qui. Molte generazioni devo­no aver contribuito alla nascita del filosofo; ogni sua virtù dev'essere stata individualmente conquistata, coltivata, ereditata, incorporata e non sol­tanto il passo ardito, lieve, tenero e il corso dei suoi pensieri, ma prima di ogni cosa la disponibilità a grandi responsabilità, l'altezza di uno sguardo dominatore, di uno sguardo che si volge a chi sta in basso, il sentimento della propria estraneità dalla massa e dai suoi doveri e virtù, l'affabile pro­tezione e la difesa di ciò che viene frainteso e calunniato, sia Dio o il diavo­lo, il piacere di esercitare la grande giustizia, l'arte del comando, la gran­dezza della volontà, lo sguardo lento che raramente ammira, raramente si solleva, raramente ama...

Page 96: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte settima Le nostre virtù

214. Le nostre virtù? — È verosimile che anche noi abbiamo le nostre virtù,

anche se come è logico esse non saranno più quelle candide e solide virtù per le quali onoriamo, ma teniamo anche un po' lontani da noi i nostri avi. Noi Europei di dopodomani, nei primogeniti del xx secolo — con tutta la nostra pericolosa curiosità, la nostra complessità e l'arte del travestimento, con la nostra morbosa e per così dire addolcita crudeltà nello spirito e nei sensi, — noi avremmo probabilmente, se dovessimo averle, virtù tali che sapessero accordarsi nel migliore dei modi con le nostre inclinazioni più se­grete e più sentite, con le nostre esigenze più ardenti: ebbene, cerchiamole dunque nei nostri labirinti! — dove, come si sa, tante cose si perdono e tante vanno completamente perdute. E c'è qualcosa di più bello, che cerca­re le proprie virtù? Questo non significa già credere quasi in esse? Ma que­sto «credere alle nostre virtù» — non è in fondo ciò che una volta si chia­mava la propria «buona coscienza», quella venerabile treccia di concetti in forma di un lungo codino che i nostri avi si appendevano dietro la testa e spesso anche dietro la ragione? Sembra perciò che, per quanto poco d'altra parte ci piaccia sembrare fuori moda e venerabili alla loro maniera, in una cosa tuttavia noi siamo i degni nipoti di questi avi, noi ultimi Europei con una buona coscienza: anche noi portiamo ancora la loro treccia — ah! Se voi sapeste quanto presto ormai — cambieranno le cose!...

215.

Come nel regno delle stelle due soli determinano talvolta l'orbita di un pianeta, come in certi casi soli di diverso colore illuminano un unico piane­ta, ora di luce rossa ora di luce verde, colpendolo e inondandolo poi di nuovo simultaneamente di luce variopinta: così noi uomini moderni, grazie alla complicata meccanica del nostro «firmamento» — siamo determinati da morali diverse; le nostre azioni s'illuminano alternativamente con diver­si colori, esse sono raramente univoche — e non mancano i casi nei quali compiamo azioni variopinte.

216.

Amare i propri nemici? Io credo che si sia imparato bene: avviene oggi in mille modi, nelle piccole cose e nelle grandi; anzi talvolta accade anche qualcosa di più alto e più sublime — noi impariamo a disprezzare, quando amiamo, e proprio quando amiamo di più: — ma tutto ciò inconsciamen­te, senza rumore, senza sfarzo, con quel pudore e quella segretezza della bontà che vieta alla bocca la parola solenne e la formula della virtù. Mora­le come attitudine — ciò ripugna oggi di nuovo al nostro gusto. Questo è

Page 97: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SETTIMA. LE NOSTRE VIRTÙ 513

anche un progresso: così fu un progresso nei nostri padri che alla fine ripu­gnasse al loro gusto la religione come attitudine, compresa l'ostilità e l'a­marezza voltairiana contro la religione (e tutto ciò che un tempo apparte­neva alla mimica del libero pensatore). È la musica nella nostra coscienza, la danza nel nostro spirito cui cui nessuna litania puritana, nessuna predica morale e nessun filisteismo vuole accordarsi.

217.

Attenzione di fronte a quelli che attribuiscono un alto valore al fatto che li si creda capaci di tatto morale e di finezza nella distinzione morale! Essi non ci perdoneranno mai se avranno sbagliato una volta di fronte a noi (o addirittura verso di noi) — essi diventeranno inevitabilmente i nostri istin­tivi calunniatori e ingiuriatori, anche se rimarranno ancora nostri «amici». — Beati coloro che dimenticano: perché si liberano anche delle loro stupi­daggini.

218. Gli psicologi francesi — e dove, d'altra parte, esistono oggi ancora degli

psicologi? — non hanno ancora finito di assaporare l'amaro e multiforme piacere della bètise bourgeoise, quasi come se... basta, con ciò essi lasciano intendere qualcosa. Flaubert, per esempio, il bravo borghese di Rouen, non vide, non udì e non gustò alla fine niente di diverso: era il suo modo di torturare se stesso, era la sua raffinata crudeltà. Ora, per cambiare — poi­ché la cosa sta diventando noiosa, io raccomando un modo diverso per an­dare in estasi: cioè l'inconscia astuzia, con la quale tutti i buoni, grassi e bravi spiriti della mediocrità si comportano nei confronti degli spiriti eleva­ti e dei loro compiti, quella astuzia finemente intrecciata, gesuitica, che è mille volte più raffinata dell'intelletto e del gusto di questa classe mediocre nei suoi momenti migliori — perfino più raffinata dell'intelletto delle sue vittime —: a ennesima dimostrazione che l'«istinto» è la più intelligente, tra tutte le specie di intelligenza che fino ad ora sono state scoperte. Insom­ma, studiate, psicologi, la filosofia della «regola» in lotta con l'«eccezio­ne»: avrete qui uno spettacolo buono abbastanza per gli dèi e per la divina malignità! o per parlare più chiaramente: operate una vivisezione sull'«uo-mo buono», sull'«homo bonae voluntatis»... su voi stessi!

219.

Giudicare e condannare in nome della morale è la vendetta preferita di chi è spiritualmente limitato su chi lo è meno, e inoltre una specie di rivalsa per essere stati poco considerati dalla natura, infine un'occasione per avere uno spirito e diventare sottili: — la malignità spiritualizza. In fondo al loro cuore, essi provano piacere di fronte al fatto che esista una misura davanti alla quale i superdotati di beni e privilegi dello spirito sono loro uguali: — essi lottano per la «uguaglianza di tutti davanti a Dio» e quasi si servono a questo scopo della fede in Dio. Tra costoro figurano i più vigorosi avversa­ri dell'ateismo. Chi dicesse loro «un'alta spiritualità non può essere messa a confronto con una qualche probità e rispettabilità di un uomo appunto soltanto morale» li renderebbe furiosi: — e io mi guarderò bene dal farlo. Piuttosto vorrei adularli dicendo che un'alta spiritualità esiste soltanto in quanto ultimo prodotto di qualità morali; che è una sintesi di tutte quelle

Page 98: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

514 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

condizioni che vengono attribuite agli uomini «solo morali» dopo esser state acquisite una ad una per mezzo di una lunga disciplina e un lungo esercizio, forse attraverso un lungo susseguirsi di generazioni; che l'alta spiritualità è appunto la spiritualizzazione della giustizia e di quel benevolo rigore che sa di avere il compito di mantenere nel mondo l'ordinamento ge­rarchico anche tra le cose e non soltanto tra gli uomini.

220.

La lode oggi così popolare del «disinteressato» ci deve far comprendere, forse non senza qualche pericolo, a che cosa il popolo veramente si interes­sa e quali sono in generale le cose delle quali l'uomo comune si occupa a fondo e profondamente: compresi gli uomini colti, e persino gli scienziati, e se non ci inganniamo anche i filosofi. Ne risulta il fatto, che la maggior parte di ciò che eccita e interessa i gusti più raffinati e più delicati, ogni na­tura superiore, appare all'uomo medio assolutamente «non interessante»: e se ciò nonostante egli vi noterà un fervore allora lo chiamerà «désintéres-sé» e si meraviglierà di come sia possibile agire «disinteressatamente». Ci sono stati filosofi che hanno saputo conferire a questa sorpresa popolare anche un'espressione seducente e misticamente ultraterrena (— forse per­ché non conoscevano la natura superiore per diretta esperienza?) — invece di stabilire la nuda e logica verità che l'azione «disinteressata» è un'azione molto interessante e interessata, ammesso che... «è l'amore?» — come! Perfino un atto d'amore deve essere «altruistico»? Ah, sciocchi! «E la lode di chi si sacrifica?» — Ma chi si è realmente sacrificato sa di aver ricevuto e di aver voluto qualche cosa per questo, — forse qualcosa di sé per qualcosa di sé — sa di aver offerto qui, per aver lì qualche cosa di più, forse per es­sere in generale qualcosa di più o per sentirsi come «più». Ma questo è un campo di domande e risposte in cui uno spirito raffinato non si trattiene volentieri: fino a tal punto la verità è ormai costretta qui a soffocare uno sbadiglio, se è costretta a rispondere. Dopotutto è una donna, non le si de­ve usare violenza.

221.

Succede, diceva un pedante moralista e scrupoloso — che io onori e os­sequi un uomo altruista: non perché egli è altruista, ma perché mi pare che egli abbia il diritto di essere di vantaggio a proprie spese a un altro uomo. Insomma, si tratta sempre di sapere chi sia questo e chi l'altro. Per esem­pio per chi è destinato e fatto per il comando l'auto-sacrificio e il trarsi modestamente indietro non sono una virtù; ma la dissipazione della virtù: così mi pare. Ogni morale altruistica che si considera assoluta e si rivolge ad ognuno, non pecca soltanto contro il gusto: essa porta a commettere peccati d'omissione, è una seduzione in più sotto la maschera dell'amore per gli uomini — e proprio una seduzione e un danno per gli uomini supe­riori, i più rari e privilegiati. Bisogna costringere le morali a inchinarsi pri­ma di ogni altra cosa dinanzi all'ordine gerarchico, bisogna mostrare alla loro coscienza la loro presunzione, — finché alla fine non comprendano che è immorale dire: «ciò che è giusto per l'uno, è giusto per l'altro». — Dunque il mio pedante moralistico e bonhomme: non si meritava forse che si ridesse di lui, quando esortava in tal modo le morali alla moralità? Ma non bisogna esagerare nell'aver ragione, se si vuole avere dalla nostra parte coloro che ridono; al buon gusto si addice perfino un granello di torto.

Page 99: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SETTIMA. LE NOSTRE VIRTÙ 515

222.

Dove oggi viene predicata la compassione — e, se si ascolta bene, ora non si predica più nessuna altra religione — lo psicologo dovrebbe aprire le orecchie: attraverso tutta la vanità, attraverso tutto il frastuono che è pro­prio di questi predicatori (come di tutti i predicatori) egli sentirà un rauco, lamentoso, genuino accento di disprezzo di sé. Esso appartiene a quell' in-cupimento e abbrutimento dell'Europa che sta aumentando ormai già da un secolo (e i cui primi sintomi sono già registrati a titolo di documento in una preoccupata lettera di Galiani a Madame d'Epinay): se pure non ne è la causai L'uomo dalle «idee moderne», questa scimmia orgogliosa è terri­bilmente scontento di sé: questo è sicuro. Egli soffre: e la sua vanità vuole che egli si limiti a «con-patire»...

223.

L'ibrido uomo europeo — un plebeo nel complesso discretamente odio­so — ha bisogno, assolutamente, di un costume: egli ha bisogno della sto­ria come di un guardaroba. In verità, egli si accorge che nessun abito gli si adatta, — egli cambia e cambia ancora. Si veda il xix secolo nelle sue rapi­de predilezioni e mutamenti di stile delle mascherate e anche nei momenti di disperazione quando nulla «gli va bene» —. Inutile comportarsi da ro­mantici o da classici o da cristiani o da Fiorentini o secondo lo stile baroc­co o «nazionale» in moribus et artibus: «non veste»! Ma lo «spirito», spe­cialmente lo «spirito storico» ricava anche da questa disperazione il suo vantaggio: sempre di nuovo un nuovo frammento di preistoria e di paesi sconosciuti viene esaminato, rigirato, riposto, impacchettato e soprattutto studiato: — noi siamo la prima epoca studiata in puncto dei «costumi», in­tendo delle morali, degli articoli di fede, dei gusti artistici e delle religioni, preparati come nessun altra epoca al carnevale in grande stile, alla smoda­ta allegria e alle pazze risate carnevalesche, alle vette trascendentali della suprema sciocchezza e dell'aristofanesca irrisione del mondo. Forse sco­priamo ancora proprio qui il regno della nostra invenzione, quel regno nel quale possiamo anche noi essere ancora originali, per esempio come paro­disti della storia universale o pagliacci di Dio — forse se anche nessuna del­le cose esistenti avrà mai un futuro, sarà proprio il nostro riso ad averlo!

224,

Il senso storico (ovvero la capacità di afferrare rapidamente la gerarchia dei giudizi di valore secondo i quali un popolo, una società, un uomo han­no vissuto, l'«istinto divinatorio» per le relazioni di questi giudizi di valo­re, per il rapporto tra l'autorità dei valori e l'autorità delle forze agenti): questo senso storico che noi Europei rivendichiamo come una nostra quali­tà particolare, ci è venuto come seguito della incantevole e pazza semibar­barie nella quale la mescolanza democratica delle classi e delle razze ha precipitato l'Europa, — solo il xix secolo conosce questo senso come un suo sesto senso. II passato di ogni forma e modo di vivere, di culture che se ne stettero un tempo duramente l'una accanto all'altra, l'una sopra l'altra, scorre grazie a questa mescolanza, in noi «anime moderne», i nostri istinti rifluiscono ormai in tutte le direzioni, noi stessi siamo una specie di

Page 100: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

516 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

caos —: E alla fine lo «spirito», come si è detto, ne ricava il suo vantaggio. Grazie alla semibarbarie del nostro corpo e dei nostri desideri abbiamo ac­cessi segreti verso ogni luogo, quali un secolo aristocratico non li possedet­te mai, soprattutto accessi al labirinto delle culture non giunte a matura­zione e ad ogni semibarbarie che vi fu sulla terra; e poiché la parte più con­siderevole della cultura umana è stata appunto fino ad oggi una semibar­barie, «senso storico» significa quasi il senso e l'istinto per ogni cosa, il gu­sto e il palato per ogni cosa: per cui esso si rivela subito come un senso non aristocratico. Noi torniamo per esempio ad apprezzare Omero: forse la no­stra più felice superiorità è il saper gustare Omero, una superiorità che gli uomini di una cultura aristocratica (come ad esempio i Francesi del xvn se­colo, come Saint-Evremond, che gli rimproverava l'esprit vaste, e persino Voltaire), non sanno e non seppero acquistare così facilmente. Il deciso sì e no del loro palato, il loro facile disgusto, il loro esitante ritegno per tutto ciò che è straniero, la loro avversione anche alla mancanza di gusto della vitale curiosità, e soprattutto quella cattiva volontà di ogni cultura aristo­cratica e autosufficiente di ammettere un nuovo desiderio, una insoddisfa­zione per quanto le appartiene, un'ammirazione per quanto è straniero: tutto ciò li pone in una disposizione sfavorevole e li mette in disaccordo an­che con quanto vi è di meglio al mondo e che non sia però in loro possesso o non possa diventare il loro bottino — e nessun senso è più incomprensi­bile per tali uomini del senso storico e della sua sottomessa curiosità ple­bea. Le cose non stanno altrimenti per Shakespeare, questa stupefacente sintesi di gusto ispano-moresco-sassone, sul quale un vecchio ateniese nella cerchia degli amici di Eschilo avrebbe riso fino a morirne o si sarebbe irri­tato: ma noi prendiamo proprio questa selvaggia mescolanza di colori, questa mescolanza di quanto c'è di più tenero, di più grezzo e di più artifi­cioso con una segreta familiarità e amorevolezza, ne godiamo come di una raffinatezza artistica serbata proprio per noi e non ci lasciamo disturbare dalle nauseanti esalazioni e dalla vicinanza della plebaglia inglese nella quale vivono l'arte e il gusto di Shakespeare come se fossimo ad esempio sulla Chiaia di Napoli: lì dove continuiamo per la nostra strada con tutti i nostri sensi affascinati e consenzienti per quanto forte appestino l'aria le cloache dei quartieri popolari. Noi uomini del «senso storico»: noi abbia­mo come tali le nostre virtù, è innegabile, — siamo senza pretese, altruisti, modesti, coraggiosi, pieni di autodominio, di dedizione, molto grati, mol­to pazienti, molto concilianti: — forse, con tutto ciò non abbiano «molto buon gusto». Confessiamocelo finalmente: ciò che per noi uomini del «senso storico» è più difficile da comprendere, da sentire, da continuare a gustare e ad amare, ciò che in fondo ci trova prevenuti e quasi nemici, ciò è proprio la perfezione e la raggiunta completa maturità di ogni cultura e di ogni arte, ciò che di veramente nobile vi è nelle opere e negli uomini, il loro attimo di mare calmo e di alcionica autosufficienza, quanto c'è di dorato e di freddo nelle cose che sono giunte a perfezione. Forse questa nostra gran­de virtù del senso storico sta in un contrasto necessario con il buon gusto, per lo meno con il gusto migliore, e noi riusciamo a riprodurre in noi le piccole, brevi e altissime felicità e trasfigurazioni della vita umana che al­l'improvviso si accendono qua e là, solo con fatica, solo esitando, solo con costrizione: quegli attimi miracolosi nei quali una grande forza si ferma spontaneamente di fronte allo smisurato e all'infinito —, dove nell'assog­gettamento e nella pietrificazione improvvisa, nell'arrestarsi e nello stabi­lirsi su un terreno ancora tremante fu goduta un'abbondanza di sottile pia-

Page 101: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SETTIMA. LE NOSTRE VIRTÙ 517

cere. La misura ci è estranea, ammettiamolo; il nostro desiderio è appunto il desiderio dell'infinito, dello smisurato. Uguali al cavaliere che sul de­striero si slancia ansante in avanti noi lasciamo cadere le briglie davanti al­l'infinito, noi uomini moderni, noi semibarbari — e troviamo la nostra fe­licità solo lì dove siamo anche maggiormente in pericolo.

225.

Edonismo, pessimismo, utilitarismo, eudemonismo: tutte queste attitu­dini del pensiero che misurano il valore delle cose a seconda del piacere e della sofferenza, cioè a seconda delle condizioni concomitanti e delle cose accessorie, sono attitudini di pensiero superficiali e ingenuità, sulle quali chiunque sia cosciente delle proprie forze creative e abbia una coscienza da artista guarderà dall'alto in basso non senza derisione e non senza pietà. Pietà di voiì Questa in realtà non è la pietà come voi l'intendete: questa non è pietà per la «miseria» sociale, per la «società» e i suoi malati e infeli­ci, per i viziosi e i distrutti sin dalla nascita, che giacciono a terra intorno a noi; questo è ancor meno pietà per le classi di schiavi rivoltosi, ringhianti e oppressi, che aspirano al dominio — lo chiamano «libertà» —. La nostra pietà è una pietà più elevata e più lungimirante: — noi vediamo come l'uo­mo si rimpicciolisce, come voi lo rimpicciolite! — E ci sono momenti nei quali noi guardiamo con indescrivibile preoccupazione proprio alla vostra pietà, nei quali noi ci difendiamo da questa pietà —, nei quali noi troviamo la vostra serietà più pericolosa di qualsivoglia leggerezza. Voi volete se possibile — e non esiste un «se possibile» più folle — eliminare il dolore; e noi? — sembra quasi che noi preferiamo averlo in misura maggiore e più aspra di quanto non sia mai accaduto! Il benessere, come voi lo intendete — non è uno scopo, sembra piuttosto una fine! Una condizione che rende l'uomo subito ridicolo e spregevole, — che fa desiderare la sua rovina! La disciplina del dolore, del grande dolore — non sapete voi che solo questa disciplina ha portato finora ad ogni elevatezza dell'uomo? Quella tensione dell'anima nell'infelicità che educa la sua forza, il suo orrore dello spetta­colo della grande rovina, il suo ingegno e il suo valore nel sopportare, nel perseverare, nell'interpretare e usare l'infelicità e tutto ciò che essa ebbe in dono di profondità, segreto, maschera, prontezza, astuzia, grandezza: — non lo ebbe forse in dono tra le sofferenze e la disciplina di un grande do­lore? Nell'uomo creatura e creatore sono uniti: nell'uomo c'è materia, frammento, rigoglio, creta, fango, assurdità, caos; ma nell'uomo c'è an­che il creatore, il formatore, la durezza del maglio, e la divinità di chi il set­timo giorno contempla: — comprendete voi questa opposizione? E che la vostra pietà è per la «creatura che è nell'uomo» per ciò che deve essere for­mato, distrutto, forgiato, smembrato, bruciato, arso, purificato, — per ciò che deve necessariamente soffrire, che non può non soffrire? E la no­stra pietà — non comprendete voi per chi è la nostra opposta pietà, quan­do si difende dalla vostra pietà come dalla peggiore delle effeminatezze e delle debolezze? — Pietà dunque contro pietà! — Ma, diciamolo ancora una volta esistono problemi più alti di tutti i problemi del piacere, del dolore e del­la compassione; e ogni filosofia, che miri solo ad essi è un'ingenuità.

Page 102: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

518 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

226. Noi immoralisti\ Questo mondo, che ci riguarda, in cui gli spettatori

sciocchi e la fiduciosa curiosità! Noi siamo invisibile e impercettibile di sot­tili comandi, di sottili ubbidienze, un mondo del «quasi» da ogni punto di vista; intricato, insidioso, pungente e tenero: esso è ben difeso contro gli spettatori sciocchi e la fiduciosa curiosità, noi siamo inviluppati in una ri­gida rete e in una camicia di doveri da cui non possiamo liberarci —, in ciò appunto siamo anche noi uomini del «dovere»! A volte, è vero, danziamo effettivamente nelle nostre «catene» e tra le nostre «spade»; più spesso, non è meno vero, digrigniamo i denti sotto di loro e siamo impazienti per tutta la nascosta durezza del nostro destino. Pure, possiamo fare ciò che vogliamo, ma i babbei e l'evidenza dicono contro di noi «questi sono uo­mini senza dovere» — abbiamo sempre contro di noi i babbei e l'evidenza.

227.

L'onestà, posto che sia questa la nostra virtù, quella dalla quale noi spi­riti liberi non possiamo liberarci — ora vogliamo occuparci di lei con ogni malizia e con ogni amore e non stancarci di «perfezionarci» nella nostra virtù che è l'unica che ci rimanga: e resti pure sospeso il suo splendore co­me una dorata, azzurra, derisoria luce serotina su questa cultura in declino e la sua pesante e tetra serietà! E se poi, un giorno, la nostra onestà si stac­casse e sospirasse e stirasse le braccia e ci trovasse troppo duri e desiderasse qualcosa di meglio, di più facile, di più tenero, come un piacevole vizio: re­stiamo duri, noi ultimi stoici! e mandiamo in suo soccorso ciò che c'è in noi di diabolico — il nostro disgusto per la goffaggine e l'approssimazio­ne, il nostro «nitimur in vetimur», la nostra audacia da avventurieri, la no­stra curiosità scaltra e raffinata, la nostra più sottile, più simulata e più spirituale volontà di potenza e di superamento del mondo, che si libra e aleggia avidamente intorno a tutti i regni del futuro, — veniamo in soccor­so del nostro «Dio» con tutti i nostri «diavoli!» È verosimile che in seguito a ciò noi veniamo disconosciuti e confusi: cosa importa! Si dirà: «La loro "onestà" — è la loro diavoleria, e niente di più!». Che cosa importa! An­che se avessero ragione! Tutti gli dèi non furono fino ad oggi uguali a dia­voli ribattezzati e divenuti santi? E cosa sappiamo in fondo di noi stessi? E come vuol essere chiamato lo spirito che ci guida? (È una questione di no­mi.) E quanti spiriti nascondiamo in noi? La nostra onestà, noi spiriti libe­ri, — preoccupiamoci che essa non diventi la nostra vanità, il nostro orna­mento e il nostro sfarzo, il nostro limite, la nostra idiozia! Ogni virtù tende alla stupidità, ogni stupidità alla virtù; «sciocco fino alla santità» si dice in Russia, — preoccupiamoci di non diventare infine per onestà anche santi e noiosi! La vita non è forse cento volte troppo breve per — annoiarsi? Si è già dovuto credere alla vita eterna per...

228.

Mi si perdoni la scoperta, che ogni filosofia della morale è stata fino ad oggi noiosa ed è stata nel numero dei sonniferi e che nulla ai miei occhi ha danneggiato la virtù quanto la noia dei suoi apologeti; con ciò non vorrei ancora aver disconosciuto la loro generale utilità. È di grande importanza, che il minor numero possibile di uomini rifletta sulla morale, — è quindi di

Page 103: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SETTIMA. LE NOSTRE VIRTÙ 519

grandissima importanza che la morale un giorno non diventi interessante! Ma non preoccupiamoci! Anche oggi le cose stanno come sono sempre sta­te: io non vedo nessuno in Europa che abbia (o dia) l'idea, che la riflessio­ne sulla morale possa essere esercitata in modo pericoloso, insidioso, affa­scinante, — che possa esservi in essa una fatalità] Si guardi per esempio agli instancabili inevitabili utilitaristi inglesi, a come vagano goffamente e in modo venerando di qua e di là sulle orme di Bentham (una similitudine omerica Io dice con maggior chiarezza), come egli stesso aveva già seguito le orme del venerabile Helvétius (No, non era un uomo pericoloso, questo Helvétius!). Nessuna nuova idea, nulla dell'elegante espressione e della drappeggiatura di un'antica idea, neppure una vera storia del pensiero pre­cedente: nel complesso una letteratura impossibile, a meno che non si sap­pia inacidirla con un po' di cattiveria. In effetti anche in questi moralisti (che bisogna leggere senz'altro con segrete riserve, nel caso si dovesse leg­gerli —), si è insinuato quell'antico vizio inglese che è chiamato cani e tar­tuferia morale, nascosto questa volta sotto una nuova veste scientifica; non manca neppure di una segreta difesa dai morsi della coscienza, dei quali logicamente soffrirà una razza di ex puritani nonostante si occupi della morale scientificamente. (Un moralista non è forse l'esatto contrario di un puritano, poiché è un pensatore che considera la morale problemati­ca, degna di essere analizzata, che insomma fa di essa una questione? Mo­ralizzare non dovrebbe — essere immorale?) In fondo essi vogliono tutti che si dia ragione alla morale inglese: in quanto proprio essa giova nel mo­do migliore alla umanità, e all'«utile collettivo» o alla «felicità dei più», no! alla felicità dell'Inghilterra; essi vorrebbero provare a se stessi con tut­te le loro forze che l'aspirazione alla felicità inglese, intendo al comfort e alla fashion (e, scopo supremo, a un seggio in parlamento), sia contempo­raneamente anche il sentiero giusto della virtù, anzi che tutta la virtù che è esistita fino ad oggi nel mondo sia appunto consistita in una tale aspirazio­ne. Non uno di tutti questi goffi animali del gregge con una cattiva coscien­za (che cercano di trattare il problema dell'egoismo come problema del be­nessere generale —) vuole sapere e sentire in qualche modo che il «benesse­re generale» non è un ideale, uno scopo, un concetto in qualche modo af­ferrabile, ma solo un emetico — che ciò che è giusto per uno non può in al­cun modo essere ancora giusto per l'altro, che l'esigenza di un'unica mora­le per tutti è un pregiudizio proprio contro l'uomo superiore, in breve che esiste un ordine gerarchico tra uomo e uomo e di conseguenza anche tra morale e morale. Questi utilitaristi inglesi sono uomini modesti e fonda­mentalmente mediocri e, come si è detto: poiché sono noiosi non si potrà avere un'idea abbastanza elevata della loro utilità. Bisognerebbe incorag­giarli: come si è tentato, in parte, con i versi che seguono:

Salute a voi, bravi carrettieri, sempre «quanto più a lungo, tanto meglio», sempre più duri di testa e di ginocchi, senza entusiasmo, senza divertimenti, siete mediocri, invariabilmente sans genie et sans esprit.

229.

In quelle epoche tarde, che possono essere orgogliose della propria uma­nità, rimane tanta paura, tanta superstizione della paura di fronte alla «belva terribile e selvaggia», la vittoria sulla quale costituisce appunto l'or-

Page 104: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

520 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

goglio di quell'epoca umana, che rimangono inespresse per secoli anche ve­rità evidenti, come per un accordo, poiché esse hanno l'aria di poter con­tribuire a far tornare in vita quella belva selvaggia, finalmente uccisa. Ri­schio forse qualcosa se mi lascio sfuggire una tale verità: possano altri ri­prenderla e farle bere tanto «latte di devoto pensiero» da farla restare si­lenziosa e dimenticata nel suo vecchio cantuccio. — Bisogna mutare opi­nione sulla crudeltà e aprire gli occhi; bisogna alla fine imparare l'impa­zienza perché non circolino più tali sfacciati e grossolani errori, in atteggia­mento virtuoso e risoluto, come quelli che sono stati nutriti, ad esempio sulla tragedia da filosofi vecchi e nuovi. Quasi tutto ciò che noi chiamiamo «cultura superiore», si basa sulla spiritualizzazione e l'approfondimento della crudeltà — questa è la mia tesi; quella «belva selvaggia» non è stata affatto uccisa, essa vive, fiorisce, si è solo — deificata. Ciò che costituisce la dolorosa voluttà della tragedia, è crudeltà; ciò che risulta gradevole nella cosiddetta compassione tragica, in fondo persino in ogni cosa sublime sino ai più alti e teneri brividi della metafisica, trae la sua dolcezza solo dall'in­grediente della crudeltà che vi è mescolato. Ciò che il romano nell'arena, il cristiano nell'estasi della croce, lo spagnolo di fronte ai roghi o alle corri­de, il giapponese di oggi, che preme per assistere alla tragedia, l'operaio dei sobborghi parigini che ha nostalgia di sanguinose rivoluzioni, la wagne­riana che con volontà rilassata si «abbandona» a Tristano e Isotta, — ciò che tutti costoro godono e cercano con segreta avidità di succhiare, sono le bevande aromatiche della grande Circe «crudeltà». Bisogna qui cacciare senza alcun dubbio la goffa psicologia di un tempo che sapeva insegnare della crudeltà, solo che essa nasce di fronte al dolore degli altri: esiste un godimento grande, soverchiante anche nel proprio soffrire, nel procurarsi la sofferenza, — e ogni volta che l'uomo si lascia convincere alla negazione di sé in senso religioso o all'automutilazione, come tra i Fenici e gli asceti, o a sublimare la propria sensualità, a disincarnarsi, a pentirsi, a soffrire i crampi della penitenza puritana, a vivisezionare la propria coscienza e a sa­crificare, secondo Pascal, l' intelletto , egli viene segretamente attirato e in­calzato a farlo dalla sua crudeltà, da quel brivido pericoloso della crudeltà, rivolta contro se stesso. Si consideri infine che anche l'uomo della cono­scenza, nel momento in cui costringe il proprio spirito a conoscere contro la tendenza dello spirito e abbastanza spesso anche contro i desideri del suo cuore — cioè a dire no dove vorrebbe dire sì, dove vorrebbe amare, adora­re —, ne dispone in quanto artista e trasfiguratore della crudeltà; già quel­l'andare a fondo delle cose, quel prenderle alla base è un atto di violenza, una sofferenza voluta contro quella volontà fondamentale dello spirito che tende incessantemente all'apparenza e alle superfici, — già in ogni voler conoscere c'è una goccia di crudeltà.

230.

Forse non si potrà senz'altro capire ciò che ho detto qui a proposito di una «volontà fondamentale dello spirito»: mi si consenta una spiegazione. — Quell'imperioso qualcosa che viene chiamato dal popolo «lo spirito» vuol essere padrone di sé e intorno a sé e sentirsi tale: esso possiede la vo­lontà di ridurre la molteplicità in unità, una volontà che lega assieme, che sottomette, che è avida di dominio e veramente dominatrice. Le sue esigen­ze e facoltà sono qui le stesse che i fisiologi attribuiscono a tutto ciò che vi­ve, cresce e si moltiplica. La forza dello spirito nell'appropriarsi di ciò che gli è estraneo si manifesta in una vigorosa tendenza a rendere il nuovo

Page 105: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SETTIMA. LE NOSTRE VIRTÙ 521

uguale al vecchio, a semplificare il molteplice, a ignorare o spingere da parte ciò che è completamente contraddittorio: esattamente come essa sot­tolinea arbitrariamente e con maggior forza determinati tratti e linee in ciò che le è estraneo, in ogni frammento di «mondo esterno» e li mette in evi­denza e li falsifica a proprio vantaggio. Facendo ciò essa tende a incorpo­rare nuove «esperienze», a inserire nuove cose in vecchi ordini — dunque alla crescita; o più precisamente, alla sensazione della crescita, alla sensa­zione della forza aumentata. A questa stessa volontà soccorre un impulso apparentemente opposto dello spirito, una decisione di ignoranza che erompe improvvisamente, di arbitrario isolamento, un chiudere le proprie finestre, un interiore dire no a questa o quella cosa, un non lasciare avvici­nare, una specie di difesa contro le molte cose che possono essere conosciu­te, un accontentarsi del buio, dell'orizzonte che si chiude, un dire di sì e un ratificare l'ignoranza: tutto ciò è necessario a seconda del grado della sua forza di appropriazione, della sua «capacità digestiva», per dirla con una metafora — e infatti «lo spirito» assomiglia più che a ogni altra cosa ad uno stomaco. Allo stesso modo vi rientra l'occasionale volontà dello spiri­to di farsi ingannare, forse con la maliziosa intuizione che le cose non stan­no così e così, ma che si lascia che esse appaiano così e così, e vi rientra il piacere di ogni insicurezza e polivalenza, un esultante autocompiacimento della volontaria angustia e intimità di un angolo della estrema vicinanza del primo piano, di quanto è ingrandito, rimpicciolito, rimosso, abbellito, un autocompiacimento per l'arbitrarietà di tutte queste manifestazioni di potenza. Vi rientra infine, quella inquietante prontezza dello spirito nel-l'ingannare altri spiriti e nel mascherarsi davanti a loro, quella costante op­pressione e quello stimolo di una forza creatrice, formatrice, e mutevole: lo spirito vi assapora la molteplicità delle sue maschere e la sua astuzia, egli gode anche la sensazione della propria sicurezza, — proprio attraverso le sue arti proteiformi egli si difende e si nasconde nel modo migliore? — Contro questa volontà di esteriorità, di semplificazione, di maschera, di mantello, in breve di superficie — poiché ogni superficie è un mantello — opera quel sublime impulso dell'uomo della conoscenza il quale afferra e vuole afferrare le cose in profondità, nella loro complessità, alla base: co­me una sorta di crudeltà della coscienza e del gusto intellettuale che ogni valoroso pensatore ritroverà in sé, posto che, come si conviene, egli abbia indurito e aguzzato abbastanza a lungo il suo occhio verso se stesso e si sia abituato a una dura disciplina e a un linguaggio severo. Egli dirà «c'è qual­cosa di crudele nella inclinazione del mio spirito» — cerchino pure di dis­suaderlo le anime oneste e gentili! In effetti, sarebbe più gentile se di noi si riferisse, si mormorasse, si lodasse, invece della crudeltà, una «eccessiva onestà»: — di noi spiriti liberi, assai liberi — e suonerà forse veramente co­sì, un giorno, la nostra — gloria postuma? Nel frattempo — poiché c'è tempo fino ad allora — vorremmo essere i meno disposti ad adornarci con tali fronzoli e frange morali delle parole: tutto il lavoro che abbiamo svolto fino ad ora ci fa trovare fastidioso persino questo gusto e il suo allegro sfarzo. Sono parole belle, scintillanti, tintinnanti, solenni: onestà, amore della verità, amore della saggezza, sacrificio per la conoscenza, eroismo del vero, — c'è qualcosa in esse che fa inorgoglire. Ma noi, eremiti e marmot­te, noi ci siamo già convinti da molto tempo in tutta la segretezza della no­stra coscienza di eremiti, che anche questo venerando sfarzo delle parole fa parte delle vecchie gale bugiarde, delle anticaglie e del pulviscolo dorato dell'inconscia vanità umana, e che anche sotto tali lusinghieri colori e a

Page 106: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

522 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

questo strato di pittura si deve riconoscere ancora una volta il terribile te­sto originario homo natura. Ritradurre cioè l'uomo nella natura, dominare le molte superbe ed entusiaste interpretazioni e significati marginali, che fi­no ad oggi furono scarabocchiate e dipinte su quell'eterno testo originario homo natura; fare che l'uomo d'ora in avanti stia davanti all'uomo, come già oggi, indurito nella disciplina della scienza, sta davanti all'altra natura, con gli occhi privi di paura di Edipo e le orecchie tappate di Odisseo, sordo agli adescamenti dei vecchi uccellatori metafisici, che troppo a lungo gli hanno suonato sul loro flauto: «tu sei di più! Tu sei superiore! Tu sei di un'altra origine!» — Può essere un compito strano e insensato ma è un compito, chi vorrebbe negarlo? Perché abbiamo scelto questo compito in­sensato? O, ponendo la domanda in altri termini: «perché in generale ab­biamo scelto la conoscenza?» — Tutti ce lo chiederanno. E noi, incalzati a questo modo, noi, che ci siamo posti noi stessi, già centinaia di volte, la stessa domanda, non abbiamo trovato e non troviamo nessuna risposta mi­gliore...

231.

L'imparare ci trasforma, esso fa ciò che fa ogni alimentazione che non si limiti a «mantenere» —: come sa ogni filologo. Ma nel fondo di noi stessi proprio «nel profondo», c'è in verità qualche cosa che non può essere inse­gnato, un granito di fatum spirituale, di decisione e risposta predetermina­ta a domande scelte e predeterminate. In ogni problema cardinale parla un immutabile «questo sono io»; sull'uomo e la donna, ad esempio, un pensa­tore non può mutare le sue conoscenze, ma solo perfezionarle — e alla fine scoprire soltanto quelle che a questo proposito in lui «restano salde». Si scoprono presto determinate soluzioni di problemi che per noi costituisco­no già stabili oggetti di fede; forse le si chiamerà da questo momento le proprie «convinzioni». Più tardi — non si vede in loro nient'altro che trac­ce per la conoscenza di sé, indicatrici di quel problema che noi siamo — più esattamente della grande sciocchezza che noi siamo, del nostro fatum spirituale, di ciò che, «là nel profondo», «non può essere insegnato». Gra­zie a questa delicatezza che ho appunto usato verso me stesso, mi verrà for­se più facilmente concesso di esprimere alcune verità sulla «donna in sé» posto che si sappia ormai fin dall'inizio, che esse sono soltanto — le mie verità. —

232.

La donna vuol diventare indipendente: e a tale scopo incomincia a spie­gare agli uomini la «donna in sé» — questo è uno dei peggiori progressi della generale decadenza d'Europa. Quante cose infatti dovranno portare alla luce questi goffi tentativi della scientificità femminile e del suo metter­si a nudo! Sono talmente tanti nella donna i motivi di pudore; vi è nella donna tanta pedanteria, superficialità, sufficienza, tanta meschina presun­zione, tanta meschina sfrenatezza e immodestia — si vedano i suoi rappor­ti con i bambini! — che fino ad oggi, sono state represse e limitate nel mo­do migliore per timore di fronte all'uomo. Guai se ciò che di «eternamente noioso» vi è nella donna — e ve n'è in abbondanza — potesse soltanto ar­rischiarsi ad uscire! Se cominciasse a disimparare, in modo radicale e per principio, la sua intelligenza e la sua arte, quella della grazia, del gioco, del

Page 107: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SETTIMA. LE NOSTRE VIRTÙ 523

mettere in fuga le preoccupazioni, dell'alleviare e del prendere alla leggera; se cominciare a dimenticare la sua raffinata maestria nel suscitare piacevoli desideri! Già ora si levano voci femminili, che, per il sacro Aristofane! in­cutono terrore; si minaccia con la chiarezza di una prescrizione medica ciò che la donna vuole dall'uomo, per prima e ultima cosa. Non è di pessimo gusto che la donna si disponga a diventare in tal modo scientifica ? Fino ad ora, per fortuna, informare era cosa da uomini, dote da uomini — si resta­va perciò «tra di noi»; e del resto, con tutto ciò che le donne scrivono «sul­la donna», è lecito mantenere una buona dose di diffidenza sul fatto che la donna voglia — e possa volere effettivamente informare sopra se stessa... Se una donna non cerca con ciò un nuovo ornamento — e io penso appun­to che adornarsi appartenga all'eterno femminino — allora, essa vorrà in­cutere timore — vorrà, forse, con ciò, ottenere il dominio. Ma essa non vuole verità: cosa importa alla donna della verità! Nulla le è più estraneo, da sempre, più ripugnante, più ostile della verità, — la sua grande arte è la menzogna, le cose che le stanno più a cuore sono l'apparenza e la bellezza. Ammettiamolo, noi uomini: nella donna, noi onoriamo e amiamo proprio quest'aite e questo istinto; noi, che ce la passiamo male e ci accompagnia­mo volentieri per rasserenarci a esseri sotto le cui mani, sguardi e tenere follie la nostra società, la nostra pesantezza e profondità ci appaiono quasi come una pazzia. Infine mi chiedo: è mai esistita una donna che abbia am­messo profondità in una testa femminile, giustizia in un cuore femminile? E non è vero, che in generale «la donna» è stata disprezzata fino ad ora so­prattutto dalla donna — e proprio mai da noi? — Noi uomini desideriamo che la donna non continui a compromettersi col voler dar lumi: come fu a tutela dell'uomo e a protezione della donna il decreto della Chiesa: mulier taceat in ecclesia! Fu a vantaggio della donna che Napoleone fece capire al­la troppo loquace Madame de Stàel: mulier taceat in politicis! — E io pen­so che sia un vero amico delle donne colui che oggi alle donne suggerisce: mulier taceat de muliere!

233.

Tradisce la corruzione degli istinti — anche a prescindere dal fatto che tradisce il cattivo gusto —, il fatto che la donna si richiami proprio a Ma­dame Roland o Madame de Stàel o Monsieur Georges Sand, come se con ciò si potesse dimostrare qualche cosa a favore della «donna in sé». Tra noi uomini le su menzionate sono le tre donne ridicole in sé — nulla più e sono addirittura i migliori involontari argomenti contro l'emancipazione e l'autonomia della donna.

234.

La stupidità in cucina; la donna cuoca; la terribile sbadataggine con la quale si provvede al nutrimento della famiglia e del padrone di casa! La donna non capisce che cosa significhino i cibi: e vuole essere cuoca! Se la donna fosse un essere pensante avrebbe dovuto compiere, in quanto cuoca, da millenni, le massime scoperte fisiologiche, come pure avrebbe dovuto far sua l'arte medica! A causa delle cattive cuoche — a causa della totale mancanza di raziocinio nella cucina, l'evoluzione dell'uomo è stata rallen­tata per moltissimo tempo e seriamente compromessa: persino oggi le cose non vanno meglio. Un discorso questo per le studentesse del liceo.

Page 108: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

524 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

235. Ci sono atteggiamenti e tratti dello spirito, ci sono sentenze, una piccola

manciata di parole nelle quali si cristallizza improvvisamente un'intera cul­tura, un'intera società. Ci sono tra queste le occasionali parole di Madame de Lambert a suo figlio: «Mon ami, ne vous permettez jamais que des fo-lies, qui vous feront grand plaisir». — Tra parentesi la frase più materna e più accorta che sia mai stata indirizzata ad un figlio.

236.

Ciò che Dante e Goethe hanno pensato della donna — quello mentre cantava «ella guardava suso, ed io in lei», questo mentre lo traduceva in «l'eterno femminino in su ci trae» —: non dubito che ogni donna superiore si rifiuterà a questa fede, poiché essa lo crede appunto a proposito dell'e­terno mascolino.

237.

Sette piccoli proverbi delle donne. — Come se ne fugge la noia più molesta se un uomo striscia ai nostri pie­

di. — Vecchiaia, ahimè!, e scienza danno forza anche a una debole virtù. — Abito nero e poche parole vestono ogni donna di prudenza. — A chi sono grata nella felicità? A Dio! E alla mia sarta. — Giovane: una grotta ornata di fiori. Vecchia: un drago ne esce fuori. — Nobile nome, belle gambe, e in più uomo: oh se fosse mio! — Discorso brevi sensu lungo — strada gelata per l'asina! — Le donne sono state trattate fino ad ora dagli uomini come uccelli che

si sono smarriti da una qualche altezza giù in basso verso di loro: come una cosa più raffinata, più fragile, più selvatica, più singolare, più dolce, più piena di sentimento, — ma anche qualche cosa che si deve rinchiudere per­ché non voli via.

238.

Sbagliare nel problema fondamentale «uomo e donna», negare qui l'a­bissale antagonismo e la necessità di una contrapposizione eternamente ostile, sognare, qui, uguali diritti, uguale educazione, uguali esigenze e do­veri: questo è un segno tipico di una mente superficiale, e un pensatore che si sia dimostrato superficiale su questo punto pericoloso — superficiale nell'istinto! —, può esser sospettato o ancor peggio può tradirsi, scoprirsi: è probabile che per tutte le questioni fondamentali della vita, anche della vita futura, egli potrà essere sempre «breve» e non potrà raggiungere nes­suna profondità. Un uomo invece, che abbia profondità nel suo spirito, come nei suoi desideri, anche quella profondità della bontà, che è capace di rigore e di durezza, e viene facilmente scambiata con essi, può pensare sulla donna sempre e solo alla maniera orientale: egli deve concepire la donna come sua proprietà, come una proprietà che si può chiudere sotto chiave, come una cosa predestinata alla dipendenza e che in essa si perfe­ziona, — egli deve appoggiarsi qui alla immensa ragione dell'Asia, alla su­periorità degli istinti dell'Asia: come un tempo hanno fatto i Greci, questi

Page 109: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE SETTIMA. LE NOSTRE VIRTÙ 525

ottimi eredi dell'Asia, che, come è noto, da Omero fino ai tempi di Pericle passo dopo passo con l'incremento della loro cultura e l'aumento della lo­ro forza sono diventati anche più rigidi nei confronti della donna, in breve più orientali. Quanto tutto ciò fosse necessario, logico, e anche umana­mente desiderabile: ognuno lo mediti per conto proprio.

239.

Il sesso debole non è stato trattato con tanta attenzione da parte degli uomini in nessun'epoca più che nella nostra — ciò fa parte della tendenza e del fondamentale gusto democratico, così come la mancanza di rispetto per la vecchiaia —: perché meravigliarsi, che si sia subito fatto un abuso di questa attenzione? Essa vuole di più, impara a pretendere, infine trova quasi oltraggioso quel tributo di rispetto, preferirebbe una gara, per otte­nere quei diritti, anzi addirittura la lotta: basta, la donna perde il suo pu­dore. Aggiungiamo subito che perde anche il buon gusto. Disimpara a te­mere l'uomo: ma la donna, che «disimpara a temere», rinuncia ai suoi istinti più femminili. Che la donna osi mettersi in mostra è abbastanza ra­gionevole e anche abbastanza comprensibile quando ciò che nell'uomo in­cute timore, più esattamente, diciamo, quando Yuomo nell'uomo non è più voluto e instillato con l'educazione; ciò che si capisce con maggior dif­ficoltà, è che appunto con ciò — la donna degenera. Ciò accade oggi: non illudiamoci a questo proposito! Ovunque lo spirito industriale abbia trion­fato sullo spirito militare e aristocratico oggi la donna aspira all'autono­mia economica e giuridica di un commesso: «la donna come commesso», sta sulla porta della società moderna che si viene formando. Mentre in tal modo essa conquista nuovi diritti e tende a diventare «padrona» e scrive sulle sue bandiere e bandierine il «progresso» della donna, si verifica inve­ce con paurosa chiarezza il contrario: la donna retrocede. Dalla rivoluzio­ne francese in poi l'ascendente della donna in Europa è diminuito nella mi­sura in cui sono aumentati i suoi diritti e le sue pretese; e la «emancipazio­ne della donna», voluta e stimolata dalle donne stesse (e non solo da alcuni uomini superficiali) risulta in questo modo come un sintomo singolare del crescente indebolimento e intorpidimento degli istinti più femminili. C'è della stupidità in questo movimento, una stupidità quasi maschile, della quale una donna costumata — che è sempre una donna intelligente — do­vrebbe vergognarsi profondamente. Perdere la capacità di sentire su quale terreno si può arrivare alla vittoria con maggiore sicurezza; trascurare l'e­sercizio di quelle armi che le sono proprie; lasciarsi andare davanti all'uo­mo, giungendo forse perfino «a scrivere un libro», mentre prima ci si com­portava con disciplina e con sottile e astuta umiltà; adoperarsi con virtuosa facciatosta contro la fede dell'uomo in un ideale fondamentalmente diver­so nascosto nella donna, di un qualche eterno e necessario femminino; dis­suadere l'uomo con enfasi e con molte parole dal pensare che la donna sia simile a un tenero, singolarmente selvatico e spesso piacevole animale do­mestico, che bisogna mantenere, curare, proteggere, e del quale bisogna aver cura; la ricerca sgraziata e dispettosa di tutte le forme di schiavitù e di servitù che la posizione della donna ha avuto in sé e ha ancora nell'attuale ordinamento della società (come se la schiavitù fosse un controargomento e non piuttosto condizione di ogni cultura superiore, di ogni progresso del­la civiltà): — che cosa significa tutto ciò, se non una frantumazione degli istinti femminili, una defemminizzazione? Certo ci sono numerosi stupidi amici delle donne e corruttori di donne, tra i dotti asini di sesso maschile

Page 110: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

526 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

che consigliano alla donna di perdere la sua femminilità e imitare tutte le sciocchezze delle quali in Europa l'«uomo», la «mascolinità» europea, è malata, — che vorrebbero portar danno alla donna, riducendola fino alla «cultura generale» o addirittura alla lettura dei giornali e ad occuparsi di politica. Ogni tanto si vuol fare delle donne addirittura letterati e liberi pensatori: come se una donna senza devozione non fosse assolutamente ri­dicola o ripugnante per un uomo profondo e ateo —; quasi dappertutto si rovinano i loro nervi con ogni tipo di musica pericolosa e morbosa (la no­stra nuovissima musica tedesca) e le si rende ogni giorno più isteriche e in­capaci al loro primo e ultimo compito, partorire figli vigorosi. Soprattutto le si vuol «istruire» sempre di più e, come si dice, rendere più fortet con la cultura, il «sesso debole»; come se la storia non insegnasse nel modo più efficace possibile, che «istruzione» dell'uomo e indebolimento — cioè in­debolimento, frantumazione, infermità della forza di volontà, sono sem­pre andati di pari passo, e che le più potenti e influenti donne del mondo (e infine anche la madre di Napoleone) devono la loro potenza e il loro so­pravvento sugli uomini proprio alla loro forza di volontà — e non ai mae­stri di scuola! — Ciò che nella donna ispira rispetto e abbastanza spesso ti­more, è la sua natura che è più «natura» di quella dell'uomo, la sua genui­na, rapace e astuta duttilità, i suoi artigli di tigre sotto il guanto, il suo in­genuo egoismo, la sua refrattarietà all'educazione e interiore selvatichezza, ciò che di inafferrabile, di vasto, di vagabondo vi è nella sua avidità e nelle sue virtù... Ciò che nonostante ogni timore suscita compassione per questa pericolosa e bella gatta che è la «donna», sta nel fatto che essa appare più sofferente, più fragile, più bisognosa d'amore e condannata ad essere disil­lusa di qualsiasi altro animale. Timore e compassione: con questi senti­mento l'uomo è stato fino ad oggi di fronte alla donna sempre con un pie­de già nella tragedia che strazia mentre affascina —. Come? E con ciò tut­to sarebbe alla fine? E la rottura dell'incantesimo della donna sarebbe già in atto? Sarebbe forse già in atto la sua trasformazione in un essere noio­so? Oh Europa! Europa! Conosciamo l'animale con le corna che ha costi­tuito sempre per te l'attrazione maggiore, dal cui pericolo continuiamo sempre ad essere minacciati! La tua antica favola potrebbe diventare anco­ra una volta «storia», — ancora una volta una smisurata sciocchezza po­trebbe arrivare a dominarti e trascinarti lontano! E sotto di essa non si na­sconderebbe nessun Dio, no! solo un'«idea», un'«idea moderna»!...

Page 111: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte ottava Popoli e patrie

240.

Ho ascoltato, e di nuovo per la prima volta l'ouverture ai Maestri canto­ri di Richard Wagner: è un'arte stupenda, sovraccarica, pesante e tarda che ha la superbia di presupporre, per essere compresa, ancora vivi due se­coli di musica — va ad onore dei Tedeschi che una tale superbia non abbia sbagliato i suoi conti! Quali succhi e quali forze, quali stagioni e quali lati­tudini non sono qui mescolati! Ci dà un'impressione ora medievale ora estranea, acerba e troppo giovane, è tanto arbitraria quanto pomposamen­te convenzionale, non di rado è birichina ancora più spesso aspra e grosso­lana, — ha fuoco e coraggio e contemporaneamente la buccia flaccida e pallida dei frutti che maturano troppo tardi. Scorre larga e piena: e ad un tratto un attimo di inspiegabile dubbio quasi una lacuna che si spalanca tra causa e effetto, un'espressione, che ci fa sognare, quasi un incubo —, ma già si distende e si allarga di nuovo l'antica corrente di piacere, del piacere più multiforme della vecchia e nuova felicità nella quale è ampiamente ri­considerata la felicità che l'artista ha di sé, della quale non vuol fare un se­greto, la sua stupida, felice consapevolezza, della maestria dei mezzi che qui ha impiegato, di nuovi mezzi artistici acquisiti da poco, non ancora sperimentati, come egli sembra rivelarci. Nel complesso nessuna bellezza, nessun sud, nulla del sottile chiarore meridionale del cielo, nessuna grazia, nessuna danza, non una volontà di logica; addirittura una certa goffaggine che viene inoltre sottolineata, come se l'artista volesse dirci: «essa è nelle mie intenzioni»; un costume pesante; qualcosa di volutamente barbarico e solenne, uno scintillare di preziosità dotte e dignitose e di merletti; qualco­sa di tedesco, nel migliore e nel peggior senso della parola, qualcosa di multiforme, di informe e di inesauribile al modo tedesco, una certa tedesca potenza e dovizia dell'anima, che non ha alcuna paura di nascondersi sotto le raffinatezze della decadenza, — che forse si sente veramente bene solo là; un vero e autentico segno di riconoscimento dell'anima tedesca, che è contemporaneamente giovane e vecchissima, sfinita e ancora straricca di avvenire. Questa specie di musica esprime nel modo migliore ciò che io penso dei Tedeschi: essi sono dell'altro ieri e di dopodomani, — essi non hanno ancora un oggi.

241.

Noi, «buoni Europei», anche noi abbiamo momenti nei quali ci permet­tiamo un impavido patriottismo, un tuffo e una ricaduta nell'antico amore e nelle angustie — ne ho appena dato una prova —, momenti di bollori na­zionali, di oppressioni patriottiche e di ogni tipo di altre antiquate effusio­ni di sentimento. Spiriti più tardi dei nostri riusciranno a liberarsi soltanto in più lunghi periodi di ciò che in noi dura qualche ora e in poche ore giun-

Page 112: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

528 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

gè alla fine, alcuni in mezzo anno, altri in mezza vita umana, secondo la rapidità e la forza con la quale essi digeriscono e con cui si compie il loro ricambio. Sì, io potrei immaginare razze goffe ed esitanti, che avrebbero bisogno anche nella nostra rapida Europa di un mezzo secolo per superare tali atavici eccessi di patriottismo e di attaccamento alla terra e ritornare alla ragione, vale a dire al «buon europeismo». E mentre io divago su que­sta possibilità, mi accade di ascoltare la conversazione tra due vecchi «pa­trioti», — essi udivano entrambi evidentemente male e parlavano perciò tanto più a voce alta. «Quello se ne intende e sa di filosofia quanto un con­tadino o uno studente di corporazione — diceva uno —: è ancora innocen­te. Ma che importanza ha oggi! È l'epoca delle masse: essi si stendono boc­coni di fronte a tutto ciò che abbia dimensioni di massa. E così pure in po-ìiticis. Uno statista che costruisca per loro una nuova torre di Babele, un qualsiasi mostruoso regno o potere, essi lo chiamano "grande": — che co­sa importa che noi, più attenti e più riservati, per il momento non voglia­mo ancora abbandonare la vecchia credenza che soltanto la grande idea conferisce grandezza a un'azione e a una cosa. Se un uomo di Stato mettes­se il suo popolo nella situazione di condurre, di lì in poi, una "grande poli­tica" alla quale esso fosse per natura poco portato e preparato: tanto da es­sere costretto a sacrificare ad una nuova dubbia mediocrità le sue antiche e sicure virtù, — se un uomo di Stato condannasse il suo popolo soprattutto a "fare politica", mentre fino a quel momento esso aveva di meglio da fare e da pensare e nel fondo della propria anima non riesce a liberarsi di un prudente disgusto davanti all'inquietudine, al vuoto e alla schiamazzante diabolica litigiosità dei popoli che effettivamente fanno politica: — se un tale uomo di Stato pungolasse le passioni addormentate e le avidità del suo popolo e gli rendesse disonorevole la sua presente ritrosia e il piacere di starsene in disparte e facesse del suo amore per ciò che è straniero e della sua segreta infinità una colpa, se togliesse valore alle sue più fervide incli­nazioni, capovolgesse la sua coscienza, rendesse limitato il suo spirito, "na­zionale" il suo gusto, — come! Un uomo di Stato che facesse tutto ciò e Io facesse scontare al suo popolo fino al suo più lontano futuro, nel caso che esso abbia futuro, un tale uomo di Stato sarebbe grande!» «Senza dub­bio», gli rispose animatamente l'altro vecchio patriota: «altrimenti egli non avrebbe potuto; fu forse folle, volerlo? Ma forse ogni cosa grande è stata all'inizio solo una follia!» — «È un abuso delle parole!», gli replicò il suo interlocutore: — forte! forte! forte e pazzo! Non grande!» — I due vecchi si erano evidentemente accalorati mentre si gridavano in tal modo in faccia le loro «verità»; ma io nella mia felicità e nel mio al di là, meditavo come il più forte avrebbe potuto rapidamente dominare il meno forte; e anche che per l'appiattimento spirituale di un popolo c'è una compensazio­ne, vale a dire l'approfondimento di un altro. —

242.

Si chiami ora «civilizzazione» o «umanizzazione» o «progresso» ciò in cui oggi si cerca il contrassegno degli Europei; lo si chiami semplicemente, senza lodi e senza biasimo, con una formulazione politica, il movimento democratico d'Europa: dietro a tutti i prosceni morali e politici ai quali con tali formule ci si riferisce, si compie un gigantesco processo fisiologi­co, che scorre con sempre maggiore fluidità, — il processo di una progres­siva assimilazione degli Europei, il loro crescente allontanamento dalle condizioni per le quali sorsero razze vincolate al clima e al ceto, la loro ere-

Page 113: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE OTTAVA. POPOLI E PATRIE 529

scente indipendenza da ogni milieu determinato che tenderebbe a iscriversi lungo i secoli, con uguali esigenze, nell'anima e nel corpo, — durante la graduale ascesa di una specie d'uomo essenzialmente sovranazionale e no­made, la quale, detto in termini fisiologici, possiede come segno distintivo una grandissima capacità e forza d'adattamento. Questo processo dell'eu­ropeo in formazione, che può essere ritardato nel suo ritmo da grandi rica­dute ma che proprio con ciò guadagna e cresce in veemenza e profondità — si possono collocare tra queste ricadute l'ancor furioso Sturm und Drang del «sentimento nazionale» assieme all'anarchismo che sta appunto aumentando —: questo processo sta portando probabilmente a risultati che i suoi ingenui promotori e lodatori, gli apostoli delle «idee moderne» non avrebbero voluto prendere in considerazione. Le stesse nuove condi­zioni, che ci daranno il livellamento e la progressiva mediocrità dell'uomo, un utile, laborioso uomo del gregge, polivalente e abile, — sono atte al massimo grado a produrre a uomini eccezionali, della qualità più pericolo­sa e affascinante. Mentre cioè quella forza di adattamento, che collauda condizioni sempre mutanti e con ogni generazione, quasi con ogni decen­nio, inizia un nuovo lavoro, rende affatto impossibile la potenza del tipo; mentre l'impressione di insieme di tali futuri Europei sarà verosimilmente quella di lavoratori di ogni tipo, chiacchieroni, privi di volontà e inter­scambiabili, che hanno bisogno del padrone, di chi comanda, come del pa­ne quotidiano; mentre dunque la democratizzazione dell'Europa si avvia alla creazione di un tipo predisposto alla schiavitù nel senso più sottile: l'uomo forte dovrà crescere in certi casi singoli ed eccezionali, più forte e più ricco di quanto forse non sia mai stato fino ad oggi, — grazie alla spre­giudicatezza della sua educazione, grazie all'immensa varietà delle sue abi­tudini, della sua arte e della sua maschera. Volevo dire: la democratizza­zione d'Europa è ad un tempo una involontaria propedeutica all'alleva­mento di tiranni; — intendendo la parola in ogni senso, anche in quello più spirituale.

243.

Sento con piacere che il nostro sole si muove rapidamente verso l'orbita della costellazione di Ercole: e spero che l'uomo su questa terra agisca in ciò, come il sole. E noi per primi, noi buoni Europei!

244.

C'è stato un tempo, in cui si era abituati a chiamare i Tedeschi con l'at­tributo «profondi»: ora che il tipo più indovinato del nuovo germanesimo è avido di onori completamente diversi e in tutto ciò che ha profondità rimpiange forse la mancanza di «slancio» è quasi patriottico e attuale il dubbio che allora con questa lode si sia preso un abbaglio: insomma, che la profondità tedesca non sia stata in fondo qualcos'altro e qualcosa di peg­gio — e qualcosa che, grazie a Dio, si è in procinto, con successo, di perde­re. Facciamo dunque il tentativo di mutare le nostre conoscenza sulla pro­fondità tedesca: non si ha bisogno di null'altro che di un po' di vivisezione dell'anima tedesca. L'anima tedesca è soprattutto varia, di diversa origine, più composta e sovrapposta che realmente costruita: ciò dipende dalla sua provenienza. Un tedesco che avesse l'ardire di sostenere: «Ah! Due anime dimorano nel mio petto» traviserebbe malamente la verità o meglio, rimar­rebbe indietro di molte anime rispetto alla verità. In quanto popolo sorto

Page 114: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

530 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

dalla più mostruosa mescolanza e incontro di razze, forse addirittura con una predominanza dell'elemento preariano, in quanto «popolo di mezzo» da ogni punto di vista, i Tedeschi sono più incomprensibili, più vasti, più contraddittori, più sconosciuti, più incalcolabili, più sorprendenti, addirit­tura più spaventosi di quanto lo siano stati altri popoli: — essi si sottraggo­no alla definizione e fanno con ciò la disperazione dei Francesi. Contraddi­stingue i Tedeschi il fatto che per loro la domanda: «che cos'è tedesco» re­sta sempre aperta. Kotzebue conosceva i suoi Tedeschi certamente abba­stanza bene: «Siamo stati riconosciuti» essi esultavano verso di lui, — ma anche Sand credeva di conoscerli. Jean Paul sapeva ciò che faceva, quando si dichiarò rabbiosamente contro le esagerazioni e le adulazioni menzogne­re ma patriottiche di Fichte, — ma è probabile che a proposito dei Tede­schi Goethe non la pensasse come Jean Paul, se pure nei riguardi di Fichte gli desse ragione. Cos'ha pensato in realtà Goethe dei Tedeschi? — Ma egli non si è mai espresso chiaramente su molte cose che Io circondavano e co­nobbe, finché visse, la finezza del silenzio: — probabilmente aveva buoni motivi. Certo è che non furono le «guerre per la libertà» che gli fecero guardare intorno a sé con maggior gioia, e tanto meno la Rivoluzione fran­cese — l'avvenimento a causa del quale egli ha trasformato il suo Faust, addirittura l'intero problema «uomo», fu l'avvento di Napoleone. Vi sono parole di Goethe nelle quali quasi come parlasse dall'esterno, egli nega con impaziente durezza ciò che i Tedeschi considerano motivo d'orgoglio: il fa­moso sentimento tedesco egli lo definisce come «indulgenza per le debolez­ze proprie e altrui». Ha forse torto? — I Tedeschi sono caratterizzati dal fatto che raramente si ha completamente torto sul loro conto. L'anima te­desca ha in sé un intrico di corridoi, in essa ci sono caverne, nascondigli, trappole, il suo disordine ha molto del fascino del misterioso; il tedesco co­nosce i sentieri segreti che portano al caos. E come ogni cosa ama la pro­pria allegoria così il tedesco ama le nuvole e tutto ciò che è indistinto, in di­venire, crepuscolare, umido e coperto: egli sente come «profondo» l'incer­to, l'informe, ciò che si sposta, che cresce. Il tedesco stesso non è, egli di­viene, egli «si evolve». «Evoluzione» è perciò la scoperta e il capolavoro veramente tedesco nel grande regno delle formule filosofiche: — un con­cetto dominante che, legato alla birra e alla musica tedesche, lavora alla germanizzazione di tutta l'Europa. Gli stranieri stanno stupiti e affascinati davanti agli indovinelli che la natura contraddittoria dal fondo dell'anima tedesca offre loro (anima che Hegel ha organizzato in sistema, e Richard Wagner infine ha anche posto in musica). «Bonari e insidiosi» — un tale accostamento, paradossale per ogni altro popolo, si giustifica purtroppo con eccessiva frequenza in Germania: si viva anche solo per un periodo tra gli Svevi! La pesantezza del dotto tedesco, la sua scipitezza sociale si accor­da sino all'orrore con un funambulismo interiore e una lieve audacia di fronte ai quali già tutti gli dèi hanno provato timore. Se si vuol dimostrare ad oculos 1'«anima tedesca» si vada ad esaminare il gusto tedesco, le arti e i costumi tedeschi: che contadinesca indifferenza verso il «buon gusto»! Come stanno una accanto all'altra la cosa più nobile e la più volgare! quanto disordine e quanta ricchezza in questa economia delle anime! Co­me si trascina dietro la propria anima; egli trascina ogni cosa di cui fa espe­rienza. Egli digerisce male i suoi eventi, non li porta mai a termine; la pro­fondità tedesca è spesso soltanto una penosa, lenta «digestione». E come tutti i malati cronici, tutti i dispeptici, tendono alla comodità, così il tede­sco ama la «franchezza» e la «probità»: è così comodo essere franchi e lea-

Page 115: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE OTTAVA. POPOLI E PATRIE 531

li! — Oggi è forse il camuffamento più pericoloso e felice del quale il tede­sco sia capace, questa confidenza, questa cortesia, questo scoprir le carte della probità tedesca: è la sua vera e propria arte metafisica, con la quale egli può «arrivare ancora lontano»! Il tedesco si lascia andare, guarda con i suoi leali, azzurri, vuoti occhi tedeschi — e subito lo straniero lo scambia per la sua veste da camera! — Volevo dire: la «profondità tedesca» può es­sere tutto ciò che vuole, — tra di noi ci permettiamo forse di ridere di lei? — Facciamo bene a onorare anche in futuro la sua apparenza e il suo buon nome e a non cedere troppo a buon mercato la nostra vecchia fama di po­polo profondo contro lo «slancio» prussiano e lo spirito e l'inconsistenza berlinese. È ragionevole per un popolo farsi credere profondo, maldestro, bonario, franco, poco saggio; potrebbe essere addirittura qui la sua pro­fondità! Infine: bisogna fare onore al proprio nome — non per nulla ve­niamo chiamati il popolo «tiusche», il popolo ingannatore...

245.

Il «buon» tempo «antico» è passato, la sua canzone si è spenta con Mo­zart: — felici noi, perché il suo rococò ci parla ancora, perché la sua «buo­na società», il suo tenero entusiasmo, la sua gioia infantile per la cineseria e il ghirigoro, la cortesia del suo cuore, il suo struggimento per tutto ciò che è grazioso, innamorato, danzante, felice pur nelle lagrime, la sua fede nel sud può trovare ancora in noi una qualche rispondenza!. Ah, un giorno tutto ciò non esisterà più! Ma chi può dubitare, che anche ancor prima sva­nirà la nostra capacita di capire e di gustare Beethoven! — Che fu soltanto l'epilogo di un trapasso e di una rottura dello stile e non, come Mozart, l'ultimo accordo di un grande gusto europeo tramandato nei secoli. Bee­thoven è l'avvenimento intermedio tra una vecchia anima esausta, che si frantuma in continuazione e una giovanissima anima futura che in conti­nuazione giunge; sulla sua musica si stende quel crepuscolo di eterno perdi­mento e di eterna speranza vagabonda — la stessa luce nella quale era im­mersa l'Europa quando aveva sognato con Rousseau, quando aveva dan­zato intorno all'albero della libertà rivoluzionaria e infine si era quasi pro­strato davanti a Napoleone. Ma come impallidisce in fretta proprio questo sentimento, come è difficile oggi perfino conoscere questo sentimento, — come suona estranea la lingua di Rousseau, dei Schiller, dei Shelley, dei Byron al nostro orecchio, nei quali tutti ha trovato la via per la parola quello stesso destino d'Europa che in Beethoven era riuscito a cantare! — Ciò che della musica tedesca è venuto più tardi appartiene al romantici­smo, cioè, da un punto di vista storico, a un movimento ancora più breve, più fuggevole, ancora più superficiale di quel grande intermezzo che fu il trapasso dell'Europa da Rousseau a Napoleone e alla nascita della demo­crazia: Weber: che cos'è oggi per noi il Freischùtz e l'Oberon! O lo Hans Heiling e il Vampiro di Marchner! O addirittura il Tannhàuserl Questa è musica che, se anche non è stata ancora dimenticata, si sta tuttavia perden­do. Tutta questa musica del romanticismo, inoltre, non era abbastanza no­bile, non era abbastanza musica, per ottener ragione anche in altre sedi ol­tre che nel teatro e di fronte alla folla; essa fu sin dall'inizio una musica di second'ordine, che venne poco considerata dai veri musicisti. Le cose stan­no diversamente con Felix Mendelssohn, con quel maestro alcionico che, per la sua anima più lieve, più pura, più colma di felicità fu presto venera­to e altrettanto presto dimenticato: come il più bell'incidente della musica

Page 116: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

532 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

tedesca. Per quanto riguarda Robert Schumann, però, che prendeva tutto seriamente e fin dall'inizio era stato anche preso sul serio — è l'ultimo, che abbia fondato una scuola —: non siamo fortunati noi oggi, non siamo sol­levati, liberati, all'idea che proprio questo romanticismo schumanniano sia superato? Schumann, che era fuggito nella «Svizzera sassone» della pro­pria anima, per metà wertheriano, per metà jean-pauliano, certo non bee-thoveniano! certo non byroniano! — la musica del suo Manfred è un erro­re e un equivoco che vanno fino all'illecito —, Schumann con il suo gusto, che in fondo era un gusto meschino, (e cioè una tendenza pericolosa, e doppiamente pericolosa tra i Tedeschi, al pacato lirismo e all'ebbrezza del sentimento), muovendosi continuamente a lato, indugiando e traendosi in­dietro timidamente, una natura nobile e tenera che nuotava in una felicità e in un dolore completamente anonimi, quasi una fanciulla e noli me tan­gere fin dall'inizio: questo Schumann fu ormai solo un avvenimento tede­sco nella musica, non più europeo, come Io fu Beethoven, e come in misu­ra ancor più vasta, lo è stato Mozart, — con lui la musica tedesca veniva minacciata dal suo maggior pericolo, quello di non essere più la voce del­l'anima europea e di decadere a un fatto esclusivamente nazionale.

246.

— Che martirio sono i libri scritti in tedesco per colui che ha il terzo orecchio! Come sta malvolentieri accanto alla palude, che lentamente si svolge, di suoni senza risonanza, di ritmi senza danza, che tra i Tedeschi viene chiamata «libro»! E proprio il tedesco che legge libri! Come legge male, di malavoglia, con pigrizia! Quanti Tedeschi sanno ed esigono di sa­pere che l'arte si nasconde in ogni bella frase, — arte che vuol essere indo­vinata, come la frase vuol essere capita! Un malinteso sul suo ritmo per esempio: e la frase stessa è fraintesa! Che non si possa essere in dubbio sul­le sillabe che determinano il ritmo, che si senta la rottura di una simmetria troppo rigida come voluta e come bellezza, che si porge un orecchio raffi­nato e paziente ad ogni staccato, ad ogni rubato, che si indovini il senso dal susseguirsi delle vocali e dei dittonghi, e come essi si colorino riccamen­te e teneramente nel loro susseguirsi: chi tra i Tedeschi che leggono libri ha abbastanza buona volontà da riconoscere doveri ed esigenze di tale tipo e prestare ascolto a tanta arte e tante intenzioni nel linguaggio? Dopo tutto «non si ha orecchio per tutto ciò»: e così non si avvertono i contrasti più forti dello stile e i più raffinati artifici vengono sprecati per dei sordi. — Questi erano i miei pensieri, quando notavo come si confondano, goffa­mente e senza rendersene conto, due maestri nell'arte della prosa, l'uno dei quali lascia cadere le parole lentamente e con freddezza, come dal soffitto di un'umida grotta — egli conta sulla sua cupa sonorità e risonanza — e l'altro si serve del suo linguaggio come di una daga malleabile e dal braccio fino all'alluce sente la pericolosa felicità della lama che trema affilatissima, che vuole mordere, sibilare, e fendere. —

247.

Quanto poco a che fare abbia lo stile tedesco con il suono e con l'orec­chio, lo dimostra il fatto che proprio i nostri buoni musicisti scrivono ma­le. 11 tedesco non legge ad alta voce, non legge per l'orecchio, ma soltanto per gli occhi: quando legge egli mette le orecchie nel cassetto. L'uomo del-

^

Page 117: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE OTTAVA. POPOLI E PATRIE 533

l'antichità, quando leggeva — accadeva abbastanza di rado — leggeva a se stesso ad alta voce; ci si meravigliava se qualcuno leggeva in silenzio e ci si chiedeva segretamente per quali motivi. A voce alta: ciò vuol dire, con tut­te le intensità, le inflessioni, i mutamenti del tono e le variazioni del ritmo, nelle quali l'antico mondo pubblico trovava il proprio piacere. Allora, le leggi dello stile scritto erano le stesse dello stile orale; e le leggi di quest'ul­timo dipendevano in parte dalla stupefacente perizia e dalle raffinate esi­genze dell'orecchio e della laringe, e in parte dalla forza, dalla durata e dal­la potenza dei polmoni degli antichi. Un periodo, nel senso che gli davano gli antichi è soprattutto un tutto fisiologico, in quanto viene compreso in un unico respiro. Tali periodi, come li incontriamo in Demostene, o in Ci­cerone, due volte in crescendo e due volte in calando e tutto all'interno di un unico respiro: questi sono piaceri per uomini dell'antichità, i quali sape­vano apprezzare proprio per la loro formazione l'abilità che vi era in ciò, la rarità e la difficoltà nel pronunciare una tale periodo: — in realtà noi non abbiamo nessun diritto al grande periodo, noi moderni, noi dal respi­ro corto in ogni senso! Questi antichi erano, infatti, tutti quanti dilettanti della retorica e di conseguenza conoscitori e critici, — perciò essi costringe­vano i loro oratori alle prove più alte; allo stesso modo nel secolo scorso quando tutti gli Italiani e le Italiane sapevano cantare, il virtuosismo cano­ro (e con ciò anche l'arte della melodia —) toccò la vetta. Ma in Germania (fino al periodo più recente, nel quale una specie di eloquenza tribunizia muove le proprie giovani ali abbastanza timidamente e goffamente) ci fu in realtà soltanto un solo genere di eloquenza pubblica e approssimativamen­te regolata come un'arte: quella che veniva dal pulpito. Solo il predicatore, in Germania, sapeva quanto pesa una sillaba, quanto pesa una parola, in che modo una frase batte, salta, cade, corre, si smorza, egli solo aveva co­scienza nelle sue orecchie, abbastanza spesso una cattiva coscienza: poiché non mancano i motivi perché così di rado, e quasi sempre troppo spesso, un tedesco abbia raggiunto l'abilità nell'eloquenza. Il capolavoro della prosa tedesca è perciò, come è ovvio, il capolavoro del suo più grande pre­dicatore: la Bibbia è stata fino ad ora il miglior libro tedesco. Contro la Bibbia di Lutero quasi tutto il resto non è altro che «letteratura», una cosa che non è cresciuta in Germania e che perciò non crebbe né cresce nel cuore tedesco: come ha invece fatto la Bibbia.

248.

Esistono due tipi di genio: uno che vuole soprattutto generare e genera e un altro che si lascia volentieri fecondare e partorisce. E allo stesso modo ci sono tra i popoli geniali quelli ai quali è toccato in sorte il problema fam-minile della gravidanza e il compito segreto della formazione, della matu­razione, del compimento — i Greci per esempio furono un popolo di que­sto tipo, e così i Francesi —; e altri che devono fecondare e diventare l'ori­gine di nuovi ordinamenti di vita, — come gli Ebrei, i Romani e, chiedia­mocelo in tutta modestia, i Tedeschi? — Popoli tormentati e incantati da febbri sconosciute e inarrestabilmente spinti al di fuori di sé, innamorati e avidi di razze estranee (di quelle che si «lasciano fecondare» —) e perciò avidi di dominio come tutto ciò che si sa colmato di forza creativa e di con­seguenza «di grazia divina». Questi due tipi di genio si cercano come l'uo­mo e la donna; ma essi si fraintendono anche, l'uno con l'altro — come l'uomo e la donna.

Page 118: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

534 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

249. Ogni popolo ha la propria ipocrisia e la chiama le sue virtù. — Non si

conosce, — non si può conoscere, ciò che si ha di migliore.

250.

Che cosa deve l'Europa agli Ebrei? — Molte cose, buone e cattive e una soprattutto che ha contemporaneamente in sé il meglio e il peggio: il gran­de stile della morale, la terribilità e maestà di infinite esigenze, di infiniti si­gnificati, tutto il romanticismo e la sublimità della problematicità morale — e di conseguenza proprio la parte più affascinante, più ingannevole, più ricercata di quei giochi di colore e di quelle seduzioni alla vita nel cui rifles­so arde oggi — e sta forse per spegnersi, il cielo della nostra cultura euro­pea, il suo cielo crepuscolare. Noi, che siamo artisti tra gli spettatori e i fi­losofi, siamo perciò grati agli Ebrei.

251.

Bisogna chiudere un occhio se sullo spirito di un popolo, che soffre e vuole soffrire di febbre nervosa nazionalistica e di ambizione politica —, passa ogni tipo di nuvole e di perturbazioni, insomma se è colto da piccoli attacchi di rincretinimento: per esempio, tra i Tedeschi di oggi, ora la stu­pidaggine antifrancese, ora quella antiebraica, ora quella antipolacca, ora quella cristiano-romantica, ora quella wagneriana, ora quella teutonica, ora quella prussiana (si vedano dunque questi poveri storici, questi Sybel e Treitzschke e le loro grosse teste bendate), o comunque li si voglia chiama­re, questi piccoli obnubilamenti dello spirito e della coscienza tedesca. Spe­ro che mi si scusi se anch'io durante una breve sosta rischiosa in questo campo così contaminato, non sono stato completamente risparmiato dalla malattia e, come tutti, ho già cominciato a formulare pensieri su cose che non mi riguardano per nulla: primo segno dell'infezione politica. Per esempio sugli Ebrei: ascoltate. — Io non ho incontrato ancora nessun tede­sco che sìa stato benevolo nei confronti degli Ebrei; e per quanto possa es­sere deciso il rifiuto del vero e proprio antisemitismo da parte di tutti gli uomini attenti e dei politici, tuttavia, anche questa intenzione e questa po­litica non si rivolgono contro questo sentimento in se stesso, ma solo con­tro i suoi pericolosi eccessi, in particolare contro l'espressione sciocca e vergognosa di questo sentimento eccessivo, — su ciò non ci si può inganna­re. Che la Germania abbia abbastanza Ebrei che per lo stomaco e il sangue tedesco sia difficile (e lo sarà ancora per molto tempo) liberarsi anche sol­tanto di questo quantum di «Ebrei» — così come se ne sono liberati gli Ita­liani, i Francesi e gli Inglesi, grazie a una digestione più robusta —: questa è la chiara espressione e il linguaggio di un istinto generale, che dobbiamo ascoltare e sulla traccia del quale dobbiamo agire. «Non ammettere che nessun ebreo entri più! E soprattutto chiudere le porte verso oriente (anche verso l'Austria)!» Comanda così l'istinto di un popolo, la cui natura è an­cora così debole e indefinita da poter essere facilmente eliminata e spenta da una razza più forte: Ma senza alcun dubbio sono gli Ebrei la razza più forte, più tenace e più pura che viva ora in Europa; anche nelle condizioni peggiori essi sanno raggiungere il proprio scopo (addirittura meglio che in quelle più favorevoli), grazie a una qualche virtù che oggi si vorrebbe loro

Page 119: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE OTTAVA. POPOLI E PATRIE 535

attribuire a vizio, — grazie soprattutto a una fede risoluta, che non ha bi­sogno di vergognarsi di fronte alle «idee moderne»; essi si trasformano, se si trasformano, sempre e solo nel modo con cui l'impero russo fa le sue conquiste, — come un impero che ha tempo e non è nato ieri —: cioè se­condo il principio «il più lentamente possibile!». Un pensatore che abbia sulla coscienza il destino dell'Europa dovrà fare i conti, in tutti i suoi pro­getti per questo futuro, con gli Ebrei e con i Russi come i fattori più sicuri e soprattutto più probabili nel grande gioco e nel grande conflitto delle for­ze. Ciò che oggi in Europa viene chiamato «nazione» e che in realtà è più una res facto che nata (e che talvolta assomiglia addirittura ad una resficta et pietà tanto da poterle scambiare —), è in ogni caso un qualcosa di dive­nire, un qualcosa di giovane, che può facilmente mutare, non ancora una razza, e tanto meno un qualcosa aere perennius, come lo sono gli Ebrei: queste «nazioni» dovrebbero guardarsi attentamente da ogni collerica con­correnza e da ogni ostilità! Che gli Ebrei, se volessero — o se vi fossero co­stretti, come pare vogliano gli antisemiti —, potrebbero già ora avere il so­pravvento, anzi, alla lettera, il dominio sull'Europa è certo; come è certo che essi non lavorano a questo scopo e non fanno progetti a questo propo­siti. Per il momento essi chiedono e desiderano, addirittura con una certa invadenza, di essere assorbiti in Europa e assimilati dall'Europa; essi han­no sete di avere finalmente una sede stabile in un luogo qualsiasi, di essere tollerati, considerati, e di porre fine alla vita nomade, all'«ebreo erran­te» —; e bisognerebbe prendere in considerazione e favorire questo tratto e questo impulso (che esprime forse proprio un'attenuazione degli istinti ebraici): e a tale scopo sarebbe forse più utile e più ragionevole bandire gli strilloni antisemiti del paese. Favorirli con ogni cautela, scegliendo; press'a poco come fa la nobiltà inglese. È evidente che anche i tipi più forti e più saldamente forgiati della nuova Germania potrebbero entrare in rapporto con loro senza troppe difficoltà, ad esempio la nobiltà militare della Mar­ca: sarebbe di grandissimo interesse vedere se nell'arte ereditaria del co­mando e dell'ubbidienza — per entrambe le cose la regione ora nominata è oggi classica — fosse possibile infondere e innestare il genio del denaro e della pazienza (e soprattutto un po' dello spirito e della spiritualità di cui il luogo ora nominato manca ampiamente —). Ma qui conviene che io inter­rompa il mio allegro entusiasmo per la Germania e il mio solenne discorso: perché sono già arrivato a toccare il punto per me più serio nel «problema europeo» come io lo intendo, la preparazione e l'educazione di una nuova casta che governi l'Europa. —

252.

Non sono una razza filosofica — questi Inglesi: Bacon significa un at­tacco allo spirito filosofico in generale, Hobbes, Hume e Locke una degra­dazione e un deprezzamento del concetto di «filosofo» per più di un seco­lo. Contro Hume si levò e si leva Kant; Locke fu colui del quale Shelling potè dire: «Je méprise Locke»; nella lotta contro l'instupidimento anglo­meccanicistico del mondo Hegel e Schopenhauer (assieme a Goethe) furo­no concordi, quei due ostili geni-fratelli della filosofia, che anelavano, l'u­no in opposizione all'altro, ai poli contrapposti dello spirito tedesco e si fa­cevano con ciò torto come appunto si fanno torto solo i fratelli. Ciò che in Inghilterra manca ed è sempre mancato, lo sapeva piuttosto bene quel mezzo-attore e retore, quel patetico confusionario che era Carlyle che cer­cava di nascondere sotto smorfie appassionate ciò che sapeva di se stesso, e

Page 120: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

536 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

cioè che cosa mancava in Carlyle — quell'effettiva potenza della spirituali­tà, quella effettiva profondità dello sguardo spirituale, in breve la filoso­fia. — Contraddistingue tale razza non filosofica, il fatto che essa resti sal­damente attaccata al cristianesimo: essa ha bisogno della sua disciplina per «moralizzare» e umanizzare. L'inglese è più cupo, più sensuale, più forte nella volontà e più brutale del tedesco e appunto perciò è il più volgare dei due, anche più devoto del tedesco: egli ha per l'appunto una maggiore ne­cessità del cristianesimo. Per un naso più delicato questo cristianesimo in­glese ha anche in più un autentico inglese sentore di spleen e di sregolatezza alcolica contro la quale esso viene impiegato, per buoni motivi, come far­maco, — cioè il veleno più sottile contro quello più grossolano: un avvele­namento più sottile è infatti già un progresso nei popoli rozzi, un gradino verso la spiritualizzazione. La rozzezza inglese e la sua serietà da contadini viene mascherata e resa più sopportabile attraverso la mimica cristiana, at­traverso le preghiere e le salmodie; o più esattamente, viene spiegata e in­terpretata; e per quella mandria di ubriaconi e di immorali, che già una volta sotto la pressione del metodismo e di recente, di nuovo, come «eser­cito della salvezza» ha imparato a grugnire con gli accenti della morale, un crampo di pentimento può essere veramente la realizzazione relativamente più alta di «umanità», alla quale essa possa essere elevata: questo è quanto si può ragionevolmente ammettere. Ciò che però offende, anche nell'ingle­se più umano, è la sua mancanza di musica, per esprimerci con una meta­fora (e anche fuor di metafora —): nei movimenti della sua anima e del suo corpo egli non ha né ritmo né senso della danza, e neppure il desiderio di ritmo e di danza, di «musica». Lo si ascolti mentre parla; si guardino le più belle tra le inglesi quando camminano — non esistono in nessuna regione delle terra colombe e cigni più belli, — ma alla fine: le si ascolti cantare! Ma io pretendo troppo...

253.

Esistono verità che vengono riconosciute meglio da intelligenze mediocri poiché esse sono regolate su di loro, ci sono verità che posseggono fascino e forza di seduzione solo per spiriti mediocri: — su questa tesi forse spiace­vole ci imbattiamo proprio ora che lo spirito di certi stimabili, ma mediocri Inglesi — intendo Darwin, John Stuart Mill e Herbert Spencer — comincia a prevalere nella regione media del gusto europeo. In effetti chi potrebbe dubitare dell'utilità che di tanto in tanto dominino spiriti di un fai genere? Sarebbe un errore considerare particolarmente abili (nel determinare molti piccoli fatti comuni, raccoglierli e costringerli in formule) proprio gli spiriti di più elevata natura, che volano lontano dagli altri: — essi sono invece sin dall'inizio, proprio in quanto spiriti d'eccezione, in una posizione per nulla favorevole rispetto alle «regole». E infine essi hanno qualcosa di meglio da fare che semplicemente conoscere — essi devono essere cioè qualcosa di nuovo, significare qualcosa di nuovo, rappresentare nuovi valori! L'abisso tra il sapere e il potere è forse più grande, e più misterioso di quanto non si creda: colui che può grandi cose, colui che crea dovrà essere eventualmente un ignorante, — mentre d'altra parte per le scoperte scientifiche del tipo di quelle darwiniane una certa limitatezza, aridità e zelante diligenza, in bre­ve, qualcosa di inglese, non mette certo in una situazione svantaggiosa. — Non si dimentichi infine, a proposito degli Inglesi, che già una volta con la loro profonda mediocrità essi hanno provocato una depressione generale dello spirito europeo: ciò che viene chiamato «le idee moderne» o «le idee

Page 121: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE OTTAVA. POPOLI E PATRIE 537

del xvin secolo» o anche «le idee francesi» — contro cui si è levato con profondo disgusto lo spirito tedesco, fu di origine inglese, non v'è da dubi­tarne. I Francesi sono stati soltanto le scimmie e gli attori di queste idee, i loro migliori soldati, ma anche purtroppo le loro prime e totali vittime: poiché è a causa della esecrabile anglomania delle «idee moderne» che ulti­mamente V àme francaise è diventata così sottile e gracile, che ci si ricorda oggi quasi con incredulità del suo xvi e xvii secolo, della sua profonda e appassionata forza, della sua inventiva nobiltà. Bisogna però aggrapparsi con i denti a questo principio di giustizia storica e difenderlo contro il mo­mento e l'apparenza: la noblesse europea — del sentimento, del gusto, del costume, prendendo insomma questa parola in ogni suo alto significato — è opera e scoperta della Francia, la volgarità europea, il livello plebeo delle idee moderne — lo è dell'Inghilterra. —

254.

Anche adesso è ancora la Francia la sede della più spirituale e raffinata cultura europea e l'alta scuola del gusto: ma questa «Francia del gusto» bi­sogna saperla trovare. Chi ne fa parte, si tiene ben nascosto: — può essere un piccolo numero quello in seno alla quale essa vive e forse vi saranno uo­mini che non stanno sulle gambe più robuste, in parte fatalisti, incupiti, malati, in parte viziati e artificiosi tanto da aver l'ambizione di nasconder­si. Una cosa è comune a tutti: essi si chiudono le orecchie di fronte alla va­neggiarne stupidità e alla rumorosa parlantina del borghese democratico. In realtà oggi rotola in primo piano una Francia instupidita e volgarizzata, — essa ha festeggiato da poco, con le esequie di Victor Hugo, una vera or­gia di cattivo gusto e insieme di autoammirazione. Anche qualcos'altro è loro comune: la buona volontà di difendersi dalla germanizzazione spiri­tuale — e una ancor maggiore incapacità di riuscirvi! Forse Schopenhauer, in questa Francia dello spirito, che è anche una Francia del pessimismo, ha finito per sentirsi oggi più a casa sua e più a suo agio di quanto non lo sia mai stato in Germania; per non parlare di Heinrich Heine che già da molto tempo è stato assimilato dai più raffinati ed esigenti lirici di Parigi, o di Hegel, che esercita oggi nelle vesti di Taine, cioè del primo storico vivente — un influsso quasi tirannico. E per quanto riguarda Richard Wagner: quanto più la musica francese imparerà a formarsi secondo le reali esigen­ze dell'ime moderne tanto più essa diventerà «wagneriana», possiamo profetizzarlo, — lo fa già abbastanza ora! Tuttavia ci sono ancora tre cose che i Francesi possono indicare con orgoglio come loro proprietà ed eredi­tà e come mai perduto contrassegno di un'antica superiorità culturale sul­l'Europa, nonostante ogni volontaria od involontaria germanizzazione e volgarizzazione del gusto: innanzitutto, la facoltà di provare passioni arti­stiche, di sacrificarsi alla «forma» per cui è stata trovata l'espressione l'art pour l'art, accanto a tante altre: una simile facoltà, da tre secoli, non è mai mancata in Francia ed è stata sempre nuovamente possibile, grazie alla ve­nerazione per il «piccolo numero», una specie di musica da camera della letteratura che non è facile trovare nel resto dell'Europa —. La seconda cosa in base alla quale i Francesi possano motivare una superiorità sull'Eu­ropa è la loro antica, molteplice cultura moralista, la quale fa sì che anche tra i piccoli romanciers dei giornali e i casuali boulevardiers de Paris si tro­va in media un'eccitabilità psicologica e una curiosità della quale in Ger­mania, ad esempio, non si ha alcuna idea (per tacere poi della cosa!). Per una cosa simile manca ai Tedeschi qualche secolo di esercizio moralistico,

Page 122: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

538 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

che, come si è detto, la Francia non si è risparmiata: chi per questo chiama i Tedeschi «ingenui» fa diventar loro lode un difetto. (In contrasto con l'i­nesperienza e l'innocenza tedesca in voluptate psyenologica, che non è im­parentata troppo alla lontana con la noia che segna i rapporti tra i Tede­schi, — e come espressione più felice di una curiosità e di una capacità in­ventiva veramente francesi per questa regione di brividi delicati può valere Henri Beyle quell'uomo curioso, anticipatore e antesignano che con il suo ritmo napoleonico percorse la. sua Europa, parecchi secoli dell'anima euro­pea come scopritore e svelatore di quest'anima: — sono state necessarie due generazioni per riuscire in qualche modo a riprenderlo, per indovinare alcuni degli enigmi che tormentavano ed estasiavano questo straordinario epicureo, questo investigatore che fu l'ultimo grande psicologo della Fran­cia —). Vi è ancora una terza giustificazione per la sua superiorità: nell'a­nima dei Francesi vi è una sintesi quasi riuscita di nord e sud, che permette loro di comprendere molte cose e impone loro di farne altre che un inglese non capirà mai; il loro temperamento periodicamente propenso e contrario al sud, nel quale a tratti trabocca il sangue ligure e provenzale, li difende dall'orribile grigiore nordico e dall'anemia e fantomaticità concettuale pri­ve di solarità — la nostra tedesca malattia del gusto contro il cui eccesso si è prescritto momentaneamente con grande decisione, sangue e acciaio, in­tendo: la «grande politica» (secondo una pericolosa arte medica che mi in­segna ad attendere e attendere, ma fino ad ora non ancora a sperare —). Anche ora esiste ancora in Francia una comprensione anticipata e una compiacenza per quegli uomini rari e raramente soddisfatti che sono trop­po ricchi per trovare soddisfazione in un qualche sentimento patriottico e che sanno amare nel nord il sud e nel sud il nord, — per i mediterranei di nascita, i «buoni Europei». — Per loro ha composto la sua musica Bizet, quest'ultimo genio che ha visto una nuova bellezza e una nuova seduzione, — che ha scoperto un brandello di sud della musica.

255.

Contro la musica tedesca considero obbligatorie alcune precauzioni. Po­sto che uno ami il sud come io Io amo, come una grande scuola per la gua­rigione, nell'ambito spirituale e in quello sensuale, come una illimitata pie­nezza e trasfigurazione solare, che si espande su un'esistenza autonoma e piena di fede in sé: ora un uomo simile dovrà imparare a fare un po' d'at­tenzione davanti alla musica tedesca, poiché essa mentre torna a corrompe­re il suo gusto, corrompe anche la sua salute. Un tale uomo del sud, non per nascita ma per fede, nel caso egli sogni un avvenire della musica, deve sognare anche una redenzione della musica dal nord e sentire il preludio di una musica più profonda, più potente, forse più malvagia e più misteriosa, di una musica ultratedesca, che non si spenga, non avvizzisca, non impalli­disca, come fa ogni musica tedesca alla vista del mare azzurro e voluttuoso e del mediterraneo chiarore del cielo, di una musica ultra-europea, che ab­bia ragione anche dei bruni tramonti dei deserti, la cui anima sia affine alla palma e sappia vagare e sentirsi in patria tra le grandi, belle, solitarie belve rapaci... Potrei immaginare una musica il cui incanto più raro consistesse nella sua ignoranza di male e di bene, e soltanto una qualche nostalgia di marinaio, una qualche ombra dorata e tenera debolezza scorrerebbero for­se qua e là su di lei: un'arte che vedesse fuggire incontro a sé da grande lontananza i colori di un mondo morale che sta quasi affondando, divenu-

Page 123: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE OTTAVA. POPOLI E PATRIE 539

to quasi incomprensibile, e che fosse abbastanza ospitale e profonda da raccogliere questi tardi fuggiaschi.

256.

Grazie al patologico estraneamento che la follia nazionalistica ha inter­posto e ancora interpone tra i popoli d'Europa, grazie anche ai politici miopi e dalla mano veloce, che oggi con il suo aiuto sono riusciti nel loro intento e non suppongono affatto quanto questa politica disgregatrice che essi praticano possa essere necessariamente soltanto una politica d'inter­mezzo, — grazie a tutto ciò e a molte altre cose oggi assolutamente inespri­mibili, i segni più chiari vengono ora travisati o arbitrariamente e bugiar­damente interpretati, i segni nei quali si esprime la volontà dell'Europa di diventare una. In tutti gli uomini più profondi e più aperti di questo seco­lo, l'effettiva direzione complessiva nel segreto lavoro della loro anima fu di spianare la strada a quella nuova sintesi e di anticipare in via sperimen­tale l'europeo del futuro: solo in apparenza o nelle ore di debolezza, per esempio nella vecchiaia, essi appartennero alle «patrie», — quando diven­nero «patrioti» essi si riposarono di se stessi. Penso a uomini come Napo­leone, Goethe, Beethoven, Stendhal, Henrich Heine, Schopenhauer; non mi si rimproveri di comprendere tra loro anche Richard Wagner, a propo­sito del quale non ci si può lasciar ingannare dai suoi stessi malintesi, — geni del suo tipo hanno raramente il diritto di comprendere se stessi. E an­cora meno, certamente, ci si può lasciar ingannare dall'incivile frastuono, con il quale attualmente ci si barrica e ci si difende in Francia contro Ri­chard Wagner: — resta nondimeno il fatto che il tardo romanticismo fran­cese degli anni Quaranta e Richard Wagner si appartengono intimamente e strettamente. Essi sono affini in tutte le altezze e le profondità delle loro esigenze, profondamente affini: è l'Europa, l'Europa una, l'anima della quale preme verso l'esterno e verso l'alto attraverso la loro arte multiforme e impetuosa, e anela — a che cosa? A una nuova luce? A un nuovo sole? Ma chi potrebbe esprimere esattamente ciò che tutti questi maestri di nuovi strumenti linguistici non hanno saputo esprimere chiaramente? È certo che una stessa tempesta e uno stesso impulso, li tormentava, che essi cercavano allo stesso modo, questi ultimi grandi cercatori! Dominati tutti quanti dal­la letteratura fino agli occhi e alle orecchie — i primi artisti con una forma­zione letteraria mondiale — per lo più, addirittura, essi stessi scrittori, poe­ti, mediatori e mescolatori delle arti e dei sensi (Wagner come musicista va situato tra i pittori, come poeta tra i musicisti, come artista in generale tra gli attori); tutti quanti fanatici dell'espressione «ad ogni costo» — e cito Delacroix, il più affine a Wagner —, tutti quanti grandi scopritori nel re­gno del sublime, e anche del brutto e dell'atroce, e scopritori ancor mag­giori nell'effetto, nel mettere in scena, nell'arte dell'esposizione, tutti quanti talenti ben al di sopra del proprio genio —, virtuosi da capo a piedi, con segreti accessi a tutto ciò che affascina, attira, costringe, rovescia, ne­mici nati della logica e delle linee diritte, avidi dell'ignoto, dell'esotico, del­l'immenso, del Tortuoso, di ciò che si contraddice; in quanto uomini, tan­tali della volontà, plebei che sono venuti su dal nulla, che si sapevano inca­paci nella vita e nella creazione di un «ritmo» aristocratico, di un tempo lento, — si pensi ad esempio a Balzac — lavoratori sfrenati, quasi distrut­tori di se stessi attraverso il lavoro, antinomisti e ribelli dei costumi, ambi­ziosi e insaziabili senza equilibrio e godimento, e tutti quanti infine spezza­ti e proni davanti alla croce cristiana (e a buon diritto, poiché chi di loro

Page 124: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

540 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

sarebbe stato abbastanza profondo e primordiale per una filosofia dell'an-ticristo? —) nel complesso una specie audacemente ardita, stupendamente violenta, che vola verso l'alto e trascina verso l'alto, una specie di uomini superiori che per prima cosa dovevano insegnare al loro secolo — ed è il se­colo della massai — il concetto di «uomo superiore»... Deliberino con se stessi gli amici tedeschi di Richard Wagner se nell'arte wagneriana ci sia qualche cosa di schiettamente tedesco, o se non sia appunto un contrasse­gno della provenienza e degli stimoli sovratedeschi da cui esso deriva: dove non può essere sottovalutato che, per il perfezionamento del suo tipo, pro­prio Parigi sia stata indispensabile, Parigi verso la quale l'obbligava ad anelare, nel momento più determinante, la profondità dei suoi istinti, e che tutto il suo modo di farsi avanti, il suo apostolato di se stesso abbia potuto completarsi solo di fronte al modello dei socialisti francesi. Forse, con un riscontro più esatto, si troverà, ad onore del carattere tedesco di Richard Wagner, che egli ha esercitato, nel complesso, un'influenza più forte, più audace, più dura, più elevata, di quanto potesse esercitarla un francese del xix secolo, — grazie al fatto, che noi Tedeschi siamo ancora più vicini alla barbarie dei Francesi —; forse la cosa più straordinaria che Richard Wa­gner ha creato, e, per l'intera ormai vecchia razza latina per sempre e non soltanto per oggi, inaccessibile, non sperimentabile, non imitabile: la figu­ra di Sigfrido, quell'uomo liberissimo, che in realtà può essere persino troppo libero, troppo duro, troppo allegro, troppo sano, troppo anticatto­lico, per il gusto di vecchi e fiacchi popoli civili. Può essere stato addirittu­ra un peccato contro il romanticismo, questo Sigfrido antiromano: ora, Wagner ha ampiamente pareggiato questo peccato, nei foschi giorni della sua vecchiaia quando egli — precorrendo un gusto che nel frattempo è di­ventato politica — cominciò a predicare con la sua tipica veemenza religio­sa, se non a percorrere, la via verso Roma. — Affinché queste ultime paro­le, non mi facciano fraintendere, voglio chiedere aiuto ad alcuni forti versi che faranno intendere anche alle orecchie meno raffinate ciò che io voglio, — ciò che io voglio contro I'«ultimo Wagner» e la musica del suo Parsifal:

Sono ancora tedesco? — vengono dal cuore tedesco queste grida opprimenti? È di un corpo tedesco questo disincarnarsi? Tedesco questo ieratico aprir le mani, questa lusinga dei sensi profumata di incenso? E tedesco questo inciampare, precipitare, barcollare, questo incerto penzolare a din don? Questi sguardi monacali, questo scampanellio che scandisce l'ave. — Tutto questo erroneamente estasiato trasporto oltre ogni cielo? — È ancora tedesco? — Riflettete! Siete ancora alla porta: — Poiché, ciò che udite, è Roma, —fede di Roma senza parole!

Page 125: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Parte nona Cos'è aristocratico?

257.

Ogni elevazione del tipo «uomo» è stata fino ad oggi opera di una socie­tà aristocratica — e così sarà sèmpre: di una società cioè che crede in una lunga scala dell'ordine gerarchico e in una difformità di valore tra gli uo­mini e che ha bisogno, in un certo senso, della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come si sviluppa dalla connaturata differenza delle classi, dall'ampiezza e dall'altezza dello sguardo che la casta dominante fissa costantemente nei sudditi e sugli strumenti, e dalla pratica altrettanto costante dell'obbedire e del comandare, del mantenere in basso e lontano, quest'altro misterioso pathos non potrebbe affatto svilupparsi, quel desi­derio di sempre nuove e maggiori distanze all'interno dell'anima stessa, la formazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più ric­che di tensione, più estese, in breve l'elevazione appunto del tipo «uomo», il continuo «autosuperamento dell'uomo» per usare in senso sovramorale una formula morale. Effettivamente non possiamo abbandonarci a nessu­na illusione umanitaria sulla storia delle origini di una società aristocratica (dunque del presupposto di quell'elevazione del tipo «uomo» —): la verità è dura. Diciamoci senza riguardo come è cominciata fino ad oggi sulla ter­ra ogni civiltà superiore! Uomini con una natura ancora naturale, barbari in ogni terribile senso del termine, predatori, ancora in possesso di intatte forze di volontà e di avidità di potere, si gettarono su razze più deboli, più civilizzate, più pacifiche, forse dedite al commercio o all'allevamento del bestiame, o su antiche civiltà fiacche, nelle quali proprio l'ultima forza vi­tale risplendeva in scintillanti fuochi d'artificio di spinto e corruzione. La casta aristocratica fu sempre all'inizio la casta barbarica: la sua prevalenza non stava tanto nella forza fisica, quanto in quella psichica, — essi erano gli uomini più intatti (che, ad ogni livello, significa anche «le bestie più complete» —).

258.

Corruzione, come espressione dell'anarchia che minaccia dall'interno degli istinti e del fatto che la struttura fondamentale delle passioni, cioè della «vita», è scossa: corruzione è qualcosa di fondamentalmente diverso a seconda dell'entità vitale nella quale essa si mostra. Se, ad esempio, un'a­ristocrazia, come quella della Francia, all'inizio della Rivoluzione, con su­blime disgusto getta i propri privilegi e si fa vittima della dissolutezza dei propri sentimenti morali, questa è corruzione: — e questo fu effettivamen­te solo l'atto conclusivo di quella corruzione che durava da secoli, grazie alla quale essa aveva rinunciato passo dopo passo alle sue prerogative di dominio e si era abbassata a funzione della regalità (e infine addirittura a

Page 126: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

542 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

suo ornamento e pezzo da parata). La cosa essenziale in una buona e sana aristocrazia è però che essa non si senta funzione (sia della regalità, che della comunità), ma suo senso e massima giustificazione, — che essa assu­ma perciò con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri uma­ni che devono essere oppressi e abbassati per amor suo a divenire uomini incompleti, schiavi, strumenti. La sua fede fondamentale deve essere ap­punto che la società non può esistere per amore della società, ma deve esse­re solo il sostegno e l'infrastruttura grazie ai quali una specie eletta di esseri è in grado di elevarsi al suo compito superiore e soprattutto a una superio­re esistenza: paragonabili in ciò a quelle piante rampicanti di Giava, avide di sole, — sono chiamate Sipo Matador —, che abbracciano con i loro ra­mi tanto e con tanta forza una quercia da riuscire infine a spiegare in piena luce, alte su di essa ma su di essa appoggiate, la loro corona e a mettere in mostra così la loro felicità.

259.

Astenersi reciprocamente dall'offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, equiparare la propria volontà a quella degli altri: ciò può divenire in un certo qual rozzo modo una buona abitudine tra individui, ove ve ne siano le condizioni (cioè la loro effettiva omogeneità di forze e di valori e la loro appartenenza reciproca all'interno di un unico corpo). Non appena però si volesse prendere questo principio in senso più ampio e, se possibile, come principio fondamentale della società, esso si dimostrerebbe subito per ciò che è: volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di deca­denza. Occorre qui pensare in modo esaustivo al fondamento e rifiutarsi ad ogni debolezza sentimentale: la vita stessa è essenzialmente, appropria­zione, violazione, sopruso su ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza e imposizione delle proprie forme, annessione e perlomeno — ed è il caso più benevolo —, sfruttamento, ma a che scopo bisognerebbe usare sempre proprio queste parole, sulle quali si è impressa sin dai tempi antichi un'intenzione diffamatoria? Anche quel corpo, all'interno del quale, come prima abbiamo supposto, gli individui si trattano da uguali — avviene in ogni sana aristocrazia —, deve esso stesso, nel caso esso sia un corpo vitale e non moribondo, fare contro altri corpi tutto ciò da cui gli individui che sono in lui si astengono dal fare reciprocamente: esso dovrà crescere per attrarre a sé, conquistare, vorrà prevalere, — non a causa di una qualche moralità o immoralità, ma perché egli vive, e perché vita è appunto volon­tà di potenza. In nessun punto tuttavia la coscienza comune degli Europei è più ostile all'insegnamento di quanto non lo sia qui; oggi ci si entusiasma ovunque, addirittura sotto un travestimento scientifico, di condizioni futu­re della società, dalle quali dovrà scomparire il «carattere di sfruttamen­to»: — ciò suona alle mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si trattenesse da ogni funzione organica. Lo «sfruttamento» non appartiene a una società deteriorata o incompleta e primitiva: esso appar­tiene all'essenza stessa di ciò che è vivente, come organica funzione fonda­mentale essa è una conseguenza della caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. — Posto che questa sia nuova come teoria — come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia onesti verso se stessi fino a questo punto! —

i

Page 127: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 543

260. Andando fra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno domi­

nato o ancora oggi dominano sulla terra, ho trovato regolarmente certi ca­ratteri ricorrenti e legati fra di loro: fino a che mi si sono rivelati infine due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una fondamentale differenza. Esiste una morale dei padroni e una morale degli schiavi; — aggiungo subito che in tutte le culture superiori e più mescolate fanno la loro comparsa anche tentativi di mediazione delle due morali, e ancora più spesso la loro confu­sione e la loro reciproca incomprensione, a volte persino il loro duro con­fronto — persino nello stesso uomo, in un'unica anima. Le differenze mo­rali di valore sono nate o in una stirpe dominante, che con un sentimento di piacere prendeva coscienza della propria differenza da quella dominata, — o tra i dominati, gli schiavi e i dipendenti di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a definire il concetto di «buono», sono gli stati elevati e fieri dell'anima, quelli che vengono sentiti come il tratto determi­nante e qualificante della gerarchia. L'uomo aristocratico allontana da sé quegli esseri nei quali si esprime il contrario di tale stato elevato e orgoglio­so: egli li disprezza. Si noti subito che in questa prima specie di morale la contrapposizione tra «buono» e «cattivo» ha lo stesso significato di «nobi­le» e «spregevole»: — la contrapposizione tra «buono» e «malvagio» è di altra origine. Viene disprezzato il vigliacco, il pauroso, il meschino, colui che pensa alla stretta utilità; e così pure il diffidente con le sue occhiate ser­vili, colui che si abbassa, la specie canina di uomo che si lascia maltrattare, l'adulatore che chiede l'elemosina, soprattutto il bugiardo: è una credenza basilare di tutti gli aristocratici, che il popolo comune sia menzognero. «Noi veritieri» — così si chiamavano i nobili dell'antica Grecia. È un fatto lampante che le definizioni morali di valore siano state attribuite ovunque prima di tutto agli uomini e solo più tardi e come derivazione, alle azioni: perciò è un grave errore che gli storici della morale prendano come punto di partenza problemi come «perché è stata lodata l'azione compassionevo­le?». L'uomo aristocratico sente se stesso come colui che determina i valori, non gli è necessario ottenere il consenso, egli stabilisce: «ciò che mi è dan­noso è dannoso in sé», egli si conosce come colui che dà in generale valore alle cose, egli è colui che crea i valori. Egli onora tutto ciò che riconosce in sé: una tale morale è autoglorificazione. In prima linea vi è il sentimento della pienezza, della potenza che vuole traboccare, la felicità di una elevata tensione, la consapevolezza di una ricchezza che vorrebbe donare e dispen­sare: — anche l'aristocratico porta aiuto all'infelice, ma non o non proprio per pietà, ma piuttosto per un impulso determinato da un eccesso di poten­za. L'aristocratico onora in sé il potente, anche colui che esercita la poten­za sopra se stesso, che sa parlare e tacere, che esercita con piacere sopra di sé severità e durezza e venera tutto ciò che è severo e duro. «Un cuore duro Wotan mi ha posto nel petto» è detto in un'antica saga scandinava: questa, a ragione, è stata la espressione poetica uscita dall'anima di un orgoglioso vichingo. Un tale uomo è orgoglioso proprio di non essere fatto per la pie­tà: perciò l'eroe della saga aggiunge ammonendo «chi già da giovane non ha un cuore duro, non lo avrà mai». Nobili e valorosi che pensano così so­no i più lontani da quella morale che vede proprio nella pietà o nell'azione a vantaggio d'altro o nel désintéressement il segno distintivo di ciò che è morale; la fede in se stesso, l'orgoglio di sé, una fondamentale ostilità e ironia verso l'«altruismo» appartiene alla morale aristocratica con la stessa

Page 128: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

544 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

sicurezza con la quale gli appartiene una lieve sottovalutazione e riserbo davanti ai sentimenti di simpatia e al «calore del cuore». — I potenti sono coloro che sanno onorare, è la loro arte, il loro regno dell'invenzione. Il profondo rispetto per la vecchiaia e la tradizione — tutto il diritto si basa su questo doppio rispetto —, la fede e il pregiudizio a favore degli antenati e a sfavore dei discendenti è tipica nella morale dei potenti; e se, al contra­rio, gli uomini delle «idee moderne» credono quasi istintivamente al «pro­gresso» e «al futuro» e mancano sempre più di rispetto per la vecchiaia, tutto ciò tradisce già abbastanza l'origine non nobile di queste «idee». Ma prima di tutto una morale dei dominatori riesce estranea e penosa al gusto contemporaneo per il rigore del suo principio fondamentale, che si hanno doveri esclusivamente nei riguardi dei propri simili; che si possa agire, nei confronti degli esseri di rango inferiore, nei confronti di tutto ciò che è estraneo, a propria discrezione o «come vuole il cuore» e ad ogni modo «al di là del bene e del male» —: qui possono esserci compassione e sentimenti siffatti. L'attitudine e il dovere a una lunga gratitudine e a una lunga ven­detta — entrambi soltanto nella cerchia dei propri simili —, la raffinatezza nella rappresaglia, il raffinamento del concetto di amicizia, una certa ne­cessità di avere nemici (per così dire come canali di deflusso per le passioni dell'invidia, della conflittualità, dell'arroganza — in fondo per poter esse­re un buon amico): sono tutti caratteri tipici della morale aristocratica, la quale, come si è accennato, non è morale delle «idee moderne», e perciò oggi è difficile sentirla ancora, come anche è difficile disseppellirla e sco­prirla. — Le cose sono diverse per il secondo tipo di morale, la morale de­gli schiavi. Posto che chi è stato violentato, oppresso, chi è sofferente, non libero, insicuro di sé e stanco, faccia della morale: quale sarà l'elemento comune nella sua valutazione morale dei valori? Si esprimerà probabil­mente un sospetto pessimistico contro l'intera condizione umana, forse una condanna dell'uomo e assieme della sua condizione. L'occhio dello schiavo non guarda con favore alle virtù del potente: egli è scettico e diffi­dente, egli ha la raffinatezza della diffidenza contro tutto ciò che di «buo­no», venga da loro onorato —, egli vorrebbe persuadersi che la stessa feli­cità tra loro non sia genuina. Al contrario vengono illuminate e messe in evidenza le qualità che servono ad alleviare l'esistenza ai sofferenti: vengo­no onorati qui la pietà, la mano cortese e pronta a soccorrere, il calore del cuore, la pazienza, lo zelo, l'umiltà, la gentilezza —, poiché queste sono, qui, le qualità più utili e quasi gli unici strumenti per sopportare il peso del­l'esistenza. La morale degli schiavi è essenzialmente una morale utilitaria. Questo è il focolaio dal quale si è originato il famoso contrasto «buono» e «malvagio»: — nella malvagità si sente la potenza e il pericolo, una certa spaventosità, raffinatezza e forza, che non permettono al disprezzo di na­scere. Secondo la morale degli schiavi dunque il «malvagio» suscita timo­re; secondo la morale dei signori è proprio il «buono» che suscita e vuol suscitare timore, mentre l'uomo «cattivo» è considerato spregevole. La contrapposizione giunge al culmine quando, secondo le conseguenze della morale degli schiavi, questa morale stende infine anche sui «buoni» un ve­lo di disprezzo — per quanto leggero e benevolo esso sia —, poiché il «buono», nel pensiero degli schiavi, deve essere in ogni caso l'uomo non pericoloso: egli è bonario, facile da ingannare, forse un po' stupido, un bonhomme. Ovunque la morale degli schiavi giunga a prevalere, la lingua mostra la tendenza ad avvicinare l'una all'altra le parole «buono» e «stupi­do». — Un'ultima differenza fondamentale: il desiderio di libertà, l'istinto alla felicità e le raffinatezze del senso di libertà appartengono necessaria-

Page 129: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 545

mente alla morale e alla moralità degli schiavi tanto quanto l'arte e l'entu­siasmo nella venerazione, nella dedizione sono il sintomo ricorrente del pensiero e dei criteri di valutazione aristocratici. Qui si capisce facilmente perché l'amore come passione — è la nostra specialità europea — debba essere assolutamente di origine aristocratica: è noto che è stato scoperto dai poeti cavallereschi provenzali, da quegli splendidi uomini creativi del «gai saber», ai quali l'Europa deve tanto e quasi se stessa. —

261.

Tra le cose forse più difficili da capire per un uomo nobile, vi è la vanità: egli sarà tentato di negarla, anche lì dove un diverso tipo d'uomo crederà di poterla afferrare con entrambe le mani. Il problema per lui è di immagi­nare esseri che cerchino di suscitare una buona opinione di sé, che essi stes­si non hanno — e dunque neppure «meritano» — e che tuttavia, in seguito, finiscano per credervi essi stessi. Ciò gli sembra, da un lato così privo di gusto e di rispetto per sé, e dall'altro così irragionevolmente barocco, che preferirebbe considerare la vanità un'eccezione e dubitare di lei nel mag­gior numero dei casi nei quali se ne parla. Egli dirà per esempio: «posso sbagliarmi sul mio valore e pretendere d'altro canto che il mio valore venga riconosciuto dagli altri proprio come io lo valuto, — ma questa non è vani­tà (piuttosto prosopopea o, più di frequente, ciò che viene chiamato "umil­tà" e anche "modestia")». Ó anche: «per molte ragioni posso rallegrarmi della buona opinione degli altri, forse perché li onoro e li amo e mi rallegro di ognuna delle loro gioie, forse anche perché la loro buona opinione, sot­tolinea e rafforza la fede nella mia propria buona opinione, forse perché la buona opinione degli altri, anche nei casi nei quali io non la condivido, mi porta o mi promette vantaggio, — ma tutto ciò non è vanità». L'aristocra­tico deve porre in chiaro con sforzo, cioè con l'aiuto della storia, che, da tempo immemorabile, in tutti gli strati popolari in qualche modo dipen­denti, l'uomo comune è stato soltanto ciò che era considerato: — per nulla abituato a porre egli stesso dei valori, non attribuiva a se stesso nessun al­tro valore che già i suoi signori non gli attribuissero (il vero e proprio dirit­to aristocratico è di creare valori). Si consideri come conseguenza di un im­menso atavismo che l'uomo comune, anche oggi, aspetti sempre prima un'opinione su di sé e poi le si sottometta istintivamente: e non soltanto a una «buona» opinione, ma anche a una cattiva e ingiusta (si pensi ad esem­pio alla maggior parte degli apprezzamenti e del disprezzo di sé che certe donne credule imparano dai loro confessori, e che in generale il credulo cristiano impara dalla sua Chiesa). In effetti, in conformità al lento avvici­narsi dell'ordine democratico delle cose (e della sua causa, l'incrocio tra padroni e schiavi), l'impulso originariamente aristocratico e raro di attri­buire a se stessi un valore e «pensar bene» di sé verrà ora sempre più inco­raggiato e diffuso: ma in ogni tempo esso ha contro di sé una tendenza più antica, più estesa e più fondamentalmente radicata, — e nel fenomeno del­la «vanità» questa più antica tendenza dominerà sulla più giovane. Il vani­toso si rallegra di ogni buona opinione che egli sente su di sé (completa­mente al di là di ogni considerazione sulla loro utilità, e prescindendo an­che dalla loro verità o falsità), esattamente come soffre di ogni cattiva opi­nione: perché egli si sottomette ad entrambe, egli si sente sottomesso ad es­se per quell'antichissimo istinto di sottomissione che esplode in lui. — C'è «lo schiavo» nel sangue del vanitoso, un residuo della scaltrezza dello schiavo — e quanto dello «schiavo» rimane ad esempio ancora oggi nella

Page 130: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

546 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

donna! —, il quale cerca di sedurre per ottenere buone opinioni su di sé; è dello schiavo anche il prosternarsi dubito dopo egli stesso davanti a queste opinioni come se non fosse stato lui a suscitarle. — E, diciamolo ancora una volta, la vanità è un atavismo.

262.

Una specie nasce, un tipo si stabilisce e si rafforza nella lunga battaglia contro condizioni sfavorevoli sostanzialmente uguali. Al contrario, dalle esperienze degli allevatori si sa che specie alle quali venga dato un nutri­mento eccessivo e in generale una maggior cura e protezione tendono subi­to in modo estremamente deciso a variazioni del tipo e sono ricche di pro­digi e mostruosità (e di vizi mostruosi). Si prenda ora in considerazione una comunità aristocratica, ad esempio una antica polis greca, o Venezia come un'istituzione volontaria o involontaria che abbia per scopo l'educa­zione: vi sono qui uomini che, tutti assieme e ognuno abbandonato a se stesso, vogliono realizzare la propria specie per Io più perché essi devono realizzarsi o perché corrono il terribile pericolo di essere estinti. Qui manca quella condizione favorevole, quella sovrabbondanza, quella protezione sotto le quali si avvantaggia la modificazione; la specie ha bisogno di sé in quanto specie, in quanto qualcosa che proprio grazie alla sua durezza, uni­formità, semplicità di forma può in generale realizzarsi e rendersi durevo­le, in una lotta continua con i vicini o con i succubi che si sono rivoltati o minacciano la rivolta. L'esperienza più varia le insegna a quali proprietà in modo particolare essa debba il fatto di esistere ancora, nonostante gli dèi e gli uomini, il fatto di aver sempre vinto: essa chiama queste proprietà vir­tù, essa porta alla crescita solo queste virtù. Lo fa con durezza, essa vuole addirittura la durezza; ogni morale aristocratica è impaziente, nell'educa­zione della gioventù, nel far uso delle donne, nei costumi matrimoniali, nel rapporto fra vecchi e giovani, nelle leggi penali (che prendono in conside­razione soltanto coloro che deviano) — tra le virtù essa comprende anzi l'intolleranza sotto il nome di «giustizia». Un tipo con pochi, ma marcatis-simi tratti, un tipo d'uomo severo, combattivo, intelligentemente silenzio­so, chiuso e riservato (e in quanto tale con la più raffinata sensibilità per la magia e le nuances della società) viene in questo modo fissato oltre il ri­cambio delle generazioni; la lotta continua in condizioni sempre ugualmen­te sfavorevoli è, come si è detto, la ragione per la quale un tipo si stabilizza e si indurisce. Ma alla fine ne deriva talora una situazione fortunata, si al­lenta l'enorme tensione; non ci sono forse più nemici tra i vicini, e i mezzi per la vita, addirittura per il godimento della vita sono sovrabbondanti. D'un solo tratto si è strappato il legame e la costrizione dell'antica educa­zione: essa non si sente più necessaria, non condiziona più l'esistenza — se essa volesse sopravvivere, potrebbe farlo solo come una forma di lusso, co­me gusto arcaicizzante. La modificazione, sia come degenerazione (in qualcosa di superiore, di più raffinato, di più raro), sia come deteriora­mento e mostruosità, è apparsa improvvisamente sulla scena nella sua mas­sima pienezza e nel suo splendore, l'individuo osa essere solo e risaltare. In queste svolte della storia si mostrano l'uno accanto all'altro e spesso me­scolati e intrecciati insieme, uno splendido multiforme crescere, come di una foresta primitiva, un tendere verso l'alto, una specie di ritmo tropicale nella gara della crescita e un mostruoso cadere in rovina e condannarsi alla rovina, grazie agli egoismi rivolti selvaggiamente l'uno contro l'altro e che esplodono per così dire, che lottano l'uno con l'altro «per il sole e la luce»

Page 131: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 547

e non sanno derivare dalla morale finora dominante nessun limite, nessun freno, nessuna indulgenza. Questa stessa morale fu quella che accumulò mostruosamente la forza che ha teso l'arco in modo così minaccioso: — ora essa è, ora essa diventa «sopravvissuta». Il punto pericoloso e inquie­tante è raggiunto, il punto nel quale la vita più grande, più varia, più vasta, vive al di là dell'antica morale; l'«individuo» sta lì, costretto a darsi le pro­prie leggi, le proprie arti e astuzie per la conservazione, elevazione, riscatto di sé. Soltanto nuovi scopi, soltanto nuovi strumenti, non più formule co­muni, equivoco e disprezzo alleati l'uno all'altro, decadenza, rovina e i più intensi desideri stretti in un nodo orribile, il genio della razza traboccante da tutte le cornucopie del bene e del male, una infausta simultaneità di pri­mavera e di autunno, piena di nuovi fascini e di veli, propri della nuova de­pravazione ancora inesaurita, ancora inesausta. Ecco di nuovo il pericolo, il padre della morale, il grande pericolo che questa volta si è trasferito nel­l'individuo, nel vicino e nell'amico, nel vicolo, nel proprio bambino, nel proprio cuore, in ogni casa propria e più segreta del desiderio e della vo­lontà: cosa avranno ora da predicare i filosofi della morale che si affaccia­no a questo tempo? Essi scoprono, questi acuti osservatori e oziosi, che tutto sta per finire, che tutto intorno a loro si guasta e guasta, che nulla du­ra fino all'indomani, eccetto una specie di uomini, quelli inguaribilmente mediocri. I mediocri soltanto sperano di continuare, di propagarsi — essi sono gli uomini del futuro, gli unici che sopravviveranno; «siate come lo­ro! Diventate mediocri!» comanda ormai l'unica morale che ha ancora senso, che trova ancora seguito. — Ma è dura da predicare, questa morale della mediocrità! — Essa non può mai confessare ciò che è e ciò che vuole! Essa deve parlare di misura e dignità e dovere e amore del prossimo, — le sarà molto difficile nascondere l'ironial —

263.

Esiste un istinto del rango, che più di ogni altra cosa è già segno di un rango elevato; esiste un piacere alle nuances della venerazione che lascia in­dovinare l'origine e il costume aristocratico. La raffinatezza, la bontà e la superiorità di un'anima diventano pericolose, se messe alla prova, quando passa loro vicino qualcosa che è di natura altissima ma che non è ancora protetto dai brividi dell'autorità dalla stretta importuna e dalla goffaggine: qualche cosa che, senza contrassegni, non svelata, tentando, forse volonta­riamente velata e mascherata come una vivente pietra di paragone va per la sua strada. Chi ha il compito e la pratica di indagare le anime, si servirà di quest'arte, in varie forme, proprio per stabilire l'estremo valore di un'ani­ma, la gerarchia inamovibile e innata alla quale essa appartiene; egli la metterà alla prova nel suo istinto di venerazione. Différence engendre hai-ne: la bassezza di alcune nature schizza improvvisamente fuori come acqua sporca, se un qualche sacro recipiente, una qualche cosa preziosa che pro­venga da scrigni chiusi, un qualche libro con i segni del grande destino le vengono portati davanti; e d'altra parte esiste un involontario ammutoli-mento, un'esitazione dell'occhio, un acquietarsi di ogni gesto ne! quale si manifesta che un'anima sente la vicinanza di ciò che è maggiormente de­gno di venerazione. Il modo con il quale, nel complesso, è stata mantenuta viva fino ad oggi, in Europa, la venerazione per la Bibbia è forse la miglior opera di educazione e raffinamento dei costumi che l'Europa debba al cri­stianesimo: libri di tale profondità e di tale altissimo significato hanno biso-

Page 132: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

548 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

gno, a loro protezione, di una tirannia dell'autorità proveniente dall'ester­no, per conquistare quella durata millenaria che è necessaria per esaurirli e interpretarli. Si sarà ottenuto molto, se si sarà educata infine la grande massa (quella varietà di esseri superficiali e dalla digestione rapida) al sen­timento che non le è permesso toccare tutto; che esistono esperienze sacre davanti alle quali essa deve togliersi le scarpe e tener lontane le sue mani sudice, — è quasi il grado più alto della sua elevazione all'umanità. Al con­trario nulla muove tanto il disgusto nei cosiddetti dotti, i fedeli delle «idee moderne», come la loro mancanza di pudore, la loro comoda sfacciataggi­ne dell'occhio e della mano, con la quale essi toccano tutto, leccano, cerca­no a tastoni; ed è possibile che oggi nel popolo, nel basso popolo, cioè tra i contadini, si trovi ancor sempre una relativa nobiltà del gusto, un senso della venerazione maggiore che nel demi monde dello spirito, lettore di giornali, nei dotti.

264.

Non si può cancellare dall'anima di un uomo ciò che i suoi antenati han­no amato fare di più e con maggior costanza: sia che fossero zelanti rispar­miatori e accessori di una scrivania e di una cassaforte, modesti e borghesi nelle loro avidità, modesti anche nelle loro virtù; o che vivessero abituati da mattina a sera al comando, favorevoli a rozzi piaceri e accanto a questo forse anche a più rozzi doveri e responsabilità; o che avessero sacrificato finalmente, ad un certo punto, antichi privilegi di nascita e di censo, per vi­vere interamente per la propria fede — per il proprio «Dio» —, come uo­mini dall'implacabile e tenera coscienza che arrossisce di fronte ad ogni mediazione. Non è affatto possibile che un uomo non abbia nel proprio corpo le qualità e le predilezioni dei suoi genitori e antenati: per quanto l'apparenza possa dire il contrario. Questo è il problema della razza. Posto che si conoscano i genitori, è permessa una deduzione a proposito del fi­glio: una qualche ributtante incontinenza, una qualche meschina invidia, una goffa maniera di darsi ragione — e sono queste tre cose assieme che in ogni tempo hanno creato il vero e proprio tipo plebeo — devono passare sicuramente al figlio come sangue marcio; e con l'aiuto della migliore edu­cazione e cultura si otterrà appunto soltanto di ingannare a proposito di una tale ereditarietà. — E cosa vogliono d'altro, oggi, educazione e cultu­ra! Nella nostra epoca popolarissima, voglio dire plebea, «educazione» e «cultura» devono essere essenzialmente l'arte di ingannare — sull'origine, di sviare con l'inganno dall'origine plebea ereditata nella carne e nell'ani­ma. Un educatore che predicasse oggi, sopra ogni cosa, la sincerità e gri­dasse continuamente ai suoi discepoli: «Siate sinceri! Siate naturali! Mo­stratevi quali siete!» — persino un tale virtuoso e ingenuo asino imparereb­be dopo un certo tempo ad afferrare quella furca oraziana per naturam ex-pellere: con quale risultato? La «plebe» usque recurret. —

265.

Con il pericolo di spiacere a orecchie innocenti, pongo questo fatto: l'e­goismo appartiene all'essenza dell'anima nobile, intendo quella fede ina­movibile che a esseri quali «noi siamo», debbano essere sottomessi, per na­tura, altri esseri e ad esso sacrificarsi. L'anima nobile accoglie questo dato di fatto del suo egoismo senza alcun dubbio e anche senza un sentimento di crudeltà, di costrizione, d'arbitrio, ma piuttosto come cosa che possa fon-

Page 133: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 549

darsi sulla legge originaria delle cose: — se cercasse di darle un nome essa direbbe «è la giustizia stessa». Essa ammette, in circostanze che al princi­pio la fanno esitare, che, assieme a lei, esistono esseri con gli stessi diritti; ma non appena le è chiaro questo problema gerarchico, essa si muove tra questi simili dotati di uguali diritti, con la stessa sicurezza, nel pudore e nella tenera venerazione, che essa ha nei rapporti con se stessa, — secondo una divina e innata meccanica che tutti gli astri conoscono. È una prova in più del suo egoismo, questa delicatezza e autolimitazione nel rapporto con i propri simili — ogni astro è un siffatto egoista — essa onora se stessa in loro e nei diritti che a loro concede, essa non dubita che la reciprocità di onori e di diritti, in quanto essenza di ogni rapporto, rientri parimenti nel­lo stato naturale delle cose. L'anima nobile dà come prende, per un appas­sionato ed eccitabile istinto del contraccambio che risiede nel profondo. Inter pares il concetto di «grazie» non ha nessun senso e nessun piacevole odore; può esserci un modo sublime di accettare, per così dire, i doni che vengono dall'alto e di berli avidamente come fossero gocce: ma per que­st'arte e quest'atteggiamento l'anima aristocratica non ha alcun talento. Ve la impedisce il suo egoismo: essa guarda mal volentieri, in generale, ver­so l'«alto», — ma piuttosto davanti a sé, orizzontalmente, e con lentezza oppure verso il basso: — essa si sa in alto. —

266.

«Si può avere in grande stima soltanto colui che non cerca se stesso.» — Goethe al consigliere Schlosser.

267.

Esiste un proverbio fra i Cinesi che le madri insegnano già ai loro bam­bini: siao-sin «fa' piccolo il tuo cuore!». Questa è l'effettiva tendenza di fondo delle civiltà in declino: io non dubito che un antico greco riconosce­rebbe anche in noi Europei di oggi, come prima cosa, la riduzione di sé, — e già solo per questo noi andremmo contro «al suo gusto».

268.

Cos'è in fondo la volgarità? — Le parole sono note che indicano concet­ti; i concetti però sono segni più o meno determinanti per sensazioni spesso ricorrenti e che giungono assieme, per gruppi di sensazione. Non basta an­cora, per comprendersi l'uno con l'altro, usare le stesse parole: bisogna usare le stesse parole anche per lo stesso genere di esperienze interiori, è ne­cessario infine avere reciprocamente in comune la propria esperienza. Per questo gli uomini di un medesimo popolo si capiscono meglio tra loro che gli appartenenti a popoli diversi, anche se si servono della stessa lingua; o piuttosto quando gli uomini hanno vissuto assieme per molto tempo in condizioni simili (di clima, di terreno, di pericolo, di esigenze, di lavoro), ne nasce un qualche cosa che «si comprende», un popolo. In tutte le anime un egual numero di esperienze spesso ricorrenti ha preso il sopravvento su esperienze che si sono verificate più raramente: in base a ciò ci si compren­de, rapidamente e sempre più rapidamente — la storia del linguaggio è la storia di un processo d'abbreviazione —; grazie a questa rapidità di com­prensione ci si lega, strettamente, sempre più strettamente. Quanto mag­giore è il pericolo, tanto maggiore è l'esigenza di accordarsi rapidamente e

Page 134: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

550 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

facilmente su ciò che è necessario; fraintendersi nel pericolo è ciò che gli uomini devono assolutamente evitare per i loro rapporti. Anche nell'amici­zia o nell'amore si riscontra questo fatto: nulla di tutto ciò dura non appe­na si scopre che uno dei due, con le stesse parole sente, intende, intuisce, desidera, teme in modo diverso dall'altro. (La paura dell'«eterno malinte­so»: questo è quel benevolo genio che trattiene tanto spesso persone di ses­so diverso da legami troppo affrettati, consigliati dai sensi e dal cuore — e non da un qualche schopenhaueriano «genio della specie» —!) Quali sono i gruppi di sensazioni più rapide a destarsi all'interno di un'anima, a pren­dere la parola, a dare ordini, questo è ciò che stabilisce la complessiva ge­rarchia dei suoi valori e determina infine la tavola dei suoi beni. I giudizi di valore di un uomo lasciano trapelare qualcosa della struttura della sua ani­ma e dove essa individui le proprie condizioni vitali, la propria particolare necessità. Posto ora che la necessità abbia avvicinato tra loro, da tempi lontanissimi, soltanto uomini che potessero indicare con segni simili simili bisogni, simili esperienze, ne deriva, in generale, che la facile comunicabili­tà della necessità, cioè, in ultima istanza, la sperimentazione di avvenimen­ti solo ordinari e comuni, deve essere stata, tra tutte le forze che fino ad oggi hanno disposto degli uomini, la più violenta. Gli uomini più simili e più comuni furono e sono sempre in vantaggio, i più eletti, i più delicati, i più singolari, i più difficili a comprendersi rimangono facilmente soli, sono esposti, nel loro isolamento, agli infortuni e di rado si trapiantano. Biso­gna evocare immense forze contrarie per ostacolare questo naturale, trop­po naturale progressus in simile, la continuazione dell'uomo nel simile, nel consueto, nel mediocre, nel gregale — nel volgare!

269.

Quanto più uno psicologo, — uno psicologo e uno svelatore d'anime na­to e inevitabilmente tale — si rivolge a casi e persone particolari, tanto maggiore diventa il suo pericolo di soffocare per la pietà: egli ha bisogno più di un altro uomo di durezza e di serenità. La corruzione, la rovina degli uomini superiori, delle anime la cui formazione è più sconosciuta, è infatti la regola: è terribile avere sempre davanti agli occhi una simile regola. Il molteplice supplizio dello psicologo, che ha scoperto questo andare alla ro­vina, che ha scoperto una volta, per primo, e che torna quasi sempre a sco­prire tutta l'interiore «incurabilità» dell'uomo superiore, l'eterno «troppo tardi» in ogni senso, attraverso tutta la storia, — potrà forse far sì che un giorno egli si rivolti con amarezza contro la sua propria sorte e tenti di di­struggersi, — di andare alla rovina. Si osserverà quasi in ogni psicologo una tendenza rivelatrice e un piacere al rapporto con uomini comuni e bene ordinati: ciò tradisce il suo continuo bisogno di guarigione, di una specie di fuga e di oblio, lontano da ciò che le sue osservazioni e le sue incisioni, che il «mestiere» gli hanno messo sulla coscienza. Il timore di fronte alla me­moria è una sua caratteristica. Di fronte al giudizio altrui giunge facilmen­te ad ammutolire: ascolta, con il volto immobile, come si venera, si ammi­ra, si ama, si trasfigura lì dove lui ha visto — o nasconde anche il suo muti­smo mentre dà esplicitamente il suo consenso a qualche opinione superfi­ciale. Forse il paradosso della sua situazione si spinge così profondamente nell'orrido, che la massa, i dotti, gli entusiasti, proprio là dove egli ha ap­preso la grande pietà insieme al grande disprezzo, apprendono da parte lo­ro la sconfinata venerazione, — la venerazione per i «grandi uomini» e i mostri grazie ai quali si benedice e si tiene in onore la patria, la terra, la di-

Page 135: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 551

gnità dell'umanità, se stessi, cose alle quali si indirizza e si educa la gioven­tù... E chissà se finora, in tutti i grandi avvenimenti, non sia accaduto pro­prio lo stesso: che la massa abbia adorato un dio, — e che il «dio» sia stato soltanto una povera vittima destinata al sacrificio! Il successo è stato sem­pre il più grande dei bugiardi, e l'«opera» stessa è un successo: il grande statista, il conquistatore, l'inventore si mascherano con le loro creazioni fi­no ad essere irriconoscibili; 1'«opera», quella dell'artista, del filosofo, in­venta per prima cosa chi l'ha creata, chi deve averla creata; i «grandi uomi­ni», quali vengono venerati, sono piccole cattive poesie composte più tar­di; nel mondo dei valori storici domina chi conia monete false. Questi grandi poeti, per esempio questi Byron, Musset, Poe, Leopardi, Kleist, Gogol, — così come sono, come forse devono essere: uomini mutevoli, en­tusiasti, sensuali, infantili, irresponsabili e improvvisi nella sfiducia e nella fiducia; con anime nelle quali solitamente dev'essere celata una qualche frattura; uomini che spesso si vendicano, nelle loro opere, di una contami­nazione interiore, che spesso, nelle loro ascese cercano l'oblio di una me­moria troppo fedele spesso smarriti nel fango e di esso quasi innamorati, fino a divenire simili ai fuochi fatui che vagano intorno alle paludi e a fin­gersi stelle — il popolo allora li chiama idealisti — spesso lottando con un continuo disgusto, con un ricorrente fantasma d'incredulità che rende geli­di e li costringe ad anelare alla gloria e a divorare la «fede in se stessi» dalle mani di ebbri adulatori. Che tortura sono questi grandi artisti e in generale gli uomini superiori per colui che una volta li abbia svelati! È comprensibi­le che proprio dalla donna che è chiaroveggente nel mondo della sofferen­za e purtroppo anche avida di porgere aiuto e salvezza molto al di là delle sue forze — essi apprendono così facilmente quegli accessi di sconfinata pietà ricolma abnegazione, che la massa, soprattutto la massa venerante, non comprende e sommerge di commenti incuriositi e vacui. Questa pietà si inganna regolarmente sulla propria forza; la donna vorrebbe credere che l'amore possa tutto, — è la sua vera fede. Ah, il sapiente del cuore indovi­na quanto sia povero, stupido, misero, arrogante, fallace, più facilmente distruttore che salvatore anche l'amore migliore e più profondo! È proba­bile che dietro la favola sacra che traveste la vita di Gesù si nasconda uno dei casi più dolorosi del martirio della sapienza intorno all'amore: il marti­rio del cuore più innocente e più ardente che non si sarebbe mai acconten­tato di nessun amore umano, che pretendeva d'amare e di essere amato e nient'altro, con durezza, con frenesia, con terribili accessi contro coloro che rifiutano amore; la storia di una povera creatura non sazia e insaziabile nell'amore, che dovette inventare l'inferno, per mandarvi quelli che non volevano amarlo e che, infine, diventato sapiente sull'amore umano, do­vette inventare un dio che è tutto amore, tutto potere d'amore — che ha pietà dell'amore umano, il quale è così miserabile, così ignaro. Chi sente a questo modo, chi conosce a questo modo l'amore — cerca la morte. — Ma perché lasciarsi andare a tali cose dolorose? Ammesso che non si debba farlo.

270.

L'orgoglio spirituale e il disgusto di ogni uomo che ha molto sofferto — quanto profondamente gli uomini possano soffrire ne determina quasi l'ordine gerarchico — la sua orribile certezza, dalla quale egli è interamen­te pervaso e di cui ha assunto il colore, di sapere, grazie alla propria soffe-

Page 136: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

552 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

renza, più di quanto possano sapere i più prudenti e i più saggi; di aver co­nosciuto e abitato, una volta, molto lontani e paurosi mondi dei quali «voi non sapete nulla»! questo spirituale, silenzioso orgoglio di colui che soffre, questa fierezza del prescelto della conoscenza, dell'«iniziato», della vittima offerta in sacrificio, sente la necessità di ogni forma di travestimento, per proteggersi dal contatto di mani pressanti e pietose e soprattutto da tutto ciò che non gli è simile nel dolore. Il profondo soffrire rende nobili; sepa­ra. Una delle più sottili forme di travestimento è l'epicureismo e un certo coraggio del gusto, messo da allora in poi in evidenza, che prende alla leg­gera il soffrire e si oppone ad ogni cosa triste e profonda. Vi sono «uomini sereni» che si servono della serenità, poiché essa fa sì che vengano frainte­si: — essi vogliono essere fraintesi, vi sono «uomini di scienza» che si ser­vono della scienza poiché essa dà un aspetto sereno e poiché la scientificità porta a concludere che P«uomo è superficiale»: — essi vogliono indurre a una falsa conclusione. Vi sono spiriti liberi e temerari che vorrebbero cela­re e smentire di essere cuori infranti, fieri, insanabili; e talvolta persino la follia è la maschera di una scienza funesta, troppo certa: — Da cui si dedu­ce che è proprio di una umanità più raffinata provare venerazione «di fronte alla maschera» e non esercitare al momento sbagliato psicologia e curiosità.

271.

Ciò che divide più profondamente due uomini è un diverso sentimento e livello della pulizia. A che serve tutta la lealtà e la reciproca utilità, a che serve tutta la reciproca buona volontà: alla fine tutto si ferma lì — essi «non si possono sopportare!» l'istinto supremo della pulizia confina chi ne è affetto nella più straordinaria e pericolosa solitudine, come un santo: poiché appunto questa è la santità — la massima sublimazione di quell'i­stinto. Una qualche consapevolezza di una indescrivibile pienezza nella fe­licità del bagno, una qualche concupiscenza e sete che spingono continua­mente l'anima della notte verso il mattino, e dal cupo dall'«afflizione», verso il chiaro, il fulgido, il profondo, il sottile —: come una tale tendenza contrassegna — è una tendenza aristocratica — essa divide. — La pietà del santo è la pietà della sporcizia dell'umano, troppo umano. E vi sono livelli e altezze in cui la pietà viene sentita da lui come contaminazione, come sporcizia...

272.

Segni della nobiltà: non pensare mai di screditare i propri doveri a dove­ri per tutti, e non voler rinunciare, non voler dividere la propria responsa­bilità; considerare come propri doveri i propri privilegi e il loro esercizio.

273.

Un uomo che desidera ciò che è grande, considera chiunque egli trovi sulla propria strada o come mezzo o come ritardo e impedimento — o co­me momentaneo divano. La nobile bontà, che gli è caratteristica verso i propri simili, è possibile soltanto se egli ha raggiunto la propria meta e do­mina. L'impazienza e la sua coscienza di essere sempre stato, fino a quel

Page 137: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 553

momento, condannato alla commedia — poiché anche la guerra è una commedia e la cela, come ogni mezzo cela lo scopo —, gli rovinano ogni relazione: questo tipo d'uomo conosce la solitudine e ciò che essa ha in sé di più velenoso.

274. \

Il problema di coloro che attendono. — Sono necessari dei casi fortunati e un gran numero di cose imprevedibili, percné un uomo superiore nel qua­le dorme la soluzione di un problema, riesca;ad agire al momento giusto — «all'esplosione», come si potrebbe dire. Ciò di solito non avviene, e in ogni angolo della terra siedono coloro che attendono, che a fatica sanno fino a che punto aspettano, ma ancor meno che aspettano invano. Talvolta anche la sveglia giunge troppo tardi, quel caso che dà il «permesso» di agire, quando la migliore giovinezza e la forza per agire è già consumata dallo starsene seduti in silenzio; e quanti, appunto, non appena, «balzarono in piedi», sentirono con terrore intorpidite le loro membra e già pesante il lo­ro spirito? «È troppo tardi» — si dissero, senza più fiducia in sé e ormai inùtili per sempre. Il «Raffaello senza mani», prendendo il termine nel suo senso più ampio, dovrebbe forse essere, nel regno del genio non l'eccezione ma la regola? — Il genio forse non è affatto così raro: ma lo sono le cin­quecento mani di cui egli ha bisogno per tiranneggiare il xocipós, «il momen­to giusto», per afferrare il caso per i capelli!

275.

Chi non vuole vedere l'altezza di un uomo, guarda con tanta maggiore acutezza ciò che in lui è basso ed evidente — e con ciò tradisce se stesso.

276.

In ogni genere di ferita e di perdita l'anima bassa e più grezza è favorita rispetto a quella più nobile: i pericoli di quest'ultima devono essere mag­giori, la sua probabilità di andare incontro alla sventura e di soccombere è addirittura immensa, nella molteplicità delle sue condizioni di vita. — In una lucertola ricresce la zampa che essa ha perduta: non così nell'uomo.

277.

— Piuttosto male! Di nuovo la vecchia storia! Quando si è terminata la costruzione della propria casa, ci si accorge all'improvviso di aver impara­to qualcosa che si sarebbe dovuto assolutamente sapere prima di comincia­re. L'eterno maledetto «troppo tardi!». — La malinconia di tutto ciò che è compiuto]...

278.

— Viandante, chi sei tu? Ti vedo andare per la sua strada, senza sarca­smo, senza amore, con occhi indecifrabili; bagnato e triste come uno scan­daglio che ritorna alla luce insaziato da ogni profondità — cosa cercavi lì sotto? —, con un petto che non sospira, con labbra che nascondono il loro disgusto, con una mano che afferra ancora solo con lentezza: chi sei? cosa

Page 138: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

554 AL DI LA DEL BENE E DEL MALE

facevi? riposati qui: il luogo è ospitale per tutti — riposati! e chiunque tu possa essere: cosa vorresti ora? di cos'hai bisogno per ristorarti? basta che tu lo dica, ciò che ho, te lo offro! — «Per ristorarmi? Per ristorarmi? Oh, tu, curioso, che cosa dici? ma dammi, ti prego —» Cosa? cosa? dillo! — «Una maschera in più! una seconda maschera...»

279.

Gli uomini della profonda tristezza si tradiscono, quando sono felici: es­si hanno un modo di afferrare la felicità, come se volessero schiacciarla e soffocarla, per gelosia, — ah, essi sanno anche troppo bene, che essa sfug­girà loro!

280.

«Male! Male! Come? Non torna forse indietro?» — Sì! Ma voi lo capite male, se ve ne lagnate. Egli torna indietro come chiunque voglia spiccare un grande salto.

281.

«Mi si crederà? Ma io pretendo che mi si creda: ho sempre pensato solo male di me, su di me, solo in rarissimi casi, solo costretto, sempre senza trovar piacere alla cosa, pronto ad allontanarmi da "me", sempre senza fi­ducia nel risultato, grazie ad una invincibile diffidenza contro la possibilità della conoscenza di sé, diffidenza che mi ha portato così lontano, da avver­tire anche nel concetto di "conoscenza immediata" che si permettono i teo­rici, una contradictio in adjecto: — e tutto questo è quasi la cosa più sicura che io so su di me. Deve esserci in me una specie di avversione a credere qualcosa di determinato al mio riguardo. — È forse celato un enigma in tutto ciò? Probabilmente; ma per fortuna non per i miei denti. — Forse ciò svela la species alla quale io appartengo? — Ma non a me: come appunto desideravo.»

282.

«Ma cosa ti è accaduto?» — «Non Io so», disse esitando; «forse le arpie sono volate sulla mia tavola.» — Accade oggi, a volte che un uomo mite, misurato, riservato, improvvisamente impazzisca, faccia a pezzi i piatti, rovesci la tavola, urli, smanii, ingiuri tutti — e infine si faccia da parte, vergognoso, furioso con se stesso, dove? a che scopo? Per morire di fame in disparte? Per soffocare tra i propri ricordi? Chi ha i desideri di un'ani­ma nobile e raffinata e soltanto di rado trova apparecchiata la propria ta­vola e pronto il cibo, correrà sempre un grande pericolo: ma oggi è enor­me. Scagliato in un secolo chiassoso e plebeo, con il quale egli non ama mangiare in una sola scodella egli può facilmente perire per la fame e la se­te, oppure, nel caso che tuttavia, alla fine egli «afferri» — per un improv­viso disgusto. — Probabilmente noi tutti ci siamo già seduti a tavole a cui non appartenevamo; e proprio i più spirituali tra noi, quelli che è più diffi­cile nutrire, conoscono quella pericolosa dyspepsia, che proviene da un'im­provvisa visione e disillusione sul nostro cibo e i nostri vicini di tavola, — il disgusto di fine pranzo*.

Page 139: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 555

283. È un controllo di sé raffinato e contemporaneamente nobile, ammesso

che in generale si voglia lodare, lodare sempre e soltanto lì dove non si è d'accordo — in caso contrario si loderebbe appunto se stessi, cosa che è contraria al buon gusto — in realtà un autocontrollo che offre una buona occasione e un motivo per venire costantemente fraintesi. Per potersi per­mettere questo vero lusso del gusto e della moralità non bisogna vivere tra gli sciocchi, ma piuttosto tra uomini presso i quali i malintesi e gli errori, per la loro finezza, rallegrano ancora, — o lo si dovrà pagar caro! — «Egli mi loda, quindi mi dà ragione» — questa stupida conclusione rovina a noi eremiti metà della vita, giacché porta gli asini tra i nostri vicini e amici.

284.

Vivere con un'immensa e orgogliosa serenità; sempre al di là — avere o non avere, secondo il proprio arbitrio -, le proprie passioni, il proprio prò e contro, abbandonarsi ad esse, per ore; sedersi su di esse come su cavalli o su asini — bisogna infatti saper trarre un utile dalla loro stupidità come dal loro fuoco. Mantenere i propri trecento sipari e anche gli occhiali neri: poi­ché ci sono casi nei quali nessuno deve guardarci negli occhi, e ancor meno nelle nostre «profondità». E scegliere per compagno quel vizio birbone e allegro che è la cortesia. E restar padrone delle proprie 4 virtù, del corag­gio, della sagacia, della simpatia, della solitudine. Poiché la solitudine in noi è una virtù; in quanto sublime tendenza e impulso alla pulizia, la quale indovina come dal contatto tra uomo e uomo — «dalla società» — debba inevitabilmente conseguire la sporcizia. Ogni comunità rende, in qualche modo, in qualche luogo, in qualche momento — «comuni».

285.

I maggiori avvenimenti e pensieri — ma i maggiori pensieri sono i più grandi avvenimenti — vengono compresi molto tardi: le generazioni che sono loro contemporanee non vivono tali avvenimenti, vi passano accanto. Avviene qualcosa di simile nel regno degli astri. La luce delle stelle più lon­tane giunge agli uomini con grande ritardo; e prima che essa sia giunta, l'uomo nega che Il — vi siano stelle. «Di quanti secoli ha bisogno uno spi­rito per essere compreso?» — Anche questa è una norma con la quale si crea una gerarchia e un'etichetta, com'è necessario: per spirito e stella. —

286.

«Qui la vista è libera, lo spirito si eleva.» — Ma vi è una specie opposta di uomini che è sulla vetta e ha anche la vista libera — ma guarda verso il basso.

287.

— Cos'è nobile? che significato ha ancora oggi per noi «nobile»? Da che cosa si tradisce, da che cosa si rivela, sotto questo pesante cielo velato del nascente dominio della plebe, attraverso il quale ogni cosa diventa opaca e

Page 140: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

556 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

plumbea, l'uomo nobile? Non sono le azioni che lo manifestano, — le azioni; sono sempre sfuggenti, sempre imperscrutabili —; non sono neppu­re le «opere». Se ne trovano oggi, tra gli artisti e i dotti. Molti che attraver­so le proprie opere tradiscono come li muova una profonda bramosia ver­so ciò che è nobile: ma proprio quest'esigenza di nobiltà è fondamental­mente diversa dalle esigenze proprie dell'anima nobile, e addirittura il con­trassegno eloquente e pericoloso della sua mancanza. Non sono le opere, è la fede che qui decide, che stabilisce qui la gerarchia, per riprendere un'an­tica formula religiosa in un significato nuovo e più profondo: una qualche fondamentale certezza, che un'anima nobile ha al proprio riguardo, qual­cosa che non si lascia cercare, trovare e, forse, neppure perdere. — L'ani­ma nobile ha un profondo rispetto di sé.

288.

Vi sono uomini, che hanno inevitabilmente spinto, per quanto vogliano girarsi e rigirarsi e tenere le mani davanti agli occhi che li tradiscono (— come se la mano non li tradisse! —): infine ne deriva sempre che essi hanno qualcosa che nascondono, cioè lo spirito. Uno dei modi più sottili per trarre quanto più è possibile in inganno e fingersi con successo più sciocchi di quanto si è — cosa che nella vita quotidiana è spesso augurabile quanto un ombrello —, si chiama entusiasmo: incluso ciò che ne fa parte, ad esempio, la virtù. Poiché, come dice Galiani, che doveva saperlo: vertu est enthousiasme.

289.

Si riconosce negli scritti di un eremita ancor sempre qualcosa dell'eco del deserto, qualcosa dei bisbigli e dello spaurito guardarsi intorno della soli­tudine; dalle sue parole più forti, dal suo grido stesso risuona ancora un nuovo e più pericoloso genere di silenzio, di occultamento. Chi per anni e anni, di giorno e di notte si è intrattenuto, in solitudine, con la sua anima, in confidente disputa e colloquio, chi nella sua caverna — che può essere un labirinto, ma anche un pozzo d'oro — è diventato un orso delle caverne o uno scopritore o custode di tesori e un drago: le sue stesse idee ricevono alla fine di una singolare luce crepuscolare, un sentore sia di abisso che di muffa, un che di non comunicabile e di ripugnante che alita gelidamente su chiunque gli passi vicino. L'eremita non crede che un filosofo — posto che un filosofo sia stato sempre, anzitutto, un eremita — abbia espresso nei li­bri le sue reali e definitive opinioni: i libri non si scrivono proprio per na­scondere ciò che si custodisce in sé? Anzi egli dubiterà che un filosofo pos­sa, in generale, avere opinioni «definitive e reali», che non vi debba essere in lui, dietro ogni caverna, una caverna ancora più profonda, un mondo più vasto, più estraneo, più ricco al di sopra di una superficie, un abisso sotto ogni fondamenta, sotto ogni «fondazione». Ogni filosofia è una filo­sofia dell'apparenza — questo è un giudizio da eremita: «c'è qualcosa di arbitrario nel fatto che egli si sia fermato qui, abbia guardato indietro, si sia guardato attorno, che non abbia qui scavato più a fondo e abbia messo da parte la vanga, c'è anche qualcosa di sospetto in questo». Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera.

Page 141: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 557

290. Ogni profondo pensatore teme più l'essere compreso che l'essere frainte­

so. Per quest'ultima cosa soffre, forse, la sua vanità; ma per la prima il suo cuore, la sua simpatia, che dice sempre: «ah, perché volete voi avere le mie stesse difficoltà?».

291.

L'uomo, un animale complesso, menzognero, artificioso e impenetrabi­le, estraneo agli altri animali meno per la sua forza che per l'astuzia e l'ac­cortezza, ha inventato la buona coscienza, per godere, per una volta, la semplicità della propria anima; e l'intera morale è un'impavida, lunga fal­sificazione, grazie alla quale diventa possibile godere la vista dell'anima. Da questo punto di vista sono comprese forse nel concetto di «arte» molte più cose di quanto solitamente si creda.

292.

Un filosofo: è un uomo che vive costantemente, vede, sente, sospetta, spera, sogna cose fuori dal comune; che viene colpito dai suoi stessi pensie­ri quasi dal di fuori, dall'alto e dal basso, come da quegli eventi e fulmini che gli sono propri; egli stesso forse è un uragano che avanza gravido di nuovi fulmini, un uomo infausto, intorno al quale qualcosa sempre rim­bomba e mugghia e si squarcia e avanza sinistramerrte. Un filosofo, ah, è un essere che spesso fugge da se stesso, spesso ha paura di se stesso; — ma è troppo curioso per non «tornare a sé sempre di nuovo...».

293.

Un uomo, che dice: «Questo mi piace, me ne approprio e voglio proteg­gerlo e difenderlo contro tutti»; un uomo che sa condurre un affare, porta­re a termine una decisione, tenere fede a un pensiero, tenere una donna, punire e abbattere un insolente; un uomo che ha la sua ira e la sua spada e al quale vanno volentieri e appartengono per natura i deboli i sofferenti gli oppressi e gli animali, in breve un uomo che sia sovrano per natura — quando un tale uomo prova pietà, bene, questa pietà ha valore! Ma che va­lore ha la pietà di coloro che soffrono! O di coloro che predicano addirit­tura la pietà! Vi è oggi quasi ovunque in Europa una malsana sensibilità e reattività al dolore e insieme una ripugnante assenza di moderazione nel la­mentarsi, un infiacchimento che vorrebbe adornarsi di religione e guazza­buglio filosofico per sembrare un che di superiore, — esiste un vero e pro­prio culto della sofferenza. L'assenza di virilità di ciò che in tali compagnie di visionari viene battezzata «pietà», balza, secondo me, per prima agli oc­chi. Bisogna mettere al bando, energicamente e definitivamente questo nuovissimo genere di cattivo gusto; e mi auguro infine che contro tutto ciò ci si metta sul cuore e al collo un buon amuleto del «gai saber», — «gaia scienza», per renderlo comprensibile ai Tedeschi.

Page 142: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

558 AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

294. Il vizio olimpico. — A dispetto di quel filosofo, che da vero inglese cer­

cava di screditare il riso in tutte le teste pensanti — «il riso è un pessimo di­fetto della natura umana che ogni testa pensante dovrà studiarsi di domi­nare» (Hobbes) — mi permetterei persino di creare una gerarchia di filoso­fi a seconda del livello del loro riso — su fino a quelli che sono capaci della risata aurea. E posto che anche gli dèi facciano filosofia, come mi ha spin­to a credere già più di un argomento —, non dubito che essi sappiano ride­re anche in modo sovrumano e nuovo — ad onta di tutte le cose serie! Gli dèi sono burloni: pare che non possano frenare il riso neppure nelle azioni sacre.

295.

Il genio del cuore, quale lo ha quel grande occulto, il dio tentatore e l'in­nato accalappiatore delle coscienze, la cui voce sa scendere fino agli inferi di ogni anima, che non dice una parola, non lancia uno sguardo nel quale non ci sia una considerazione o una piega di seduzione, della cui maestria fa parte il fatto di saper apparire, e non come egli è, ma come un legame in più per coloro che lo seguono, perché si stringano sempre più vicini a lui, per seguirlo sempre più intimamente e interamente: — il genio del cuore, che zittisce ogni voce acuta e ogni compiacimento di sé e insegna ad ascol­tare, che spiana le anime aspre e fa loro gustare un nuovo desiderio, — di giacere in silenzio, come uno specchio perché si rispecchi in essi il cielo pro­fondo —; il genio del cuore, che insegna alla mano goffa e frettolosa ad esitare e ad afferrare delicatamente; che indovina il tesoro nascosto e di­menticato, la goccia di bontà e di dolce spiritualità sotto il ghiaccio opaco e spesso, ed è una verga da rabdomante per ogni granello d'oro che sia rima­sto a lungo sepolto nel carcere di molto fango e molta sabbia; il genio del cuore, dal cui contatto ognuno se ne parte più ricco, non graziato e non sorpreso, non come reso felice e oppresso da un bene estraneo, ma più ric­co in se stesso, più nuovo di prima, forzato, spiato e sfiorato da un vento del disgelo, forse più insicuro, più delicato, più fragile, più spezzato, ma pieno di speranze che non hanno ancora nome, pieno di nuova volontà e di un nuovo fluire, pieno di un nuovo risentimento e di un nuovo riflusso... ma cosa dico, amici miei? di chi vi parlo? Ho dimenticato me stesso al punto da non nominarvi neppure il suo nome? a meno che voi non abbiate già indovinato da soli, chi è questo spirito problematico e questo dio, che vuol essere iodato in tal modo. Come succede infatti a chiunque, fin dal­l'infanzia, sia stato sempre in viaggio e in paesi stranieri, così anch'io ho incontrato molti spiriti singolari e pericolosi durante il cammino, ma so­prattutto quello di cui appunto parlavo, sempre ancora lui, niente meno che il dio Dionysos, quel gran dio bivalente e tentatore a cui un tempo, co­me sapete, ho offerto le mie primizie in gran segreto e con rispetto — l'ulti­mo, come mi sembra, che gli ha offerto un sacrificio: poiché non ho trova­to nessuno che avesse capito ciò che facevo allora. Nel frattempo ho impa­rato molto, troppo sulla filosofia di questo dio, e come si dice, da bocca a bocca, — io, l'ultimo discepolo e consacrato del dio Dionysos: e potrò pu­re, alla fine, cominciare una buona volta a farvi assaporare, amici miei, per quanto mi è permesso, un poco di questa filosofia? A mezza voce, na­turalmente: poiché si tratta qui di molte cose misteriose, nuove, sconosciu-

Page 143: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

PARTE NONA. COS'È ARISTOCRATICO? 559

te, meravigliose, inquietanti. Già il fatto che Dionysos sia un filosofo e che dunque anche gli dèi facciano filosofia, mi sembra una novità rischiosa e che forse potrebbe destare diffidenza proprio tra i filosofi; tra voi, amici miei, essa incontra già meno ostilità, purché essa non giunga troppo tardi e non al momento giusto: poiché oggi voi credete malvolentieri, come mi è stato rivelato, a Dio e agli dèi. Forse, nella franchezza del mio racconto, dovrò andare oltre ciò che è sempre gradito alla rigida consuetudine delle vostre orecchie? Certamente il dio che abbiamo nominato, va oltre, in si­mili colloqui a due, molto oltre, ed è stato sempre molti passi avanti a me... Sì, se fosse lecito gli dovrei conferire secondo l'uso umano solenni e bei nomi di splendore e di virtù, e avrei da esaltare molto il suo coraggio di ricercatore e di scopritore, la sua audace lealtà, la veracità e l'amore per la sapienza. Ma di tutto questo ciarpame pomposo e venerabile un simile dio non sa cosa farsene. «Tienlo, — mi direbbe — per te e i tuoi pari e per chi altro ne abbia bisogno! Io — non ho alcun motivo di coprire la mia nudi­tà» — Lo si indovina, manca forse di pudore, questa specie di divinità e di filosofo? — Così egli disse una volta «In certe circostanze io amo l'uomo» — e alludeva ad Arianna, che era presente —: «l'uomo è per me un piace­vole, valoroso, inventivo animale, che non ha pari sulla terra, in ogni labi­rinto si trova ancora a suo agio. Gli sono amico: penso spesso a come con­durlo ancora più avanti, e come renderlo più forte, più cattivo e più pro­fondo di quanto egli sia». — «Più forte, più cattivo, più profondo?» chiesi spaventato. «Sì», disse egli ancora una volta, «più forte, più cattivo e più profondo; anche più bello» — e dicendo ciò sorrise, il dio tentatore con il suo sorriso alcionio), come se egli avesse detto un'incantevole cortesia. Si vede al tempo stesso che questa divinità non manca soltanto di pudore,—; e vi sono generalmente buoni motivi per supporre che per alcune coseglì dèi, nel complesso, potrebbero venire a scuola da noi uomini. Noi uomini siamo — umani...

Ah, cosa siete voi, voi, miei pensieri scritti e dipinti! Non è passato mol­to tempo da quando eravate ancora così variopinti, giovani e maliziosi, co­sì pieni di aculei e di spezie misteriose da farmi starnutire e ridere — e ora? avete già mostrato la vostra novità, e alcuni di voi sono, io temo, pronti a diventare verità: essi sembrano già così immortali, onesti da spezzare il cuore, così noiosi! ed è mai stato diverso? Quali cose scriviamo e dipingia­mo noi con i nostri pennelli da mandarini cinesi, noi che rendiamo eterne le cose che si lasciano scrivere, cosa dunque siamo capaci di dipingere? Ah, sempre solo ciò che vuol appunto appassire e che comincia a perdere la sua fragranza; ah, sempre solo tempeste che si allontanano fiaccate e tardi sen­timenti ingialliti! Ah, sempre solo uccelli che stanchi volavano e fuggivano via e che ora si lasciano prendere con le mani, — con la nostra mano! Noi eterniamo ciò che non può più vivere e volare a lungo, soltanto cose stan­che e spossate! Ed è solo per il vostro pomeriggio, voi, miei pensieri scritti e dipinti, che io ho colori, forse molti colori, forse molte variopinte delica­tezze e cinquanta gialli e bruni e verdi e rossi: — ma nessuno da questo sa­prà indovinare quale aspetto avevate nel vostro mattino, voi improvviso scintillio e prodigio della mia solitudine, voi miei vecchi, amati, mal-vagi pensieri!

Page 144: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

Da alti monti Epodo

Oh, mezzogiorno della vita! Tempo solenne! Oh, giardino d'estate!

Inquieta gioia del sostare e scrutare e aspettare: — Attendo gli amici, giorno e notte pronto, Amici, dove siete! Venite! È tempo, è tempo!

Non fu per voi che il grigio ghiacciaio Si orna oggi di rose?

Voi cerca il ruscello, avidi si premono, si urtano Vento e nuvola, più in alto, oggi, nell'azzurro Per scrutare verso di voi, con lontano sguardo d'uccello.

Sulle cime più alte ho imbandito per voi la mia mensa: — Chi abita così vicino

Alle stelle, chi alle grige lontananze dell'abisso? Il mio regno — quale regno si è esteso così lontano? E il mio miele — chi lo ha gustato?

— Eccovi, amici! Ahimè, non sono io dunque colui Al quale volevate venire?

Esitate, stupite, ha, imprecate piuttosto! Io — non son forse più io? Cambiata la mano, il passo, il volto?

E ciò che io sono, per voi amici, non son più?

Divenni un altro? Estraneo a me stesso? A me stesso sfuggito?

Un lottatore che troppo spesso ha vinto se stesso? Troppo spesso ha lottato contro la propria forza? Ferito e impedito della sua stessa vittoria?

Cercai dove il vento soffiava più tagliente? Imparai ad abitare

Dove nessuno abita, nella zona deserta dell'orso polare? Disimparai uomo e dio, maledizione e preghiera?

Divenni spettro, che passa sui ghiacciai?

Voi, vecchi amici! Guardate, Ora sono smorti i vostri occhi Pieni d'amore e di orrore,

No, andate! non vi adirate! Qui non potreste abitare: Qui nel più lontano regno del ghiaccio e delle rocce Qui bisogna essere cacciatore e simile al camoscio

Page 145: Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male

DA ALTI MONTI. EPODO 561

Divenni un cattivo cacciatore! Guardate, com'è rigidamente Teso il mio arco!

II più forte fu quello che lo tese a tal punto —: Allora guai! Pericolosa è quella freccia, Come nessuna freccia, — via di qui! Per la vostra salute!...

Vi voltate? — Oh? cuore, hai sopportato abbastanza, Forte rimase la tua speranza

Tieni aperte le porte ai nuovi amici! Lascia gli antichi! Lascia il ricordo! Se fosti giovane, ora lo sei di più!

Ciò che sempre ci unì, il legame di una sola speranza, — Chi legge i segni,

L'amore li scrisse un tempo, che trascolorano? Ad una pergamena li paragono, che la mano teme Di prendere, — come lei bruna e riarsa.

Non più amici, essi sono — come li chiamerò? Solo fantasmi di amici!

Pure bussano ancora, di notte, al cuore e alla finestra, Mi guardano e dicono: «Lo fummo un tempo?» — O parola appassita, che odoravi un giorno di rosa!

Oh, nostalgia di gioventù, che si fraintese! Quelli cui anelavo,

Che immaginavo a me stesso affini e tramutati, poiché divennero vecchi, per questo li ha cacciati. Soltanto chi muta mi resta parente.

Oh, mezzogiorno della vita! Seconda gioventù! Oh, giardino d'estate!

Inquieta gioia nel sostare e scrutare e aspettare! Gli amici attendo, giorno e notte pronto, 1 nuovi amici! Venite! È tempo, E tempo!

* * *

Finito è questo canto — il dolce grido del desiderio morì sulla bocca:

Un mago lo fece, l'amico al tempo giusto, L'amico del mezzogiorno — no! non chiedete chi sia — Fu a mezzogiorno che l'uno divenne due...

Ora festeggiamo, certi di una congiunta vittoria, La festa delle feste:

L'amico Zarathustra è giunto, l'ospite degli ospiti! Ora ride il mondo, l'orrendo sipario si squarcia, È giunto il giorno delle nozze per la luce e le tenebre...