Persona e bene comune: in dialogo con Maritain e Mounier
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Persona e bene comune: in dialogo con Maritain e Mounier
Luigi Alici
1. Il personalismo in “seconda lettura”
La domanda intorno all’attualità del pensiero di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier,
nella concordia discors che ha accompagnato il cammino dei due autori, assume oggi il
carattere di una domanda, ancor più generale e urgente, intorno al nesso tra persona e bene
comune, dal quale deve lasciarsi interpellare una filosofia di ispirazione personalista che
voglia entrare in dialogo con alcune istanze emergenti nella cultura e nel costume
contemporanei. Provando a incrociare la lettura di Humanisme integral e del Manifeste au
service du personnalisme, Ada Lamacchia osserva che pur nelle differenze, anche rilevanti, le
due opere «ostentano una comune ispirazione cristiana e un’intenzionalità di rinnovamento
ancor viva e stimolante ai nostri giorni»1. In primo piano, nei due autori, la studiosa del
personalismo rileva «l’attenzione fondamentale all’uomo nella sua vicenda storica, la
considerazione del suo essere e configurarsi inseparabilmente dalle condizioni culturali del
mondo moderno», come pure «l’attenzione a cogliere il senso della comunità e delle comunità
umane a ogni livello, e il ripercutotersi profondo in esse di ogni istanza di novità culturale,
morale, civile, politica, religiosa»2. In una parola, secondo la Lamacchia, un’istanza profonda
del pensiero personalista nasce proprio da una lettura della situazione storica, che orienta in
senso ermeneutico il suo cammino; proprio per questo, si potrebbe aggiungere, è impossibile
rileggere oggi quella stagione straordinaria senza farsi carico di una sua attualizzazione, che
non rappresenti una forzatura ma intercetti le sue potenzialità più profonde, tuttora almeno in
parte inespresse.
Rileggere il personalismo in tale prospettiva significa non sovrapporvi, in modo
estrinseco, un aggiornamento storico-culturale, ma riconoscere e attualizzare quel dialogo
interno tra ispirazione personalista e discernimento storico che accomuna in profondità il
pensiero di Maritain e quello di Mounier. Potremmo parlare, a questo proposito, di una
“ripetizione” del personalismo, nel senso in cui Heidegger intende la «ripetizione di un
problema fondamentale»: vale a dire come «l’esplicitazione delle sue possibilità originarie
1 A. Lamacchia, Compiti attuali di un pensiero di ispirazione personalista, in A. Danese (a
cura di), La questione personalista. Mounier e Maritain nel dibattito per un nuovo
umanesimo, Città Nuova, Roma 1986, p. 77 [77-91]. 2 Ivi, p. 79.
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ancora nascoste. Nella messa in opera di tali possibilità il problema si trasforma; ma questo è
anche il solo modo per salvaguardarne il contenuto problematico». Accostare un autore in
“seconda lettura” significa dunque compiere una specie di “passo indietro”, dalla
formulazione di una dottrina compiuta alla genesi più profonda che ne costituisce la
configurazione problematica originaria, per così dire allo stato nascente; si tratta di
“provocare” le sue «possibilità originarie ancora nascoste», esplicitandone in forma nuova le
potenzialità più proprie e rendendole capaci di fronteggiare positivamente nuove sfide.
«Salvaguardare un problema – è ancora Heidegger – significa, peraltro, mantener libere e
deste quelle forze interne che lo rendono possibile come problema, nel fondo della sua
essenza»3.
Non a caso, un interprete avvertito di Mounier come Paul Ricoeur porta in profondità
questa “seconda lettura”, fino a mettere in guardia da ogni assunzione ingenua dell’impianto
teorico del suo pensiero: «il personalismo non è stato così competitivo da vincere la battaglia
del concetto»4; nello stesso tempo, però, Ricoeur individua e rilancia lucidamente alcune
istanze profonde dell’idea mouneriana di persona, così come emerge dal Manifeste: «Si vede
come coesistano qui una ontologia della sussistenza, un riferimento a un ordine gerarchico di
valori e un senso acuto della singolarità e della creatività»5. In questo senso, secondo Ricoeur,
si può affermare, oltre il personalismo, che «la persona ritorna», come «il miglior candidato
per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali evocate da altri… Rispetto a
“coscienza”, “soggetto”, “Io”, la persona appare un concetto sopravvissuto e ritornato a nuova
vita», al punto tale che lo stesso Ricoeur dichiara: «preferisco dire persona piuttosto che
coscienza, soggetto, io»6. Più in generale, si può trovare in Soi même comme un autre il
tentativo più organico e fecondo di riarticolare l’idea di persona, facendola dialogare con la
svolta linguistica e ricavandone conseguenze profonde sul piano antropologico, etico e
persino ontologico7.
Anche Virgilio Melchiorre interviene in questa “rilettura” invitando giustamente a liberare
la «cosiddetta indefinibilità della persona… dal sospetto che la decodifica nel modo di una
3 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it., Laterza, Bari 1981, p. 177.
4 P. Ricoeur, Muore il personalismo, ritorna la persona, in P. Ricoeur, La persona, a cura di
I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 20023,p. 22.
5 Ivi, p. 25.
6 Ivi, p. 27.
7 Circa la complessità e opportunità di questo bilancio rimando all’opera di A. Giambetti,
Ricoeur nel labirinto personalista, FrancoAngeli, Milano 2013, che ricostruisce in modo
attento e documentato l’intera questione.
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debolezza o di un’impotenza fondativa»8. Valorizzando in Mounier soprattutto l’«utopia
negativa», che «alla base di ogni progresso pone la tensione mai conclusa a un assoluto della
persona»9, Melchiorre ne ricava la convinzione «che non si tratta ora di ripetere la sua
lezione, bensì di ripartire dalla sua consegna… per una ripresa che animi di nuovo slancio sia
la teoresi, sia l’impegno nella cittadinanza delle persone»10
.
Qualcosa di analogo si può dire a proposito di Maritain, per il quale la rivendicazione
dell’unità della persona – altrettanto centrale che in Mounier – assume il carattere di una vera
e propria antropologia metafisica: «Non si tratta – secondo Rigobello – di un articolato
sistema di metafisica, ma del fondamento stesso della domanda metafisica», affrontato
«mediante la dottrina della “intuizione intellettuale” in un arduo tentativo di far convergere
l’intelletto di Tommaso d’Aquino e l’intuizione di Bergson»11
. Anche secondo Galeazzi, dal
personalismo di Maritain «proviene l’invito a “dire persona” in termini che ne evidenzino lo
spessore ontologico, senza dissolverlo nella molteplicità degli atti»12
. D’altro canto, uno degli
studiosi italiani più attenti all’”ortodossia” maritainiana ne riassume l’attualità proprio in un
«ritorno alla saggezza» e in un invito a «recuperare il primato della contemplazione
sull’azione, dello spirituale sul temporale, della mistica sulla politica»13
. Questo orizzonte di
tensione ideale accomuna fondamentalmente Mounier e Maritain.
L’attenzione all’eredità personalista resta purtroppo piuttosto circoscritta ad alcuni settori,
anche se importanti, del pensiero di ispirazione cristiana, dove a volte tuttavia l’enfasi sulla
diversa ispirazione di Mounier e Maritain rischia di far dimenticare l’impatto radicalmente
alternativo del paradigma personale nello scenario filosofico tardomoderno e ancor più delle
conseguenze che un’antropologia convintamente relazionale poteva generare sul piano etico-
politico. Tale distanza culturale – peraltro rilevata acutamente anche da Ricoeur – si è
accentuata negli ultimi decenni, in una temperie filosofico-culturale dominata dalla cifra
piuttosto ambigua e sfuggente del postmoderno.
8 V. Melchiorre, Emmanuel Mounier, in Aa. Vv., Dire persona, oggi, “Hermeneutica”, 2006,
p. 295 [291-314]. 9 Ivi, p. 314.
10 Ivi.
11 A. Rigobello, L’apriori ermeneutico. Domanda di senso e condizione umana, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2007, p. 43. 12
G. Galeazzi, Jacques Maritain, in Aa. Vv., Dire persona, oggi, cit., p. 333 [315-334]. 13
P. Viotto, Il pensiero contemporanea secondo J. Maritain, Città Nuova, Roma 2012, p.
297.
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Un duplice paradosso si potrebbe rilevare in questa disattenzione, che investe l’idea di
persona e quella di bene comune. Il primo paradosso nasce dalla singolare appropriazione
della nozione di persona in contesti ideologici e filosofici molto distanti, dove però essa
finisce per assumere un significato profondamente differente, in qualche caso addirittura
opposto. Separata dall’orizzonte teologico e metafisico entro il quale originariamente è nata
ed è stata modulata, l’idea di persona appare ridotta a un attributo fenomenico estrinseco,
finendo per subire in tal modo una doppia trasformazione. Per un verso, può essere estesa
anche a individui non-umani: naturali, come i mammiferi superiori (dotati di autocoscienza,
secondo alcuni esponenti delle etiche animaliste) e “artificiali”, come in futuro potrebbero
essere gli organismi bionici o cyborg, di forma umanoide, composti di organi artificiali e
biologici, purché in possesso dei medesimi requisiti di funzionalità. Per altro verso, un essere
umano non può più essere considerato persona quando manca di determinati attributi (di cui,
secondo alcuni, sarebbero privi i feti, i bambini cerebrolesi, gli handicappati gravi, i malati
terminali); in tali casi si dovrebbe parlare di individui umani non-persone (in realtà esseri
“subumani”!).
Gli esiti di un’assunzione acritica dell’idea di persona entro un paradigma biocentrico
sono discutibili sotto il profilo teorico e inquietanti sotto il profilo etico: la vita umana con
gravi deficit di funzionalità “vale di meno” rispetto alla vita di animali non-umani in buona
salute; su questa base Peter Singer, ad esempio, accetta non solo l’aborto ma addirittura
l’infanticidio («le ragioni per non uccidere le persone non valgono per i neonati»14
). Su un
altro piano, si può ricordare, come ci ricorda anche “Amnesty International”, che in Cina la
tigre siberiana, il panda gigante e la scimmia d'oro sono specie protette, e la loro caccia è
punita perfino con la pena di morte. Se l’insieme conta più dei singoli, questi ultimi possono
essere soppressi se mettono in pericolo l’equilibrio complessivo della vita; a maggior ragione,
se in soprannumero.
Ecco un esito certamente sorprendente: l’idea di persona, elaborata per ripensare in una
forma unitaria e integrata le diverse manifestazioni dell’umano, finisce per legittimare la
dissoluzione di qualsiasi approccio trascendentale; il lessico personale viene quindi
semplicemente usato per indicare un attributo funzionale estrinseco (nel caso di persone non
umane) o un segmento privilegiato di umanità, oltre la quale si profila una sorta di residualità
subumana, per cui si potrebbe parlare di individui umani non ancora o non più persone!
14 P. Singer, Etica pratica, tr. it., Liguori, Napoli 1989, p. 127.
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Tutto questo mentre si fa strada la nuova frontiera del “postumano”, secondo la quale
occorre superare una cultura che pretenda di antropomorfizzare l’universo separando l’uomo
dal non-umano; oltre il “paradigma dell’incompiutezza”, che interpreta l’uomo come privo,
rispetto alle altre specie, di un apparato biologico che gli consenta la sopravvivenza, l’identità
umana sarebbe costituita proprio dalla sua ridondanza, grazie alla quale è possibile ipotizzare
una pluralità di progetti, che si attualizzano incorporando funzioni non-umane all’interno del
repertorio performativo umano: all’”euristica della paura” qui si sostituisce l’”euristica
dell’incertezza”, che elabora nuove mappe cognitive per il futuro, reinterpretando il passato.
In questo senso, il postumano afferma «l’opportunità di una seconda rivoluzione umanistica
capace di rivisitare il rapporto tra uomo e mondo, non più in una visione di confronto, ma di
integrazione e di empatia»15
. In una prospettiva in cui cultura e tecnica non si oppongono alla
natura ma ne sono la logica evoluzione, non si devono prospettare limiti alla tecnologia (che
equivarrebbe a inibire la costruzione dell’umano), assumendo quindi l’umano come sistema
aperto. Certamente un dialogo critico con questa prospettiva sarebbe più agevole e fecondo se
l’idea di persona non conoscesse le distorsioni semantiche di cui s’è detto e potesse giovarsi
di un rilancio dello statuto antropologico elaborato dal personalismo.
Il secondo paradosso investe la nozione di bene comune, che sembra andare incontro alla
medesima tensione: da un lato, la sua evocazione appare soggetta a un processo di sostanziale
delegittimazione, ancorché mascherata da continui appelli retorici, secondo un processo
alimentato dagli effetti destabilizzanti di modernizzazione e multiculturalismo; la corrosione
delle basi normative dello Stato liberale produce una vera e propria delegittimazione di quella
morale pubblica che la politica non è più in grado di estrarre da se stessa, secondo una tesi
ricordata, fra gli altri, anche da Böckenförde («Lo stato liberale secolarizzato vive di
presupposti che non può garantire»16
). In tale prospettiva, la politica s’illude di fare continui
passi indietro, azzerando lo spessore valoriale dello spazio pubblico e confondendo
imparzialità e neutralità, secondo un’interpretazione riduttiva e discutibile della laicità, che
finisce per avallare persino una totale desertificazione dei simboli religiosi17
. Da un altro lato,
tuttavia, in polemica contro queste estremizzazioni liberistiche si fa strada nell’opinione
15 R. Marchesini, Bioetica e biotecnologie: questioni morali nell'era biotech, Apeiron,
Bologna 2002, p. 11. 16
E.-W. Böckenforde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, a cura di
M. Nicoletti, tr. it., Morcelliana, Brescia 2006, p. 68. 17
Cfr. in proposito L. Alici, Bene comune e laicità, in P. Donati (a cura di), Laicità: la
ricerca dell’universale nelle differenze, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 365-414.
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pubblica una nuova volontà di riqualificare e difendere il principio del bene comune,
trascrivendolo tuttavia in un contesto profondamente diverso da quella tradizione personalista
che lo aveva elaborato e riproposto nella prima metà del Novecento, nel culmine di una crisi
ideale e politica non meno grave di quella attuale.
Autori di diversa formazione e sensibilità hanno denunciato con forza questa deriva. Paul
Ricoeur, ad esempio, ci ha ricordato gli effetti distruttivi del progressivo assottigliarsi di una
orizzonte etico condiviso: lo Stato moderno, ha scritto, poggia ormai su «fragili
convergenze», affidandosi a un arco di valori che dovrebbero essere sostenuti da un consenso
diffuso, ormai separato, però, dalle fonti originarie che li hanno generati e che possono
legittimarli e alimentarli. Mutilati delle loro radici, questi valori sono per noi «come dei fiori
recisi in un vaso»18
; non pericolose armi ideologiche, ma dichiarazioni retoriche che non
dicono più nulla intorno al giardino che li ha cresciuti e alle mani che li hanno coltivati.
Anche secondo Charles Taylor, peraltro, la cultura occidentale ha ereditato dalla
modernità principi alti e nobili in tema di diritti, di giustizia, di benevolenza; tuttavia «i
principi elevati richiedono fonti forti»19
, dipendono cioè da un’idea di bene a cui oggi non
possiamo risalire percorrendo unicamente la strada della sensibilità individuale. Dinanzi a
questa pretesa contraddittoria dobbiamo dunque chiederci «se non stiamo vivendo al di sopra
delle nostre risorse morali»20
: è come se la società odierna non fosse più in grado di innalzarsi
verso un orizzonte ideale, nel quale pure dichiara – solo a parole – di riconoscersi.
2. Il bene comune come vocazione personale e impegno comunitario
Un tratto comune della ricerca di Mounier e Maritain, pur così diversa nelle fonti di
ispirazione, nella concettualità speculativa, nell’approccio alla storia del proprio tempo e
persino nello stile della scrittura, può essere rintracciato nell’intreccio fondamentale di etica e
antropologia, che sembra essere alla base della ricerca di uno statuto relazionale della persona
umana; a partire da qui è possibile riconoscerle una costitutiva vocazione partecipativa che
protegge la semantica del commune da ogni interpretazione riduttiva: il bene comune è molto
di più della somma delle parti. Tale nozione di bene comune media in termini dinamici
l’intenzionalità relazionale che identifica l’ontologia della persona, consentendo un raccordo
18 P. Ricoeur, Etica e politica, in Id., Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, tr. it., Jaca
Book, Milano 1989, p. 391. 19
Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it., Feltrinelli, Milano
1993, p. 626. 20
Ivi, p. 627.
7
non estrinseco tra etica e politica. Rispetto a questa comune attenzione, i due autori
concorrono a elaborare una prospettiva filosofica per molti versi felicemente complementare,
che si sviluppa in un confronto aperto con le sfide etico-politiche di quegli anni, attraverso
una rilettura attualizzante delle fonti del pensiero cristiano.
In Mounier il tema della persona assume una esplicita centralità come termine ideale di un
approfondimento filosofico e di una mobilitazione sociale e politica, animata da un intimo
afflato etico-religioso. Secondo Mounier, “la comparsa del singolare” apre una prospettiva
nuova per una riflessione filosofica sulla persona, pur configurandosi entro un orizzonte che
sfugge a ogni cattura rappresentativa, impedendone una compiuta formulazione entro un
apparato dottrinale sistematico. Uno dei cardini dell’ispirazione personalista è l’affermazione
secondo la quale «la persona non è un oggetto. Essa è anzi proprio ciò che in ogni uomo non
può essere trattato come un oggetto»21
. Nasce da qui «il paradosso centrale dell’esistenza
personale. Essa è il modo propriamente umano dell’esistenza. E, nonostante ciò, va
incessantemente conquistata»22
. Dalla tesi secondo secondo la quale la persona è “essere in
senso vero”, anche se non “in senso pieno”, risulta un percorso di espansione dinamica che
deve svilupparsi secondo i tre vettori spirituali dell’incarnazione, della vocazione e della
comunione, nella prospettiva di un “volume totale” che richiede gli “esercizi essenziali”
dell’impegno, della meditazione e della rinuncia come iniziazione al dono di sé23
.
L’appello energico a una Rivoluzione personalista e comunitaria investe dunque un
livello ben più radicale del semplice mutamento esteriore, che Mounier enuncia con le parole
di Charles Péguy: «La rivoluzione o sarà morale o non sarà affatto»24
. Occorre dunque
superare ogni forma di regressione individualistica, nella prospettiva di una rigenerazione
spirituale che rende possibile ridisegnare un universo politico personalista, mentre la forte
denuncia, sul piano politico, contro ogni involuzione totalitaria, consente a Mounier di
impegnarsi convintamente in favore di una democrazia con un’accentuata ispirazione
federalista, capace di espandere quanto più possibile gli spazi di partecipazione diretta dei
cittadini.
Il personalismo mounieriano ricava dunque un compito etico-spirituale e un programma
d’azione a partire dall’intuizione originaria dell’essere personale, avendo sullo sfondo il tema
21 E. Mounier, Il Personalismo, a cura di C. Campanini, M. Pesenti, Ave, Roma 2004
12, p. 29.
22 Ivi, p. 31.
23 Cfr. E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, tr. it., Ed. di Comunità, Milano
1949, 19552, pp. 87-92.
24 Ivi, p. 21.
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bergsoniano dello slancio spirituale e come termine di riferimento un’ispirazione spiritualista
di stampo platonico-agostiniano. In tale prospettiva il suo pensiero non è certamente estraneo
a una metafisica della persona capace di misurarsi con la vexata quaestio del suo statuto
ontologico; la messa a fuoco dell’identità personale come “presenza in atto non conclusa”,
che corrisponde alla nozione di “essere in senso vero” ma non “in senso pieno”, suppone,
almeno implicitamente, la distinzione fra etica e ontologia: il cammino di crescita, inteso
come fedeltà dinamica a una vocazione, va tenuto distinto dall’affermazione di una
irriducibilità di ordine ontologico dell’essere della persona all’oggettuale e allo strumentale.
Tuttavia Mounier tende a superare di slancio ogni tentativo di bloccare il pensiero a un livello
di statica formalità; l’istanza etico-politica lo porta a cercare soprattuto le strade di un
impegno all’altezza della vocazione umana. Al centro della sua attenzione sta quindi
soprattutto il dislivello fra personale e impersonale, che si trasforma in un vero e proprio
principio euristico, di cui si esplorano le conseguenze più rilevanti sul piano economico,
politico e culturale; appare invece meno problematica la distinzione fra personale e
interpersonale: la metafora geometrica del “volume totale”, dinamicamente intesa, porta ad
escludere che si possa crescere in profondità senza crescere anche in larghezza e in altezza.
Il pensiero di Maritain assume invece il tema della persona entro una organica prospettiva
metafisica, le cui coordinate fondamentali sono offerte soprattutto dall’incontro con il
pensiero di Tommaso d’Aquino, che offre un quadro speculativo di realismo critico e un
metodo di disciplina intellettuale, gerarchicamente strutturata; in tal senso la sua opera può
considerarsi personalista solo in senso lato25
. Fedele all’impianto tommasiano, Maritain in
una certa misura avverte, più di Mounier, l’esigenza di qualificare ontologicamente la natura
umana a partire dalla sua intenzionalità metafisica; in tal senso, è soprattutto la differenza
trascendente fra umano e divino che motiva e orienta il suo percorso di ricerca. Anche per
questo, la preoccupazione di rispettare un’ordinata “architettonica” della differenza (fra
ragione e fede, fra uomo e Dio, fra natura e soprannatura) farà ben presto aumentare le
distanze rispetto al progetto di “Esprit”, considerato peraltro troppo esposto e squilibrato
politicamente.
Si comprende allora la tesi che Maritain pone all’inizio di Umanesimo integrale,
facendola risalire ad Aristotele («Proporre all’uomo soltanto l’umano […] è tradire l’uomo e
volere la sua infelicità»26
): la valorizzazione dell’autonomia della persona non è mai assoluta,
25 Cfr. su questo punto A. Rigobello, Il personalismo, Città Nuova, Roma 1978, pp. 14-15.
26 J. Maritain, Umanesimo integrale, tr. it., Borla, Bologna 1973
5, p. 58.
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ma si realizza progressivamente «mediante l'interiorizzazione della legge»27
. La persona
umana è un essere spiritualmente sussistente, ordinato a Dio come al suo fine ultimo,
costituito da una natura relazionale, aperta alle altre persone: da qui il compito di comunicare
con gli altri nell’ordine dell’intelligenza e dell’amore, vincolato alla promozione del bene
comune e aperto a una vocazione sovra-temporale. Qui troviamo le basi di una nuova tensione
speculativa: non si tratta soltanto di rimotivare spiritualmente un’eccedenza, in nome della
quale fioriranno nuove solidarietà e nuove esperienze di fraternità comunitaria; si tratta, prima
di questo, di chiarire bene il rapporto fra autonomia ed eteronomia, da cui prendono corpo due
fondamentali linee di approfondimento.
Una di queste linee riguarda la possibilità di identificare la nozione di bene comune come
strato etico originario e condiviso, che già Tommaso aveva anteposto al bene del singolo
individuo, riconoscendone una più alta conformazione alla trascendenza divina («Bonum
commune multorum divinius est quam bonum unius»28
). Promuovere la «buona vita umana
della moltitudine, di una moltitudine di persone», in cui consiste, secondo Maritain, «il bene
comune della città», implica in ogni caso «una ordinazione intrinseca a ciò che la sorpassa»29
.
Per questo, secondo Maritain, “confessionalizzare” la nozione di bene comune equivarrebbe a
mortificarne la universalità: «Introdurre nella società politica un bene comune particolare che
sarebbe il bene comune temporale dei fedeli di una religione, fosse anche della vera religione,
la quale reclamasse per essi una situazione privilegiata nello Stato, sarebbe introdurre un
principio di divisione nella società politica e venir meno pertanto al bene comune
temporale»30
.
Anche i cristiani, quindi, evitando di confondere Chiesa, mondo e Regno di Dio, debbono
«rinunziare a cercare in una comune professione di fede la sorgente e il principio dell’unità
del corpo sociale»31
; deponendo un atteggiamento strumentale nei confronti del mondo, essi
assumono il bene comune temporale come un fine “intermedio o infravalente”, che «ha
consistenza e bontà propria, ma precisamente a condizione […] di non erigersi come bene
assoluto»32
. A tale scopo credenti e non credenti sono chiamati non alla definizione di un
27 J. Maritain, La filosofia morale: esame storico e critico dei grandi sistemi, a cura di A.
Pavan, Morcelliana, Brescia 19984, p. 131.
28 S. Th. II-II, q. 31 a. 3 ad 2.
29 J. Maritain, La persona e il bene comune, tr. it., Morcelliana, Brescia 1963, pp. 31 s.
30 J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1991, p.
25. 31
J. Maritain, Umanesimo integrale, cit., p. 206. 32
Ivi, p. 172.
10
“minimo dottrinale comune”, ma all’attuazione di un’“opera pratica comune”; un invito che
contribuirà non poco ad alimentare quella linea di dialogo fra la Chiesa e il mondo,
pienamente recepita nel Concilio Ecumenico Vaticano II.
Una seconda linea di approfondimento riguarda il rapporto tra persona e comunità, fra
sussistenza personale e partecipazione interpersonale. Appoggiandosi in particolare su due
testi di Tommaso33
, Maritain riconosce l’importanza di questo equilibrio: in quanto individuo,
l’essere umano è membro e parte della società; in quanto persona, è un essere spiritualmente
sussistente, ordinato a Dio come al suo fine ultimo. Un’antinomia di fondo crea «lo stato di
tensione proprio alla vita temporale dell’essere umano: c’è un’opera comune da compiere da
parte del tutto sociale come tale, di quel tutto di cui le persone umane sono parti; e così le
persone sono subordinate a quest’opera comune. E tuttavia ciò che c’è di più profondo nella
persona, la sua vocazione eterna, con i beni connessi a tale vocazione, è sovraordinato a
quest’opera comune e la finalizza»34
. Tale posizione è ribadita anche in altre opere, in qualche
caso con un’accentuazione interpersonale ancora più esplicita e convincente: «La persona
umana è aperta anche verso le altre persone umane. Per il solo fatto che io sia una persona e
che dica io a me stesso, chiedo di comunicare con l’altro e con gli altri nell’ordine
dell’intelligenza e dell’amore. Per la personalità è essenziale tendere verso la comunione […]
La società propriamente detta, la società umana, è una società di persone»35
.
Ovviamente fra le due linee intercorre un rapporto molto stretto, di cui sono ben
consapevoli entrambi gli autori. Da un lato, è convinzione costante e convinta di Mounier che
la comunione è «inserita nel cuore stesso della persona come integrazione della sua stessa
esistenza»36
. Per questo egli invita a non dare mai «un coefficiente peggiorativo all’esistenza
sociale o alle strutture collettive»37
; anche su questo terreno si misura la radicalità della fede
cristiana: «la vera speranza cristiana non è un'evasione. La speranza nell'aldilà sollecita
nell'immediato la volontà di organizzare l'aldiqua. Tutte le parabole della Scrittura, quella
delle vergini stolte e delle vergini sagge, quella dell'invitato a nozze che non ha indossato
33 «Quaelibet persona singularis comparatur ad totam communitatem sicut pars ad totum»
(Summa Theologiae II-II, q. 64, a. 2); «homo non ordinatur ad communitatem politicam
secundum se totum et secundum omnia sua» (Summa Theologiae I-II, q. 21, a. 4, ad 3). 34
J. Maritain, Umanesimo integrale, cit., p. 174. 35
J. Maritain, La persona umana in generale, in Id., La persona umana e l’impegno nella
storia, tr. it., La Locusta, Vicenza 1979, pp. 28-29. 36
E. Mounier, Manifesto al servizio al servizio del personalismo comunitario, tr. it.,
Ecumenica Editrice, Cassano 1975, p. 82. 37
E. Mounier, Il Personalismo, cit., p. 66.
11
l'abito della festa, quella dei talenti, e altre ancora, convergono su questo tema: L'aldilà o è fin
da ora tra voi e attraverso voi, oppure non sarà per voi»38
. Maritain, d’altro canto, parla lo
stesso linguaggio circa il carattere cruciale di questa intersezione: «Per la personalità è
essenziale tendere verso la comunione »39
; di conseguenza il bene comune, in quanto
«concerne specificamente il bene degli uomini riuniti in città, il bene del tutto sociale… è un
bene essenzialmente umano, e dunque si misura anzitutto in rapporto ai fini dell’essere
umano, e interessa i costumi dell’uomo in quanto essere libero, che deve usare della sua
libertà per i suoi veri fini»40
.
Questa linea di pensiero diventerà ben presto patrimonio condiviso di molti autori, che
continueranno a ispirarvisi, sia pure nella forma di una libera fedeltà creativa. Si potrebbe
ricordare, ad esempio, Denis de Rougemont: «la persona umana è l’uomo considerato nella
sua doppia realtà ‘d’individuo distinto’ e di ‘cittadino impegnato nella società’. Provvisto di
libertà, ma anche di solidarietà, solitario e solidale […] si costituisce nella dialettica dei
contrari. E questo carattere si trasmetterà a tutti i gruppi che egli formerà con altri uomini, i
suoi simili. Questi uomini dovranno essere a loro volta autonomi e solidali : anche per loro
uno dei termini non andrà senza l’altro, meglio ancora l’uno - la solidarietà - sarà la garanzia
dell’altro - l’autonomia”»41
.
3. Attualità del personalismo
Bisogna forse partire da qui per rileggere nella loro attualità i contributi di Mounier e
Maritain intorno al nesso che collega persona e bene comune. Un tratto qualificante
dell’ispirazione dei due autori, come si è visto, nasce precisamente dal riconoscimento di
un’antropologia relazionale, in cui autorelazione ed eterorelazione o, se si vuole, relazione
intrapersonale e interpersonale vanno di pari passo. Tale tesi, verificata attraverso una “via
lunga” che non esita a sottomettersi a un arduo “conflitto delle interpretazioni”, sarà
riformulata da Ricoeur attraverso la nozione di «un’alterità che non è – o che non è soltanto –
un termine di paragone, un’alterità quindi che possa essere costitutiva dell’ipseità stessa». In
altri termini, scrive il filosofo francese in Soi même comme un autre (su questo punto
38 E. Mounier, La paura dell'artificiale. Progresso, catastrofe, angoscia, tr. it., Città Aperta,
Troina 2007, p. 79. 39
J. Maritain, La persona umana e l’impegno nella storia, cit., p. 29. 40
J. Maritain, Umanesimo integrale, cit., pp. 241-242. 41
D. de Rougemont, L’uno e il diverso. Per una nuova definizione del federalismo, tr. it.,
Roma 1995, pp. 18-19.
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intimamente fedele al messaggio personalista), «l’ipseità del se stesso implica l’alterità ad un
grado così intimo che l’una non si lascia pensare senza l’altra»42
.
Lo scarto semantico fra società e comunità matura proprio su questo terreno. Rispetto a
un’idea di socialità oscillante fra due opposti quadri teorici (come artificio contrattuale,
evocato per temperare la deriva conflittuale dell’individualismo, oppure come luogo primario
di una prassi totalizzante, evocato per contrastare proprio quella deriva), la tradizione
personalista punta su una riqualificazione del commune, che scaturisce dal radicamento in
interiore homine di una originaria intenzionalità partecipativa. Proprio in questo tentativo di
accreditare speculativamente un’antropologia relazionale che riconosca un legame originario
e non estrinseco fra comunità e bene comune dev’essere cercato il contributo più originale – e
per molti versi profetico – del pensiero personalista.
Risulta invece piuttosto difficile rilevare tale legame sia nell’opposizione fra comunità
(Gemeinschaft) e società (Gesellschaft), teorizzata fra gli altri da Tönnies, in un contesto
culturale tardo ottocentesco, sia nel recupero di un’etica contestualista ad opera dei
communitarians nordamericani, in epoca contemporanea: nel primo caso, infatti, in Tönnies
la comunità è intesa come una forma di convivenza che si genera sulla base di un legame
intimo e spontaneo, irriducibile all’ambito della società, dove le relazioni spersonalizzanti
scaturiscono dalla difesa degli interessi e regolate da leggi e contratti43
; nel secondo caso, il
vincolo comunitario è valorizzato, ad opera soprattutto di autori come MacIntyre, Taylor,
Sandel, Walzer, in quanto fattore primario d’identità individuale e collettiva soprattutto nella
sua forma storica e nelle sue valenze etico-politiche. Qui il percorso appare rovesciato rispetto
al personalismo: più che ricercare nell’idea di persona la genesi interiore e spirituale
dell’espansione comunitaria, si denuncia un impoverimento dell’umano, alla luce
dell’emotivismo e dell’atomismo liberale, contrastato in nome di un approccio attento al
contesto, oltre il quale alcuni autori – Charles Taylor in primis – si spingono a ricercare un
radicamento antropologico. In ogni caso, solo entro una tradizione storica plasmata da una
rete d’interlocuzione narrativa e di pratiche virtuose condivise, si può riconoscere l’identità
più propria del soggetto morale.
La portata profetica del messaggio personalista appare tanto più evidente quanto più la si
pone in rapporto con l’impianto ancora individualistico che permeava la manualistica
cattolica della prima metà secolo scorso. Il riconoscimento esplicito di uno statuto
42 P. Ricoeur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, p. 78.
43 Cfr. F. Tönnies, Comunità e società, tr. it., Ed. di Comunità, Milano 1963, 1979
2.
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antropologico relazionale verrà sancito finalmente in forma esplicita e autorevole soprattutto
dal Concilio Vaticano II e anticipato in una delle encicliche più note di Giovanni XXIII,
risalente al 1963: «Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura» (Pacem in
terris, 16). L’invito conciliare a non accontentarsi di «un'etica puramente individualistica»
(Gaudium et Spes, 30) s’inscrive ormai nel riconoscimento di una vocazione umana
“personale e sociale” (dove i due aggettivi finiscono ormai per assumere il carattere di
un’endiadi), alla quale corrisponde l’affermazione, altrettanto insistita, dell’esistenza di
un’«unica famiglia umana». A partire da tale premessa, del resto, il magistero sociale della
Chiesa elaborerà il tema del bene comune in una prospettiva in cui il riferimento
antropologico sarà sempre più esplicitamente qualificato in senso personalista e comunitario.
Mentre, ad esempio, nell’insegnamento di Pio XII ancora prevaleva un’idea di bene
comune nei termini delle “condizioni esterne” necessarie all’insieme dei cittadini per lo
sviluppo completo della vita, nell’enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII (1961) le
“condizioni esterne” diventano l’insieme «di quelle condizioni sociali che consentono e
favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona» (n. 51). Questa
citazione viene quindi ripresa al n. 35 di un’enciclica successiva, Pacem in terris (1963), dove
compare anche l’espressione «bene comune universale» (n. 54). Paolo VI riprenderà questa
linea, parlando di «bene comune dell’umanità» (Populorum progressio, n. 76), in un contesto
in cui si indica nello sviluppo «il nuovo nome della pace». In antitesi al declino di un ethos
condiviso si evidenzia il carattere integrale di questa nozione e il suo ancoraggio alla
centralità della persona umana, a un «umanesimo plenario» (n. 47), esplicitamente debitore
della lezione di Maritain.
Su questa linea, il Concilio Vaticano II identifica il bene comune come «l’insieme di
quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di
raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente», oggi sempre più aperto
a una dimensione universale, «investendo diritti e doveri che riguardano l’intero genere
umano» (Gaudium et Spes, n. 26). Questo percorso di approfondimento troverà una sintesi
autorevole nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, dove si dice che il bene
comune è «la dimensione sociale e comunitaria del bene morale» (n. 165). Benedetto XVI
riassume questo cammino, definendo il bene comune come «il bene di quel “noi-tutti”,
formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è
un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che
solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene» (Caritas in
veritate, 7).
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In tale evoluzione si deve però registrare una singolare sfasatura: ieri, la lungimiranza
profetica del personalismo ha anticipato notevolmente l’impianto del magistero sociale della
Chiesa, senza riuscire nell’immediato ad incidere sulla catechesi e sulla pastorale ordinaria,
quindi sul vissuto delle comunità cristiane, fatta eccezione per alcune esperienze minoritarie,
portate avanti da associazioni e movimenti. Oggi, invece, soprattutto in conseguenza del
Concilio, il magistero sociale ha compiuto innegabili passi avanti, giungendo a volte a
teorizzare posizioni molto coraggiose, soprattutto in ordine al rapporto tra etica, economia e
vita sociale, mentre sembra però venuto meno il supporto di una elaborazione filosofica
concomitante, capace di accompagnare, mediare e tradurre in forme culturalmente e
politicamente convincenti queste prese di posizione, che rischiano per questo di rimanere
sospese ad una inevitabile genericità di principio.
Eppure una riduzione di questa distanza appare particolarmente urgente soprattutto oggi,
in un’epoca in cui l’appello al bene comune rischia di diventare uno stereotipo ininfluente e
meramente retorico. Tornando alla metafora ricoeuriana del mazzo di fiori, il rischio è di
lasciar andare in frantumi perfino il vaso in cui quei fiori erano contenuti, nell’illusione che
ognuno possa riprendersi il proprio fiore per custodirlo come meglio crede. Oltre a non
sentirci più impegnati nella cura di un giardino comune, spesso immaginiamo che ognuno se
ne possa andare per la propria strada brandendo un fiore ormai disseccato e rifiutando il
confronto con altri giardini, troppo diversi e forse per noi troppo rigogliosi. Questo accade
quando ci si accontenta di evocare retoricamente il bene comune, trasformandolo in uno
slogan vuoto o peggio ancorandolo a un fraintendimento unilaterale e fuorviante.
Al termine di questo percorso vorrei limitarmi a a segnalare almeno tre di questi
fraintendimenti, che oggi rendono particolarmente opportuno un ripensamento della
tradizione personalista44
. In primo luogo, memori di quella tradizione, non possiamo
scambiare il bene comune con una somma di interessi o – peggio – di egoismi individuali. Un
bene non diventa “comune” per accumulo di beni particolari, attraverso un processo di
espansione in senso puramente quantitativo; la sua peculiarità è d’ordine qualitativo. L’intero
è molto di più della somma delle parti. Sarebbe ancora peggio se si pensasse di ricavare un
bene, comunque inteso, da un insieme di egoismi individuali, semplicemente per addizione.
In secondo luogo, il bene comune non è nemmeno una cornice formale che funge da
limite esterno al paradigma competitivo, perfettamente cieca e indifferente rispetto a
44 Tengo presente, a questo proposito, quanto ho scritto nel libro I cattolici e il paese.
Provocazioni per la politica, La Scuola, Brescia 2013, pp. 73-88.
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un’antropologia dell’homo oeconomicus intesa in senso irriducibilmente atomistico. Dietro
questo sostanziale agnosticismo antropologico, tipico di forme estreme di liberismo,
s’intravede la riduzione della politica a rapporto di forze puramente esteriore, che invece
Maritain e Mounier denunciano come radice dell’individualismo moderno e fonte di
insanabili conflittualità.
Un modo unilaterale d’intendere il bene comune, infine, è quello che lo scambia con
l’insieme dei beni collettivi – naturali e culturali – che debbono essere preservati per un uso
comune. Oggi è positivamente cresciuta la sensibilità sociale nei confronti di alcuni di questi
beni, soprattutto naturali (come l’aria, l’acqua, le spiagge, le foreste, l’ozonosfera e la
biosfera…); come raccomanda anche Elinor Ostrom, è urgente trasformare i beni collettivi da
res nullius in res communis omnium, cioè in beni a disposizione di tutti, affidati a una
gestione civica attraverso istituzioni di autogoverno45
. Tuttavia questa importante battaglia
civile non esaurisce la nozione di bene comune. I beni naturali e culturali sono condizione
necessaria ma non sufficiente per la promozione del bene che accomuna. La loro
preservazione, infatti, di per sé non impedisce un uso tranquillamente individualistico, se non
è accompagnata da una crescita qualitativa e da una “civilizzazione” costante dei legami di
reciprocità.
Una politica costantemente ammaestrata da un’etica e da un’antropologia ispirate al
principio di persona non può mai rinunciare a chiedersi che cosa rende abitabile un mondo
“comune”, dentro il quale si tesse la rete della convivenza. La vita di relazione è una naturale
potenzialità dell’umano, che dev’essere coltivata attraverso un esercizio di mutua edificazione
della casa comune. L’etimologia latina del commune allude a un munus che è dono e compito.
Per questo la politica non rappresenta un’alternativa alla responsabilità individuale, che resta
sempre libera e inderogabile, ma la persona si vedrebbe mortificata nella sua vocazione
fondamentale qualora non si riconoscesse più come membro di un mondo comune, di
un’unica famiglia umana.
Il bene comune riguarda essenzialmente questo: la qualità delle relazioni di reciprocità
aperta e cooperativa tra le persone, dunque quell’enigmatico panorama invisibile grazie al
quale una moltitudine di esseri umani può riconoscersi come una comunità di cittadini, che
possono continuare a dire “io” nell’orizzonte inclusivo e condiviso del “noi”. La comunità
politica ha certamente bisogno di condizioni “esterne” che garantiscano la vita civile, a
45 Cfr. E. Ostrom, Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità,
tr. it., Marsilio, Venezia 2006.
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cominciare da un’autentica partecipazione democratica; ma proprio a tale scopo c’è bisogno
prima di tutto di buone pratiche di reciprocità per ritrovare e rigenerare i pilastri fondamentali
della convivenza. Parafrasando Ricoeur, si potrebbe dire: muore il personalismo, torna la
persona a illuminare il bene che accomuna.