ETHOS E ANTROPOLOGIA DELL’AMORE … SECONDA LA METAFISICA DELL’AMORE CAPITOLO PRIMO L’amore in...

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ETHOS E ANTROPOLOGIA DELL’AMORE UMANO LA PEDAGOGIA DEL CORPO SECONDO KAROL WOJTYLA Michela Verde Laboratorio Montessori

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ETHOS E ANTROPOLOGIA DELL’AMORE UMANOLA PEDAGOGIA DEL CORPO SECONDO KAROL WOJTYLA

Michela Verde

Laboratorio Montessori

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© Michela Verde 2013

ISBN 978-88-903624-6-0

Prima edizione: Roma, febbraio 2013

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“Riconosci te stessa, o anima magnifica: tu sei l’immagine di Dio! Riconosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio. Comprendi in che modo tu sei la sua gloria.”

Ambrogio, Esamerone, 6,5

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Schema dei contenuti

INTRODUZIONE

PARTE PRIMALA METAFISICA DELLA PERSONA

CAPITOLO PRIMOChiesa e sessualità

1. Il corpo nelle origini2. Breve storia dell’encratismo3. La svolta fondamentale: da Agostino al Concilio di Trento4. Modernità e sessualità: la nuova sfida della Chiesa Cattolica

CAPITOLO SECONDOLa struttura della persona umana

1. Una questione di metodo2. Coscienza e autoconoscenza3. La trascendenza della persona nell’atto4. Integrazione della persona nell’atto: la strada per un’antropologia adeguata

Brevi riflessioni conclusive

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PARTE SECONDA LA METAFISICA DELL’AMORE

CAPITOLO PRIMOL’amore in generale

1. La struttura della partecipazione2. La comunità3. La norma personalistica e il comandamento dell’amore4. Persona e dono di sé

CAPITOLO SECONDO L’amore sponsale

1. Impulso sessuale e norma personalistica2. Amore sponsale3. Amore e integrazione4. Amore e castità

Cenni riassuntivi della dottrina dell’amore umanoe nuove prospettive interpretative

PARTE TERZALA TEOLOGIA DEL CORPO

CAPITOLO PRIMO

L’amore nel piano divino

I.I Il principio: fondamenti della teologia del corpo

1. Alcune premesse di carattere metodologico2. Identità e differenza

a) Definizione dell’uomo nel primo racconto della Genesib) Definizione dell’uomo nel secondo racconto della Genesi

- La solitudine del soggetto

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- La “communio personarum”, come realtà originaria- Corpo e dono- Significato sponsale del corpo

I.II Peccato e redenzione

1. Peccato e destrutturazione2. Peccato e intersoggettività

CAPITOLO SECONDOLa pedagogia del corpo

1.La pedagogia come parte integrante della teologia del corpo 2.Il problema dell’amore nell’Humanae Vitae. 3.Amore coniugale e castità 4.La “regola”: educazione alla spiritualità coniugale

Conclusione

Bibliografia

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INTRODUZIONE

“L’amore vero, nobile, puro porta con sé la bellezza, la serenità e la felicità, è duraturo e sempre in sviluppo, è gratuito, deciso a sacrificarsi, perché non cerca il suo interesse, bensì il bene della persona amata: ogni sacrificio diventa piacevole”1.

Un discorso sull’amore umanoHo voluto aprire il presente studio con queste semplici parole che, con l’efficacia della loro chiarezza, proiettano l’attenzione direttamente in quella dimensione, invece così complessa e molteplice, che costituisce il cuore dell’argomentazione di questo lavoro: l’amore umano. L’energia con cui questo sentimento investe la totalità dei dinamismi della persona che lo vive, oscillando tra l’esaltazione mistica e l’espletamento dei meccanismi fisiologici della sessualità, non consente di avere un approccio unilaterale alla sua natura, la quale appare, piuttosto, come la più irriducibile fra le realtà umane. Sebbene, infatti, costituisca il contenuto delle esperienze più familiari e originali dell’uomo, nel suo rapporto reciproco con l’altro, risulta, tuttavia, anche la meno accessibile alla ragione, in competizione con le regole stesse della comprensione. La resistenza alla schematizzazione propria dell’amore umano è tale che, come nota il filosofo Jean Luc Marion, ‹‹si è potuto per secoli impunemente 1 J. Ciesielski, Appunti.

Jerzy Ciesielski (12/02/1929 – 9/10/1970), ingegnere e professore presso il Politecnico di Cracovia e l’università di Khartoum, scomparso prematuramente in un incidente navale sul Nilo. Fu amico di Karol Wojtyla e membro, tra i più carismatici, dello Srodowisko, “ambiente”, gruppo di giovani universitari nato intorno a Wojtyla nel periodo in cui prestava servizio a Cracovia come viceparroco della parrocchia di S. Floriano. Dichiarato Servo di Dio, al momento è in corso il processo di beatificazione per la straordinaria testimonianza lasciata non solo nella fecondità della sua vocazione matrimoniale, ma anche in quella di uomo di scienza, al servizio del bene dell’umanità. Recuperando le parole con le quali lo stesso Wojtyla, in qualità di pontefice, si riferisce alla sua persona: “univa la sua scrupolosità di scienziato con l’umiltà del discepolo in ascolto di ciò che la bellezza del mondo creato dice di Dio e dell’uomo. Del suo servizio di scienziato, del “servizio del pensiero”egli fece una via verso la santità” ( Giovanni Paolo II, discorso in occasione del ‘600° anniversario dell’università Jagellonica, 1997, Chiesa S. Anna, Cracovia).

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contrapporre l’amore al sapere, giungendo a negare ogni possibilità che si dia un concetto e quindi un discorso sull’amore. Ne è clamorosa riprova la sostanziale marginalità del tema, sia in filosofia che in teologia››2. La difficoltà incontrata dal pensiero nel tentativo di collocare la varietà delle pieghe e delle sfumature che caratterizzano l’esperienza amorosa all’interno di un quadro unitario e oggettivo, ha fatto sì che, il più delle volte, la problematicità e la profondità di questo fenomeno sia stata ricondotta dalla speculazione alle forme esteriori della sua espressione. Lo sguardo razionale sull’amore ha focalizzato, in tal modo, il proprio interesse sulla superficie dell’oggetto, mancandone completamente il nucleo essenziale. In conformità con questa tendenza interpretativa, la complessità delle dimensioni dell’amore umano è stata ridotta alla componente sessuale e, in generale, a quella del corpo e, sotto questa ottica esclusiva, assunta come oggetto proprio delle scienze dell’uomo. Conseguenza immediata di una simile impostazione è il frazionamento e la relativa riduzione delle dinamiche proprie di questa realtà a seconda dei vari angoli di competenza delle scienze in questione, nonché una forzata astrazione della dimensione corporea e sessuale dal suo riferimento essenziale alla struttura globale della persona. Il processo di oggettualizzazione e depersonalizzazione, caratteristico dell’approccio scientifico moderno, restituisce la corporeità umana come mero organismo e ad esso si rivolge attraverso gli studi propri della medicina e della fisiologia. Allo stesso modo, le dinamiche interiori e relazionali del rapporto amoroso tra i sessi vengono assunte dalla sociologia e dalla psicologia come fenomeni a sé stanti, indipendenti dal particolare valore morale col quale investono l’interiorità dello spirito umano. Il quadro risultante che emerge dagli studi indicati risulta così, oltre che frammentato, anche parziale. Ciò che sfugge agli strumenti della scienza, ma di cui l’uomo rimane consapevole, è un surplus di significato, solitamente affidato all’intuizione poetica, l’unica che, con l’elasticità e la varietà del suo linguaggio, è ritenuta in grado di addentrarsi autorevolmente nella profondità delle trame dell’esperienza amorosa. E se è vero che, effettivamente, la poiesis, da sempre, ha colto ed espresso efficacemente l’intrinseco valore estetico connaturale all’amore, sono persuasa che questa non sia l’unica via, ma che, piuttosto, questa realtà, nella molteplicità dei suoi significati e aspetti, possa e debba essere inserita all’interno di una visione più ampia e unitaria dell’uomo stesso. La ricchezza dei suoi contenuti, così come verranno mostrati nel corso del lavoro, svela, infatti, la ricchezza tanto del suo soggetto, quanto del suo oggetto, contribuendo 2 L. Melina, S. Grygiel,(a cura di), Amare l’amore umano, Cantagalli, Siena, 2007, p. 25.

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in modo fondamentale alla costruzione di un’antropologia completa ed integrale.Per questo, con la presente ricerca, non intendo riflettere esclusivamente sul significato dell’amore in generale, ma anche sull’uomo, quale soggetto e oggetto dell’amore, che attraverso l’amore stesso si scopre, si definisce e agisce. Con questa finalità ho preso in esame il pensiero di Karol Wojtyla, con particolare riferimento alle opere filosofiche appartenenti al trentennio che va dal 1948 al 1978, anno della sua elezione al soglio pontificio 3. E’, infatti, in questo arco di tempo e, specialmente, nel periodo di insegnamento presso l’Università Cattolica di Lublino, che lo studioso pone le fondamenta del suo pensiero speculativo, in particolare nei due volumi “Amore e responsabilità” (1960) e “Persona e atto” (1969), la più rilevante dal punto di vista filosofico. Ho ritenuto fondamentale a livello metodologico, data la vastità e la varietà della produzione dell’autore, indicare da principio il carattere dei testi guida adottati in questa tesi e la motivazione che ne è alla base. Karol Wojtyla, l’uomo e il pensatore, si presenta come una figura mai ambigua e, tuttavia, molteplice. La sua ricerca, costantemente orientata verso l’unico obiettivo della Verità, segue le strade più ricche e le forme più alte dell’espressione dello spirito umano: poesia, drammaturgia 4, filosofia e teologia. Sebbene non sia

3 In Italia le opere in questione sono state raccolte e curate da un’equipe di studiosi italiani e polacchi nel volume: Karol Wojtyla. Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Bompiani, Milano, 2003.

Il lettore deve tener conto che, da questo momento in poi, farò sempre riferimento a queste opere nella versione presente all’interno della succitata edizione, la quale, per motivi di praticità, non verrà più indicata. 4 Le composizioni poetiche e drammaturgiche dell’autore sono state raccolte in Karol Wojtyla. Tutte le opere letterarie, testo polacco a fronte, presentazione di G. Reale, saggi introduttivi di B. Taborski, Bompiani, Milano.

Tra le raccolte poetiche più significative si trova Canto del Dio Nascosto, Meditazione sulla morte, Pellegrinaggio in luoghi santi e La cava di pietra. L’ultima composizione poetica appartiene agli anni del suo pontificato col titolo Trittico romano, edito nel 2003.

La prima composizione drammaturgica è David, del 1939, seguita a distanza di un anno da i due drammi di ispirazione biblica, Giobbe e Geremia. Nel 1944 pone le fondamenta del testo Fratello del nostro Dio, completato successivamente fra il ’48 e il ’50.

Nel 1960, stesso anno della pubblicazione di Amore e responsabilità, appare La bottega dell’Orefice, riflessione sulla realtà matrimoniale e complemento fondamentale per la comprensione generale dei lineamenti chiave della dottrina wojtyliana dell’amore umano.

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possibile non tener conto delle intime ed evidenti connessioni che vincolano tra loro questi itinerari all’interno del pensiero complessivo dell’autore, è altresì indispensabile considerare e sottolineare la distinzione che inevitabilmente intercorre tra di essi, sia sul piano dei contenuti che delle modalità di indagine. Ora, certamente, il tema dell’amore umano trova nelle opere poetiche e drammaturgiche uno spazio congeniale alla sua natura, che l’autore ha saputo ben sfruttare a vantaggio delle sue posizioni. Lo scopo di questa tesi, però, rimane quello di penetrare questo fenomeno alla ricerca di quegli elementi oggettivi e universali necessari alla fondazione di un antropologia adeguata, che solo un’accurata indagine filosofica può fornire e verificare. Se, infatti, la visione dell’uomo illuminata dalla dimensione dell’amore emerge come il tema dominante di ogni percorso, lo stesso Wojtyla si rivolge alla speculazione filosofica per individuare quelle ragioni essenziali che possano darle una validità obiettiva e una concretezza specifica, che ogni uomo sia in grado di riconoscere e fare sua.Un’ulteriore chiarificazione è imposta anche dalla duplicità del personaggio. Nel saggio Karol Wojtyla. Pellegrino sulle tre vie che portano alla verità: “Arte”, “filosofia” e “religione” , Giovanni Reale afferma la necessità di porre ‹‹una precisa distinzione tra ciò che egli ha detto e fatto come “uomo” e ciò che ha fatto nella veste di Giovanni Paolo II, ossia come pontefice, successore di Pietro›› 5. Nonostante sia rintracciabile nell’evoluzione del suo pensiero una sostanziale omogeneità e continuità, nonché il perseguimento incessante di un umanesimo autentico, attraverso la difesa e la valorizzazione della dignità e della libertà umana, occorre ricordare come gli scritti del pontificato siano alimentati dalla particolare preoccupazione pastorale che il suo ruolo di capo della Chiesa impone e come non sia possibile astrarre nella loro lettura e interpretazione dal riferimento al carattere universale della sua autorità. Mi sono affidata, dunque, ai testi antecedenti al pontificato, che possono definirsi strettamente filosofici, per percorrere le linee con cui l’autore guida il lettore attraverso la sua metafisica dell’amore e per scoprire la profonda struttura dell’essere umano radicata in essa. L’amore, così come viene presentato, è capace di illuminare l’uomo in ogni sua dimensione, costruendo l’unità sostanziale della sua identità, nella realizzazione perfetta e concreta delle sue finalità e potenzialità essenziali.

Infine, nel 1964 viene pubblicata in prosa poetica l’opera che maggiormente riflette il quadro speculativo dell’autore, Considerazioni sulla paternità. 5 Giovanni Reale, Saggio introduttivo. Karol Wojtyla. Pellegrino sulle tre vie che portano alla Verità: “Arte”, “Filosofia” e “Religione” in Karol Wojtyla. Metafisica della Persona, cit., p. X.

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La prospettiva cristiana del pensiero di WojtylaPer cogliere a pieno la profondità della proposta antropologica wojtiliana ho ritenuto opportuno integrare i riferimenti alle opere sopraccitate con i contenuti delle catechesi tenute dall’autore nelle udienze generali del mercoledì, durante i primi quattro anni del suo pontificato 6. In questi testi, dedicati espressamente all’amore umano, è, infatti, racchiusa la più matura sintesi della sua indagine intorno all’uomo. Nel confronto diretto con alcuni passi scritturistici, Karol Wojtyla, ora Giovanni Paolo II, offre la propria visione integrale dell’essere umano, identificandone non solo la struttura originaria e sostanziale, ma collocandolo nella sua dimensione storico-temporale ed interpretandolo alla luce della visione escatologica derivata dalle scritture. Questo circolo ermeneutico instaurato tra origini, stato “storico” e redenzione segna i confini della visione di Giovanni Paolo II, in cui l’integralità dell’immagine, perseguita dall’autore, acquista un senso propriamente metafisico e teologico.Ciò che emerge con particolare vigore dal pensiero che sottende le catechesi in questione è l’assoluta rivalutazione della corporeità umana e della sua sessualità all’interno dell’integrum della persona. Giovanni Paolo II prospetta un concreto ed innovativo impianto teologico intorno al significato e alla struttura di queste dimensioni umane e, rimuovendo i residui della posizione naturalistica e oggettivistica dalla tradizione interpretativa del Magistero della Chiesa,

6 La funzione pastorale delle udienze generali è stata adottata da Giovanni Paolo II per promuovere una rilettura della morale sessuale, già abbozzata in Amore e responsabilità, alla luce non solo di una riflessione filosoficamente fondata sulla libertà e sulla dignità umana, ma di una più ampia impostazione teologica in cui l’amore coniugale, inserito all’interno dell’originario piano divino, possa essere concepito come l’immagine sacramentale dell’intima comunione di vita della Santa Trinità.

Le centotrenta catechesi di questa innovativa “teologia del corpo” si sono svolte tra il 5 settembre 1979 e il 28 novembre 1984 e sono state raccolte e pubblicate in Italia e in Europa sotto diversi titoli.

La raccolta cui faccio riferimento in questa tesi è intitolata Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova, Roma, 2007.

I curatori del volume hanno suddiviso le catechesi, in base alle tematiche contenti, in sei cicli:

I - XXIII: Il principioXXIV - LXII: La redenzione del cuoreLXIV – LXXII: La resurrezione della carneLXIII - LXXXVI: La Verginità cristianaLXXXVII - CXVII: Il matrimonio cristianoCXVIII - CXXCIII: Amore e fecondità

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inserisce i risultati apportati dalla sua rilettura teologica all’interno di una visione antropologica globale, evidenziando il ruolo fondamentale che queste realtà rivestono nel processo rivelativo della persona. Alla luce di questa impostazione personalistica, il corpo è caricato di un significato nuovo, anche detto “sponsale”, attraverso il quale diviene espressione, segno trasparente, della facoltà propria dell’uomo di amare e della sua chiamata a realizzarsi pienamente come persona nel dono di sé. La concretezza e, al contempo, l’oggettività del personalismo wojtyliano sono accessibili solo tenendo conto dell’importanza che la corporeità, nella crudezza e, parimenti, ricchezza delle sue potenzialità, riveste al suo interno e in cui emerge in intima e sostanziale unione con l’anima umana.La modalità con cui l’uomo vive il rapporto tra il suo corpo e la sua dimensione spirituale rappresenta per l’autore la problematica centrale non solo della sua antropologia, quanto, più in generale, della sua metafisica dell’amore. Da un lato, l’uomo sperimenta dentro di sé uno iato fra la sue facoltà spirituali e la sua corporeità: ‹‹percepiamo questa disunità come un dramma, e di ciò accusiamo noi stessi, rendendoci responsabili della contraddizione fra gli slanci dell’anima, della nostra ragione, della nostra intelligenza, della nostra volontà, di tutto ciò che di spirituale c’è in noi e le pesantezze del nostro corpo, dei nostri sensi, della nostra “carne”››7. Dall’altro, questa divisione si riflette nell’opposizione, vissuta interiormente, tra il desiderio di amore carnale, sospinto dall’impulso sessuale radicato nel sostrato naturale, e il desiderio spirituale dell’anima di amare, al di là dei limiti della contingenza umana. Questa lacerazione strutturale propria dell’essere umano è un appello dell’uomo stesso, che continuamente ricerca la propria integrazione. E’ una domanda rimasta aperta, il cui spessore antropologico e teologico invita alla riflessione soprattutto i pensatori cristiani e che, forse proprio per questo, ha colpito in maniera così incisiva la sensibilità dell’autore. Il cristianesimo affonda le proprie radici nel mistero dell’Incarnazione di Dio, fattosi uomo per amore e per amare l’essere umano: confrontarsi con la problematica del corpo e dell’amore è, dunque, per i cristiani un dovere, oltre che un’esigenza.La centralità di queste tematiche emerge fin dai primi secoli della storia del cristianesimo, quando proprio a partire dall’idea di un Dio-uomo si diffondono le controversie più accese. Affermerà Nestorio nel ‘431: ‹‹Non accetterò mai di chiamare Dio un bimbo che vagisce in una culla!››. Su questa stessa argomentazione, sull’incompatibilità razionale tra le fragilità del corpo e la

7 Yves Semen, La sessualità secondo Giovanni Paolo II, San Paolo, 2005, p. 9.

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trascendenza del puro spirito, trovano fondamento anche l’arianesimo, il catarismo, il manicheismo e la quasi totalità delle eresie, dalle origini alla modernità. Karol Wojtyla, in particolare, individua proprio nei residui di manicheismo e platonismo la matrice che ha potentemente influenzato e deformato nel corso della storia lo sguardo sul corpo e sulla sessualità, impedendo alla cultura e alla teologia di accostarsi a queste dimensioni in modo autentico e originario. ‹‹Il corpo – afferma Wojtyla - è culmine della creazione divina. Da qui vengono la sua dignità, la sua vocazione e anche, se pur questo ci è difficile accettarlo, la ragione del suo splendore›› 8. L’essere umano, cui l’autore si riferisce, è dunque natura incarnata. Alla luce di questo presupposto, ogni passaggio volto ad astrarre o ridurre al suo interno l’importanza e la finalità essenziale della dimensione corporea è interpretato come un reale tentativo di disumanizzazione. Il punto di svolta nella riflessione di Wojtyla sta nel rintracciare l’epicentro del conflitto non tanto nel corpo in sé, ma nell’equilibrio che dovrebbe intercorre fra questo e lo spirito. ‹‹Mentre per il manicheismo il corpo e la sessualità costituiscono, per così dire, un anti-valore, per il cristianesimo essi rimangono sempre “un valore non abbastanza apprezzato” […] In verità è nel cuore che sta il problema: è il cuore che è stato sconvolto dal peccato, non il corpo. Se il corpo sembra ribelle, è perché il cuore ha perso la rettitudine delle origini››.9

Non il corpo dunque, ma il cuore, nelle sue intenzioni, che si lascia traviare. Raggiungere l’armonia originaria tra queste due dimensioni vuol dire, all’interno di questo pensiero, ammaestrare il cuore per recuperare uno sguardo autentico sul corpo. Per questo la teologia del corpo prospettata da Wojtyla è, innanzitutto, una pedagogia: ‹‹la teologia del corpo non è tanto una teoria, quanto piuttosto una specifica, evangelica, cristiana pedagogia del corpo››10. L’integrazione dell’uomo nella totalità delle sue dimensioni è, quindi, un problema di educazione, e, in questo senso specifico, la filosofia e la teologia dell’autore rappresentano forse la più radicale delle pedagogie.

Tra fenomenologia e metafisicaIn risposta alle problematiche antropologiche e morali finora accennate, Wojtyla adotta un punto di vista strettamente personalistico e fenomenologico, cercando, in tal modo, non solo di porre al centro dell’assiologia cristiana il valore della persona, ma, soprattutto, di analizzare e promuovere, sulla scia della moderna filosofia della coscienza, la componente soggettiva dell’ 8 Yves Semen, op.cit., p. 14.9 Yves Semen, op. cit., p 131-132.10 Giovanni Paolo II, udienza dell’8 agosto 1984 .

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esperienza umana, nel tentativo di elaborare un’etica a carattere universale e rigorosamente personalistica. Per Wojtyla è quindi prioritario muovere dall’esperienza concreta dell’uomo, per fornire un’immagine completa e reale della persona, dalla quale dedurre un ethos coerente e oggettivo. Attraverso la sua personale interpretazione della fenomenologia scheleriana e husserliana, Wojtyla penetra nell’ “esperienza dell’uomo” fino a raggiungere quel “nocciolo irriducibile” in cui si svela l’assoluta trascendenza della persona. Il metodo adottato mira, pertanto, alla struttura ontologica della persona stessa, senza, tuttavia, presupporla. Egli attende, piuttosto, che essa si riveli nell’analisi di ciò che racchiude in sé la totalità dei suoi dinamismi, vale a dire quella speciale esperienza nella quale l’uomo fa esperienza di sé in quanto persona. E’ possibile, in questo senso, caratterizzare la fenomenologia wojtyliana come uno ‹‹studio dell’atto che rivela la persona; studio della persona attraverso l’atto. Tale è, infatti, la natura della correlazione insita nell’esperienza, nel fatto che “l’uomo agisce”: l’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela. Esso ci permette nel modo più adeguato di analizzare l’essenza della persona e di comprenderla nel modo più compiuto. Sperimentiamo infatti che l’uomo è persona, e ne siamo convinti poiché compie atti›› 11. Lo studio fenomenologico dell’atto conduce nel campo dell’indagine metafisica e, in particolare, della metafisica della persona: la comprensione dell’uomo come persona, nella sua assoluta superiorità assiologica nel mondo degli enti, mostra la sua peculiare trascendenza, fondata sul libero arbitrio e sulla volontà, e introduce allo studio di ciò che è essenzialmente umano. La metodologia di Wojtyla non si esaurisce quindi nella fenomenologia, ma si struttura, piuttosto, come una sapiente integrazione tra questa e la metafisica classica aristotelico-tomista. Solo attraverso questa connessione l’uomo emerge dal mondo visibile degli esseri con il suo carico di significato, come un “Qualcuno”, che in virtù del suo essere, si distingue da tutto ciò che solo è “qualcosa”. Il termine “persona”, adottato dall’autore, esprime proprio questa preminenza dell’essere umano: ‹‹è stato scelto per sottolineare che l’uomo non si lascia rinchiudere nella nozione “individuo di una specie”; c’è in lui qualche cosa di più, una pienezza e una perfezione d’essere particolari, che non si possono rendere altro che con la parola “persona”››12. In sintesi, l’ “esperienza dell’uomo” è il punto di partenza del processo conoscitivo col quale l’essere umano entra in contatto diretto con se stesso e si scopre come persona. Il riconoscimento del valore gnoseologico di questa esperienza, in tutta la sua concretezza, rispecchia la fondamentale impostazione 11 Karol Wojtyla, Persona e Atto, p. 841.12 Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 470.

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realista dell’autore, attraverso la quale viene recuperato il ruolo della soggettività nella comprensione dell’integrum dell’uomo, senza per questo incappare in un soggettivismo assoluto. Nel processo disvelativo della persona proprio dell’esperienza, l’uomo recupera ciò che in essa si dà come essenzialmente umano: quell’universale in funzione del quale l’essere umano è tale.Ancora una volta, la centralità dell’esperienza, che conduce dal concreto all’essenza dell’uomo, non produce l’universale, l’umanità in sé, per mezzo di un lavoro di generalizzazione operato sulla molteplicità delle impressioni relative all’essere umano, né tanto meno lo recupera come un concetto astratto già pronto all’interno dell’intelletto: l’umanità è il frutto dell’”esperienza dell’uomo”. Wojtyla definisce questa esperienza “essenzialmente umana” ed individua al suo interno due momenti fondamentali. A partire dalla personale rivisitazione dell’idea tomista di “induzione”, il primo è caratterizzato da un processo di unificazione dell’esperienza nel quale l’uomo coglie, al di là della molteplicità e della complessità insita nei fenomeni sperimentati, l’identità sostanziale e le strutture essenziali dell’oggetto che è egli stesso. Attraverso questa prima operazione, l’oggetto-uomo viene “capito” e consolidato nell’esperienza nella sua unità, di modo che si possa costruire nella coscienza una visione originaria intorno ad esso. Tuttavia, affinché se ne possano individuare le ragioni essenziali e penetrarlo nelle strutture fondamentali per comprenderlo pienamente, l’induzione deve essere seguita coerentemente da un processo di riduzione che, lungi da eliminarne la pluralità intrinseca, fornisce all’uomo la visione integrale di sé, di ciò che è essenzialmente umano.L’impostazione metodologica proposta dall’autore costituisce la via nella quale egli persegue la realizzazione di un’antropologia realmente completa ed integrale e che, differentemente dalle scienze positive, sia in grado di cogliere l’unità sostanziale dell’essere umano al di là della sua complessità e, tuttavia, senza astrarre da essa. Per questi motivi, Wojtyla prospetta la sua antropologia come “adeguata”: capace di svelare nell’uomo, attraverso l’uomo, ciò che è essenzialmente umano, ciò che realmente ne costituisce i principi fondamentali e inalienabili.Ricercare l’uomo nel suo integrum vuol dire, per Wojtyla, scoprirlo come persona, nel rispetto pieno della sua identità e complessità. L’uomo a cui si rivolge è l’uomo che noi siamo, l’essere umano nella sua concretezza e in tutte le sue dimensioni, corporea, psichica e spirituale. Ciò che ci viene indicato è come stabilire un contatto diretto con la persona umana a partire da noi stessi, attraverso la nostra esperienza. E’ proprio l’esperienza che coinvolge e unifica

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tutte le dinamiche specifiche della nostra costituzione, evitando la riduzione del nostro essere personale alla parzialità di una sua componente. Ogni esperienza umana non è, infatti, mai esclusivamente sensibile, o psichica o intellettuale, ma sempre coinvolge ogni aspetto della persona: è sempre pienamente umana.In un’ultima istanza, non è possibile non tenere conto dell’apparente incongruenza tra le tematiche fondamentali trattate dall’autore e la sua condizione personale. Potrebbe essere, infatti, criticabile il tentativo di approccio ad un argomento così delicato come l’amore umano, in particolare quello coniugale, nei suoi aspetti non solo morali, ma anche psicologici e corporei, da parte di un uomo che ha consacrato la propria vita a Dio attraverso una scelta di celibato radicale. Lo stesso autore porrà la questione nel testo dedicato all’amore coniugale, Amore e Responsabilità: ‹‹L’opinione comune afferma che sul tema del matrimonio e dell’amore tra uomo e donna si possano pronunciare solamente coloro che vivono in queste situazioni›› 13. Il valore delle opere di Wojtyla poggia sulla coerenza della risposta che sarà in grado di fornire a questa affermazione. Credo, pertanto, che analizzare questo problema sia di fondamentale interesse, prima ancora di addentrarsi nel lavoro. Analizzando la posizione generale dell’autore sui temi della conoscenza è possibile osservare come esso non ritenga che la mancanza di esperienza personale sia discriminante nella conoscenza obiettiva di un fenomeno, nel momento in cui si possa attingere ad un’esperienza mediata, indiretta, e che il bagaglio di esperienze derivate possa, in qualche modo, addirittura eccedere quello personale, diretto, nel caso in cui le esperienze raccolte siano superiori sia per quantità che per varietà. La validità dell’esperienza mediata è sostenuta indirettamente anche dall’impostazione metodologica dell’autore. Nell’esperienza, secondo il pensiero di Wojtyla, il soggetto è in grado di stabilire un contatto diretto con l’oggetto, mediante il quale l’intelletto ne coglie la forma originaria, la sua identità e specificità. Tuttavia, la comprensione che ne deriva non si riduce a quel preciso oggetto: individuandone le strutture essenziali, l’esperienza si carica di oggettività raggiungendo il cuore della verità stessa dell’oggetto. L’universalità di questa comprensione è tale che, non solo il suo contenuto sia accessibile a tutti, ma si realizzi anche come contenuto intersoggettivo e, pertanto, comunicabile all’interno delle relazioni interpersonali. La questione dell’intersoggettività, dal punto di vista gnoseologico, costituisce una problematica piuttosto ampia. Ciò che qui, tuttavia, interessa è notare come lo scambio di esperienze, dirette o indirette, sia, al di là dei limiti specifici posti

13 K. Wojtyla, Amore e Responsabilità, p. 463.

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dalla struttura della persona, lecito e possibile. L’autore stesso mostra come continuamente gli uomini si trasmettano reciprocamente i contenuti delle proprie esperienze intorno all’essere umano in modo mediato e come questo fenomeno contribuisca notevolmente e positivamente alla formazione del sapere prescientifico e scientifico sull’uomo stesso14.

Lo “srodwisko”: la scuola dell’amoreSe ciò legittima il fatto che sia possibile ricavare la propria esperienza da altri, resta da aggiungere come e quando l’autore abbia avuto accesso ad esperienze relative all’oggetto in questione, l’amore coniugale. Ripercorrere alcuni eventi biografici dell’autore è in tal senso fondamentale, non solo per comprendere a quale fonte attinga la formazione della sua salda e vasta esperienza sulle problematiche e sulle implicazioni dell’amore umano, ma, ancor prima, per individuare le ragione per le quali, tali questioni, abbiano rappresentato un impulso tanto decisivo per il suo sforzo speculativo.Rivolgendo l’attenzione alla storia della sua vita, si nota come, fino all’avvento del suo pontificato, la sua attività pastorale sia stata segnata da un contatto diretto con coppie di sposi o fidanzati, con le quali si è trovato a condividere ansie e preoccupazioni. In particolare, è stata l’esperienza del circolo fondato a Cracovia, lo Srodowisko, a formare la sua sensibilità per queste tematiche e ad orientare le sue ricerche. Le problematiche quotidiane e le difficoltà concrete delle persone appartenenti al gruppo hanno motivato il suo incessante impegno nell’elaborazione di risposte complete, in grado di corrispondere alle esigenze e alle domande dell’uomo e della donna contemporanei.‹‹Da giovane sacerdote imparai ad amare l’amore umano›› 15. E’ forse questa l’esperienza personale dell’autore che ha guidato ogni suo lavoro. Fornire una riflessione profonda sulla persona e sull’amore: sull’amore a partire dall’essenza dell’essere umano; sulla persona e partire dall’amore e dalle sue implicanze. Una riflessione in grado di tutelare la dignità profonda di entrambi queste realtà, ricercando con precisione e concretezza la Verità essenziale e mai ambigua che in esse risiede e attraverso le quali si rivela.Ciò che con questo lavoro mi sono prefissata, è raccogliere quello squarcio di Verità che l’autore è in grado di offrire. Godere della genuinità e concretezza del suo pensiero, per fornire una visione dell’uomo svincolata da teorie falsanti e parziali. L’uomo concreto, capace di autodeterminarsi e autodominarsi, libero di agire e di scoprire se stesso e gli altri tramite i suoi atti e le sue esperienze. 14 Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, p. 833.15 Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, Milano, Mondadori, 1994, p. 138.

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Capace di stabilire una comunione con le persone che lo circondano, in cui la dimensione della donazione di sé costituisca la via effettiva per la reciproca realizzazione.La figura di Karol Wojtyla è sicuramente fra le più carismatiche del nostro secolo. Fin dagli anni della giovinezza è stato in grado di elaborare un linguaggio nuovo, aperto, capace di risuonare nel cuore dell’uomo del suo tempo. Un “profeta”, hanno detto, che ha letto con lucidità le lacerazioni interiori della società contemporanea. Un uomo per l’Uomo. Questa è la prospettiva con cui invito il lettore ad accostarsi alle sue opere, cercando di cogliere l’universalità del suo messaggio, sgombrando la mente da ogni possibile preconcetto. La sua formazione cattolica e, ancor più, l’ingombrante ruolo che Wojtyla ha rivestito in qualità di Pontefice non sono trascurabili nella comprensione della sua persona e del suo pensiero, tuttavia hanno spesso ostacolato una lettura autentica dei suoi scritti. Da parte mia escludo qualsiasi intento apologetico. Manterrò vivo il contatto tra i testi ed alcune delle sue vicende biografiche perché ritengo che una separazione fra queste due dimensioni non sia legittima in nessun caso e che, piuttosto, precluda la comprensione di qualsiasi pensatore. Questo accostamento tra pensiero e vita è reso, inoltre, ancor più necessario dalla natura propria delle sue opere e del suo lavoro. Egli stesso in Amore e Responsabilità afferma: ‹‹Il presente libro non costituisce l’esposizione di una dottrina, ma rappresenta prima di tutto il frutto di un continuo confronto tra dottrina e vita›› 16.Il contatto instaurato dall’autore tra le problematiche della vita quotidiana e la possibilità di derivarne un insegnamento autentico e oggettivo, trova la propria chiave di lettura nell’esperienza. Wojtyla ricava, infatti, dalla propria e altrui esperienza non solo la fonte viva da cui sorgono le domande che sono alla base del suo pensare, ma, penetrando in essa, sul fondamento del suo significato essenzialmente umano, il principio dal quale trarre le risposte adeguate. Vero fenomenologo dunque e vera guida.

PARTE PRIMA

LA METAFISICA DELLA PERSONA

16 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 463.

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‹‹ Come vivere bene con un’anima e un corpo, un corpo sessuato? Come fare unità di queste due dimensioni che ci fanno essere quel che siamo eppure ci appaiono fra loro nemiche? Come vincere questo contrasto, quest’opposizione che percepiamo in noi, e spesso in maniera dolorosa, per non dire angosciante?››17

In questa prima parte del lavoro cercherò di delineare, sulla scia della proposta wojtyliana, la struttura della persona nella sua unità e identità sostanziale, nel tentativo di fornire una risposta, la più adeguata possibile, a queste domande essenziali che così drammaticamente lacerano la coscienza dell’uomo.La problematicità che esse pongono rispecchia la reale complessità dell’essere umano. Non sempre, tuttavia, nella storia della filosofia, si è tentato o si è stati in grado di costruire un’immagine unitaria dell’uomo, capace di integrare la pluralità delle sue dimensioni e dei suoi dinamismi, assorbendo la matrice del loro antagonismo. Osservando da vicino questo silenzioso conflitto, che noi stessi viviamo, è possibile notare come, tradizionalmente, si sia soliti attribuire la responsabilità di questa sostanziale rottura interiore alla realtà del corpo: la “prigione dell’anima”, la cui povertà di mezzi ed espressione ostacola i moti della magnificenza dello spirito, costituisce un limite fisico e temporale che ancora l’essere alla materia, ostacolando la libera attività della volontà umana verso il bene: “Video meliora proboque, deteriora sequor”!Questa tendenza spontanea a respingere la dimensione corporea si radica sull’erronea convinzione che sia la ragione e lo spirito a rendere l’uomo tale, mentre i dinamismi propri della corporeità vengono interpretati, piuttosto, come residui di una vita animale. Ciò di cui non si tiene conto è, invece, quella realtà così elementare, sinteticamente espressa nella definizione metafisica tradizionale dell’essere umano come animal rationale, nella quale l’essenza dell’uomo si configura proprio nell’unione e nell’interazione tra queste due dimensioni, secondo le strutture e le finalità che le sono proprie.Karol Wojtyla mostra nelle sue opere una precisa consapevolezza della difficoltà con cui l’uomo, non solo contemporaneo, viva queste contraddizioni e osserva, in particolare, come sia l’ambito della sessualità a cristallizzare il cuore delle tensioni, da una lato riflettendo il più alto potenziale dell’uomo nella

17 Ives Semen, op. cit., p. 9.

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capacità di amare e di donare vita nel suo atto di amore, dall’altro rispondendo alle più basilari funzioni fisiologiche e istintive della sua corporeità. Questa stessa consapevolezza alimenta la sua speculazione filosofica e teologica, nella quale, ricercando con perseveranza la visione integrale dell’uomo, tenta di rispondere adeguatamente agli interrogativi della coscienza umana.Il pensiero di Wojtyla si muove, pertanto, verso la riqualificazione del significato reale della corporeità, mediante il reinserimento della stessa all’interno di una visione più ampia e globale dell’essere umano. Con questa finalità, l’autore non solo individua l’origine effettiva del conflitto interiore dell’uomo nelle intenzioni del suo cuore, piuttosto che nella sua dimensione corporea, ma elabora una prassi, o meglio una pedagogia, attraverso la quale sia possibile ricondurre il senso della corporeità al suo valore originario e l’uomo stesso alle forme autentiche della sua esistenza.L’antropologia wojtyliana va, dunque, sempre compresa nel suo riferimento fondamentale alla sua teologia e pedagogia del corpo. Questo complesso sistema speculativo, nel quale il corpo riacquista la sua dignità e vocazione essenziale, ha la portata di una rivoluzione. Corpo e sessualità vengono, infatti, rilette alla luce di categorie nuove, tanto per il pensiero teologico, quanto per quello filosofico in generale.Come già sottolineato inizialmente, in questa parte si vuole fornire l’immagine completa della persona prospettata dall’autore. Solo attraverso un’adeguata comprensione della struttura dell’uomo è possibile addentrarsi nella realtà dell’amore umano, la quale, come si vedrà, coinvolge la persona nella sua interezza, orientandola a partire dal suo nucleo essenziale e conferendole il suo significato più autentico. Così come, infatti, la persona non può essere compresa pienamente se sradicata dalla dimensione dell’amore, anche la realtà dell’amore smarrisce il suo vero significato se disgiunta dalla visione integrale dell’essere umano.

1. CHIESA E CORPOREITA’Prima di fornire il quadro generale dell’antropologia wojtyliana ho ritenuto opportuno tracciare preliminarmente una sintesi della riflessione cattolica occidentale sulla corporeità e la sessualità, per individuare non solo su quale tradizione si innesti il pensiero dell’autore, ma, soprattutto, per fornire al lettore gli strumenti necessari per coglierne l’effettiva portata culturale.

§ 1. Il corpo nelle origini

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‹‹ E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi›› (Gv 1,14). Questo breve passo del prologo di Giovanni introduce con efficacia il mistero dell’Incarnazione. Il fatto che l’evangelista ne parli ancor prima di narrare le vicende della vita di Gesù, sembra suggerire l’importanza e la centralità che tale evento riveste per la comprensione generale del messaggio evangelico. ‹‹Dio - Figlio, assumendo completamente la natura umana, “si è fatto carne” nello stesso modo in cui ogni uomo è carne›› 18. La portata di questo avvenimento è tale da coinvolgere la corporeità umana e ciò che la riguarda all’interno di un’epocale rivoluzione. Corpo umano e sessualità sono sottratte all’ambito ristretto della sfera naturale, per essere inseriti all’interno della storia della salvezza. Il risultato più immediato della nuova valorizzazione del corpo, introdotta dalla nascita del cristianesimo, è l’attribuzione di un’ inedita connotazione culturale al suo significato generale, in grado di segnare, nella società pagana ed ebraica del tempo, un cambiamento radicale ed effettivo nella concezione stessa della corporeità e una conseguente modificazione dei comportamenti sessuali 19.Da un lato, il cristianesimo, focalizzando il valore delle azioni umane sull’intenzione, piuttosto che sull’atto in sé, mette in crisi l’etica ebraica della purità e le categorie di contaminazione materiale ad essa legate. Dall’altro, trasferendo la sfera della sessualità sul piano etico, apre la strada ad un nuovo modello di comportamento fondato sull’ideale di castità mostrato da Cristo, il quale rompe definitivamente con l’interpretazione naturalistica della cultura pagana, che vede come unica finalità propria dell’atto sessuale la perpetuazione della specie, per indicare una sfera di significati nuovi, radicati nella natura spirituale della persona 20.Il corpo umano, nella sua mascolinità e femminilità, diviene, in questo modo, un nodo teologico fondamentale su cui si concentrano le prime controversie ed eresie della storia della Chiesa. L’idea di un Dio che assume su di sé i limiti della condizione umana entrando in un corpo alimenta i più accesi dibattiti sulla natura di Cristo. Nel IV secolo Ario, sacerdote alessandrino, nega, per primo, la divinità di Gesù e la sua consustanzialità col Padre affermando l’assoluta incompatibilità tra natura divina e umana. Nonostante questa posizione venga

18 K. Wojtyla, Riflessioni sul matrimonio, in Bellezza e spiritualità dell’amore coniugale, a cura di L. Gryegel, S. Gryegel, P. Kwiatkosky, Cantagalli, Siena, 2009, p. 36.19 Cfr. P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, 1988, Einaudi, Torino.20Cfr. M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Roma-Bari, 2008.

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rigettata al Concilio di Nicea del ‘325, anche Nestorio nel ‘431, al concilio di Efeso, sosterrà una posizione altrettanto realista: “ Non accetterò mai di chiamare Dio un bambino che vagisce in una culla!”. Come già accennato nell’introduzione, questa impostazione continuerà nei secoli ad attaccare l’ortodossia del pensiero della Chiesa, assumendo varie forme e manifestazioni.Parallelamente alle speculazioni teologiche, si diffondono, sulla base delle libere interpretazioni dei passi evangelici, le più disparate pratiche sessuali. Alcuni gruppi, interpretando la venuta di Cristo come abolizione della mentalità precettistica e giustificazione definitiva dell’uomo dal peccato, praticano una vita sessuale spregiudicata. In altri ambienti si radica, di contro, l’ideale ascetico della “continenza per il regno dei cieli”, secondo il principio dell’imitatio Christi, e il rifiuto radicale della realtà corporea e della sessualità.La scelta di vita celibataria e verginale prende il nome di encratismo e si afferma in particolare tra il tra il III e IV secolo d.C., sotto forma di comunità monastiche, maschili e femminili, radunate per lo più attorno ad un maestro, che attuano una rigida condotta astensionistica, sia sessuale che alimentare.

§ 2. Breve storia dell’encratisimoHo ritenuto opportuno soffermarmi sul fenomeno dell’encratismo non solo per l’impatto formidabile che ha avuto in ambiente cristiano ed extra-cristiano, ma, soprattutto, per la relazione che intercorre tra le pratiche encratite e la visione antropologica che sottendono, la quale, diffusasi in vari e vasti settori della spiritualità cristiana dei primi secoli, per lungo tempo ha influenzato i più grandi pensatori della storia della Chiesa, modellandone la visione generale sul corpo e sul valore dell’unione coniugale. Di particolare interesse è, soprattutto, il rapporto individuabile tra il significato attribuito da questi movimenti alla continenza e l’interpretazione promossa circa le vicende protologiche narrate nei primi capitoli del libro della Genesi. La lettura in chiave antropologica e teologica di questi brani sembra, infatti, costituire la motivazione profonda e radicale, accanto alle più ovvie ragioni ascetiche, psicologiche e ontologiche, della diffusione di questo ideale.In prima istanza intendo fornire una spiegazione del termine enkrateia il quale, di per sé, pone già numerose problematiche interpretative e lessicologiche, derivate dalla vasta gamma di accezioni ad esso riconducibile, in particolare nella grecità classica e nell’ellenismo. Se, infatti, nell’etica socratico-platonica, aristotelica e stoica, la parola indicava in generale la fondamentale nozione di temperanza, quale dominio delle facoltà razionali sulle passioni, dal II sec d.C. si assiste ad una restrizione del suo significato, il quale non si riferisce più alla totalità dei comportamenti della vita morale e religiosa dell’individuo, ma

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esclusivamente a quelli riconducibili alla sfera della sessualità. Come testimoniato dall’utilizzo del termine nelle varie opere eresiologiche del tempo, il termine enkrateia designa, da quel momento in poi, l’atteggiamento astensionistico, parziale o totale, dal matrimonio, accompagnato talvolta da divieti di natura alimentare.Sebbene, a partire dalle categorie eresiologiche introdotte da Ireneo e Clemente d’Alessandria, l’uso scientifico del termine “encratismo” venga riportato, per lo più, ad una condotta di rifiuto radicale, teorico e pratico, della legittimità dell’unione coniugale tra gli sposi, esso indica, in realtà, una varietà ampia di comportamenti astensionistici di tipo sessuale, scaturenti da differenti impostazioni ideologiche e dottrinali, alla luce delle quali la realtà sessuale assume valori e sfumature diverse. Nello specifico, è proprio la posizione adottata di fronte alla realtà matrimoniale e alla potenzialità procreativa in essa inclusa a rappresentare l’elemento discriminante, sia a livello storico che fenomenologico, tra i due grandi versanti della tradizione dell’enkrateia: tra moderato e radicale, tra ortodossia ed eresia.Per cogliere queste due tendenze fondamentali vorrei riproporre brevemente l’interessante chiave di lettura con cui G. G. Sfameni affronta la questione nel testo “Enkrateia e antropologia. Le motivazioni protologiche della castità e della verginità nei primi secoli del cristianesimo e nello gnosticismo” 21. L’autrice individua da un lato comportamenti astensionistici simili fondati su premesse dottrinali radicalmente diverse, dall’altro rintraccia, invece, impostazioni ideologiche compatibili, le cui manifestazioni pratiche risultano, tuttavia, lontane tra loro. Esemplare in merito è la posizione di radicale rifiuto e condanna di ogni attività sessuale che accomuna le teorie derivanti dall’ambiente gnostico di Saturnino, Marcione e dei Manichei, fondate su una dichiarata ontologia diteista dai risvolti palesemente anticosmici e antisomatici, con le dottrine di Taziano, di Giulio Cassiano e di varie comunità encratite anonime, radicate, invece, sulla nozione ortodossa di unità divina. Paradossalmente, occorre, notare come i presupposti dottrinali di questi ultimi, che potremmo chiamare encratiti radicali non gnostici, si fondino sulle stesse motivazioni promosse invece dall’“altro versante” della tradizione encratita, quella in cui il valore della continenza non implica una necessaria svalutazione della scelta matrimoniale e in cui, piuttosto, la scelta celibataria si configura come adesione totale ad una chiamata “speciale” in linea con il modello evangelico. 21 Cfr. G.G. Sfameni, Enkrateia e antropologia. Le motivazioni protologiche della castità e della verginità nei primi secoli del cristianesimo e nello gnosticismo, Ist. Patristicum Agostinianum, Roma, 1984.

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A partire dalle motivazioni ricavate dell’analisi storico-religiosa relativa alla molteplicità dei movimenti encratiti, è possibile distinguere all’interno di questa tradizione quattro tipologie fondamentali.

1. Enkrateia radicata su una concezione dualistico-anticosmica e antisomatica, derivante dall’ontologia diteista di matrice gnostica.

2. Atteggiamento astensionistico fondato sull’appello evangelico all’eunochia per il regno dei cieli. Il fondamento biblico di tale posizione è il brano di Mt 19, 1-12 e relativi paralleli sinottici. Al di là degli svariati tentativi di esegesi che ricondurrebbero il testo alla affermazione del valore delle “nozze spirituali” nella nuova economia neotestamentaria, il discorso di Gesù risulta, piuttosto, coerente con la totalità del suo messaggio, volto, pertanto, all’affermazione dei valori umani e alla loro fondazione su un livello più alto, all’interno del piano divino. In tale discorso viene, perciò, riaffermata la dignità dell’unione coniugale, la sua inerenza al piano creativo di Dio e la sua indissolubilità. Accanto a questa dimensione è prospettato un nuovo valore religioso, la scelta di “coloro che si sono fatto eunuchi per il regno dei cieli”. Tale condizione acquista il senso di rinuncia ad un bene naturale, in vista di un fine superiore, per la realizzazione del piano salvifico di Dio. Entrambi le possibilità sono, tuttavia, riconducibili ad un unico atteggiamento richiesto dal messaggio evangelico, vale a dire l’adesione radicale e la disponibilità interiore rispetto al messaggio stesso. Acquistano, in tal senso, pari dignità in riferimento al carattere vocazionale che le qualificano. Alla suddetta pericope evangelica si deve, inoltre, la derivazione della tematica tipica della tradizione cristiana dell’ “Imitatio Christi” e delle varie forme che assume nelle manifestazioni ascetiche o monastiche che la percorrono.

3. Enkrateia animata dalla tensione escatologica di matrice paolina che trova il proprio fondamento scritturistico nella lettera apostolica 1 Cor. 7. Se da una parte l’apostolo ribadisce la validità del sacramento matrimoniale secondo l’insegnamento di Cristo, dall’altra sembra indicare nella scelta celibataria, verginale o vedovile, una forma più alta e perfetta di risposta alla chiamata del Signore. Tale superiorità è supportata, a detta di S. Paolo, da una duplice motivazione. Non solo il celibato consente la totale dedizione per le

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“cose del Signore”, libera dalle preoccupazioni e dagli affanni connaturali alla vita matrimoniale, ma risponde anche in maniera più immediata all’urgenza imposta dall’imminenza della parousia. Sempre alla luce di questa prospettiva incalzante del regno, lo stesso Paolo invita ad un atteggiamento all’interno del matrimonio conforme al tipico distacco richiesto dal comportamento cristiano nei confronti di qualsiasi realtà mondana.

4. Valorizzazione dell’enkrateia a partire da una motivazione detta protologica, vale a dire fondata sull’analisi delle vicende caratteristiche degli inizi della storia umana. Tale prospettiva manifesta una evidente e inscindibile connessione con la tematica antropologica. Ovviamente è decisiva, in tale contesto, l’esegesi del racconto biblico della Genesi, relativo, in particolare, alla creazione, alla definizione dello status paradisiaco dei primi due uomini e alla natura, causa e conseguenza della trasgressione degli stessi protoplasti al precetto divino.

Anche la tradizione patristica non potrà far a meno di interrogarsi e teorizzare intorno alla tematica dell’enkrateia. Accanto, però, alla valorizzazione dell’ideale della continenza e della verginità, a partire da motivazioni di tipo ascetico e sull’impronta del modello di Cristo, essa terrà sempre fermo il dettato biblico sulla liceità dell’unione matrimoniale, seppure nel costante riferimento di questa al regime post-lapsario. Sebbene l’unione sessuale non venga associata in modo diretto dai Padri della Chiesa alla natura del peccato, continua ad essere concepita come conseguenza e rimedio necessario alla caduta dell’uomo, estranea all’originario piano divino e alla primitiva struttura dell’essere umano. In questo contesto, continenza e verginità rappresentano, ancora, la modalità fondamentale per la restaurazione dello status originario dei protoplasti, mezzo salvifico privilegiato e anticipazione della condizione finale dei salvati. All’interno di questa tradizione, come per le correnti gnostiche, l’encratismo coincide col recupero dell’isangelia primitiva all’interno di una prospettiva escatologica: ‹‹l’uomo sarebbe stato senza le nozze come gli angeli stessi, poiché la nostra somiglianza con gli angeli prima della caduta è attestata dalla restituzione delle cose nel loro stato primitivo››22.

22 Gregorio di Nissa, De Hominis Opificio XVII.

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A partire da queste motivazioni, la condizione matrimoniale è collocata su un piano inferiore rispetto alla pratica della continenza, sia a livello ontologico che temporale. Se, dunque, da un lato, all’interno della letteratura patristica, ne viene garantita la liceità sulla base del fondamento biblico, dall’altro, a partire sempre dall’interpretazione dei passi scritturistici, in particolare di matrice paolina, mantiene il carattere di “concessione” divina, nel duplice senso di rimedio sia rispetto alla catena di corruzione e morte instaurata dal peccato, sia riguardo alla concupiscenza della carne propria della creatura umana decaduta. Proprio a partire da quest’ultimo tipo di lettura del sacramento matrimoniale si diffonde in ambito cristiano l’idea dell’unione coniugale come “male minore”, soprattutto attraverso le dottrine di Tertulliano ed Origene, le quali contribuiranno notevolmente alla svalutazione della dignità di tale vocazione, mettendola in relazione unicamente con i bisogni carnali e, quindi, in netto contrasto con l’attenzione per le realtà celesti richiesta dal messaggio neotestamentario. La sfera sessuale diventa, dunque, seppur non cattiva in sé, luogo privilegiato della manifestazione dello stato di impurità che caratterizza la condizione dell’uomo attuale. In particolare, a partire dall’esegesi del salmo 50 (‹‹Poiché sono stato concepito nelle iniquità, nei peccati mia madre mi ha concepito››), testimonia scritturistico prediletto dai pensatori di stampo encratita, si individua una contaminazione intrinseca al concepimento mediante la quale l’impurità è messa in connessione diretta con la genesis fisica naturale. L’atto sessuale per cui, non si costituisce solo come conseguenza del peccato originale, ma anche come il mezzo di trasmissione dello stesso nel corso delle generazioni.

§ 3. Un cambiamento di rotta: da Agostino al Concilio di TrentoLa dottrina di Agostino segnò per la prima volta all’interno della storia patristica un’inversione di marcia nella concezione del corpo, proponendo un radicale capovolgimento di prospettiva circa i rapporti tra protologia e sessualità. Fondamento di tale inversione è, in particolare, il riconoscimento dell’appartenenza della realtà matrimoniale e sessuale al piano originario di Dio. Il passaggio a questa nuova visione, parallelo all’introduzione dell’esegesi di tipo letterale del testo biblico, è delineato nei suoi tratti essenziali nel “De Nuptiis et concupiscentia”, opera volta a dimostrare la bontà dell’unione tra i due sessi. Eliminando il presupposto secondo il quale l’unione fisica è resa necessaria solo in relazione al regime di morte post-lapsario, secondo il binomio fondamentale genesis – thanatos, proprio dello schema ideologico dell’enkrateia tradizionale, viene prospettata una nuova possibilità

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interpretativa relativa alla sessualità dei primi uomini. In particolare, Agostino ipotizza l’esistenza della realtà corporea nell’uomo anche prima della trasgressione e, quindi, la possibilità di una procreazione di tipo angelico o spirituale, non finalizzata a contrastare la mortalità dell’essere umano. La differenza sostanziale tra le due modalità di riproduzione, paradisiaca e attuale, viene, tuttavia, individuata nell’assenza del dominio del piacere sulla volontà e sulle facoltà razionali nella condizione anteriore alla caduta.Il corpo e la sfera dei sensi non sono, dunque, oggetto diretto di condanna. Sessualità e procreazione eccedono lo statuto di fenomeni naturali e sono concepiti come elementi costitutivi della natura umana, voluti da Dio fin dal principio e mantenuti, in quanto tali, anche dopo il peccato. Il matrimonio viene, in tal modo, inserito all’interno della teologia della salvezza, col compito specifico di riscattare il malum proprio della concupiscenza attraverso l’affermazione dei tre bona che lo caratterizzano: proles, fidem et sacramentum. La concupiscenza non coincide col corpo o la sua sensibilità, è, piuttosto, l’inclinazione del desiderio verso le realtà corporee e passionali, a discapito dello spirito. Essa non appartiene all’uomo in quanto tale, ma è causata da un cattivo utilizzo della sua volontà. In questo senso, riferendosi al termine “caro”, Agostino non intende semplicemente il corpo, ma l’uomo che vive sotto il dominio della carne, in contrasto con la vita secondo lo spirito.Per l’autore la concupiscenza entra nel mondo come conseguenza del peccato originale, come potenza contaminante in grado di macchiare la moralità dell’atto sessuale. Tale derivazione è evidenziata da tre caratteristiche fondamentali della concupiscenza: l’indomabilità propria della libido, la vergogna, eco della soggezione dei protoplasti e l’innaturalità della sua presenza nell’ordine della costituzione umana. Sussiste, dunque, anche in Agostino, un certo rapporto tra l’unione fisica e il piacere ad essa connessa e il primo peccato, tuttavia l’autore non attribuisce alcuna efficacia alla libido nella trasgressione originaria. Il peccato originale non fu una violazione di natura sessuale, quanto una colpa di disobbedienza e orgoglio, di cui la concupiscenza rappresenta la giusta pena.A partire da tali presupposti, Agostino ritiene che il piacere derivato dall’atto sessuale, delectatio, non sia peccato in sè; anzi, contribuisca positivamente allo sviluppo della sessualità sotto il dominio delle facoltà superiori e dello spirito. Non occorre, pertanto, forzare la natura, sottraendo all’unione il piacere, ma combattere la ricerca esclusiva di quest’ultimo nelle passioni umane.La posizione agostiniana si pone in un rapporto di continuità e rottura col contesto storico culturale in cui si inserisce. Discriminante fondamentale tra questa dottrina e la tradizionale prospettiva encratita a sfondo protologico, è

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l’assenza, nell’impostazione del vescovo di Ippona, della tipica struttura della “doppia creazione”: il prima e il dopo rispetto alla caduta dell’uomo non corrispondono a due atti di volontà distinti del Creatore. Il peccato originale infatti, definito privatio boni, ha una consistenza puramente etica in grado di interrompere il rapporto dell’uomo con Dio, ma non di modificare la struttura antropologica dell’essere umano rispetto all’originale piano creativo di Dio. Questo sfondo dottrinale consente ad Agostino di considerare il matrimonio come un bene in sé, non solo per la procreazione dei figli, ma anche perché stringe una società naturale tra i due sessi ad immagine dell’unione originaria dei protoplasti 23. Il bene della procreazione, il bonum prolis, è così affiancato dal bonum fidei, il vincolo di fedeltà reciproca che pone i due coniugi su un piano egualitario, e dal bonum sacramentum, l’indissolubilità dell’unione sancita dalla grazia sacramentale che trasforma l’accordo umano dei due contraenti in una realtà superiore. Ed è proprio il legame uomo-donna a rappresentare il cuore stesso del sacramento: il mysterion attraverso il quale si svela l’infinita grazia di Dio.In definitiva, con Agostino sono sottratte non solo le motivazioni protologiche tradizionali che pongono il matrimonio su un piano secondario all’interno della nozione di creazione “graduata”, ma anche quelle antropologiche che, associandolo alla dimensione post-lapsaria, lo qualificano come realtà intrinsecamente negativa. Evento focale per la definizione della realtà matrimoniale nella tradizione cristiana occidentale, in cui la posizione di S. Agostino, integrata dalle posizioni della scolastica, trova la propria formulazione dottrinale e giuridica all’interno del Magistero della Chiesa, fu il Concilio di Trento. La prima riunione dei padri conciliari risale al 1545, indetta con lo scopo fondamentale di stabilizzare le posizioni della Chiesa in opposizione agli attacchi delle tesi protestanti. La problematica matrimoniale occupò già le prime sessioni dedicate alle questioni dogmatiche e sacramentali. I lavori sulla materia matrimoniale furono, tuttavia, interrotti dalla peste che costrinse i padri conciliari a ritirarsi a Bologna e a sospendere le attività nel 1549.Il decreto matrimoniale, “decretum de reformatione matrimonii”, fu redatto dopo undici anni di interruzione e approvato definitivamente nel 1563. I nuclei fondamentale della revisione tridentina erano volti a riaffermare il carattere sacramentale del matrimonio, sancirne l’indissolubilità, elaborare nuove forme liturgiche all’interno della celebrazione, stabilire i ruoli della famiglia etc. Attraverso l’introduzione dei canoni, ogni aspetto della sfera sessuale venne

23 Cfr. S. Agostino, La dignità del matrimonio, Città nuova, Roma, pp. 93-94.

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inserito definitivamente nella dimensione giuridica, ogni momento dell’intero percorso matrimoniale regolarizzato e associato ad una specifica simbologia rituale. In particolare, fu ribadito, al fine di evitare il moltiplicarsi delle unioni clandestine, il carattere ufficiale e pubblico delle nozze e riaffermato l’assoluto primato delle gerarchie ecclesiastiche sulle controversie matrimoniali, con lo scopo di limitare le ingerenze delle famiglie e delle autorità locali nelle cause ad esse inerenti . Al termine di questo percorso il matrimonio cristiano soppiantò definitivamente la forma precedente dell’unione pagana. Pur mantenendo esternamente l’immagine della famiglia tradizionale romana, fondata sulla monogamia, non solo al suo interno venne introdotta l’idea della reciprocità di doveri tra i coniugi, ma il senso stesso dell’unione apparve mutato sostanzialmente. Il carattere sacramentale del matrimonio, istituito da Cristo, consegna a questa realtà un valore strettamente vocazionale; l’unione fra i due sessi non ha più un significato meramente biologico, ma costituisce il risultato della libera scelta della persona che orienta la propria vita verso questo sacro legame d’amore, fondato sulla carità reciproca. Vennero in tal modo definite le prerogative della famiglia moderna, la natura del vincolo e i relativi obblighi, i ruoli dei coniugi nelle relazioni della coppia e la centralità della coscienza individuale all’interno della validità del sacramento.Col concilio di Trento, inoltre, la vita matrimoniale fu inserita fra i nuovi compiti e responsabilità delle autorità ecclesiastiche. Così, a partire dal ‘500, si assistette alla moltiplicazione delle analisi dei teologi, dei confessori e dei canonisti i quali, con freddezza chirurgica, si occuparono di sezionare ogni aspetto della vita coniugale e dell’atto sessuale per stabilire i margini di liceità di ogni azione, secondo casistiche dettagliate (e talvolta scabrose). La preoccupazione fondamentale che spingeva i ricercatori a tanto zelo era alimentata dalla natura del piacere. La libido racchiudeva ancora, nella mentalità degli studiosi, una potenza contaminante, in grado di compromettere la bontà morale dell’unione sessuale. Lo sforzo dei moralisti si concentrò, pertanto, intorno alle finalità e alle motivazioni della copula, sulla necessità dell’amplesso della donna, sulla liceità della polluzione maschile, sulle fantasie e i desideri dei fedeli. Parallelamente alla speculazione teorica sul sesso e sulla corporeità si lavorò all’elaborazione di nuovi modelli di comportamento in grado di disciplinare il corpo secondo le regole della modestia, dell’autocontrollo e della decenza, con la finalità di preservare l’integrità dell’ anima. In seguito al Concilio tridentino, il fedele aveva, infatti, visto accresciuto il ruolo della coscienza individuale e, quindi, della sua responsabilità nelle scelte di tipo morale. Ciò aveva avviato un

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processo di interiorizzazione delle norme e dei precetti nell’acquisizione di una consapevolezza nuova, tutta moderna, nella sue azioni e comportamenti. Questa sinergia fra esteriorità e interiorità della persona contribuì a radicare l’idea di una unità armonica tra anima e corpo, in virtù della quale si affermò la convinzione che una regolamentazione degli atteggiamenti esteriori del corpo avrebbe contribuito alla moderazione degli impulsi interiori dell’anima. Paradossalmente, nonostante la scoperta del ruolo decisivo della coscienza, l’idea dominante della radicale negatività della corporeità, incline alle passioni più basse, trasformò il cristiano in un fedele soggetto al nuovo modello pedagogico, osservante delle sofisticate classificazioni di regole e comportamenti stilate nei vari penitenziali. Strumento di estrema efficacia nella propaganda dei nuovi ideali fu l’elaborazione del sistema della confessione individuale; pratica potente mediante la quale il sacerdote, penetrando nei luoghi più intimi della vita e dell’animo umano, era in grado di agire nel punto esatto in cui la norma morale si radica nella coscienza, influenzando potenzialmente questo assorbimento in direzione di un diffuso senso di colpa rispetto agli atteggiamento sessuali. Colpa e pentimento furono le categorie che investirono la cultura del secolo e si catalizzarono intorno alla sfera della sessualità creando un legame, ormai quasi diretto, fra l’idea di peccato e i comportamenti sessuali, anche all’interno del matrimonio. §. 4 Sessualità e modernità: la nuova sfida della Chiesa CattolicaQuesto sistema, che avvolgeva la comunità intera con l’insieme delle sue strutture sociali, raggiunse il declino a cavallo tra la seconda metà del settecento e la prima dell’ottocento. In questi anni la società europea si svincolò dalla mediazione imposta dalla religione tra uomini e Dio, dandosi autonomamente leggi e strutture proprie. All’interno di questo processo di secolarizzazione, avviato dalle correnti illuministe, la sfera della sessualità sfuggì al controllo della Chiesa, per essere assorbito nel campo delle scienze. Nell’800 nacque la sessuologia propriamente detta; la sfera dell’intimità coniugale perse la connotazione morale per essere trasferita esclusivamente sul piano dell’oggettivazione scientifica. Parallelamente si diffuse il modello del matrimonio romantico, in cui il motivo della libera scelta tra l’uomo e la donna, come risposta personale ad una vocazione interiore, venne totalmente subordinato all’ideale dell’amore affettivo. L’infrangersi, tuttavia, del sentimentalismo sullo scoglio della realtà, aprì la strada alla possibilità della rottura dell’unione, in nome di una superficiale concezione di felicità individuale.

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L’istituzione del matrimonio, così come era finora concepita, fu messa in crisi dal diffondersi del divorzio che, sottraendo il principio della sua indissolubilità, minò le fondamenta stessa dell’unione coniugale. Conseguenza naturale di questo sradicamento fu la separazione tra il sacramento e il contratto con cui i coniugi sancivano il loro legame, nonché la relativa divisione tra la sfera religiosa e quella sociale a partire dalla rispettive competenze. Questo processo si concluse quando, al termine dell’800, la fine del potere temporale della Chiesa, con l’abolizione definitiva dei tribunali ecclesiastici, limitò l’ingerenza delle sue istituzioni esclusivamente alla sfera dell’interiorità dell’uomo e alla funzione pastorale di guida sulle coscienze dei fedeli.Lentamente, ma progressivamente, sotto la spinta delle scienze umane, prima fra tutte la nascente psicanalisi, si assistette ad un cambiamento radicale della concezione sull’essere umano. La visione intorno all’uomo perde il suo carattere unitario e si fraziona a seconda degli angoli di competenza delle scienze, le quali, ciascuna secondo le proprie modalità e strumenti, impostano la propria indagine alla ricerca di quel pezzo di verità che gli spetta. La rivoluzione culturale si accompagnò alla rivoluzione demografica. Dalla seconda metà del settecento si assistette in Europa, grazie alle innovazioni igieniche e mediche, non solo ad un notevole allungamento dell’età media della vita, ma anche al crollo della mortalità infantile e delle morti per parto. Se si aggiunge la diffusione delle nuove pratiche abortive, più sicure di un tempo, e contraccettive, si ottiene una nuova idea di fecondità, di maternità e di infanzia. Il ruolo femminile è svincolato dal suo destino biologico. Non si rendono più necessarie molte gravidanza per assicurarsi un figlio e, soprattutto, diviene possibile decidere se e quando averlo. L’intera economia famigliare si conforma al controllo delle nascite, a seconda delle esigenze e del benessere che persegue.Alla fine dell’800 il controllo delle nascite assunse la dimensione di un ideale da applicare a livello sociale a garanzia del bene comune. Su questa scia si diffuse, in quegli stessi anni, il movimento evoluzionista neomalthusiano, il quale proponeva il controllo delle nascite come pratica eugenetica volta al perfezionamento della società. L’uomo venne chiamato a collaborare con una gestione razionale della riproduzione alla rigenerazione della comunità. Condizioni fondamentali per la procreazione divennero, dunque, la salute dell’individuo e le condizioni in cui esso doveva essere allevato.Insieme all’indissolubilità crollò all’interno dell’unione matrimoniale anche il fine procreativo. Tutto ciò che rimase fu la dimensione del piacere, il quale fu assunto come valore in se stesso e come fulcro dei comportamenti sessuali. Le pratiche eugenetiche, i metodi contraccettivi e abortivi, la diffusione dei nuovi comportamenti sessuali, rappresentarono indubbiamente un duro banco di

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prova per la morale cattolica. Le questioni poste alla Chiesa dalla società si scontravano spesso contro categorie e schemi anacronistici, lontani dalle reali esigenze e problematiche delle famiglie.Dall’urgente necessità di contrastare i pericoli insidiosi delle tendenze neomalthusiane, nel 1930 venne redatta da Pio XI l’enciclica “Casto Connubii”, primo documento pontificio relativo alla morale sessuale che, nonostante la rigidità dei termini e delle posizioni, rappresentò innegabilmente un tentativo di risposta alle trasformazione culturali della società. Da un lato fu ribadita la netta opposizione tra legge naturale e intervento umano e la condanna definitiva di ogni forma di regolazione delle nascite al di fuori della continenza periodica. Dall’altro, venne sottolineato come il fondamento dell’unione matrimoniale non sia da cercarsi nell’ideale romantico e nel piacere sessuale, ma nell’amore sponsale, che solo trascende la dimensione soggettiva e biologica di questa realtà, per radicarla in un ordine superiore.Col fine di formulare una risposta più ampia e completa possibile alle domande relative al controllo delle nascite, nel 1963 Giovanni XXIII nominò una commissione di teologici esperti in materia 24. Nel ’64 la commissione venne allargata dal successore, Paolo VI, con l’ingresso di specialisti, economisti, sociologi, medici, demografi e, soprattutto, di tre coppie sposate che, esponendo le problematiche reali della loro situazione, potessero apportare un contributo concreto all’individuazione dei punti chiave della questione. Il pontefice aveva ben chiaro l’urgenza con la quale la Chiesa era chiamata ad intervenire in questa situazione, in cui anche le masse dei fedeli cominciavano ad essere assorbite dalla cultura del pensiero dominante. Significativo a tal proposito è lo stralcio di 24 La “Commissione di esperti per lo studio dei problemi della famiglia, della popolazione e della natalità” fu istituita da Giovanni XXIII e riconfermata da Paolo VI. Nonostante l’ampiezza dell’ambito di intervento espressa nella denominazione stessa, la suddetta commissione venne interpretata come il tentativo di riformulare le posizioni dottrinali della Chiesa esclusivamente in merito alle questioni della contraccezione e, pertanto, ribattezzata comunemente “Commissione papale sul controllo delle nascite”. Al suo interno si individuarono due posizioni contrapposte. Come espresso nel memorandum inviato a Paolo VI nel 1966, relativo al rapporto di maggioranza, i più sostenevano la possibilità dell’adozione dei metodi contraccettivi all’interno della coppia, conformemente ad una valutazione morale dell’attività coniugale che non tenesse conto dell’ apertura alla trasmissione della vita in ogni singolo atto della coppia, ma della disposizione dei coniugi nel complesso della loro vita coniugale. La minoranza si schierava, invece, a difesa della posizione classica della dottrina della Chiesa sulle questioni di morale sessuale, ribadendo la necessità di riaffermare la concomitanza del momento unitivo e procreativo all’interno dell’atto coniugale, in conformità con la legge di natura e con il rispetto dovuto alla dignità della persona.

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un’intervista rilasciata dal Pontefice al “Corriere della sera” nel 1965: ‹‹Il mondo chiede cosa ne pensiamo e noi ci troviamo a dare una risposta. Ma quale? Tacere non possiamo. Parlare è un bel problema. La Chiesa non ha mai dovuto affrontare, per secoli cose simili››.Le attività della Commissione durarono fino al 1966, senza, tuttavia, raggiungere l’unanimità sui temi della contraccezione. Nonostante la maggioranza si accordasse su soluzioni di tipo progressista, l’enciclica, promulgata dal Papa il 29 luglio 1968, dopo un attento esame del lavoro consegnato dalla Commissione, si distaccava sostanzialmente dai risultati prodotti dalla suddetta.Pubblicata col titolo “Humanae vitae”, essa confermò la posizione tradizionale della Chiesa sancita da Pio XI, rifiutò l’adozione di mezzi artificiali per la regolazione delle nascite e salvaguardò il valore dell’unione coniugale nei suoi due significati, unitivo e procreativo: ‹‹tale dottrina, esposta più volte dal magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti, per sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con vincolo profondissimo gli sposi, li rende atti alla generazioni di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna››25. L’atto sessuale fu riconosciuto come valore in sé, in quanto espressione dell’amore dei coniugi. Atto lecito e moralmente buono, anche quando consumato nei periodi di infertilità, che, tuttavia, deve essere sempre aperto alla trasmissione della vita. Ai coniugi fu, comunque, affidata la possibilità, o meglio, la responsabilità di controllare le nascite praticando la continenza periodica secondo i ritmi naturali della fertilità, utilizzando coscientemente, perciò, quegli strumenti che Dio stesso ha fornito agli uomini, conformi all’ordine naturale, nel rispetto della legge divina. La posizione di Paolo VI, nonostante si presenti come sintesi tra la posizione naturalistica, ma un po’ acritica, della “Casto Connubii” e quella personalistica della costituzione dogmatica “Gaudium et spes” 26, si trovò al centro di una

25 Paolo VI, Humanae vitae.26 La costituzione pastorale “Gaudium et spes, sulla Chieda nel mondo contemporaneo”, rappresenta l’ultimo atto del concilio Vaticano II. Promulgata l’8 dicembre 1965 da Paolo VI, questo documento rappresenta l’iniziativa della Chiesa cattolica di stabilire un dialogo proficuo con l’uomo del suo tempo, mantenendo uno sguardo aperto alle sue esigenze concrete e alle problematiche culturali e sociali del mondo contemporaneo. Al suo interno vengono affrontate varie questioni, di natura sociale, economica, antropologica, etc. Di particolare interesse per lo svolgimento del presente lavoro è il primo capitolo della seconda parte: “Dignità del matrimonio e della famiglia e sua

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lunga serie di polemiche relative non solo al valore dell’amore nell’atto coniugale, ma, soprattutto, alla liceità dell’intromissione nella sfera dell’intimità della coppia da parte delle autorità ecclesiastiche27. A riprendere in mano i contenuti della controversa enciclica fu proprio Karol Wojtyla, già sostenitore della posizione tradizionalista all’interno della Commissione per il controllo delle nascite 28, e che, ancor prima dell’uscita dell’enciclica stessa, nel 1960 aveva espresso il suo approccio personalistico alla questione dell’amore coniugale nel testo “Amore e responsabilità”. Oltre a sostenere un’esplicita difesa delle posizioni del suo predecessore nell’articolo

valorizzazione”, in cui viene riproposta la dottrina cattolica intorno al sacramento del matrimonio a partire da una visione globale della persona umana. 27La posizione di Paolo VI espressa nella Humanae Vitae si scontrò con l’accusa di “ottuso conservatorismo”, opposta sia dal clero che dai movimenti laici, i quali, sotto la spinta della rivoluzione sessuale degli anni ‘60, non vedevano riconosciute dal Magistero le proprie ragioni. Per comprendere fino in fondo le motivazioni delle controversie che seguirono la promulgazione dell’enciclica, occorre tener presente non solo i movimenti sociali e culturali di quegli anni, che difficilmente avrebbero lasciato presagire una reazione diversa alla riaffermazione dei principi classici della morale sessuale e della castità coniugale, ma anche lo sfondo ideologico in cui tali principi vengono riaffermati. Di fatto il pontefice, pur avendo riferito il valore dell’atto coniugale alla dignità e alla libertà della persona, richiamandosi direttamente alla responsabilità dei coniugi nella loro attiva di collaboratori all’interno del piano divino, mediante una consapevole apertura alla vita, resta ancorato a categorie sorpassate, facilmente etichettabili come “conservatoriste”. In questo senso, Paolo VI, trascura la rielaborazione di un contesto personalistico in cui i principi morali proposti possano trovare piena legittimazione nel valore della dignità personale, piuttosto che in un cieco legalismo.28 Nel 1966 Paolo VI convocò Wojtyla, allora arcivescovo di Cracovia, nella suddetta Commissione. Il veto opposto dal governo polacco non consentì, tuttavia, la sua partecipazione alle riunione del giugno di quell’anno, in cui la posizione di maggioranza si orientò a favore della revisione delle posizioni tradizionali della Chiesa in merito alla liceità della contraccezione all’interno della sessualità coniugale. Ciò nonostante, il suo intervento nell’elaborazione dell’enciclica sarà decisivo. Oltre alla partecipazione attiva alle successive riunioni della Commissione pontificia, nel 1966 istituì una commissione presso la sua diocesi, le cui conclusioni vennero inviate al termine dei lavori, nel febbraio del ’68, allo stesso Paolo VI. L’originalità e l’importanza dei risultati dei teologi polacchi fu, indubbiamente, quella di trascendere l’opposizione tra fronte conservatorista e progressista, nel tentativo di elaborare un quadro filosofico e teologico in cui fosse possibile radicare un autentico umanismo cristiano, sul quale fondare le motivazioni profonde della morale cattolica e non. L’impostazione personalista caratteristica delle risoluzioni di Cracovia, che attinge, in modo piuttosto evidente, dalla

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pubblicato sull’”Osservatorio romano” nel 1969, “Le verità dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI” e in altri interventi, il suo contributo fondamentale al programma di Paolo VI fu rappresentato dall’apertura, nel 1980, di un Sinodo sulla famiglia in cui vennero esplicitamente riprese, interpretate e ampliate le tesi presenti nel testo del ‘68. Guardando attentamente, l’elemento che forse più unisce i due pontefici è quello di aver saputo ascoltare, più di altri, le esigenze dell’uomo contemporaneo e rispondere alle continue trasformazioni del suo mondo. Karol Wojtyla sembrò aver capito, così come Paolo VI, il ruolo centrale che la sessualità rivestiva nel processo di secolarizzazione del mondo moderno e la necessità di elaborare una dottrina adeguata sul significato dell’unione coniugale, fondata sull’integrità della persona.Secondo Wojtyla la sfera della sessualità umana non è riconducibile ad un mero meccanismo biologico, ma è l’espressione privilegiata della persona nella sua totalità. Ciò che fonda radicalmente l’essere umano e lo realizza è la capacità dell’autentico dono di sé: l’amore coniugale è la reciprocità di questo dono, in cui l’uomo e la donna, nella loro mascolinità e femminilità, costruiscono una comunione di persone ad immagine della comunione delle Persone divine. La sacralità del matrimonio, dunque, è da ricercare nell’essenza stessa della persona. Il corpo, concepito nell’intima unione con le altre dimensioni dell’essere umano, partecipa anch’esso alla sua dignità e costituisce il segno visibile attraverso il quale la persona si rivela a sé e agli altri nella sua identità.L’interpretazione della corporeità e della sessualità di Wojtyla si presenta all’interno della lunga tradizione della Chiesa con la portata di una rivoluzione copernicana. Una lettura “umana”, ma anche profondamente teologica e filosoficamente fondata, di quelle realtà che tanto hanno lacerato le coscienze dell’uomo di tutti i tempi.

2. LA STRUTTURA DELLA PERSONA UMANA

speculazione del suo arcivescovo, ridefinirono sostanzialmente il significato della sessualità: l’atto sessuale all’interno della coppia costituisce l’espressione dell’amore dei coniugi mediante il quale essi realizzano profondamente la loro natura personale nel sincero e reciproco dono di sé. Il carattere autentico di tale donazione si costituisce mediante l’apertura alla vita. Castità e procreazione devono, dunque, essere rilette esclusivamente nel loro riferimento alla capacità del dono che la persona è chiamata liberamente a realizzare, conformemente alla sua struttura e al suo orientamento interiore.

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§ 1. Una questione di metodoRiscoprire l’uomo e fornire un’immagine adeguata della sua natura rientra tra gli obiettivi principali delle opere di Karol Wojtyla. Egli percepisce nella problematica personalista non un semplice spunto di riflessione, ma il nucleo fondamentale della sfida del pensiero contemporaneo, nella sua capacità di corrispondere alle esigenze dell’uomo del suo tempo. Questo atteggiamento di riguardo per il significato e il valore della persona trova la massima espressione a livello filosofico nell’opera “Persona e Atto”, studio in cui l’autore, traendo il proprio impulso conoscitivo dalla meraviglia che scaturisce di fronte alla complessità del suo oggetto, l’essere umano, tenta di fornire allo stesso una sintesi più aggiornata e penetrante possibile di sé 29.E’ proprio nel suddetto testo che il programma speculativo wojtyliano intorno all’uomo viene espresso con maggiore coerenza, sia dal punto di vista delle finalità e dei contenuti, che del metodo: ‹‹quest’opera non vuole essere un commento, né uno studio “sistematico”, ma un tentativo di analisi mirante a trovare un’espressione sintetica per la concezione della persona e dell’atto. Essenziale a tale concezione sembra essere anzitutto l’aspirazione a comprendere la persona umana nell’interesse della persona stessa, per poter rispondere alla sfida contenuta in tutta la ricchezza dell’esperienza dell’uomo e anche nei problemi essenziale dell’uomo nel mondo contemporaneo›› 30. Partendo da questa indicazione, fornita dall’autore, è possibile delineare le linee guida del suo pensiero antropologico. Innanzitutto si osserva come il suo intento non sia quello di offrire una definizione sistematica della persona umana a partire dai suoi presupposti ontologici, ma una “comprensione” della stessa sul fondamento della correlazione tra persona e atto, contenuta nell’“esperienza dell’uomo”. L’importanza di questo tentativo di analisi, nonché l’intrinseco criterio normativo, risiede, inoltre, nella capacità che questo studio ha di corrispondere alle esigenze essenziali e concrete della persona.L’indagine wojtyliana prende dunque le mosse dall’ “esperienza dell’uomo”, vale dire quella peculiare esperienza mediante la quale l’uomo entra in contatto conoscitivo con se stesso, scoprendosi, sulla base della continuità dei dati empirici che emerge nella molteplicità delle sue esperienze, come soggetto e oggetto dell’esperienza stessa. L’ “io” della persona costituisce, infatti, l’unità dinamica fondamentale sulla quale si radicano e raccolgono le sue esperienze. In questo modo egli è, in un certo senso, sempre incluso in esse e sempre accessibile alla comprensione: ‹‹l’esperienza di ogni cosa situata al di fuori 29 Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, p. 855.30 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 857.

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dell’uomo si associa sempre ad una sua propria esperienza. Ed egli non sperimenta mai qualcosa al di fuori di sé senza in qualche modo sperimentare se stesso ››. Da questo punto di vista, l’“esperienza dell’uomo”, come comprensione continuativa che l’uomo ha di sé, è la risultante delle sue diverse esperienze e delle relative comprensioni, realizzate nel contatto conoscitivo con i vari fenomeni sensibili, nella quale l’“io” stesso si dà come oggetto, accanto ai dati fenomenici. A partire dalla struttura dell’“esperienza dell’uomo”, Wojtyla concentra la propria attenzione intorno ad un dato fondamentale che appartiene all’esperienza umana: la totalità dinamica “l’uomo agisce”. Il contenuto sperimentale di questa esperienza è compreso dall’attività intellettuale nella sua evidenza, come “atto della persona”. L’unità persona-atto, derivata dal fondamento oggettivo della comprensione, rappresenta, secondo l’autore, il momento peculiare dell’ “esperienza dell’uomo”, attraverso il quale la persona si rivela a se stessa nella sua identità sostanziale. Fissando come punto di partenza della sua analisi il fenomeno generale l”uomo agisce”, l’autore ribalta, in un certo senso, la tradizionale struttura dell’atto, in cui la persona è presupposta a partire dalla concezione previa della sua struttura di agente, impostando la propria indagine come ‹‹ studio dell’atto che rivela la persona; studio della persona attraverso l’atto. Tale è infatti la natura della correlazione insita nell’esperienza, nel fatto che “l’uomo agisce”: l’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela›› 31. La preminenza del contenuto “l’uomo agisce” all’interno della più ampia “esperienza dell’uomo” sta, dunque, nella proprietà dell’atto di svelare, all’interno dell’esperienza, la verità della persona, consentendo di accedere al suo nucleo essenziale e rintracciare ciò che in essa c’è di sostanziale ed immutabile.Da questa sintetica premessa si può osservare come la riflessione wojtyliana si configuri come un percorso che dall’analisi dell’esperienza umana riconduce, in ultima istanza, ai presupposti ontologici della persona. Questa connessione obbliga al confronto con questo passaggio evidente che l’autore compie, a livello metodologico, dall’impostazione fenomenologica alla quella metafisica. Per comprendere l’omogeneità e la coerenza di questo programma, o per così dire, di questa sintesi, occorre analizzare lo specifico approccio che Wojtyla elabora rispetto ad entrambi i sistemi. A tale scopo intendo ripercorrere la strada della sua formazione personale.

31 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 841.

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Il primo contatto tra Wojtyla e l’ontologia tradizionale scolastica è rintracciabile nel periodo di studi presso l’università di S. Tommaso a Roma. Il giovane studente, da poco ordinato sacerdote, assorbe con entusiasmo le categorie metafisiche dell’aquinate, alle quali riconosce la grande potenza descrittrice dell’ordine oggettivo della realtà. Al contempo, tuttavia, egli matura la ferma convinzione della loro inadeguatezza rispetto ad una visione integrale dell’essere umano, che sia in grado di interpretare non solo la dimensione oggettiva della sua esperienza, ma che tenga conto dell’aspetto fondamentale e fecondo della sua soggettività. La sensibilità per il momento soggettivo dell’esperienza umana guiderà Wojtyla, pochi anni dopo, verso il fortunato incontro con la fenomenologia. Nel 1949 è richiamato a Cracovia come viceparroco nella parrocchia di S. Floriano. In quegli anni l’ambiente culturale della città era fortemente influenzato dal pensiero di Roman Ingarden 32, uno dei più importanti discepoli di Edmund Husserl, caposcuola della fenomenologia. Pur non entrando mai in contatto diretto col pensiero del fenomenologo, certamente subì l’influsso della sua impostazione realista 33. Ma il primo vero e proprio incontro con questo nuovo metodo fu favorito dalla preparazione del suo testo di abilitazione all’insegnamento per la facoltà di Teologia di Jagellonica. E’ proprio in questo periodo che Wojtyla ha un approccio immediato alla fenomenologia attraverso lo studio del sistema etico di Max Scheler. Nella sua dissertazione per la docenza, discussa nel 1953 col titolo “Valutazioni sulla possibilità di costruire l’etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler” 34, l’autore si confronta, in particolare, con l’opera “Der formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik” e col tentativo del fenomenologo di elaborare un’etica lontana 32 Roman Ingarden, (1983 – 1970). Filosofo polacco, si trasferì nel 1912 a Gottinga per studiare presso Edmund Husserl, aderendo alla nascente scuola fenomenologica. Ritornato in Polonia, in seguito al conseguimento del dottorato, la sua carriera di studi e insegnamento fu interrotta dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel 1945 gli fu conferita una cattedra presso l’università di Jagellonica a Cracovia; venne sospeso dall’insegnamento poco dopo, nel 1949, con l’accusa del regime comunista di “nemico del materialismo”. 33 Roman Ingarden rimase fedele allo spirito fenomenologico di Husserl contenuto nella prima edizione delle Ricerche logiche. Lui, come molti altri allievi della scuola fenomenologica husserliana, fra cui Reinach, Von Hildebrand, aveva scorto nella cosiddetta “svolta trascendentale” del maestro, a partire dall’introduzione della riduzione trascendentale in Idee I, un tradimento al progetto originario della fenomenologia come “ritorno alle cose” e una ricaduta nell’idealismo.34 Wojtyla K., Valutazione sulla possibilità di costruire l’etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler, in Karol Wojtyla. Metafisica della persona, cit.

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dall’apriorismo kantiano, fondata sui “valori materiali” 35 e sulla reintegrazione della sfera emozionale nella vita morale dell’uomo. In linea con la fenomenologia, anche Wojtyla recupera l’esperienza come fonte originaria della conoscenza, nella quale il soggetto è in grado di stabilire un contatto conoscitivo diretto con l’oggetto. A scanso di equivoci, si deve sottolineare come questo modo di intendere l’esperienza sia strettamente fenomenologico, da non confondere, pertanto, con la concezione fenomenica dell’esperienza propria dell’approccio empirista. L’esperienza, secondo Wojtyla, non è, infatti, riducibile esclusivamente al contenuto relativo alla sfera dei sensi, ma costituisce un atto conoscitivo vero e proprio, in cui l’oggetto è dato alla comprensione del soggetto in modo originario. Secondo l’autore, nell’esperienza fenomenologica, l’intelletto, attraverso un processo detto di “induzione”, coglie l’unità intrinseca di significato del fenomeno cui si rivolge intenzionalmente e offre alla comprensione la visione unitaria del fenomeno stesso. Senza subire alcun impoverimento, la complessità propria dell’esperienza viene unificata dall’opera della ragione e il fenomeno dato viene, in tal modo, compreso. Karol Wojtyla definisce questo processo “consolidamento dell’oggetto dell’esperienza”, spesso erroneamente confuso col metodo di astrazione. In realtà, pur individuando l’unità qualitativa della molteplicità quantitativa dei fatti che compongono l’esperienza, l’attività dell’intelletto non elimina la ricchezza dei dati dell’esperienza, ma la conserva offrendone una comprensione essenziale. Da questo punto di vista, il processo di consolidamento dell’oggetto non costituisce il frutto di un apriorismo conoscitivo, ma il risultato dell’elaborazione intellettuale all’interno dell’atto conoscitivo umano diretto sperimentalmente verso la realtà oggettiva36.

35 Nel testo Der Formalismus in der ethik und die materiale Wertethik, Max Scheler elabora il tentativo di costruire il sistema etico a partire dall’esperienza, in particolare, da quella di tipo emozionale. L’impostazione scheleriana si contrappone dichiaratamente alla natura formale dell’etica kantiana, in cui il carattere oggettivo della morale non è dato dal contenuto dell’esperienza, ma dall’imperativo morale, dato a priori, dalla ragione pratica. Nel sistema kantiano le norme morali sono formulate a partire da un processo di generalizzazione sulle massime dell’agire, le quali, a loro volta, sono derivate, non dal contenuto delle norme, ma dalla loro forma. Da parte sua, Scheler difende e recupera il carattere empirico della morale. Attraverso il carattere intenzionale delle emozioni, l’uomo entra in contatto diretto col loro oggetto, il valore materiale, o semplicemente valore, rispetto al quale il suo agire assume la propria connotazione morale. La natura spontanea delle emozioni, tuttavia, nega il carattere normativo dell’etica e abolisce il senso del dovere morale.36 Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, p. 853.

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I contenuti dell’induzione operata nell’ “esperienza dell’uomo”, mantengono dunque, nella loro semplicità, una ricchezza e una profondità che richiede di essere penetrata. Per questo ‹‹l’induzione apre la strada alla riduzione›› 37. Con questo termine Wojtyla non si riferisce ad un processo di “limitazione” ma, interpretato a partire dall’origine etimologica, reducere, una riconduzione del fenomeno, sulla base dell’unità di significato raccolta nell’esperienza, ai suoi fondamenti essenziali, alle sue “ragioni” 38. Dal punto di vista dell’esperienza, la riduzione si configura come un’ “esplorazione”: ‹‹non si deve intendere erroneamente il termine “riduzione”; qui non si tratta affatto di una riduzione intesa come diminuzione o limitazione della ricchezza dell’oggetto sperimentale. Intendiamo invece porla in luce in modo coerente. L’esplorazione dell’esperienza dell’uomo deve essere un processo conoscitivo, in cui si attua lo sviluppo continuo ed omogeneo della visione originaria ›› 39. L’orientamento della riduzione si rivolge, pertanto, verso l’interno dell’esperienza, alla ricerca delle ragioni che fondano la realtà esperita e che, al contempo, trovano piena corrispondenza nell’esperienza vissuta. Da questo specifico punto di vista, l’intervento comprensivo della riduzione è immanente all’esperienza e, nello stesso tempo, per sua stessa natura, trascendente: ‹‹una cosa è infatti “sperimentare”, un’altra “comprendere” oppure “spiegare”›› 40. Ora, fra tutte le esperienze umane, si è visto come l’autore individui nell’ “esperienza dell’uomo” non solo la più complessa che l’uomo possieda, ma anche quella che consente l’accesso ad una visione integrale dell’uomo stesso. La struttura di questa esperienza, come indicato poco sopra, è composta da una molteplicità di fatti, fra i quali quelli relativi al fenomeno fondamentale “l’uomo agisce”, di particolare importanza per la scoperta della persona. E’ stato, 37K. Wojtyla, Persona e Atto, p. 847.38L’intuizione dell’esperienza che l’uomo ha di sé e del mondo è la fonte prima della conoscenza dell’uomo, anteriore rispetto a qualsiasi teoria, in cui i fenomeni esperiti vengono raccolti e consolidati nella coscienza nella loro evidenza. Questo processo, anche detto da Wojtyla “induzione”, non soddisfa fino in fondo la comprensione intellettuale dei dati i quali, in un certo senso, restano “dati da chiarire”, o explanananda. La ragione chiede, infatti, di penetrare nei dati, con una duplice finalità, fornirne le ragioni ultime, i come, le cause, i perché, etc. e riordinarli, stabilendo quei nessi necessari per mezzo dei quali non si presentino più come un accumulo casuale di informazioni. Questo lavoro della ragione, detto “riduzione”, fornisce la spiegazione dei dati secondo le regole della logica e consente di costruire con gli stessi le teorie necessarie allo sviluppo del sapere umano. Cfr. T. Styczen Introduzione in K. Wojtyla, Persona e Atto, pp. 785-792.39K. Wojtyla, Persona e atto, p. 848.40K. Wojtyla, Persona e atto, p. 850.

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tuttavia, già indicato come, al di là della complessità quantitativa degli stessi fatti, sussista un’unità qualitativa derivante dalla posizione stessa dell’ “io”, come fonte originaria delle varie esperienze. Cogliere questa sostanziale semplicità dell’ “esperienza dell’uomo” è compito precipuo dell’opera di induzione, mediante la quale la complessità fenomenica è ricondotta alla sua unità di significato. L’importanza di questo passaggio intellettuale sta nella capacità propria dell’intelletto di lasciarsi guidare dall’esperienza, cogliendone l’unità fondamentale, senza rigettarne la ricchezza strettamente “personale” che caratterizza la varietà dei fatti che la compongono, nella loro assoluta unicità ed eterogeneità. Nel caso specifico in cui l’ “esperienza dell’uomo” si configuri secondo la forma propria della visione della persona nell’atto, rivolgendosi alla constatazione del dato fenomenico “l’uomo agisce”, l’attività intellettuale del soggetto è in grado di ricondurre la varietà degli elementi che le appartengono all’unità qualitativa della relazione “persona-atto”, come realtà contenuta in ogni fatto l’”uomo agisce”. L’attività dell’intelletto avviata nel processo di induzione all’interno dell’esperienza “l’uomo agisce”, consente non solo di ottenere una visione oggettiva dei suoi contenuti fondamentali e permanenti, ma di trans-oggettivare, o inter-soggettivare, l’esperienza stessa, al di là del carattere soggettivo con cui l’esperienza l’ “uomo agisce” si configura nell’esperienza vissuta dei singoli individui. Sebbene, infatti, l’esperienza che si ha di se stessi, in cui l’uomo è dato a sé come “io”, e l’esperienza che si ha degli altri, in cui ciò che viene sperimento è dato semplicemente come “uomo”, siano incommensurabili, la fondamentale unità fra gli oggetti sperimentati fa sì che, fra le due esperienze, sussista un’ identità qualitativa e che, pertanto, “l’esperienza di sé”, all’interno del proprio agire, non cessi di essere, in generale, anche “esperienza dell’uomo”. La complessità dell’ “esperienza dell’uomo” è accentuata dal fatto che, sebbene nell’ “esperienza di sé”, l’ “io” appaia al soggetto come interiorità, mentre gli altri si danno come esteriorità, nella totalità della conoscenza, interiorità ed esteriorità si completano vicendevolmente. L’uomo al di fuori del soggetto, infatti, da un punto di vista globale, non è solo esteriorità, ma possiede un’interiorità di cui l’ “io” stesso ha conoscenza, non solo a livello generale, ma, in virtù della possibilità di comunicare la propria esperienza interiore, anche particolare, rispetto a quegli individui specifici con i quali è in grado di realizzare una forma di relazione interpersonale. Quando l’autore parla dunque di “esperienza dell’uomo” ha sempre in mente un’ “esperienza totale”, composta in qualche modo dall’esperienza che ciascuno ha di sé e degli altri, nel duplice aspetto dell’interiorità e dell’esteriorità, ma

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che, nonostante questa complessità, mantiene al suo interno una sostanziale semplicità. Secondo Wojtyla questa è l’unica esperienza in grado di offrire una visione integrale dell’essere umano e di fondare un’ antropologia adeguata e veramente comprensiva, a partire dalla correlazione individuata tra persona e atto.Adottando l’impostazione propria dell’analisi fenomenologica, l’autore è costretto ad effettuare un’iniziale ribaltamento della posizione tradizionale della metafisica. L’indirizzo sperimentale rivolto alla persona nell’atto, infatti, non consente di presupporla come già data, né tanto meno di dare avvio all’indagine a partire dalla sua struttura ontologica. Occorre, piuttosto, rivolgersi ad essa a partire dall’esperienza umana, in particolare da quella in cui la persona si rivela pienamente come tale. Si è inoltre mostrato, come Wojtyla, individui questo momento rivelativo della persona nella struttura del fatto che “l’uomo agisce” e nella relativa comprensione che l’uomo deriva da questa esperienza.Per meglio comprendere il senso della priorità dell’atto nell’indagine fenomenologica wojtyliana e il motivo della sua specifica qualificazione in relazione alla disvelamento della persona, bisogna osservare come l’autore recuperi e reinterpreti, in senso personalistico, la dottrina scolastica di “potentia-actus”. Il termine “atto” indica solitamente l’agire cosciente dell’uomo e in tal senso corrisponde alla nozione di “actus humanus”. Questo concetto, di matrice aristotelico-tomista, indica, tuttavia, non solo l’azione o l’agire in sé propri dell’uomo, ma mostra un certo rapporto con la concezione dell’essere. Le categorie di potenza e atto nell’interpretazione metafisica spiegano, infatti, in generale, il carattere dinamico dell’essere e, in riferimento all’uomo, il dinamismo proprio del suo divenire. La nozione di actus humanus esprime, pertanto, non solo l’azione fondata sul libero arbitrio, esclusiva dell’uomo, ma un processo di attualizzazione della potenzialità del soggetto, fonte cosciente dell’azione. Il passaggio compiuto dall’autore rispetto alla tradizione filosofica dell’atto è duplice. In prima istanza sottrae la visione dell’uomo come origine dell’agire presupposta nell’idea stessa di atto, ponendola come obiettivo che si vuole svelare attraverso l’atto stesso, quindi propone una rilettura radicale del concetto di potenza, il quale è fatto coincidere col nucleo ontico dell’essere personale. Questo passaggio determina una conseguente rielaborazione della nozione tradizionale dell’ actus humanus, il quale si configura in riferimento, non più all’essere umano, ma alla persona nella sua complessità, come actus personae. L’idea di atto, così concepita, indica in definitiva, l’esplicazione dell’essenza della persona e il luogo, come dice l’autore, in cui essa si rivela nella propria identità sostanziale.

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Nell’atto il soggetto fa esperienza di sé in quanto persona, svelando la propria essenza nell’attualizzazione delle sue potenzialità sostanziali. In questa esperienza egli si esperisce, al contempo, come causa agente e cosciente della propria azione. Il nesso fondamentale che ancora, tuttavia, l’atto della persona alla propria essenza, fa sì che essa si riveli come “causa di sé”, nel senso della propria realizzazione. Ogni atto umano, in questo modo, proprio in virtù del suo agente, che è la persona, e della connessione sussistente con l’essenza del suo soggetto, ha in sé un intrinseco valore morale. Lo statuto ontologico dell’essere-personale impone, infatti, un dover-essere: la persona realizza liberamente se stessa e forma la propria personalità attraverso i propri atti; l’adeguatezza di questi atti alla verità della persona ne determina il valore morale. Simultaneamente, la partecipazione della persona al valore morale degli atti che compie, fa sì che essa si costituisca, attraverso il proprio agire, come moralmente buona o cattiva. Pertanto, tanto gli atti, quanto i valori morali sono rivelativi della persona, e forse questi ultimi anche in senso più profondo: ‹‹gli atti del momento peculiare della persona e quindi della conoscenza sperimentale della persona. Essi costituiscono per così dire il punto di partenza più giusto per comprendere la natura dinamica della persona. La morale, come proprietà intrinseca di tali atti, conduce allo stesso risultato in modo ancora più diretto›› 41. Etica e antropologia presentano dunque, nel pensiero dell’autore, un legame più profondo di quello imposto dal pensiero filosofico tradizionale, fondato sull’unità dell’ “esperienza dell’uomo” con l’esperienza dei valori morali. Escludere questa connessione significherebbe escludere la possibilità stessa di una visione integrale dell’uomo. Esplorando l’esperienza umana “l’uomo agisce”, la persona si rivela attraverso l’atto di cui è soggetto operante. Il contenuto essenziale di questa esperienza è la trascendenza della persona. Nell’atto, infatti, non solo è svelata la persona, ma, al contempo, ne viene esplicata la struttura essenziale nella sua unione dinamica con l’atto. Solo a partire dalla trascendenza della persona nell’atto, la persona si rivela come tale e il suo atto si costituisce pienamente come “actus personae”. L’orizzontalità del movimento intenzionale del processo conoscitivo con cui il soggetto si dirige verso il proprio oggetto, subisce, a partire dall’analisi fenomenologica dell’atto, una brusca deviazione, indirizzata alla profondità del nucleo ontico della persona e lascia il campo alla metafisica, o meglio alla metafisica della persona.

41 K. Wojtyla , Persona e Atto, p. 843.

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Come sintetizza G. Reale nel saggio introduttivo alla raccolta delle opere filosofiche dell’autore, il programma della fenomenologia wojtyliana è perfettamente esplicitato nell’espressione: zuruch zum Menschen als Person. E in questo movimento di ritorno, è inseparabile dalla metafisica: ‹‹La fenomenologia descrive un’esperienza dell’uomo che, per essere intesa e spiegata adeguatamente, ha bisogno di una penetrazione cha va al di là della semplice descrizione››.

§ 2. Coscienza e autoconoscenzaComprendere il significato che Karol Wojtyla assegna al concetto di persona consente di cogliere non solo la preoccupazione con cui la sua filosofia si rivolge alla problematica personalistica, ma anche su quali basi si poggi effettivamente la sua dottrina dell’amore umano. Per penetrare la struttura della persona, come accennato nel paragrafo precedente, occorre lasciarsi guidare dall’atto nella sua unione dinamica con la persona. La nozione di atto, nel pensiero occidentale, è stata fortemente influenzata dalla posizione, realistica e oggettiva, della tradizione scolastica medievale. Nella visione antropologica ed etica di S. Tommaso, l’idea di actus humanus indica l’agire cosciente proprio dell’uomo. La relazione che connette l’atto all’individuo è espressa dall’attributo volontarius, che accompagna la definizione stessa dell’agire umano: la volontà rappresenta l’essenza dell’atto, ciò che propriamente distingue l’atto umano da quelli che non hanno l’uomo per soggetto, e ciò per cui l’atto corrisponde alla concretizzazione del dinamismo della persona a partire dal libero arbitrio che le è proprio. Nel paragrafo precedente si è visto come questa visione si richiami, tuttavia, alla filosofia dell’essere e alla concezione della potenza e dell’atto, in cui il suo dinamismo si esprime. L’intento di Wojtyla non è quello di smentire la validità dell’interpretazione tomista, alla quale riconosce, piuttosto, un carattere “definitivo” circa la capacità di descrivere, nella sua complessità, la dimensione essenziale del dato. L’approccio empirico dell’autore si rivolge, tuttavia, a ciò che la nozione stessa di actus humanus presuppone, vale a dire la facoltà di rivelare la persona, mediante ‹‹l’attualizzazione conoscitiva delle potenzialità che esso presuppone e che è alla sua radice››42. Nel suo riferimento alle potenzialità dell’essere personale, l’actus humanus è, innanzitutto, actus personae: fonte della conoscenza della persona, attraverso

42 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 862.

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l’esplicazione dei sui contenuti. Wojtyla non rigetta, pertanto, l’intuizione raccolta nella concezione classica di actus humanus, come atto cosciente dell’uomo, tuttavia si rivolge fenomenologicamente all’esperienza che l’uomo ha del proprio agire, per evidenziare il dinamismo della persona che emerge al suo interno e sul quale si radica, a sua volta, il senso strettamente umano e personale dell’atto stesso.L’atto della persona implica, dunque, un’agire cosciente. Il riferimento dell’azione alla coscienza consente di individuare due momenti fondamentali all’interno dell’atto, nella relazione con il suo soggetto. In primo luogo, la persona agisce coscientemente, secondo la struttura costitutiva stessa dell’atto umano. In secondo luogo, la persona è consapevole della sua azione e del fatto che lei stessa ne è l’autrice. La coscienza dell’azione non coincide con l’azione cosciente, ossia l’atto umano propriamente detto. Indica, piuttosto, la posizione della persona rispetto al suo agire. Sulla base di questa distinzione, l’autore focalizza il proprio interesse non tanto sull’azione cosciente, in cui il senso della coscienza è assorbito dal “volontarium” che caratterizza l’atto 43, quanto sul significato della consapevolezza che la persona ha del proprio agire e del fatto che agisce . La coscienza, così intesa, si riferisce ad una proprietà reale e soggettiva della persona, staccata dall’azione cosciente in quanto tale, che riveste un ‹‹aspetto essenziale e costitutivo di tutta la struttura dinamica della persona e dell’atto›› 44. La coscienza che la persona ha del proprio agire accompagna ogni atto umano, non come origine dell’agire cosciente, ma come riflesso di ciò che accade nell’uomo, del fatto che è l’uomo ad agire, di come agisce e di tutto ciò con cui l’uomo entra in contatto mediante la sua azione. Attraverso la coscienza, pertanto, l’uomo, nei propri atti, è reso accessibile a se stesso, così come le realtà che lo circondano. Essa ha dunque una funzione conoscitiva, ma non nel senso di una comprensione attiva, secondo l’intenzionalità propria degli atti conoscitivi dell’intelletto, quanto di “rispecchiamento”, all’interno del soggetto, di ciò che in qualche modo è già stato conosciuto dall’attività intellettuale della

43 La concezione della coscienza derivata dalla struttura dell’actus humanus indica una realtà propria dell’atto, attraverso la quale l’uomo vive e agisce coscientemente, senza che la coscienza sia all’origine del proprio esistere e del proprio agire. Il soggetto è, in un certo senso, talmente immerso nella propria esistenza e nella propria azione che, per divenirne consapevole, deve rivolgersi verso se stesso a partire da una certa esteriorità. La coscienza dell’atto è dunque posteriore all’atto cosciente, in quanto mediata da un atto previo del soggetto che si rivolge al proprio agire come ad un oggetto, per comprenderlo. 44 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 868.

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comprensione, e che in tal modo viene irradiato nella profondità del soggetto stesso 45. Non si può quindi parlare della coscienza come di un soggetto sostanziale che guida gli atti della persona, né tanto meno è possibile attribuirle la capacità di oggettivare conoscitivamente gli atti o la persona che li compie. La sua funzione, piuttosto, è quella di affiancare l’attività della conoscenza umana, mediante la quale la persona entra conoscitivamente nel mondo degli enti, rispecchiando e interiorizzando ciò con cui l’uomo viene in contatto, anche se stesso, senza oggettivarlo. Attraverso l’attività coscienziale, l’ “io” vive interiormente i contenuti della sua conoscenza, i quali si configurano al suo interno, al di là della loro oggettività, secondo il carattere strettamente personale. La coscienza dunque rispecchia gli atti umani secondo la sua modalità essenziale, o “coscienziale”. In questa sua attività specifica, gli atti di coscienza rimangono collegati a ciò che si trova al di fuori di essi, in particolare agli atti compiuti dal proprio “io” personale. La connessione che sussiste tra la

45 Wojtyla sottrae alla coscienza la funzione conoscitiva, negando agli atti di coscienza il carattere di intenzionalità. Il concetto fenomenologico di intenzionalità è attribuito dall’autore esclusivamente agli atti conoscitivi propriamente detti, attraverso i quali l’uomo si rivolge verso la realtà oggettiva nel tentativo di comprenderla: ‹‹Essi – gli atti della coscienza – non hanno carattere intenzionale, sebbene ciò che è oggetto della nostra conoscenza, sia anche oggetto di coscienza. Mentre tuttavia la comprensione e il sapere contribuiscono a configurare l’oggetto in modo intenzionale, e in questo consiste il dinamismo essenziale della conoscenza, la coscienza si limita invece a rispecchiare ciò che è già stato in tal modo conosciuto›› (K. Wojtyla, Persona e atto, p. 871). La rilevanza di questa affermazione sta nell’indicare un punto di rottura decisivo tra la posizione wojtiliana e la fenomenologia di Brentano e di Husserl, i quali attribuiscono alla coscienza una specifica connotazione intenzionale: ‹‹ Per intenzionalità abbiamo inteso quella proprietà delle esperienze vissute che “sono coscienza di qualcosa”›› (E. Husserl, Idee). Il distacco tra la posizione di Wojtyla e la fenomenologia non va, tuttavia, rintracciato nella struttura della coscienza, Wojtyla non nega, infatti, che la coscienza abbia un contenuto attuale, che sia sempre “coscienza di qualcosa”, si chiede, piuttosto, perché e come lo sia. Occorre, inoltre, sottolineare come, nel linguaggio wojtyliano, il termine atto sia riferibile esclusivamente all’attualizzazione delle potenzialità della persona e come, pertanto, sia possibile riferirsi agli “atti di coscienza”, terminologia caratteristica della fenomenologia classica, e all’intenzionalità propria di tali atti solo in senso metaforico. Alla luce della nozione di atto, il termine intenzionalità trova, invece, perfetta corrispondenza in riferimento agli atti della conoscenza, nei quali la persona attualizza realmente le proprie potenzialità. (Cfr. nota in K. Wojtyla, Persona e atto, p. 871)

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coscienza e gli atti conoscitivi, mediante la quale essa forma i propri contenuti, evidenzia il condizionamento impresso nella coscienza dalla totalità del potenziale conoscitivo della persona. In tal senso, i significati della realtà e dei suoi nessi giungono alla coscienza in modo mediato dall’esterno, o meglio dalla previa comprensione che l’intelletto assume in seguito all’oggettivazione dell’attività conoscitiva. Ciò significa che il sapere del soggetto plasma i contenuti della coscienza, determinando la qualità dello stato coscienziale dell’ “io”. Questo condizionamento favorisce l’individuazione di una particolare forma di sapere, la quale, avendo per oggetto lo stesso “io” con il quale la coscienza è in intima connessione, agisce in modo più incisivo e coerente con essa. Si fa qui riferimento all’autoconoscenza, quale movimento conoscitivo rivolto intenzionalmente dal soggetto verso il proprio “io”. All’interno dell’orientamento intenzionale dell’autoconoscenza, l’”io” si costituisce come un oggetto, tuttavia resta soggettivamente connesso con la coscienza a tal punto che, se gli atti dell’autoconoscenza non fossero riflessi e interiorizzati dalla sua attività “rispecchiante”, essa rimarrebbe vuota, priva di significati personali relativi al proprio “io”. Il legame tra la conoscenza di sé e la coscienza determina un equilibrio fondamentale per la vita interiore dell’uomo, attraverso il quale esso è per sé oggetto, in quanto soggetto. Ciò significa che, anche nel rispecchiamento coscienziale dell’ “io”, il soggetto non perde il suo significato oggettivo. Il movimento intenzionale dell’autoconoscenza è, alla luce di queste riflessioni, anteriore alla coscienza. A partire da questa posizione, la modalità con la quale essa si rivolge all’oggettivazione dell’ “io”, nella totalità delle sue componenti e dei suoi nessi, include al suo interno la coscienza stessa, della quale, solo in questo caso, è possibile parlare in senso oggettivo46. L’autoconoscenza, ponendo come oggetto la coscienza dell’ “io”, la coscienza dei suoi atti e del suo esistere, fa sì che l’uomo sappia di essere cosciente e di agire coscientemente: ogni attualizzazione della coscienza presuppone pertanto un’attualizzazione dell’autoconoscenza. Avere coscienza di un atto implica un processo di oggettivazione dell’atto stesso mediante un atto previo dell’autoconoscenza. Nel movimento riflessivo dell’autoconoscenza verso il proprio “io”, il soggetto si costituisce come oggetto, ma al contempo vive interiormente il proprio “io” e se stesso in quanto soggetto. Ciò consente di comprendere meglio tanto l’oggettività del soggetto, quanto la soggettività dell’oggetto complesso che è l’ 46 L’oggettivazione della coscienza da parte dell’autoconoscenza fissa un limite decisivo al processo di soggettivizzazione.

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“io” stesso. Questa caratterizzazione del soggetto conferisce, inoltre, all’ “io” una concretezza specifica che non viene corrisposta dalla definizione dell’ontologia tradizionale del “soggetto”. Il concetto classico di suppositum 47 astrae dalla dimensione soggettiva e non coglie il soggetto come quell’ “io” reale che vive interiormente la propria soggettività. Per questo Wojtyla ritiene, piuttosto, che la concretezza dell’ “io” trovi una migliore espressione nel termine “qualcuno” 48, pronome in grado di riferirsi ad una persona concreta e di abbracciare tanto la sua soggettività ontica, quanto la sua soggettività vissuta. La soggettività della persona è dunque colta grazie alla coscienza, mediante la quale il soggetto vive se stesso come tale. Questa comprensione della propria soggettività è data non solo in modo metafisico, ma, in prima istanza, come fatto preminentemente sperimentale all’interno della relazione tra persona e atto. Al contempo, la coscienza integrata alla conoscenza di sé, fa sì che venga mantenuta una posizione oggettiva all’interno della struttura soggettiva della persona. In questo modo, la soggettività è inserita all’interno di una visione integrale dell’essere umano, senza incappare nei limiti del soggettivismo, in cui la coscienza assolutizzata è posta come soggetto autonomo dell’azione, separato dall’esperienza 49: ‹‹la coscienza – infatti – non esiste come soggetto, per così

47 Il termine suppositum è introdotto dalla filosofia aristotelico-tomistica in riferimento alla soggettività dell’uomo. Partendo dalla sua etimologia, sub-ponere, esso indica un substrato, qualcosa posto “sotto” , che, nel caso specifico della persona, è l’uomo stesso, come fondamento di ogni agire e di ogni accadimento. Karol Wojtyla recupera la visione dell’uomo come suppositum, soggetto dell’essere e dell’agire, ma esprime, al contempo, la necessità di integrare questa concezione in modo tale che possa emerge la struttura dinamica della persona.48 Wojtyla nella sua definizione di persona recupera la filosofia classica di Boezio: ‹‹persona est rationalis naturae individua substantia ››. Ritiene, tuttavia, che l’unicità e l’irripetibilità di ogni singolo essere umano non sia riducibile alla natura individualizzata, ma che, piuttosto, occorra attingere ad una terminologia più adeguata, in grado di cogliere la pienezza intrinseca al concetto di persona. Per questo lo accompagna col termine “qualcuno”: ‹‹Questo pronome è un’eccellente epitome semantica, poiché suscita immediatamente un’associazione d’idee e, in essa il confronto e la contrapposizione a “qualcosa”. La persona è un suppositum, ma molto diverso da tutti quelli che circondano l’uomo nel mondo visibile. Questa diversità e questa proporzione, o piuttosto sproporzione, che i pronomi “qualcuno” e “qualcosa” indicano, giunge fino alla radice stessa dell’essere che è soggetto.›› (K. Wojtyla, Persona e atto, p. 927).49 La funzione che Wojtyla attribuisca alla coscienza si contrappone alla concezione egotica della coscienza come “puro io”, cioè soggetto separato dall’esperienza. L’ “io”

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dire sostanziale, dei propri atti; non esiste come fondamento ontico distinto dalle esperienze vissute, né come facoltà›› 50.Nell’esperienza vissuta “io agisco”, il soggetto, sulla base dell’oggettività del proprio “io”, può inserirsi, escludendo gli elementi soggettivi della propria azione, nell’esperienza generale dell’azione umana. Il fatto sperimentale “l’uomo agisce” si radica sull’insieme del dinamismo integrale dell’essere umano, appartenente al contenuto sperimentale dell’ “esperienza dell’uomo”, di cui l’uomo non ha mai una consapevolezza attuale definitiva nelle proprie esperienze. L’oggettivazione di tale fatto consente e richiede che tale dinamismo venga colto in modo oggettivo, in quanto fondamento dell’esperienza stessa. Nell’esperienza vissuta dell’azione, l’uomo che vive interiormente se stesso, è in grado di distinguere nella propria coscienza la sua azione da ciò che in lui semplicemente “accade”, come riflesso delle due strutture oggettive che compongono gli indirizzi basilari del proprio dinamismo. E’ questo il fondamento sperimentale della tradizionale distinzione tra le categorie “agere” e “pati”. L’azione e ciò che accade, comprese rispettivamente nell’esperienza vissuta “io agisco” e “qualcosa accade in me”, si presentano all’interno del dinamismo della persona come due strutture sostanzialmente diverse e contrapposte, e tuttavia, come nella metafisica, così anche nell’uomo, legate da un rapporto di reciproco condizionamento. Entrambi costituiscono delle attivazione all’interno del divenire del soggetto, senza compromettere la sostanziale unità del suo dinamismo. Tuttavia, solo nell’esperienza dell’azione l’uomo sperimenta il momento proprio della sua operatività, vale a dire l’esperienza vissuta “sono l’agente”, dalla cui comprensione vive se stesso come autore e responsabile del proprio agire. Nella passività dinamica, quando “qualcosa accade in me” senza la mia partecipazione, l’ “io” non vive interiormente la propria operatività e pertanto non ne è consapevole.Attraverso la consapevolezza dell’operatività, radicata nell’esperienza “l’uomo agisce”, l’”io” pone sperimentalmente se stesso all’origine del proprio agire, come causa dei propri atti. Il senso dell’operatività svela, in tal modo, la trascendenza della persona rispetto al suo agire e, al contempo, la sua immanenza: quando agisco sono già tutto nel mio agire. In questo senso, si può

cui si rivolge non è un “io” astratto, ma il proprio e concreto “io”, con l’insieme dei particolari ad esso connesso. La sua attività oggettivizzante si struttura come un passaggio dall’esperienza di sé alla comprensione di sé, e mai come un intervento di generalizzazione sull’uomo in quanto tale: ‹‹L’autoconoscenza si ferma al proprio “io” e rimane nell’intenzione conoscitiva individuale, poiché trova continuamente nel proprio “io” nuove risorse di contenuto›› ( K. Wojtyla, Persona e atto, p. 882 ).50 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 873.

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ulteriormente specificare il senso del “actus humanus” nel confronto con l’ “actus hominis” in generale. E’ possibile, infatti, considerare atto non una qualsiasi dinamizzazione del soggetto, ma solo quella in cui l’ “io” è attivo e vive interiormente se stesso come agente. Occorre, invece, riferirsi alle altre forme di attualizzazione esclusivamente come attivazioni del soggetto.Il soggetto si pone in relazione alle due strutture dinamiche come un fondamento unico e identico, un sup – positum reale, comune ad entrambe, come un qualcosa, o meglio un “qualcuno” posto al di sotto, non staticamente, ma come fonte dinamica del dinamismo stesso. In questo senso, la persona si presenta come sintesi delle sue esperienze vissute e delle sue strutture dinamiche, dei suoi atti e delle sue attivazioni. Dal punto di vista oggettivo, quindi, l’esperienza dell’unità e dell’identità del proprio “io” è antecedente e più essenziale della distinzione tra operatività e soggettività e impone che all’interno della persona si realizzi, al di là delle differenze, l’integrazione di queste strutture fondamentali. La caratterizzazione del suppositum wojtyliano consente di comprendere il soggetto non solo come soggetto metafisico dell’esistenza e del dinamismo dell’essere umano, ma come sintesi fenomenologica dei due momenti dell’operatività e della soggettività, sulla base della quale questa integrazione si rende possibile51. L’unità del suppositum, come sostrato unico del dinamismo della persona, in cui la contrapposizione tra agire ed accadere è assorbita, emerge dall’esperienza che l’uomo fa del proprio “io”. Il soggetto, nella propria azione, vive interiormente se stesso come agente. Al contempo, quando qualcosa accade in lui, pur cessando di vivere la propria operatività, egli sperimenta la propria identità e unità interiore e l’esclusiva dipendenza da sé di quanto accade in lui. In un certo senso, sebbene nelle sue attivazioni la causa dell’accadimento sia posta al di fuori dell’ “io”, nell’ordine della natura, l’accadimento stesso non cessa per questo di appartenergli, anzi conferma l’esistenza dell’ “io” come soggetto dinamico: ‹‹Mettere in dubbio questa appartenenza e questa dipendenza causale, significherebbe venire chiaramente in collisione con l’esperienza del proprio “io”, della sua unità e dell’identità dinamica non solo con tutto ciò che l’uomo compie agendo, ma anche con tutto ciò che in lui accade›› 52. La specifica unità del suppositum, condizione dell’integrazione delle strutture del dinamismo della persona, è il ricavato di un’ulteriore e anteriore integrazione, definita da Wojtyla, “integrazione della natura nella persona” 53. 51 Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, p. 930.52K. Wojtyla, Persona e atto, p. 935. 53 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 934.

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Il termine “natura” è ricondotto dall’autore ad una molteplicità di significati, relativi non solo alla definizione del soggetto dell’azione in astratto (dove natura coincide con l’essenza dell’uomo in generale), ma anche alla definizione dell’agire del soggetto. In questo secondo senso il termine “natura”, riportato al significato letterale del participio latino, naturus, ciò che sta per nascere, indica una vicinanza ideale con qualcosa di dinamico in sé, la nascita, e, al contempo, con l’origine del dinamismo, ossia del soggetto che viene all’esistenza. Da questo punto di vista l’idea di natura si ricollega al dinamismo della persona immanente nel dato soggetto dell’azione, “innato”e “predeterminato” dalle sue proprietà e non al dinamismo della persona nella sua totalità. “Natura” indica ‹‹quella attività che è contenuta interamente nella prontezza dinamica dello stesso soggetto›› 54 e si riferisce, perciò, esclusivamente alle attivazioni del soggetto, in contrapposizione con l’operatività nella quale l’”io”, vivendo se stesso come causa consapevole del proprio agire, è rivelato nel suo essere personale sul fondamento della sua trascendenza. La contrapposizione tra natura e persona è data come un fatto sperimentale contenuto nella differenziazione “l’uomo agisce” – “qualcosa accade nell’uomo”, relativa non solo alla ripartizione delle esperienze vissute, ma anche alle strutture del soggetto. Tuttavia, l’esperienza integrale dell’identità del soggetto “uomo” e della sua unità esige che questo fatto venga integrato, ossia che venga operata una sintesi tra l’agire e ciò che accade, tra atti e attivazioni, tra operatività e soggettività sulla base del medesimo suppositum. Questo percorso di integrazione, richiesto dalla struttura stessa del soggetto, trova la sua corrispondenza tanto nella riduzione metafisica che in quella fenomenologica. Mentre la prima procede a partire dalla nozione di natura-essenza, come fondamento dell’intero dinamismo dell’essere umano55 in direzione dell’individuazione della priorità dell’esistere sull’azione, la seconda, perseguita dall’autore, si basa sul dato sperimentale della coesione tra soggetto del dinamismo e dinamismo stesso: «fondamento di questa coesione è la natura umana, cioè l’umanità che permea tutto il

54 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 932.55 Attraverso la riduzione metafisica, nell’ integrazione della persona nella natura, la persona stessa non è concepita come semplice umanità individuale, ma come un modo di esistenza individuale di ciò che costituisce il dinamismo proprio dell’uomo in generale. La natura umana, vale a dire l’umanità della persona, costituisce in qualche modo il fondamento del soggetto, ciò che permea e plasma il suo dinamismo. Rappresenta il punto di contatto fra il soggetto del dinamismo e il dinamismo stesso. Solo a partire dalla sua natura è possibile l’integrazione delle strutture della persona, solo, infatti, nella natura umana sono presenti quelle proprietà che consentono all’individuo concreto di essere persona.

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dinamismo dell’uomo e che plasma in modo dinamico tale dinamismo in quanto umano» 56. Mediante l’integrazione della persona nella natura, il dinamismo del soggetto corrisponde ad un’attualizzazione dell’ “io”, secondo la duplice possibilità degli atti o delle attivazioni. A partire dall’esperienza “l’uomo agisce” appare evidente come questo dinamismo, radicato nell’unità del soggetto, tragga origine all’interno del soggetto stesso, e come l’agire e l’accadere siano radicati su strutture diverse. Ciò significa che, all’interno della persona, sono presenti più centri di forza, distinti tra loro, che costituiscono la fonte dinamica dell’atto o dell’attivazione. Vale a dire delle facoltà, o potenzialità, sulla base delle quali è possibile distinguere i dinamismi attuali.All’interno della soggettività dell’ “io” sono presenti due potenzialità fondamentali corrispondenti rispettivamente allo strato somatico-vegetativo e psico-emotivo. La loro sostanziale differenza è data dalla relazione che intercorre tra queste facoltà e i relativi dinamismi con la coscienza della persona. In particolare, le attivazioni appartenenti al dinamismo proprio dello strato somatico-vegetativo, dal quale dipende la vita del corpo della persona in quanto organismo, non hanno carattere di consapevolezza rispetto al soggetto. Egli ha coscienza del proprio corpo e, a partire da ciò, è reso consapevole, per via indiretta, anche del proprio organismo e della sua vita. Tuttavia, le attivazioni del dinamismo vegetativo si realizzano in modo spontaneo e sono pertanto al di fuori della portata della coscienza. Ciò che la persona riesce a percepirne si fonda, in realtà, su un’esperienza mediata di natura psichica-emotiva. L’unità del soggetto col dinamismo somatico- vegetativo non si realizza quindi a livello coscienziale, ma è primariamente un’ unità di vita, antecedente alla coscienza stessa.La potenzialità del soggetto ha dunque una priorità strutturale rispetto alla coscienza. Ciò impone che venga prospettata un’interpretazione e una comprensione dell’individuo che non si fondi esclusivamente sulla sfera soggettiva della coscienza, ma che sia in grado di penetrare anche nella struttura interiore dei dinamismi umani che sono al di fuori della portata coscienziale. All’interno del soggetto sussiste uno spazio interiore in cui determinati contenuti, che non trovano accesso alla coscienza, vengono raccolti e bloccati davanti alla soglia della coscienza. Questo spazio è il “sub-conscio”.Il subconscio individua proprio questo luogo interiore dell’uomo, spontaneo e incontrollato, in cui sono raccolti, in uno stato dinamico, i contenuti derivanti dagli strati inferiori delle potenzialità umane. L’accesso di questi contenuti alla coscienza è regolato dalla volontà della persona che, attraverso la sua capacità

56 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 938.

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di vigilanza, ne stabilisce l’afflusso, determinando la qualità dello stato della coscienza stessa. Un’eccessiva emozionalizzazione 57 della coscienza, per esempio, causa un cedimento dell’autoconoscenza tale che l’uomo perde la propria capacità di oggettivare i propri sentimenti e cessa di viverli in modo personale. Di fatto, il passaggio dei contenuti dal subconscio alla coscienza si verifica soprattutto quando lo stato coscienziale è offuscato, in particolare nei stati di affaticamento della persona e, ancor più, durante il sonno, quando l’attività regolatrice della volontà risulta più debole.Il subconscio mostra il legame delle potenzialità dell’uomo con la coscienza indicando da un lato, la priorità delle prima sulla seconda, dall’altro, la relazione di continuità attraverso la quale i contenuti sperimentali delle potenzialità inferiori dell’uomo entrano nel flusso di coscienza, scandendo il tempo della storia interiore del soggetto. Il passaggio di contenuti dal subconscio allo stato coscienziale e la relativa oggettivazione determina, infatti, la formazione stessa del soggetto, il quale, non essendo un substrato statico, partecipa dei contenuti delle proprie dinamizzazioni e, in tal modo, si forma e si trasforma. In questo senso è possibile definire il soggetto dinamico: l’ “io” attraverso continue modificazioni diviene, mediante il suo agire, sempre più “qualcuno” e a partire da ciò che accade in lui, sempre più “qualcosa”.In sintesi, ad ogni strato di potenzialità corrisponde un dinamismo, somatico-vegetativo e psico-somatico, e ad ogni dinamismo uno specifico strato di divenire: da un lato lo sviluppo dell’organismo, come dinamismo spontaneo e staccato dall’attività del soggetto (oggetto proprio delle scienze naturali), dall’altro il divenire psico-somatico, il quale, pur mantenendo un certo grado di passività rispetto all’ “io”, può subire l’oggettivazione dell’attività cosciente e collaborare in modo positivo alla formazione della persona. 57 Per emozionalizzazione Wojtyla intende un particolare fenomeno in cui il normale funzionamento della coscienza è alterato da un’eccessiva quantità o forza di sentimenti, derivanti dall’esperienza emotiva all’interno della coscienza o dalla scarsa attività dell’autoconoscenza, la quale non è in grado di oggettivare ed identificare intellettualmente i contenuti emozionali dell’esperienza stessa, che, in tal modo, penetrano in modo disordinato al di là della soglia coscienziale, staccati dal riferimento essenziale all’ “io”. Nell’emozionalizzazione il rispecchiamento dei contenuti emotivi nella coscienza è privo dell’elemento derivato dall’oggettivazione e dalla comprensione dell’autoconoscenza, e perde il suo significato fondamentale nella formazione delle esperienze vissute nella sfera emotiva della vita interiore del soggetto. L’emozionalizzazione subentra dunque quando nel rispecchiamento della coscienza scompare il significato dei fatti emotivi e degli oggetti ad essi relativi. ‹‹E’ in pratica un cedimento dell’autoconoscenza››, la quale, cessando di oggettivare i fenomeni emotivi, interrompe il necessario rapporto oggettivo tra coscienza e sensazione.

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§ 3. La trascendenza della persona nell’attoLa complessità del dinamismo della persona, nella differenza delle sue strutture fondamentali, azione e attivazione, mostra un particolare rapporto con le potenzialità del suo soggetto, condizionandone, in entrambi le sue configurazioni, il divenire. Si è visto, infatti, come, in relazione alle proprie dinamizzazioni, il soggetto-uomo non solo vi partecipi, ma si formi e si tras-formi interiormente a partire da esse.L’uomo dunque è “causa di se stesso” nella misura in cui forma la propria identità mediante il momento dell’operatività. Il suo fieri, il suo divenire “qualcuno”, piuttosto che “qualcosa”, dipende in modo diretto dalla qualità dei suoi atti e dal loro valore morale. I valori morali inerenti all’atto della persona non sono puri contenuti della coscienza, ma appartengono concretamente al divenire del soggetto. La morale si innesta nella realtà degli atti come divenire specifico del soggetto che li compie: ‹‹questa forma del fieri umano presuppone quindi l’operatività ossia la causazione propria della persona. Frutto di tale causazione, effetto omogeneo dell’operatività, è la morale, non come astratto, ma come realtà rigorosamente esistenziale unita alla persona in quanto soggetto suo proprio›› 58. Il soggetto, pertanto, non solo è cosciente del valore morale dei propri atti, ma lo vive interiormente, come suo proprio e, in tal modo, determina il proprio divenire dal punto di vista morale. Il momento peculiare e originale di questa morale realistica è il concetto di libertà, contenuto fondamentale dell’esperienza: “posso, ma non sono costretto”. Questo dato fenomenologico svela la libertà come nucleo dell’operatività umana, sul quale il dinamismo dell’azione si configura in modo sostanzialmente differente da tutto ciò che semplicemente “accade” nel soggetto come dinamizzazione di una necessità interiore. La connessione con l’operatività del soggetto fa sì che la libertà non solo determini l’azione, ma il valore morale dell’atto stesso. Anzi, è proprio attraverso il contenuto morale che l’atto trasferisce nel soggetto, che l’agire umano è propriamente riconducibile alla libertà. L’analisi fenomenologica della libertà all’interno dell’esperienza l’”uomo agisce”, restituisce questo contenuto non solo come momento che decide dell’esperienza vissuta dell’operatività, ma anche come fattore costitutivo dell’esperienza stessa. Ora, il correlato della manifestazione dell’operatività realizzato a partire dalla libertà è rintracciabile, tra le potenzialità del soggetto, nella volontà: ‹‹Chiamiamo volontà ciò che permette all’uomo di volere›› 59. In 58 K. Wojtyla, Persona e atto, p, 959.59 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 961.

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questo senso la volontà sorge all’interno dell’esperienza della libertà a cavallo fra i due momenti che la compongono, fra il “posso” e il “non sono costretto”.Ogni atto, in senso stretto, presuppone dunque l’appello della libertà alla volontà della persona. Questo passaggio determina la struttura dell’atto come espressione dell’interiorità e delle potenzialità del soggetto agente e, in tal modo, rivela contemporaneamente la sua trascendenza dinamica nel momento dell’operatività, in cui, sul fondamento della libertà, il soggetto si pone all’origine dell’azione, svincolato da qualsiasi forma di causazione imposta dall’ordine della natura.La libertà istituisce nell’operatività una relazione reciproca tra persona e volontà: da un lato la volontà costituisce la proprietà essenziale della persona mediante la quale essa è in grado di compiere atti, ponendosi come causa agente e cosciente del proprio agire, dall’altro la persona stessa si autodetermina attraverso l’esercizio della propria volontà, indirizzando liberamente il proprio divenire in conformità con la realizzazione dei valori che pone come fine della propria azione. L’autore definisce, a partire dalla scoperta della relazione che vincola la volontà, intesa come capacità della persona di compiere atti, e il valore morale degli atti stessi, il concetto di autodeterminazione: ‹‹ogni atto conferma e ad un tempo concretizza questa relazione, in cui la volontà si rivela come proprietà della persona e la persona come realtà che, riguardo al suo dinamismo, è costituita propriamente dalla volontà›› 60.Il divenire della persona si fonda sul principio dinamico dell’autodeterminazione radicato nell’operatività e, allo stesso tempo, individua una complessità specifica nella struttura della persona, derivabile dall’analisi della proprietà essenziale dell’autopossesso. Così come già espresso dai pensatori medievali nella nozione “persona est sui iuris”, la persona è colei che possiede se stessa e, simultaneamente, colei che è posseduta solo da sé e non da altro. Questa specifica proprietà strutturale dell’essere personale si realizza e si conferma nell’atto, a partire dal suo riferimento alla volontà: l’uomo può determinare se stesso, decidere liberamente di sé e del proprio divenire mediante il proprio agire, solo nella misura in cui si possiede, ossia solo se capace di porsi all’origine del proprio atto, come causa agente e cosciente, sul fondamento delle proprie potenzialità. Nella relazione dell’autopossesso con la volontà, si instaura la capacità della persona di dominare se stessa. Da non confondersi con la nozione generale di padronanza di sé, l’autodominio costituisce anch’esso un elemento essenziale della struttura della persona, in virtù del quale essa domina se stessa ed è

60 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 965.

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dominata solo da sé sulla base dell’autopossesso, ossia è colei che sola, in quanto si possiede, è in grado di gestire coscientemente le proprie potenzialità e che, governando se stessa, si determina secondo le proprie intenzioni. Tanto l’autodominio, quanto l’autopossesso sono le condizioni prime dell’autodeterminazione e, al contempo, si realizzano in essa: ‹‹Per mezzo dell’autodeterminazione ogni uomo domina attualmente se stesso, esercitando attualmente quello specifico potere nei confronti di sé che nessun altro può esercitare né condurre ad effetto››61. Questa considerazione riconduce alla proprietà strutturale della persona espressa nella nozione di “inalienabilità”, o incommunicabilitas: la persona è inalienabile nella misura in cui nessuno può volere al posto suo, ossia porsi all’origine del suo agire e del suo divenire come causa agente e cosciente. L’affinità di questo concetto col principio di autoderminazione consente di comprendere ancor meglio la capacità per mezzo della quale la persona, sulla base della propria complessità, è in grado di decidere di sé attraverso la proprietà essenziale della volontà 62. L’autodeterminazione, ossia la volontà della persona intesa come proprietà radicata nell’autodominio e nell’autopossesso, è fondamentale per l’integrazione delle diverse manifestazione del dinamismo dell’uomo al livello della persona. In ogni autodeterminazione attuale, infatti, si realizza non solo la soggettività dell’autodominio e dell’autopossesso, in cui la persona emerge come colei che possiede e domina se stessa, ma anche il suo correlato oggettivo nel quale essa si rivela, nella correlazione col proprio atto, come colei che è posseduta e dominata da sé. Nell’atto dell’autodeterminazione la persona non appare esclusivamente come la fonte da cui scaturiscono i suoi diversi voleri attuali, ma essa è per se stessa l’oggetto primo e più vicino del proprio volere. Sebbene la persona non rivolga intenzionalmente il suo volere verso il proprio “io”, la sua oggettività è inclusa nell’autodeterminazione sul fondamento stesso della relazione intrapersonale dell’autodominio e l’autopossesso. Ciò significa che l’autodeterminazione non si configura solo come movimento che si dirige verso l’esterno a partire dall’ “io”, ma come modalità essenziale del volere che penetra nell’identità dell’“io”stesso, rispetto al quale il contenuto morale del volere acquista un significato strettamente personale. Solo a partire dal suo contenuto oggettivo,

61 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 967.62 La volontà, come proprietà strutturale della persona, è il fondamento dell’autodeterminazione. In questo senso si distingue dalla volontà intesa come facoltà dell’uomo per mezzo della quale è in grado di orientarsi verso fini precisi. Della volontà come facoltà si parlerà in seguito.

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l’autodeterminazione è colta nel suo senso più autentico, solo, infatti, specificando il proprio “io”, l’uomo diviene, nello stesso tempo, “qualcuno”63.L’analisi della libertà, come proprietà reale della persona, inerente alla sua volontà, trova la propria concretizzazione all’interno della nozione di autodeterminazione, vale a dire in quel percorso nel quale la persona, mediante i propri atti – liberi e dunque volontari – forma se stessa. Il radicamento dell’autodeterminazione sulla libertà consente di distinguere il dinamismo al livello della persona, integrato proprio dall’autodeterminazione, dal dinamismo della natura, in cui si verificano solo attivazioni. La differenza individuata si fonda sulla mancanza, in questo ultimo dinamismo, del momento dell’autodeterminazione e di quella particolare dipendenza dall’ “io” che ne è alla base. La dipendenza da sé è il fondamento della libertà, nella quale la persona può dinamizzarsi a partire dal proprio “io”, svincolata dalla necessità propria dell’ordine della natura 64. La dipendenza dall’ “io” ancora la libertà alla dimensione reale, concreta e complessa del soggetto. In questo senso, la libertà è compresa come proprietà della persona e non come una realtà astratta, come pura indipendenza. Al contempo, il suo fondamento reale è un contenuto sperimentalmente accessibile in ogni atto, per mezzo del quale si rivela la trascendenza della persona. Il significato del termine trascendenza, riferito alla capacità propria della persona di realizzare liberamente se stessa secondo l’ordinamento della propria struttura, non indica in questo caso il movimento del soggetto espresso nel concetto fenomenologico di intenzionalità 65. Wojtyla si riferisce, piuttosto, ad un tipo di trascendenza definita “verticale” e, in un certo senso, introspettiva, in 63 Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, p. 971.64Nell’ordine della natura, la dipendenza dell’ “io” non si verifica proprio perché l’ “io” al suo interno non esiste, in quanto non riflesso dall’attività coscienziale. La mancanza di dipendenza propria di questo dinamismo è dunque, in un certo senso, strutturale: al suo interno l’individuo non si radica sulla struttura della persona, ma è posseduto e dominato dalle potenzialità del soggetto, le quali determinano l’indirizzo della sue dinamizzazioni. Il fatto che la libertà si costituisca essenzialmente come la capacità dell’uomo di dipendere da sé nelle proprie dinamizzazioni, esige che si sia costituito un “io” concreto. Ciò presuppone un oggettivazione dell’ “io” stesso attraverso la quale il soggetto divenga cosciente di sé, in quanto tale. Si può pertanto dire che l’oggettivazione sia la condizione della dipendenza da sé e, in via indiretta, anche della libertà contenuta in tale dipendenza. 65 Nel linguaggio fenomenologico l’intenzionalità coincide con la trascendenza orizzontale, vale a dire quel movimento nel quale il soggetto varca il proprio limite verso l’oggetto.

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cui l’uomo scopre se stesso come causa libera del proprio agire. Il fondamento della trascendenza emerso nell’autodeterminazione poggia sul concetto di libertà, nella sua relazione con la volontà: nell’atto del volere l’uomo sperimenta la possibilità di indirizzare in modo intenzionale questo proprio volere in modo libero da necessità, secondo lo schema dell’esperienza “posso, ma non sono costretto”, espresso poco sopra. In questo senso, la trascendenza verticale è anteriore all’intenzionalità, in quanto radicata sulla libertà, sul fatto stesso che l’uomo sia libero. E’ dunque una proprietà del dinamismo della persona, in cui emerge la preminenza dell’ “io” rispetto alla proprie dinamizzazioni.Nell’esperienza della propria trascendenza all’interno dell’atto, l’uomo sperimenta la propria indipendenza dal mondo degli oggetti, tuttavia la struttura personale della volontà non consente di identificare l’autonomia della volontà con quella della persona. L’uomo, piuttosto, vive interiormente la propria indipendenza a partire dalla fondamentale dipendenza da sé. Questa dipendenza è ciò che determina la persona in quanto tale e si struttura al suo interno secondo le facoltà dell’autodomino e dell’autopossesso. L’analisi della volontà sospinge la riflessione in una duplice direzione: da un lato, il contenuto della trascendenza “verticale” della persona, emerso nell’esperienza “posso ma non sono costretto”, consente di individuare e penetrare negli strati più profondi della struttura umana, svelandone la radicale natura spirituale; dall’altro, il movimento della volontà segue un orientamento simile a quella del conoscere, introducendoci nella struttura della trascendenza orizzontale. In questo caso la volontà è intesa, sulla linea delle categorie tradizionali tomistiche, come appetitus, vale a dire quella specifica facoltà di cui l’uomo si serve per conseguire i propri scopi, indirizzando intenzionalmente il proprio atto verso il conseguimento di un determinato fine – bene 66. L’atto del volere, guidato dalla volontà, come facoltà, si costituisce come atto intenzionale, nel quale trova espressione l’apertura della persona verso le realtà poste al di fuori di sé.Il volere, come atto intenzionale, si fonda sul momento della decisione, vale a dire ciò che propriamente determina l’essenza del volere, nonché la struttura dinamica del suo atto. Se la volontà è all’origine dell’azione, la decisione è ciò che la indirizza, manifestando la trascendenza e l’operatività della persona. Sebbene la volontà possieda un’intrinseca tendenza al bene e i beni possiedano, parimenti, una specifica forza attrattiva sulla volontà, il movimento intenzionale 66 La volontà, intesa come facoltà, costituisce il correlato, nella sfera delle potenzialità, del dinamismo della persona. Essa esprime l’indipendenza della persona nei suoi atti sul fondamento della dipendenza da sé.

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dell’atto verso un determinato valore non è mai un indirizzamento passivo guidato dall’esterno o secondo una necessità interiore. Il momento della decisione costituisce, infatti, la soglia attraverso la quale la volontà si rivolge autonomamente e liberamente verso ciò che sperimenta essere un bene. La capacità decisionale, tuttavia, non astrae la volontà dal contesto dei suoi beni, ne tanto meno la aliena dalla forza attrattiva che tali beni esercitano sulla sua disposizione al bene. Ogni oggetto, infatti, è in grado di influenzare la volontà nella costituzione della motivazione fondante della decisione, senza per questo comprometterne la libertà. Il momento della decisione non è dunque separabile dalla problematica della motivazione: il motivo, di fatto, è ciò che propriamente muove la volontà, la quale, nel rivolgersi verso un valore che ritiene tale, riconosce a tale valore la capacità di spingere, motivando, il suo stesso movimento. Ora, nelle situazioni concrete, sono riscontrabili due tipologie di atti della volontà, relative a due diversi aspetti propri del momento della decisione. Da un lato, l’atto semplice, quello in cui un solo oggetto si presenta alla volontà come valore che spinge e motiva l’azione. Dall’altro, nella maggioranza dei casi, la volontà si deve destreggiare fra una pluralità di valori potenziali in competizione tra loro. In questo caso, il momento della decisione e l’individuazione dei motivi che ne sono alla base, poggia sulla scelta. Nella scelta i valori vengono sceverati secondo un duplice movimento: l’elezione di un valore, l’esclusione di tutti gli altri. La capacità di scegliere conferma l’indipendenza della volontà dal mondo degli oggetti e nega la possibilità di un determinismo negli atti di volontà. In tal modo trova nuovamente conferma la struttura della persona umana e il principio di autodeterminazione. L’originalità personale della scelta e della decisione è la concretizzazione stessa dell’autodeterminazione. Dall’analisi della volontà, la libertà emerge come indipendenza dal mondo degli oggetti nell’ordine intenzionale, ma anche come capacità di scelta e decisione tra di essi a partire dalla valutazione della loro inerenza al bene. Questa libertà si costituisce come mancanza di un determinismo materiale da parte degli oggetti sugli atti di volontà, ma non come libertà dagli oggetti. Il momento della scelta, infatti, si realizza solo in relazione alla presentazione dell’oggetto intenzionale: si sceglie solo tra ciò che effettivamente viene presentato alla volontà e in base a come viene presentato. La condizione dell’indipendenza della volontà è dunque la presentazione dei valori, rispetto alla quale essa elabora, tuttavia, una presa di posizione attiva e autonoma. L’autore definisce l’indipendenza della volontà rispetto ai suoi oggetti, la capacità di rispondere ai valori presentati. Questa dinamica presenta numerose

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analogie con i meccanismi dell’intelletto, secondo lo schema individuato dai pensatori medievali: “nihil volitum nisi precognitum”. Come per il pensiero, il principio intrinseco dell’intenzionalità del volere è il particolare riferimento dell’oggetto intenzionale alla verità. La dinamica della volontà pertanto, pur non essendo conoscitiva, si riferisce costantemente alla verità, fondamento della scelta, e da essa dipende. La relazione di dipendenza tra volontà e verità non si esaurisce nella struttura del volere, ma si radica, ancor più profondamente, nella struttura personale del soggetto. La decisione dipende, infatti, direttamente dalla persona. La libertà della persona si costituisce, in senso stretto, come dipendenza da sé, e in senso ampio come indipendenza nel campo intenzionale. Al contempo, questa indipendenza non è concepibile al di fuori del costante riferimento alla verità. In questo modo, come la dipendenza della volontà dalla verità è ciò che conferisce l’indipendenza della volontà dagli oggetti intenzionali e dalla loro presentazione, anche la persona afferma la propria trascendenza nell’atto solo nel riferimento alla verità. All’interno del processo di autodeterminazione della persona, volontà e conoscenza entrano in stretta relazione sul fondamento della verità. Da un lato, il momento della motivazione risulta condizionato dalla conoscenza attuale dei valori, dall’altro, la volontà, nella necessità di corrispondere alla verità nel suo riferimento agli oggetti intenzionali, fa appello continuamente alla conoscenza dei valori, condizionandola. In questo modo il riferimento alla verità diviene la proprietà fondamentale tanto della conoscenza morale, quanto della volontà, ponendosi alle radici stesse dell’azione della persona. L’atto della volontà si realizza, pertanto, a partire da una presupposta conoscenza dei valori. Tale conoscenza non è data dalla comprensione di valori a sé stanti, ma dall’esperienza vissuta di tali valori, nella quale si ha accesso alla verità stessa degli oggetti cui tali valori si riferiscono, la verità sull’oggetto in quanto bene. L’esperienza vissuta dei valori di determinati oggetti non è volta, quindi, a mostrare la natura degli oggetti, ma a fornire la verità assiologica che fonda il movimento della volontà. La verità assiologica degli oggetti fornisce, in tal modo, un elemento essenziale per la comprensione della realtà e costituisce il nodo del rapporto tra conoscenza e prassi.La specifica attività della conoscenza con cui la volontà si pone in relazione è il giudizio. Tramite questo momento peculiare dell’attività conoscitiva, il soggetto si proietta verso l’esterno per cogliere la verità assiologica degli oggetti cui si rivolge. La decisione presuppone dunque la verità raccolta dall’attività del giudizio sulla realtà (il “praecognitum” che precede ogni “volitum”) e attraverso di essa la persona realizza la trascendenza conoscitiva che le è propria rispetto

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agli oggetti intenzionali. Nell’intuizione conoscitiva, data dal giudizio, la persona sperimenta così, in modo particolare, se stessa come autrice della conoscenza e scopre la propria natura sperimentale. Bisogna tuttavia sottolineare ancora, che la trascendenza della persona nell’atto non è data dalla funzione intellettiva del giudizio in sé, ma dal momento della verità che tale attività svela e in cui il soggetto realizza la propria decisione in modo personale.Dalle analisi finora compiute si evidenzia come nell’atto si radichi un duplice orientamento, corrispondente a due aspetti dell’atto stesso. Il compimento dell’atto mostra la persona come soggetto e causa dell’azione e l’atto come effetto della sua operatività. Ora questo effetto è, rispetto alla persona stessa, esterno e interno, ma anche transitivo e intransitivo. L’intenzionalità dell’atto della persona, ossia quel movimento nel quale essa si rivolge al di fuori di sé, verso l’oggetto (aspetto esteriore dell’atto), è accompagnata dal movimento introspettivo con cui l’atto, in virtù dell’autodeterminazione, penetra nel soggetto, come oggetto primo dell’atto stesso. In questo modo l’ “io” non si dà solo come agente, ma realizza se stesso, portando a compimento le strutture personali dell’autodeterminazione. Nei confronti dell’interiorità della persona, l’effetto dell’atto è più duraturo rispetto alla semplice configurazione esteriore, e ciò è dovuto all’impegno concreto della persona, a partire dalla sua libertà, nel momento dell’operatività e dell’autodeterminazione. La realizzazione di sé, che la persona attua mediante il proprio libero agire, ha un dunque un aspetto transitivo, proprio dell’aspetto esteriore della realizzazione dell’atto, ma anche intransitivo e, in questo ultimo senso, capace di determinare interiormente la persona. Il compimento dell’atto pertanto, non pone semplicemente la persona come agente, ma trova il suo coordinato nell’autodeterminazione della stessa: ‹‹dunque essendo autore di un atto, l’uomo compie contemporaneamente se stesso›› 67. Il compimento dell’atto mostra così il suo significato pieno e personale, nella relazione col processo di autodeterminazione della persona. L’atto, nel suo aspetto intransitivo, penetra la persona e vi permane in virtù del suo valore. Attraverso il suo atto, moralmente buono o cattivo, la persona diventa moralmente buona o cattiva. Il compimento di sé nell’atto ha dunque un valore esistenziale, inseparabile dalla morale. Da questo duplice punto di vista l’uomo realizza il proprio contenuto ontologico, diventando “qualcuno” attraverso l’attuazione, nell’autodeterminazione, del proprio autodominio e autopossesso. Questa realizzazione fonda, contemporaneamente, la dimensione

67 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1023.

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assiologica della realtà della persona68: ‹‹l’uomo si realizza come persona, come qualcuno, e come qualcuno può diventare buono o cattivo, cioè può realizzarsi o può anche non realizzarsi›› 69.La realizzazione di sé, dal punto di vista ontologico, mostra la contingenza dell’essere della persona, la quale si dà come essere potenziale nell’ordine dell’esistenza. Parallelamente, dal punto di vista assiologico, questa realtà rispecchia una contingenza di natura etica: la persona non è radicata nel bene, ma potenzialmente può diventare buona o cattiva a seconda dell’uso della propria libertà e della sostanziale capacità con la quale rivolge la propria volontà verso quei valori che esperisce come beni.La realizzazione di sé nel suo significato etico introduce la funzione della coscienza morale. Ad essa spetta il ruolo fondamentale di definire il bene nell’atto e di fornire il dovere rispondente a questo bene. Nell’esperienza di un determinato valore, riconosciuto come bene, è inclusa uno sorta di costrizione interiore che pone nella persona il dovere di agire conformemente al valore esperito. Il dovere si costituisce sempre nella coscienza come risposta personale ad un determinato valore e in relazione ad un’azione concreta. Nell’elaborazione del dovere si manifesta la realtà normativa della coscienza mediante la quale si fa dipendere l’atto dalla verità. Questa realtà non è tuttavia da confondersi con la funzione “legislativa”: la coscienza non crea autonomamente le norme, ma le rintraccia all’esterno del soggetto , nell’ordine oggettivo della morale.Le norme morali svolgono una funzione regolatrice di tipo sociale, oggettivando un bene vero dal punto di vista generale. Nel loro riferimento al valore, esse rimandano alla verità del bene cui si riferiscono e, in tal modo, trovano accesso alla coscienza personale, la quale può applicare una verifica oggettiva del contenuto morale a partire dalla propria esperienza. Nella processo di verifica attuato dalla coscienza morale della persona sulla norma, si realizza la funzione creativa e originale della coscienza stessa, la quale, oltre a generare il dovere, elabora, nell’esperienza del vero, l’approvazione della norma, assumendola come propria, per mezzo della convinzione soggettiva. In questo modo la norma ritenuta valida assume all’interno della coscienza una forma “personale”, unica e irripetibile. Questa proprietà della coscienza, inerente all’ambito del vero, illumina la natura del dovere: ‹‹il dovere, cioè il potere normativo della verità 68 I valori morali sono essenziali alla formazione della persona al punto che la sua realizzazione si compie non tanto per mezzo dell’atto, quanto a partire dalla sua bontà morale. Il questo senso, il male morale determina una non realizzazione, anche quando la persona compie effettivamente l’atto. 69 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1025.

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nella persona, intimamente legato alla coscienza, dimostra che la persona nell’agire è libera›› 70. Nel riferimento della coscienza alla verità, la tensione sussistente tra le norme esteriori e la libertà interiore viene assorbita e scaricata nel riconoscimento della validità della norma, cosicché il carattere costrittivo, proprio della norma stessa, viene stemperato dal momento della convinzione personale. Più radicata sarà la convinzione sulla norma, più forte sarà il dovere avvertito in relazione al contenuto della norma all’interno della coscienza morale della persona. Nell’esperienza del dovere l’uomo sperimenta la propria trascendenza nell’atto attraverso la libertà e la volontà, nella loro dipendenza dinamica dalla verità. In questo modo, l’obbligo interiore che si costituisce nella coscienza manifesta la propria originalità attraverso il particolare grado con cui la volontà personale si dinamizza nel suo specifico riferimento alla verità. Il potere normativo della verità, per mezzo del dovere, condiziona non solo il compimento dell’atto, ma anche la realizzazione di sé mediante tale atto, orientando l’andamento morale dell’autodeterminazione. Questa duplice direzione del dovere introduce una nuova problematica. Il dovere, infatti, si costituisce, in prima istanza, come risposta ad un determinato valore: il riconoscimento del valore dell’oggetto come vero, induce nell’uomo il dovere di riferirsi ad esso conformemente a questo stesso valore. In tal modo la persona diviene responsabile della propria azione a partire dalla corrispondenza che essa avrà col valore esperito.La responsabilità morale della persona di fronte all’oggetto è il correlato della responsabilità morale che essa ha verso di sé, in quanto soggetto che, nella realizzazione del valore ritenuto tale, realizza contemporaneamente se stesso. La struttura dell’autodominio e dell’autopossesso, propri della persona, richiamano, infatti, l’uomo ad una vocazione fondamentale del suo essere: che esso si costituisca pienamente come persona. Quest’appello, che assume nella coscienza il carattere del dovere, richiama l’uomo a rispondere per sé e davanti a sé, come responsabile primo e autentico del proprio “io”.La strada percorsa sulle orme dell’antropologia wojtyliana ha consentito di penetrare la struttura della persona che emerge dall’analisi trascendentale dell’esperienza “l’uomo agisce”. Nell’atto la persona si rivela, innanzitutto, come “qualcuno” in virtù della forza della propria autodeterminazione. Possedendo e dominando se stessa, essa scopre, come contenuto sperimentale della propria operatività, la libertà, quale intima proprietà della sua natura che, sulla base della dipendenza fondamentale dalla verità, costituisce la radice

70 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1041.

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stessa della propria trascendenza. Questa libertà è anche la via di accesso che la conduce alla realtà della sua coscienza morale, nella quale la trascendenza della persona nei suoi atti si realizza, e mediante la quale afferma la propria preminenza rispetto a se stessa e al proprio dinamismo. Solo all’uomo spetta quindi la qualifica di “Qualcuno” e di fronte ad essa egli è costantemente responsabile.La conseguenza fondamentale del manifestarsi della trascendenza della persona nell’atto è la scoperta della sua dimensione spirituale. La spiritualità, di cui parla Karol Wojtyla, è la forma concreta dell’esistenza della persona e della sua trascendenza. Ciò non consente di astrarre questa dimensione dall’insieme dell’ordine reale della persona, che nel complesso risulta irriducibile. La spiritualità decide dell’unità della persona in quanto ne manifesta la trascendenza. In questo modo si rivela come l’elemento dinamico posto all’origine del dinamismo umano: volontà e intelletto sono le facoltà di natura spirituale che primariamente intervengono rispettivamente nella funzione conoscitiva e nell’autodeterminazione e a cui, pertanto, si deve l’unità dinamica della persona e dell’atto. L’esperienza dell’unità della persona svelata nell’analisi della sua operatività ci rimanda tuttavia, alla complessità della sua struttura ontica. L’essere umano, infatti, si manifesta nella molteplicità dei suoi dinamismi e strati come compositum humanum e, in quanto tale, deve essere analizzato fino in fondo: ‹‹L’esperienza dell’unità dell’uomo come persona suscita nello stesso tempo il bisogno di comprendere la sua complessità come essere. Tale comprensione equivale a conoscere “fino alla fine” oppure “fino in fondo”›› 71.

§ 4. Integrazione della persona nell’atto: la strada per un’antropologia adeguataLa struttura della persona umana, nonostante la sua sostanziale unità, è complessa e dominata da un’intrinseca dualità. Dall’analisi dell’operatività si è visto come l’uomo viva se stesso come agente, causa cosciente del proprio agire; tuttavia la sua trascendenza nell’atto è accompagnata dall’esperienza di sé come soggetto di tutto ciò che in lui semplicemente “accade”. Questa bipolarità appartiene anche alle strutture fondamentali dell’autopossesso e dell’autodominio, in cui l’uomo non solo domina o possiede se stesso, ma si esperisce, al contempo, come colui che è dominato e posseduto solo da sé. Si è inoltre individuato come questa divisione sia espressa nella fondamentale

71 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1066.

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distinzione degli indirizzi del dinamismo della persona, tra azione e attivazione, tra operatività e soggettività. Elaborare una visione adeguata dell’uomo vuol dire, per Karol Wojtyla, tener conto della complessità di questa struttura e della complementareità dei suoi elementi. Ed è per questo che l’autore ritiene che il concetto di trascendenza della persona nell’atto, appena trattato, non esaurisca la totalità dell’essere umano, ma che, piuttosto, se si tiene fisso l’obiettivo di un’antropologia realmente adeguata, diretta all’integrum dell’uomo, occorre rivolgere l’attenzione al correlato della trascendenza. A quell’aspetto emergente dal contenuto sperimentale dell’unità complessa della struttura dinamica della persona stessa, che l’autore richiama attraverso l“integrazione della persona nell’atto”. Il termine “integrazione” è derivato dal latino integer, ossia integro, totale. L’utilizzo che ne fa Wojtyla tuttavia, si allontana dal senso strettamente letterale. Con questo concetto, infatti, egli non vuole indicarci semplicemente un processo di unificazione, quanto, secondo l’interpretazione filosofica, quella realtà in cui si rivela ‹‹l’attuarsi e il manifestarsi del tutto e dell’unità sulla base di una certa complessità›› 72.Solo attraverso questo processo è possibile comprendere realmente le strutture fondamentali dell’autodominio e dell’autopossesso 73: la trascendenza della persona nell’atto rappresenta esclusivamente un polo del dinamismo personale, in un certo senso quello relativo alla sua operatività, ed è pertanto insufficiente se si vuole descrivere l’unità sostanziale che soggiace all’agire stesso. L’integrazione quindi completa la trascendenza: ‹‹dobbiamo intendere ciò non solamente nel senso che l’integrazione completa la trascendenza, da cui deriva 72 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1074.73 Parallelamente all’esame dell’integrazione, Wojtyla porta avanti l’analisi del concetto di “disintegrazione”. Anche in questo caso occorre soffermarsi sul significato della parola. L’autore si allontana, infatti, dall’interpretazione dominante del termine, diffusa per lo più dalle scienze che si occupano dell’uomo, con la quale si indica un’alterazione delle condizioni “normali” dello stato del soggetto. Si riferisce, piuttosto, alla disintegrazione nella suo significato fondamentale, in qualche modo incluso nel significato scientifico, relativo alla struttura della persona: ‹‹Per disintegrazione, nel significato fondamentale di tale concetto, intendiamo dunque ciò che si evidenzia nella struttura dell’autopossesso e dell’autodominio, propria della persona, come mancanza o insufficienza di tale struttura›› ( K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1077). I limiti della persona disintegrata non si danno pertanto esclusivamente come insufficienze proprie dell’integrazione. Così come la persona “disintegrata” non è in grado di subordinare se stessa o di essere posseduta da sé, non sarà in grado di possedersi e di dominarsi; sono pertanto anche i limiti della trascendenza.

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la totalità dinamica persona-atto, ma ancor più profondamente nel senso che senza l’integrazione la trascendenza è come sospesa in una specie di vuoto strutturale›› 74.Il principio di integrazione, così concepito, costituisce per Wojtyla la strada privilegiata per raggiungere adeguatamente l’essenza dell’uomo, senza incorrere nei limiti e nei particolarismi delle visioni offerte dalle scienze che si occupano di esso, le quali, dedite allo studio delle singole componenti dell’essere umano, si allontano da una visione di globale. La definizione scientifica dell’uomo come unità psico-somatica pur individuando la complessità dell’ordine soggettivo dell’individuo, manca la sostanziale unità e correlazione dei suoi dinamismi e riduce l’unità del compositum della natura umana ad una semplice giustapposizione di strutture. Attraverso l’esperienza totale dell’uomo, alla luce dell’integrazione della persona nell’atto, l’unità psicofisica viene invece interpretata come un’unità superiore avente un dinamismo proprio e un contenuto personale. L’atto umano, cui partecipano i dinamismi naturali propri tanto della somatica, quanto della psiche, non si realizza come la semplice somma di tali dinamismi, ma come unificazione degli stessi in un livello dinamico superiore rispetto a quello naturale. Nel processo di integrazione nell’atto, questi dinamismi, pur costituendo delle attivazioni del soggetto, si inseriscono dinamicamente nella creazione della nuova realtà dell’atto e si configurano in modo personale: ‹‹Quando “agisco” sono tutto nel mio agire, nella dinamizzazione del mio “io” cui ha contribuito la mia operatività. Il fatto che “sono tutto nel mio agire” non si spiega con la sola trascendenza, ma anche con l’integrazione della persona nell’atto›› 75.Fornire una visione integrale dell’uomo vuol dire, perciò, non solo individuare la presenza di tutte le componenti della dimensione somatica e psichica, ma determinare quei sistemi di condizionamento reciproco mediante i quali si rendono possibili quelle funzione che solo sono proprie dell’uomo in quanto persona e che trovano nell’atto umano la loro espressione completa. Occorre, infine, precisare che il processo di integrazione di cui Karol Wojtila parla, non è riferito al dualismo anima – corpo. Anche se attraverso l’integrazione dei dinamismi psicosomatici questa relazione viene costantemente richiamata e, in un certo senso, reinterpretata, lo studio di queste due realtà ha un carattere strettamente metafisico ed in tal senso eccede l’indirizzo sperimentale fenomenologico.

74 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1072.75 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1074.

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a) Il corpoIl corpo costituisce quella realtà materiale attraverso la quale l’essere umano si rende visibile, si localizza e si individualizza. La costituzione somatica si compone di una struttura esteriore, la quale si presenta come un’insieme di membra collegate tra loro a seconda della loro posizione e funzione, e di una dimensione interiore, che forma e vivifica l’esteriorità propria del corpo individuandolo come organismo.Wojtyla sottolinea come il corpo non sia una realtà a sé stante rispetto alla persona, ma costituisca, insieme ad essa, un’unità indissolubile secondo una duplice modalità.In primo luogo il soggetto “possiede” il proprio corpo come strumento essenziale per la realizzazione dei suoi atti e di conseguenza per la realizzazione di sé. Questa funzione conferisce al corpo il particolare potere di saper esprimere, nella sua manifestazione esteriore, l’intima capacità della persona di autodeterminarsi e dunque, le sue facoltà spirituali. In questo senso, il corpo costituisce il terreno della trascendenza della persona, il “mezzo obbediente” col quale si realizza ed esprime la struttura dell’autopossesso e dell’autodominio.D’altro canto, nell’esperienza “qualcosa accade in me” attraverso il “mio” corpo, l’ “io” sperimenta una particolare immanenza rispetto alla propria corporeità. Il corpo non è, allora, avvertito semplicemente come un possesso, ma “l’”io” è il proprio corpo. All’interno di questa sfera di esperienze il corpo emerge con la sua proprietà essenziale, la reattività. La capacità di reazione inserisce il soggetto all’interno della natura, quale entità capace di influenzare e condizionare con la sua azione l’esistenza del corpo e le sue attività. Il tipo di reazioni che caratterizza il corpo umano, come organismo, avvicina l’uomo al mondo animale col quale condivide l’orientamento innato del dinamismo vegetativo e riproduttivo. Le reazioni appartenenti a tale dinamismo non hanno carattere cosciente, ma sono pure attivazioni, al di fuori del raggio della coscienza, mediante le quali il corpo asseconda la propria finalità interiore. Sebbene il dinamismo vitale del corpo costituisca una sottostruttura, indipendente dall’autodeterminazione, la visione integrale dell’uomo impone un accordo tra la soggettività propria della struttura somatica e la soggettività operativa. Wojtyla ricerca questa relazione all’interno del momento dell’operatività: l’uomo fa un uso strumentale e cosciente del suo corpo, attivando la capacità reattiva che lo pervade.

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In questo modo la volontà veicola il potenziale reattivo della struttura somatica avviando un moto esterno del corpo, corrispondente all’atto col quale afferma la propria autodeterminazione. La reattività del corpo non è quindi riducibile esclusivamente al movimento istintivo proprio dei riflessi, ma, mediante la sintesi con l’atto, contribuisce all’integrazione della persona nell’atto 76. La correlazione che lega il sostrato somatico al momento dell’operativa introduce l’analisi della capacità motoria. Essa costituisce, infatti, il punto esatto in cui l’atto di volontà si manifesta esteriormente attraverso il moto, in concordanza con il dinamismo somatico. Sebbene la mobilità del corpo sia primariamente innata nella sua connessione con la reattività somatica, essa costituisce anche ‹‹il terreno in cui l’uomo sviluppa le sue prime abilità: quelle motorie si formano prima, sulla base delle reazioni istintive e degli impulsi. E presto in tutto questo processo di formazione dei movimenti si inserisce la volontà, fonte degli impulsi provenienti dal di dentro della persona impulsi che portano il contrassegno dell’autodeterminazione›› 77. Il concetto di “abilità”, derivato dalla nozione scolastica dell’ “habitus”, indica la capacità acquisita dal corpo di compiere determinati movimenti. In questo modo la spontaneità degli atti motori appare proporzionale all’abilità che l’uomo ha sviluppato, attraverso la ripetizione abituale dei movimenti stessi. Fa sì dunque, che il passaggio che conduce dallo stimolo al moto, avvenga per lo più in modo spontaneo e senza il costante impegno della volontà. Un altro concetto fondamentale, emerso dall’analisi della reattività del corpo, è quello definito da Wojtyla, “impulso”. Da non confondersi con l’“istinto”, modalità della dinamizzazione propria dell’ordine

76 La reattività del corpo è estranea all’operatività della persona. E anche se, in senso lato, è possibile parlare di un’operatività propria del corpo che si attualizza “secondo natura”, occorre sempre tenere ben presente la fondamentale indipendenza dei dinamismi di questo tipo di operatività rispetto all’autodeterminazione. E’ possibile quindi affermare che il corpo possiede una “soggettività” propria, radicata nell’unità della persona e che, nel suo essere svincolata dall’attività della volontà, costituisce, in qualche modo, una sorta di struttura fondante, o sottostruttura, su cui si radica la struttura propria della persona. Perché, tuttavia, venga garantita l’integrità dell’uomo-persona e, quindi, la possibilità stessa dell’integrazione della persona nell’atto, occorre che fra queste due “soggettività”, somatica e operativa, sussista una sintesi armonica, attraverso la quale il dinamismo proprio dell’autodeterminazione penetri nel dinamismo somatico per utilizzarlo coscientemente.77 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1104.

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della natura secondo la sua finalità innata, l’impulso costituisce invece l’orientamento dinamico della natura rispetto a una determinata direzione. In questo senso, l’autore ne parla non come caratteristica di una singola reazione, ma come ‹‹la risultante di più reazioni istintive del corpo e quindi della natura stessa nella sua tendenza dinamica chiaramente finalizzata›› 78. Fra le espressioni più comuni degli orientamenti della natura umana troviamo l’impulso di autoconservazione, l’impulso sessuale, etc. Tuttavia, proprio guardando a questi impulsi è possibile notare come essi, pur radicandosi nella natura e nella sua connessione col dinamismo somatico, non si esauriscono in esso. L’impulso sembra, infatti, cristallizzare una sorta di tendenza, o costrizione, radicata nell’uomo per natura e che permea tutta la sua struttura dinamica, orientandolo verso la realizzazione di un determinato fine. Questa finalità, tuttavia, non è neutra, ma, a partire dall’impulso stesso, è percepita dall’uomo come un valore. La forza dell’impulso, che veicola in modo innato le reazioni somatiche, penetra dunque attraverso l’affermazione del valore cui si riferisce, nella dimensione razionale dell’uomo, costruendo un ponte tra volontà dell’uomo e substrato somatico. La connessione così stabilità consente all’essere umano non solo di conoscere le finalità naturali del proprio corpo, ma anche di agire in modo cosciente nei dinamismi somatici, controllandoli, regolandoli e razionalizzandoli.Il principio unificante, interno al processo di integrazione, sulla base del quale il corpo umano non si riduce ad un mero organismo, ad un corpo vivo o Körper, ma è colto come un corpo vissuto, Leib, rivela la ricchezza propria di questa realtà. Attraverso il proprio corpo, alla sua sostanziale passività e apertura verso l’esterno, la persona entra in contatto col mondo che lo circonda, con gli altri corpi animati. Allo stesso tempo, la carica di significato che il suo corpo veicola, nella sua unità sostanziale con la realtà spirituale della persona, determina l’assoluta preminenza del soggetto nel mondo degli esseri. In questa esperienza egli si riconosce come un “qualcuno”, e non semplicemente come un “qualcosa”, e, al contempo, è in grado di stabilire, sulla base di questo autoriconoscimento, una relazione di natura personale con gli altri soggetti.

78 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1106.

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b) La psicheLa psiche si manifesta nell’esperienza dell’uomo come correlato della dimensione somatica e, come per il corpo, occorre interpretarla alla luce dell’integrazione della persona nell’atto. Così come la persona ricorre alla reattività somatica per la realizzazione dell’atto, anche la psiche si inserisce, mediante l’integrazione, nell’unità dell’atto, determinando, grazie alle sue caratteristiche peculiari, la qualità della risposta dell’uomo al valore della quale l’atto è l’espressione. In particolare, è l’emotività che, con le sue proprietà interiori e immateriali, raccoglie in sé la molteplicità della sensazioni umane e dei comportamenti ad esse relativi, indicando la personale sensibilità ai valori.All’interno della struttura integrale della persona, la psiche ha la facoltà di interagire tanto col dinamismo somatico, quanto con la dimensione spirituale della persona. Da un lato sussiste, tra il dinamismo reattivo e quello emotivo, un condizionamento reciproco tale che, non solo il corpo è in grado di esteriorizzare lo stato psichico interiore, ma, attraverso le reazioni somatiche e ai suoi movimenti, la persona è capace di formare a livello psichico sensazioni relative allo stato del corpo, fino ad una più generale sensazione di sé. Dall’altro, la sensibilità peculiare dell’emotività di fronte ai valori, si esprime attraverso la particolare risonanza che tutto ciò che è legato e prodotto dalla trascendenza spirituale della persona trova nella sfera psichica. La qualità di tale risonanza emotiva ha carattere strettamente individuale e determina la qualità della trascendenza personale. Ci si riferisce qui non alla sensitività, ma ad una sensibilità svincolata dalla dimensione materiale e corporea, relativa alle espressioni dello spirito umano nell’arte, nel pensiero, etc., attraverso le quali l’uomo sente se stesso in modo più integrale e fa esperienza del mondo in cui si trova inserito.In questo duplice orientamento proprio della dimensione psichica si realizza un ponte fondamentale tra il dinamismo somatico e l’attività coscienziale, mediante il quale la psiche attualizza un’interazione globale e un avvicinamento funzionale tra gli strati propri della persona all’interno della sua unità sostanziale. Come già detto in precedenza, il dinamismo del corpo è di per sé al di fuori della portata della coscienza e i contenuti prodotti dalla sua facoltà reattiva permangono nello stato subcosciente. La psiche, tuttavia, trae dal corpo innumerevoli sensazioni, le quali, pur non essendo percepite

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dalla coscienza, avviano un processo di oggettivazione del corpo stesso, il quale perviene, in tal modo, alla coscienza attraverso l’elaborazione di una generale esperienza di sé. Nel riflesso conoscitivo dei sensi, ogni sensazione prodotta dal corpo nella sfera emotiva è così accompagnata da “una certa sensazione di sé”, nella quale si rispecchia non solo lo stato dell’ “io” somatico ma anche dell’ “io” personale, sulla base della reciprocità di rapporti tra psiche e somatica. Corpo e coscienza sono dunque uniti dalla sensazione attraverso la quale la persona vive interiormente e integralmente la propria soggettività.Questo processo ha due fondamentali conseguenze gnoseologiche. Primo, la sensazione è il mezzo primario per l’oggettivazione del corpo da parte della coscienza. Secondo, la coscienza rivela la sua preminenza rispetto alla sensazione, nella quale si manifesta la soggettività psichica integrata con la soggettività somatica. La sensazione accade nella soggettività della persona e rimane subordinata alla coscienza nella sfera della passività umana. Se, infatti, è possibile essere coscienti delle proprie sensazioni, non può mai essere vero il contrario.La sensibilità non svela direttamente la trascendenza della persona, indica piuttosto ciò che in essa accade, qualificandola come soggetto dotato di potenzialità emotiva che necessita di integrazione. Anche se si è visto che la particolare sensibilità ai valori, propria del dinamismo emozionale, condiziona l’elaborazione della scelta nel momento decisionale, il riferimento ai valori per mezzo delle sensazioni è di per sé insufficiente affinché l’uomo sia capace di autodeterminarsi. Occorre, piuttosto, che la sensazione venga integrata dal riferimento alla verità del bene cui ci si rivolge. Il principio di autodeterminazione impone nella realizzazione dell’atto la preminenza del vero sulla sensazione e, nella capacità della persona di corrispondere a questa struttura, si manifesta la reale trascendenza della persona all’interno del suo agire. Ciò si evidenzia soprattutto in quei casi in cui si rende necessario determinare l’atto in funzione del valore rivelato dalla verità, anche se in contrasto con l’orientamento delle sensazioni attuali. La capacità di sentire autenticamente i valori, esperendoli secondo quello stesso ordine nei quali si dispongono nella realtà, è frutto di un autodominio e di un autopossesso maturo e rispecchia una personalità integrata, in cui la spinta psichica delle sensazioni è in concordanza col riferimento del valore alla verità.

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Per completare adeguatamente l’analisi della sfera emotiva occorre riferirsi a due fenomeni psichici fondamentali, in cui si rivela pienamente il soggetto nelle sue potenzialità. Da un lato si trova l’esperienza dell’eccitazione. L’eccitazione si manifesta come risposta emozionale ad un impulso, non necessariamente diretto ai sensi, avente uno specifico carattere intenzionale e capace di coinvolgere la reattività somatica a tal punto che il momento somatico e quello emotivo vengono percepiti come un unico fatto dinamico. Dall’altro, il fenomeno della commozione. Pur essendo anch’esso accompagnato da una reazione somatica, questa esperienza appare più lontana dalla sfera sensitiva e sembra piuttosto rivolgersi ad una dimensione profonda della persona. Questo perché la commozione si dà preminentemente come manifestazione della vita emozionale pura, i cui contenuti si riferiscono prevalentemente alla dimensione spirituale dell’essere umano. Dalla commozione si irradiano ulteriori esperienze emozionali che pervadono l’interiorità della psiche: i sentimenti. Sebbene sia possibile effettuare una classificazione generale dei sentimenti sulla base del contenuto emotivo, essi si danno alla persona sempre come unici e irripetibili, diversi per intensità e in grado di compenetrarsi l’un l’altro, dipingendo esperienze emotive dalle tonalità mai perfettamente uguali. L’insorgere dei sentimenti pone l’ “io” di fronte alla propria soggettività. In essi, più che in ogni altra esperienza emotiva, l’ “io” scopre di non essere padrone di sé rispetto al loro accadere e percepisce con chiarezza la tensione strutturale tra la soggettività emotiva e l’operatività propria della sua autodeterminazione. Alla luce di questa esperienza la necessità dell’integrazione emerge con decisione all’interno della persona come compito personale, non perché i sentimenti, nella loro irrazionalità, costituiscano la causa della disintegrazione della persona, quanto perché l’autopossesso e l’autodominio sono posti dalla natura dei sentimenti come obiettivi precipui da realizzare all’interno dell’integrum della persona. La vita psichica non rappresenta di per sé un ostacolo all’integrazione della persona, anzi la esige. L’operatività della persona mantiene diversi gradi di attualizzazione, a seconda del grado di integrazione dell’emozione. Questo rapporto è alterato solo in quei casi “limite” in cui l’eccessiva emozionalizzazione della coscienza paralizza l’operatività, facendo perdere alla persona la capacità di agire coscientemente.

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La tensione sussistente tra operatività e emotività emerge nuovamente dall’analisi della vita psichica come una contrapposizione di forze che deve essere correttamente regolata. Anche se le emozioni, in virtù della loro natura intenzionale, sono in grado di proiettare il soggetto verso valori posti al di fuori di esse, aprendo la strada all’oggettivazione, la realizzazione della persona necessita che all’interno dell’atto sia mantenuto il riferimento autentico alla verità, al di là della semplice spontaneità emozionale. Questa capacità di indirizzarsi e lasciarsi guidare dalla verità sul bene è definita, dalla tradizione filosofica, ragione. La ragione è la forza autentica dello spirito, in grado di subordinare i sentimenti alla verità senza rigettarne la peculiare ricchezza, riflesso della ricchezza interiore della persona stessa. Se si escludesse l’emozionalizzazione, la ragione si esaurirebbe nella pura trascendenza e i suoi atti si appiattirebbero, perdendo le sfumature proprie del loro carattere personale. La persona deve dunque affinare la capacità di subordinare la tendenza della soggettività all’operatività, traendo dalle emozioni la loro caratteristica colorazione, senza soffocarle. La volontà guidata dalla ragione è in grado di acquisire gradualmente quella abilità, che in questo caso è più opportuno chiamare “virtù”, nella sua distinzione essenziale dall’ “abilità” propria del corpo, di scegliere, nel riferimento spontaneo delle emozioni, il vero valore del bene, ridimensionando le emozioni e capitalizzandole in un processo di continuo perfezionamento.

L’integrazione della persona dunque si sviluppa parallelamente al processo di autoformazione della stessa. In primo luogo la persona, dopo aver acquisito l’abilità motoria nell’integrazione somatica, deve sviluppare l’abilità spirituale, attraverso la quale è in grado di integrare la propria emotività, subordinandola alla verità, finché questa abilità stessa si consolidi interiormente, rivestendosi dell’abito morale della virtù.In sintesi, l’integrazione della persona nell’atto consente non solo di individuare l’unità su cui si radicano i dinamismi umani, ma, al contempo, subordinandoli alla trascendenza della persona nell’atto, penetra la sua complessità, collocando adeguatamente i dinamismi stessi nella struttura integrale dell’uomo, concordemente al suo autodominio e autopossesso.

Brevi riflessioni conclusive

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In questa parte del lavoro si è tentato di penetrare nell’ordine della persona, così come Wojtyla lo presenta nella sua opera “Persona e Atto”. Le suddette riflessioni sono di vitale importanza, consentono infatti di guadagnare una visione dell’essere umano globale e concreta, in cui ogni dimensione e dinamismo viene integrato nella totalità della persona. Come già accennato in precedenza, la completezza dell’immagine derivata dall’indagine fenomenologica dell’atto della persona costituisce per Wojtyla la via di accesso per l’analisi metafisica della natura dell’essere umano e il fondamento della sua etica. Nel momento stesso in cui l’autore delinea la struttura essenziale dell’uomo, individuando il nucleo del suo essere personale, ciò per cui la persona è ciò che è, non solo svela la sua trascendenza ma, al contempo, pone come fine proprio della persona la libera realizzazione di sé, conformemente alla verità della sua natura: ‹‹l’essere personale implica un dover essere››. Dallo studio di “Persona e atto”, la verità della persona emerge dalla struttura dell’atto. Contemporaneamente, la realizzazione di questo contenuto da parte dell’essere umano si attua attraverso il libero agire. Nell’atto, infatti, l’uomo si autodetermina, decide liberamente del proprio “io” e del proprio compimento personale secondo la struttura propria della trascendenza. L’antropologia wojtyliana, dunque, fonda l’ethos della persona. Il senso di questo ethos è illuminato dall’ideale dell’autodeterminazione, vale a dire quel processo, già ampiamente descritto, in cui l’uomo forma se stesso attraverso il proprio libero agire. Occorre, tuttavia, ricordare come l’autocompimento della persona dipenda dal particolare rapporto stabilito col mondo dei valori. Secondo la struttura propria dell’esperienza dei valori non solo l’uomo forma i valori che lo circondano, ma al contempo è informato da essi. L’atto personale, infatti, è fondato sulla libera scelta, ossia il momento essenziale attraverso il quale l’uomo determina il carattere morale della sua azione. Il valore morale dell’azione trascende il compimento dell’atto, trasferendosi all’interno della persona e determinandone lo sviluppo. Attraverso il valore morale dei propri atti la persona si costituisce come buona o cattiva, condizionando in tal modo la propria realizzazione. Se, pertanto, Wojtyla ammette che l’antropologia sia il fondamento di ogni etica, in quanto il valore personale è sostanzialmente antecedente rispetto valore morale dell’atto, l’etica aiuta a comprendere il senso della realizzazione della persona mediante il proprio agire. Da questo punto di vista, l’operatività umana, indicata nella struttura della persona, si costituisce di fronte alla dimensione morale del bene e del male in tutta la sua drammaticità: come la lotta personale dell’individuo per la sua autorealizzazione.

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L’analisi della trascendenza della persona sospinge, in questo modo, la riflessione al di fuori del soggetto, nel suo riferimento al mondo dei valori e delle persone, attraverso il quale si struttura il senso oggettivo dell’etica. Se, infatti, è nell’atto che l’uomo attualizza le strutture proprie della sua natura spirituale, autodeterminandosi e quindi affermandosi propriamente come persona, la struttura stessa dell’atto non è autoreferenziale, ma orientata verso l’esterno. “L’uomo agisce” e, agendo, si localizza, entra in relazione con gli altri uomini: “l’uomo agisce insieme agli altri”. L’evidenza di questo fenomeno, che si presenta alla coscienza del soggetto, impone, alla luce delle considerazioni condotte sulla struttura della persona, un’analisi fondamentale: il disvelamento della trascendenza della persona, del suo mistero essenziale, dell’unicità, irripetibilità e insostituibilità della sua esistenza, colloca la persona nel mondo degli enti in una posizione di assoluta preminenza e diversità. Questa singolarità ed eccezionalità dell’uomo nel mondo delle cose si ripresenta tuttavia, anche nel mondo delle persone, in cui ogni essere umano si dà come assolutamente unico. Il riconoscimento della propria irripetibilità, emersa dall’autorivelazione dell’“io”, implica quindi una risposta adeguata nei confronti dell’altro, di quell’ “io” che si fa presente e che, nel suo stesso presentarsi, esige un’ affermazione conforme alla sua struttura personale.Nel cuore della trascendenza della persona Wojtyla individua indirettamente un contenuto che deve essere esplicato, una sostanziale apertura, radicata nel nucleo ontico della persona stessa, che orienta il soggetto al di fuori di sé, nell’incontro con la trascendenza altrui. Proprio nel momento in cui il soggetto esperisce, nella complessità dei suoi dinamismi, la propria sostanziale unità, il profondo radicamento del proprio “io” in se stesso, egli si imbatte nell’altro, o meglio, nell’alter-ego. L’analisi della persona attraverso l’atto, conduce così, in ultima istanza, nella dimensione dell’intersoggettività. Sarà dunque questo il cuore delle prossime riflessioni, dedicate all’amore umano, quale realtà fondamentale in cui la relazione tra le persone si realizza a livello autenticamente personale.

PARTE SECONDA

LA METAFISICA DELL’AMORE

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“L’amore mi ha spiegato ogni cosa, L’amore ha risolto tutto

per me –Perciò ammiro questo Amore

Dovunque Esso si trovi.” 79

Tutto nella persona sembra parlare dell’altro: la trascendenza del suo essere, contenuto essenziale della sua dimensione spirituale, l’orientamento e l’integrazione dei suoi dinamismi elementari spingono il soggetto al di fuori di sé, non in un semplice movimento intenzionale conoscitivo, ma nella viva ricerca di sé e della propria realizzazione nel rapporto con le altre persone. Così l’indagine antropologica di Wojtyla apre la strada all’analisi dell’intersoggettività, uno degli aspetti più profondi e affascinanti del suo pensiero. Sul fondamento della struttura personale, l’autore salva l’uomo dal solipsismo, inserendolo all’interno della comunità umana: in essa l’uomo agisce e vive insieme con gli altri ed è chiamato a realizzare forme autentiche di partecipazione, in cui perseguire non solo il proprio bene, la propria realizzazione, ma, all’interno di una visione più ampia e consapevole, il bene comune e la realizzazione reciproca. Nella prima parte di questo lavoro ho tentato di illuminare il nesso che ancora la persona e l’atto attraverso il principio di autodeterminazione. Da ciò è emerso il valore personalistico dell’atto, ossia quella norma intrinseca all’agire umano per la quale il soggetto è chiamato a realizzare se stesso come persona nei propri atti. A partire dal riferimento della prassi a tale norma si costituisce la morale, come insieme di norme relative all’agire comune in cui il valore della persona, valore primo dell’assiologia wojtyliana, rappresenta una legge onnipresente, alla quale ogni azione umana deve corrispondere. In tal senso il momento fondamentale della morale è dato dalla cosiddetta “norma personalistica”, vale a dire, alla luce della reinterpretazione dell’imperativo morale kantiano, la norma in virtù della quale si esige che ogni azione, compiuta all’interno della comunità, si conformi al valore tanto della persona che agisce, quanto di quella che si ha di fronte e alla sua sostanziale inviolabilità. Ogni atto deve sempre tener conto dell’assoluto diritto all’autodeterminazione dell’altro ed escluderne ogni possibile oggettivizzazione o uso strumentale.

79Karol Wojtyla, Canto del Dio nascosto, I, in ID, Tutte le opere, cit., p. 49.

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La linea direttiva della norma morale spinge l’autore ad indagare la struttura propria del comportamento del soggetto nei confronti dell’altro e del suo essere personale. E’ proprio in questo ambito che si svela progressivamente la dimensione dell’“amore dell’uomo”. Ho preferito, qui, riferirmi alla realtà dell’amore umano in questi termini, poiché consente di poterne intuire da subito il senso tanto oggettivo, quanto soggettivo, della sua essenza. Non solo, infatti, l’amore costituisce la modalità con cui il soggetto si riferisce all’altro, in conformità con la struttura dell’essere personale che l’altro rappresenta, ma si accorda intimamente con la struttura personale del soggetto stesso: solo attraverso l’amore, la persona esperisce nel dono totale di sé il nucleo essenziale della sua libertà e la più alta realizzazione delle sue potenzialità. La trattazione sull’amore umano rappresenta certamente uno dei momenti più importanti della speculazione dell’autore. La lucidità e la semplicità con le quali si addentra in ogni aspetto di questa realtà mostra non solo la sua singolare sensibilità, ma una radicale comprensione delle problematiche effettive di questa tematica e, più in generale, dell’uomo, cui solo l’amore fornisce una risposta adeguata. “Amore e responsabilità” è il testo chiave della riflessione wojtyliana intorno a questo argomento. Più che un’esposizione dottrinale relativa alle questioni etiche dell’amore coniugale, questo libro racchiude tutte le sfumature del carattere e dell’esperienza proprie dell’autore, rendendola un’opera piena di viva concretezza. Lo stesso Wojtyla si riferisce a questo scritto, indicandolo specificamente come sintesi tra dottrina e vita, tralasciando, tuttavia, quello che mi è parso lecito identificare come un profondo atteggiamento di cura, attenzione e devozione per l’uomo. Di amore per l’amore umano. La ricchezza dei contenuti di “Amore e responsabilità” rimanda obbligatoriamente all’esperienza di Wojtyla nello Srodowisko. Nel periodo trascorso come viceparroco presso la parrocchia di S. Floriano a Cracovia, Wojtyla raccolse intorno a sé un compatto gruppo di giovani alla ricerca di una forma autentica di comunità e confronto, fondata sulla comunione di vita, di idee e di fede. Il nome iniziale del gruppo, Rodzinka, ossia piccola famiglia, sebbene successivamente sostituito dall’appellativo “ambiente”, esprime a pieno il carattere essenziale di questa compagnia. La partecipazione assidua agli incontri organizzati da Wojtyla, che spaziavano dalle gite in kajak agli esercizi spirituali, dalle uscite a teatro alla condivisione di importanti momenti di vita religiosa, costruì tra i membri una salda rete di affetti in cui lo stesso Wojtyla ricevette l’appellativo affettuoso di Wujek, zio, che lo accompagnò anche nel periodo del pontificato. La famigliarità e l’intimità di questo contesto avvicinò Wojtyla alle problematiche concrete dei giovani del suo tempo attraverso una

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condivisione, tutt’altro che teorica, delle loro inquietudini, dubbi e incertezze, assumendo, grazie alla sua personale sensibilità, la posizione fondamentale di guida e formatore. Per descrivere al meglio la realtà di questa piccola comunità preferisco lasciar parlare un membro del gruppo, Canuta Cielsielska, che con grande semplicità e umanità riesce a trasmettere la natura del legame nato nello Srodowisko e il prezioso ruolo rivestito da Wojtyla al suo interno: ‹‹Il gruppo Srodowisko conduceva una ricca vita di relazione, turismo e cultura. Il prete stava con noi sia durante le gite, sia ai concerti, al teatro, al cinema; poi partecipava anche alle discussioni riguardanti tutto ciò. Parlavamo in occasione delle escursioni, intorno al falò, durante i colloqui organizzati nelle nostre case. In questa comitiva, sempre più numerosa, ma “discreta” sino alla fine, si formavano delle amicizie più strette e, con il tempo, nascevano anche matrimoni. Ovviamente, sia i problemi di fidanzamento, si quelli riguardanti la vita coniugale venivano discussi insieme al Prete durante lunghi colloqui individuali. […] Ci aiutava a risolvere i problemi teorici della vita, ma anche quelli pratici e personali. Chiariva, suggeriva, conduceva, senza mai costringere a prendere una determinata decisione›› 80. E’ dunque alla luce di questo preciso contesto, nelle problematiche quotidiane incontrate in questo fecondo periodo di attività pastorale, nelle difficoltà concrete delle giovani coppie, che occorre rintracciare la motivazione profonda su cui si radica “Amore e responsabilità”, vale a dire la necessità di addurre giustificazioni fondate alle norme dell’etica sessuale cattolica. Gli anni dello Srodowisko sono caratterizzati da un positivo fermento culturale e religioso. Gli uomini e le donne, sempre più restii ad accettare ciecamente le regole della morale tradizionale, rendevano l’elaborazione di una simile riflessione quanto mai urgente. Tanto più che il Concilio Vaticano II, pur accogliendo le istanze di rinnovamento delle nuove coppie cristiane, le quali richiedevano fosse riconosciuta nella loro vocazione matrimoniale una reale chiamata alla santità, non elaborò una riflessione sostanzialmente nuova, ma si limitò a reinterpretare la dottrina tradizionale dei fini del matrimonio sulla base dell’amore coniugale. Nella costituzione Gaudium et Spes è, infatti, scritto: “L’intima comunione di vita e d’amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie , è stabilita dal patto coniugale, vale a dire dall’irrevocabile consenso personale. E così, è dall’atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono che nasce, anche davanti alla società, l’istituto del matrimonio, che ha stabilità 80 Cit. dall’intervento di D. Ciesielska, in occasione della giornata di studi “L’amore e la sua regola. La spiritualità coniugale di Karol Wojtyla” tenutasi presso il pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia, il 24/04/2009.

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per ordinamento divino. […] Per sua indole naturale, l’istituto stesso del matrimonio e l’amore coniugale, generoso e cosciente, sono ordinati alla procreazione e all’educazione della prole e in queste trovano il proprio coronamento” 81.Su questa scia sorgeranno, dopo il Concilio, numerosi movimenti carismatici, volti all’approfondimento della spiritualità coniugale, ma la risposta più forte a questa nuova tendenza è certamente l’enciclica di Paolo VI, pubblicata nel 1968, Humanae Vitae. In questo testo l’atto coniugale è presentato al di là delle sue finalità riproduttive e riconosciuto come momento principale dell’intera vita coniugale, in cui gli sposi, nel loro reciproco donarsi, costruiscono e perfezionano ogni volta la loro unione. In una allocuzione di Paolo VI troviamo: “ Troppo spesso è parso, ma a torto, che la Chiesa nutra delle riserve sull’amore umano. Per questo oggi vogliamo ben chiaramente dirvi: no, Dio non è nemico delle grandi realtà umane, né la Chiesa misconosce affatto i valori che quotidianamente milioni di famiglie vivono. […]. Queste coppie hanno trovato nella loro vita coniugale il cammino alla santità, in questa comunità di vita che è la sola a essere fondata su un sacramento”82. La posizione del pontefice in questa enciclica, rivolta all’approfondimento dei problemi relativi alla regolamentazione delle nascite, suscitò uno smottamento non solo nel pensiero dei cattolici, ma, più in generale, nella stessa opinione pubblica. Per una maggiore comprensione del nostro autore occorre, tuttavia, tenerla ben presente, in quanto è propriamente in relazione alle questioni sollevate dalla lettera papale che si svilupperà molto del pensiero di Wojtyla sull’amore umano. L’importanza della riflessione dell’autore, alla luce di questo particolare contesto, sarà, forse, proprio quella di aver saputo rispondere alle inquietudini che emergono sullo sfondo dell’Humanae vitae , proponendo, primo fra tutti, ciò che effettivamente mancava, un corpus filosofico e teologico sul matrimonio e sulla sessualità. In questo parte voglio, dunque, occuparmi del pensiero di Wojtyla intorno all’amore umano, manifesto in tutte le sue dimensioni, per verificarne i fondamenti filosofici, antropologici e morali. Solo in questo modo è possibile acquistarne una visione autentica e individuarne la fondamentale novità all’interno del pensiero contemporaneo.

81 Gaudium et spes, parte 2, art. 48.82 Paolo VI, Allocuzione del 4 maggio 1970.

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1. L’AMORE IN GENERALE

§1. La struttura della partecipazioneL’analisi dell’operatività, compiuta nella prima parte del lavoro, ha condotto all’individuazione della correlazione intrinseca in ogni azione umana tra la persona e l’atto, attraverso la quale si manifesta il valore essenziale della persona stessa, la sua verità e il suo telos. Si vuole ora vedere come questo valore personale83, insito nell’esperienza “l’uomo agisce”, si inserisca all’interno della realtà intersoggettiva in cui, effettivamente, l’uomo si trova a compiere i propri atti insieme agli altri, nelle relazione interumane più varie e diversificate, verificando, infine, in che modo il soggetto sia in grado di autorealizzarsi in questo contesto, conformemente alla struttura dell’autopossesso e dell’autodominio. Seguendo la stessa linea metodologica proposta dall’autore per l’interpretazione della persona nella sua correlazione con l’atto, occorre accostarsi alla dimensione dell’intersoggettività umana a partire dall’analisi del fenomeno “l’uomo agisce insieme agli altri”. Sebbene questa espressione possa sembrare sommaria rispetto alla complessità dei dinamismi propri delle relazioni sociali e comunitarie dell’uomo, essa racchiude, in modo essenziale, il fondamento di ogni tipo di partecipazione; anzi, costituisce la via privilegiata di accesso a questa nuova realtà umana. Ogni atto che di fatto la persona compie come membro delle diverse comunità, società e collettività cui appartiene, resta atto della persona: è dunque il carattere sociale e comunitario a radicarsi su quello personale e non viceversa. L’intento principale di questo capitolo sarà, pertanto, rintracciare il valore personalistico degli atti propri della cooperazione e della coesistenza dell’uomo, in cui si svela il valore della persona sulla base della sostanziale unità tra persona e atto. Per dirla con le parole di Wojtyla, le domande fondamentali che guideranno le seguenti riflessioni saranno: ‹‹ in che modo l’uomo, agendo insieme con gli altri, in varie relazioni inter-umane o sociali, realizza se stesso? In che modo il suo atto mantiene allora quella specifica unità con la persona che

83 Il valore personale – o personalistico – dell’atto, è il valore inerente al compimento dell’atto stesso, nel quale trova espressione, nel modo più essenziale possibile, il valore della persona. Si distingue, pertanto, o meglio, precede e fonda il valore morale, in senso stretto, dell’atto compiuto. Il senso etico dell’atto, il suo essere bene o male, dipende, infatti, in modo sostanziale, dall’effettivo compimento dell’atto secondo i principi propri della persona. Nel caso in cui il compimento dell’atto non corrispondesse ad una reale autodeterminazione, anche il valore morale dell’atto compiuto perderebbe in parte il proprio fondamento.

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abbiamo definito trascendenza della persona nell’atto, e quella che abbiamo definito integrazione della persona nell’atto? In che modo, nell’ambito del fatto di “agire insieme con gli altri”, i suoi atti mantengono quella gerarchia che risulta sia dalla trascendenza che dall’integrazione?›› 84. Il carattere dei quesiti proposti rimanda alla concezione tradizionale della metafisica, la quale individua, senza, tuttavia, esplicarne i contenuti, la caratteristica propria dell’essere umano di esistere e agire con gli altri nella definizione “natura sociale”. Questa espressione appare, tuttavia, già in qualche modo mediata dall’esperienza stessa. Occorre, perciò, penetrare primariamente nell’esperienza dell’”uomo agisce insieme con gli altri”, per individuarne il momento specifico nel quale la persona si rivela nella sua integrità. Karol Wojtya connota questo dinamismo in cui l’uomo, agendo insieme agli altri, mantiene nell’azione il valore personalistico dell’atto, col termine “partecipazione”. Il significato di questo concetto proposto dall’autore trascende l’idea di un semplice “prendere parte”, mirando al fondamento stesso dell’agire in comune, nella sua appartenenza alla struttura della persona. Con partecipazione non intende, dunque, la pura manifestazione esteriore dell’atto compiuto in collaborazione con altri, ma si rivolge alla corrispondenza di questo fatto con la trascendenza stessa della persona: ‹‹la partecipazione è quindi il tratto caratteristico della persona, tratto interiore ed omogeneo che fa sì che, esistendo ed agendo “insieme con gli altri”, la persona esista ed agisca come persona›› 85. In questo senso, la partecipazione è una proprietà specifica della persona attraverso la quale essa, agendo insieme con gli altri, realizza non solo la propria trascendenza e integrazione, ma anche ciò che appartiene all’azione comune in quanto tale.La cooperazione umana mantiene il valore della persona solo sulla base della partecipazione: solo una reale partecipazione consente alla persona di esistere e agire all’interno di una comunità come e in quanto persona e garantisce, al contempo, che il valore personale dell’atto di tutti coloro che partecipativamente si inseriscono nella cooperazione stessa sia mantenuto nella sua autenticità.Il concetto di partecipazione non si esaurisce, tuttavia, nella sua corrispondenza con la struttura della persona umana. Anzi, il suo intrinseco valore personalistico richiama un significato nuovo, individuato dall’autore nel “valore normativo della partecipazione”. Questo specifico valore caratterizza due momenti fondamentali interni alla partecipazione: da un lato indica la modalità 84 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1175.

85 K. Wojtyla, Persona e atto, pp. 1178-1179.

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attraverso la quale la persona è chiamata a realizzarsi nel suo agire con gli altri, conformemente alla struttura dell’autodeterminazione che le è propria; dall’altro, il valore personalistico dell’atto all’interno delle varie forme di cooperazione impone che chiunque possa inserirsi in esse, realizzandosi e autodeterminandosi. In questo senso la partecipazione istituisce una sorta di dovere, una norma interiore e comune che fa direttamente appello al diritto sostanziale e naturale della persona di poter compiere atti, in conformità con la struttura propria dell’autopossesso e dell’autodominio.Il valore personalistico fonda, in questo modo, l’ordine etico dell’azione e della cooperazione ed esige che sempre venga mantenuta all’interno dell’”agire insieme con gli altri”, in tutte le sue forme, una partecipazione autentica attraverso la quale i membri possano realizzarsi mediante il loro agire in comune.Nell’ambito sociale della vita umana, l’autore rileva due fondamentali alterazioni dell’ideale di partecipazione nelle quali, questo diritto sostanziale della persona, viene leso e distorto secondo una duplice modalità: o il soggetto agente, autonomamente, decide di inserirsi nell’azione comune come individuo a sé stante, al di fuori della norma della partecipazione, o la partecipazione autentica gli è resa impossibile dalle condizioni esterne. Queste due opzioni sono alla base di due sistemi sociali generali che presentano, nelle loro implicazioni teoriche e pratiche, una mutazione sostanziale del significato assiologico della persona e del valore etico del suo agire insieme con gli altri 86.

86 Le riflessioni dell’autore sul carattere personalistico della struttura sociale e della morale sono dettate dalla particolare preoccupazione che Wojtyla nutriva soprattutto nei confronti dell’affermazione storico-culturale del marxismo e della fondamentale negazione della soggettività umana che tale sistema inseriva all’interno della prassi comune. Il pensiero sociale di Wojtyla è profondamente influenzato dagli eventi storici che si è trovato a vivere in prima persona tanto sotto la dominazione nazista, quanto sotto quella comunista, della Polonia. L’esperienza dei regimi totalitari ha contribuito notevolmente allo sviluppo della teoria personalistica della cultura, come patrimonio comune del popolo, derivante dall’accordo tra prassi e morale, sul fondamento del valore del persona (cfr. K. Wojtyla, Il problema del costituirsi della cultura attraverso la “praxis” umana). La cultura così concepita rappresenta, per Wojtyla, l’antidoto al diffondersi del fenomeno dell’alienazione proprio di tali regimi e, più in generale, dei sistemi fondati su una concezione antipersonalista della società. Questa interpretazione rappresenta la motivazione radicale del suo attivismo nella resistenza culturale della sua nazione. Pur non potendo trattare in questa sede del particolare impegno col quale Wojtyla contribuì attivamente tanto per mezzo delle sue riflessioni, quanto attraverso interventi concreti, alla difesa della dignità e dei diritti fondamentali della persona nei regimi totalitari sotto i quali trascorse gran parte della sua vita, voglio, tuttavia,

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- Individualismo: il concetto di persona viene ridotto e scalzato dall’ideale dell’individuo. Questa interpretazione dell’essere umano elimina la dimensione intersoggettiva propria della realtà personale e costituisce l’uomo come ente orientato esclusivamente verso se stesso. Il bene della comunità fondata dalla partecipazione è soppiantato dal bene superiore dell’individuo e isolato dal bene comune. L’interazione tra gli individui è, in tal modo, considerata una necessità concreta, ma priva di carattere positivo per l’affermazione del singolo. In questo senso, il bene individuale si contrappone, secondo le leggi proprie di una dinamica difensivo-competitiva, ad ogni altro bene individuale e rende impossibile qualsiasi forma autentica di cooperazione e di vita comunitaria.

- Totalismo: il valore dell’individuo è assorbito dall’ideale comunitario. Il singolo non può scegliere il proprio bene attraverso la partecipazione, ma deve conformarsi al bene superiore della comunità, cui ogni altro bene individuale deve subordinarsi secondo norme rigorosamente costrittive. L’ideale della comunità si contrappone rigorosamente all’individuo, limitandone la possibilità di ricercare il suo stesso bene. Anche in questo caso, dunque, la cooperazione e la vita comunitaria appaiono falsate, in quanto non corrispondenti ad una partecipazione interiormente vissuta, ma solo ad una forma esteriore di collaborazione imposta dall’esterno.

Entrambe queste concezioni si radicano su sistemi antipersonalistici e apersonalistici, proprio perché, soppiantando, ciascuno secondo le proprie modalità, l’ideale personale della partecipazione, negano il diritto e il dovere fondamentale della persona di compiere atti strettamente personali all’interno della comunità e di realizzarsi in essi. Il carattere sociale di questi modelli antipersonalistici introduce il concetto di alienazione, realtà in cui si rende impossibile l’autocompimento della persona nel suo agire con gli altri e, dunque, si nega la possibilità stessa del perseguimento della felicità della persona nel senso della sua autorealizzazione all’interno della comunità. In riferimento all’alienazione, come fenomeno proprio dei sistemi culturali del suo secolo, Wojtyla ritiene che: ‹‹essa sorga dalla eliminazione del valore

sottolineare come sia impossibile accedere autenticamente alla teoria della comunità e della partecipazione prescindendo da questa relazione che, ancora una volta, segna la caratteristica connessione tra esperienza e teoria, vita e dottrina, interna a tutto il pensiero di questo autore.

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assoluto della persona come criterio dell’autenticità dell’impegno umano in qualsiasi vicenda›› 87.Al di là della molteplicità delle forme che i sistemi antipersonalistici hanno assunto e possono assumere nel corso della storia, il nucleo comune della loro impostazione è la negazione radicale della proprietà sostanziale della persona nel suo “agire insieme con gli altri”, vale a dire della libertà dell’atto, intesa, così come la concepisce Wojtyla, alla luce del valore personalistico dell’atto stesso. L’ideale di libertà, proposto dall’autore, non corrisponde al fondamento di un agire anarchico, né si contrappone alla regolamentazione del vivere comunitario secondo specifiche e opportune limitazioni: l’atto, nella sua sostanziale libertà, determina e condiziona l’ordine etico, normalizzando la partecipazione, senza per questo lederne il valore personale. A partire dalla coincidenza tra antropologia e etica emersa nella prima parte del lavoro, si è, infatti, visto come la persona realizzi se stessa solo nel bene morale del proprio atto. La legittimità etica dell’azione della persona è, dunque, vincolata al valore personalistico del suo compimento e tale valore non può mai corrispondere al male morale: ‹‹il male – infatti - è sempre una non realizzazione. E’ chiaro che l’uomo ha la libertà di azione, ha il diritto di compiere atti, ma non ha il diritto di agire male›› 88.

§2. Persona e comunitàIl principio di partecipazione, proprietà essenziale della persona, apre la strada all’analisi della dimensione corrispondente alla struttura dell’”agire insieme agli altri”, che è la comunità umana.Questa nuova realtà si configura come un corpo, fondato e formato dalle persone attraverso la loro intrinseca capacità di partecipazione. E’, dunque, questa proprietà a rappresentare il tratto essenziale della comunità: in essa la persona, ogni persona, è in grado di realizzare il proprio valore personale all’interno della realtà, strettamente umana, del “vivere ed agire insieme agli altri”. A partire dal carattere personale della partecipazione, anche la comunità si costituisce in senso rigorosamente personalistico, così che, l’insieme dei

87 A.M. Wierzbicki, L’azione autorealizzazione della persona umana. L’esperienza dell’agire secondo Karol Wojtyla, intervento tenuto in occasione del X Colloquio dell’Area Internazionale di Ricerca in Teologia Morale, L’azione, fonte di novità. Teoria dell’azione e compimento della persona:ermeneutiche a confronto, svoltosi a Roma il 20 novembre 2009.88 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1186.

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membri che la compongono, realizzano nella loro cooperazione e coesistenza una nuova soggettività, i cui dinamismi si avvicinano a quelli propri della persona stessa. Occorre, tuttavia, sottolineare, come questa nuova struttura non sia definibile soggettività in senso stretto, quanto, analogicamente, una ‹‹“quasi-soggettività”, poiché è sempre l’uomo-persona ad essere il proprio (sostanziale) soggetto dell’esistere e dell’agire, anche quando si realizza insieme con gli altri›› 89. La modalità specifica con la quale la persona si inserisce nella comunità, conformemente ai propri dinamismi, è quella che la caratterizza come membro. Numerose sono le qualifiche che esprimono questo tipo di appartenenza, a seconda del tipo di comunità cui ci si riferisce, siano esse “comunità dell’esistere” (famiglia, stato, etc.) o “comunità dell’agire” (per esempio i vari contesti lavorativi, organizzativi, etc.). L’interesse specifico dell’autore appare rivolto alla seconda tipologia, nella quale emerge, con maggiore chiarezza, il momento peculiare della trascendenza della persona nella sua correlazione con l’atto 90. All’interno della comunità radicata sulla cooperazione Wojtyla individua due momenti fondamentali. Nel primo emerge l’aspetto oggettivo, fondato dalla comunanza di intenti che unisce i vari membri, vale a dire lo scopo, propriamente detto, che i membri assumono di comune accordo. Il significato oggettivo di questo agire insieme non è, tuttavia, sufficiente per determinare la cooperazione autentica dei membri stessi. Dall’altro, la partecipazione, come momento soggettivo dell’agire insieme, in cui si realizza concretamente la cooperazione attraverso il momento decisionale della persona la quale, in tal modo, sceglie liberamente ciò che scelgono gli altri come proprio bene. Ciò che fonda il momento soggettivo proprio della comunità, ossia la cooperazione in senso stretto, è quindi l’idea del bene comune 91. Questo principio, radicato sulla 89K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1188.90 L’autore afferma, nelle sua analisi intorno al concetto di partecipazione, di prendere in esame soprattutto la comunità dell’agire in quanto è in essa che emerge nuovamente la correlazione dinamica della persona con l’atto attraverso la quale è possibile determinare il valore personalistico degli atti che la persona compie al suo interno, come membro, e quindi accedere ad una comprensione essenziale di questa realtà. Tuttavia, l’autore stesso ricorda come la comunità dell’agire sia condizionata dalla comunità dell’esistere e come il momento personale proprio della comunità, la partecipazione attraverso il bene comune, si realizzi in modo più autentico e duraturo all’interno di quest’ultimo tipo di struttura.91 L’idea di “bene comune”, così delineata, è qui distinta con precisione dall’ideale del “bene della comunità”, adottato all’interno dei sistemi totalistici prima descritti. Il bene della comunità si costituisce come fine oggettivo posto di fronte al singolo, la cui

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partecipazione, non si riduce esclusivamente al fine oggettivo al quale i membri si rivolgono insieme mediante la loro unione di intenti (il bene della comunità), ma rivela e fonda la partecipazione autentica attraverso il momento della scelta personale, in cui il membro compie il proprio atto in concordanza con il valore e con il fine che la comunità stessa ha assunto. In questo senso, il bene comune trascende il suo significato oggettivo e si innesta nella struttura della persona, in piena corrispondenza con la sua natura sociale. L’uomo, dunque, si inserisce nella comunità, conservando i propri dinamismi e, partecipando ad essa, sceglie come suo bene, atto a realizzare se stessa, ciò che gli altri scelgono e per il fatto che lo scelgono. Nei propri atti, guidati dal bene comune, la persona coopera per arricchire la propria comunità, anche a discapito di alcuni beni strettamente individuali. Questa dinamica, propria della partecipazione autentica, instaura un legame di solidarietà tra i membri della comunità, ossia un atteggiamento caratterizzato da un costante riferimento al bene comune, attraverso il quale il soggetto assume il proprio ruolo e la propria responsabilità all’interno della cooperazione in vista del bene di tutti. Questa capacità è esclusiva della persona in quanto tale ed è ciò che consente alla persona stessa di scoprirsi e costruirsi autenticamente nel rapporto con gli altri. Il membro della comunità vive, in tal modo, la propria partecipazione ricercando il suo posto all’interno di essa, per poter realizzare, nel perseguimento reale del bene comune, la propria trascendenza. Questo processo di inserimento non esclude il presentarsi di tensioni tra le posizioni dei vari membri della comunità. La struttura della comunità implica un atteggiamento attivo da parte della persona: essa è chiamata ad isolare le proprie predisposizioni soggettive per rivolgersi sempre, nel modo più obbiettivo possibile, alla ricerca di ciò che è autenticamente vero e giusto, ossia di quel valore effettivamente corrispondente al bene comune. Questo comportamento, senza alcuna contraddizione rispetto al principio di solidarietà, anzi, in collaborazione con esso, presuppone la capacità di saper vivere e gestire anche dinamiche di opposizione, come momento specifico nel quale, mediante il dialogo, è possibile un confronto efficace nell’affermazione del vero bene comune e delle adeguate modalità di perseguimento di tale bene 92.

realizzazione, tuttavia, non implica che il soggetto lo assuma, con un libero movimento interiore, come bene personale. In questo modo, l’atto col quale l’individuo persegue il bene della comunità non necessariamente corrisponde ad un atto autentico, in quanto interiormente privo del valore personalistico che determina l’atto della persona propriamente detto.

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Come per le forme di partecipazione, Wojtyla distingue accuratamente l’autenticità dell’atteggiamento solidale e di quello di opposizione, propri della natura della comunità, dalle loro mistificazioni.

- Il sentimento di solidarietà produce, maturando, una tendenza alla conformazione dei comportamenti. Questo processo, di per sé positivo, trova un punto di rottura quando la persona, assorbendo passivamente la posizione degli altri, sostituisce la propria solidarietà con un atteggiamento di arrendevolezza che spinge ad appianare le tensioni dell’opposizione. Questa variazione del principio di solidarietà sottrae il principio della partecipazione, così che la persona cessa di agire in modo autentico e dunque, di autorealizzarsi nella comunità. Questa interpretazione falsante della solidarietà porta in sé un evidente difetto personalistico, contribuendo all’indebolimento dell’operatività e della trascendenza della persona nei suoi atti comunitari.

- L’atteggiamento di opposizione contiene una propria energia costruttiva all’interno delle dinamiche comunitarie, riproponendo continuamente la verifica dell’effettivo riferimento al vero del bene assunto dalla comunità. In questo modo contribuisce al perfezionamento della comunità, all’inserimento autentico del membro al suo interno mediante una partecipazione attiva e costituisce l’antidoto naturale ai comportamenti conformistici. Anche in questo caso occorre assicurarsi che questa tendenza non degeneri in una posizione di sterile dissenso, in cui le risposte di protesta attuate mediante lo “scansarsi” o la rinuncia, non sottendono una volontà costruttiva, ma solo una modalità di sottrazione all’impegno della partecipazione.

Entrambi questi atteggiamenti possono essere prevenuti o individuati attraverso il principio del dialogo. Questa realtà corrisponde alla natura autentica del bene comune, contribuendo ad accrescere il senso della solidarietà propria della comunità, indirizzando costruttivamente gli impulsi tensivi dell’opposizione, scartandone la componente soggettiva e riferendoli costantemente al vero e al giusto nei quali il bene si realizza.

92 Il bene comune non è dato oggettivo esteriore fisso e immutabile, ma il frutto di un costante confronto dei membri con la verità oggettiva. Nell’assunzione di tale bene e nella sua riconferma incessante, il dialogo si costituisce come metodo costruttivo di indagine, nel quale, il riferimento del valore al vero, si realizza in senso autentico. In questo senso, il dialogo non si rappresenta il luogo in cui le divergenze vengono appianate per mezzo del convincimento reciproco, ma quello spazio ideale in cui il bene comune prende forma sul fondamento della partecipazione.

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Attraverso il concetto di comunità, Wojtyla mostra la persona all’interno delle dinamiche intersoggettive che costituiscono la fitta trama della sua esistenza. A partire dalle problematiche ad essa inerente mira alla dimensione più profonda e radicale della sua essenza che, altrimenti, non sarebbe stato possibile individuare. Sussiste, infatti, una relazione che la persona sperimenta con l’altro, anteriore alla realtà partecipativa della vita comunitaria, in cui l’altra persona si dà come “prossimo”. Questo termine indica un rapporto di vicinanza ideale che travalica la prossimità realizzata tra i membri di una stessa comunità. Sebbene la struttura della comunità crei un avvicinamento tra i membri, rendendo gli altri in qualche modo “più prossimi”, il concetto di “prossimo” in questa relazione risulta già presupposto. Di fatto Wojtyla, col termine “prossimo”, si riferisce ad una caratteristica inerente al valore della persona, al di là dell’appartenenza della stessa a qualsivoglia comunità o società. E’ un tratto essenziale e universale proprio di qualsiasi essere umano, radicato sulla sua stessa umanità, quale essenza propria della persona. Questa comunanza rende l’altro, prossimo, vicino alla mia condizione, in un certo senso, un mio “simile”. Il fondamento di tale prossimità costituisce per Wojtyla una ”piattaforma comunitaria” o “comunità fondamentale” su cui si radica ogni altra possibile comunità umana. La persona si trova, in tal modo, primariamente inserita all’interno della comunità umana, attraverso la quale è messa in condizione di partecipare non solo alla comunità, agendo e vivendo con gli altri, ma, soprattutto, all’umanità stessa degli altri. L’idea di partecipazione si costituisce alla luce di questa interrelazione fra gli uomini a partire dalla propria natura nella sua dimensione più profondamente personale e universale: ‹‹la capacità di partecipazione all’umanità di ogni uomo costituisce il nucleo di ogni partecipazione e condiziona il valore personalistico do ogni agire ed esistere “insieme con gli altri”›› 93. In sintesi, il sistema di riferimento del “prossimo”, nella sua radicalità e semplicità, trascende e fonda ogni altro sistema comunitario propriamente umano ed è al suo interno che si realizza con pienezza l’ideale di partecipazione richiesto dalla struttura tanto della comunità, quanto della persona.Considerare le problematiche proprie delle relazioni interpersonali sul fondamento comune dell’umanità, consentirà all’autore di determinare con chiarezza le norme etiche universali cui si deve conformare l’atto della persona di fronte e verso gli altri, nel rispetto della propria e altrui dignità personale.

§3. La norma personalistica e il comandamento dell’amore

93 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1209.

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All’interno della comunità umana la persona si trova di fronte all’altro, al prossimo, in un rapporto di assoluta eguaglianza e parità. Questa situazione è il punto di partenza per poter accedere finalmente alla tematica centrale di questo capitolo dedicato all’amore umano. Analizzando il significato della partecipazione nelle comunità dell’esistere e dell’agire, è stato individuato un particolare valore normativo intrinseco alla partecipazione stessa, il quale evidenzia non solo il momento dell’autodeterminazione proprio del soggetto che compie l’atto insieme agli altri, ma anche il momento dell’autodeterminazione degli altri, i quali, in virtù del loro valore personale, sono ugualmente chiamati ad autorealizzarsi nel loro agire comunitario. Stabilendo, ora, una base più ampia e radicale, quella delle relazioni interpersonali col prossimo, è possibile penetrare nel cuore di questa norma ricercandone l’intrinseco valore personalistico universale. Per far questo è necessario analizzare le possibilità di azione che il soggetto può assumere nei confronti dell’altro e verificarne la corrispondenza con quanto esige la struttura propria della persona.In primo luogo, ad uno sguardo generale, appare evidente come nell’esperienza quotidiana l’uomo non sia solo soggetto dell’azione, ma, talvolta, anzi piuttosto frequentemente, si trovi a costituire l’oggetto dell’azione di qualcun altro. Per comprendere questo tipo di relazione e le sue conseguenze Karol Wojtyla propone una particolare analisi filologica: l’analisi del significato della parola “usare”.‹‹Usare significa adoperare qualcosa come strumento, in altri termini servirsi di un oggetto di azione come mezzo per raggiungere il fine al quale tende il soggetto che agisce›› 94. Questo tipo di rapporto, in cui il soggetto persegue autonomamente un fine e subordina a tale fine determinati mezzi, atti al suo raggiungimento, rappresenta la dinamica naturale dell’azione dell’uomo all’interno della realtà nei confronti di ciò che lo circonda, ma che, tuttavia, non appartiene alla sua specie. Quando, infatti, ad essere oggetto strumentale dell’azione è una persona, subentrano numerose implicazione morali, radicate sulla base della natura personale, che necessitano di essere esplicate. Nella prima parte del lavoro è stata perseguita la struttura fondamentale della persona e si è tentato di individuare come essa sia non solo capace, ma, in virtù del suo ethos interiore, chiamata, per mezzo delle sue facoltà spirituali, ad autodeterminarsi, ossia a scegliere autonomamente i propri fini. Alla luce di queste conclusioni, voler assumere l’altro come mezzo della propria azione significa negare la sua essenza personale. Questo principio ha per Wojtyla una

94 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 474.

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portata assolutamente universale, in quanto radicato sulla struttura ontologica dell’essere umano e costituisce, pertanto, una norma fondamentale e inviolabile: ‹‹nessuno ha il diritto di servirsi di un persona, di usarne come un mezzo, neppure Dio, suo Creatore95›› 96.Il principio morale elementare in questione, richiesto dall’ordine della natura, trova in Immanuel Kant la sua prima formulazione all’interno della massima morale: “Agisci in modo tale da non trattare la persona altrui semplicemente come un mezzo, ma sempre come anche un fine della tua azione”. Il contributo specificamente wojtyliano è quello non solo di reintepretare questa norma in modo strettamente personalistico: ‹‹ogni volta che nella tua condotta una persona è oggetto della tua azione, non dimenticare che non devi trattarla soltanto come un mezzo, come no strumento, ma tieni conto del fatto che anch’essa ha, o perlomeno dovrebbe avere, il proprio fine›› 97, ma, soprattutto, quello di aver saputo trascendere la norme stessa, che per sua natura determina negativamente l’atteggiamento idoneo da assumere nei confronti dell’altra persona, prospettando una concreta possibilità d’azione, conforme al valore personale tanto del soggetto, quanto dell’oggetto.La via positiva delineata dall’autore, come autentico antidoto alla possibilità di sfruttamento della persona, è l’amore. Questa nuova realtà, emersa indirettamente dalla norma personalistica, costituisce un legame effettivo tra le persone, costruito sull’idea del bene comune. Riprendendo nuovamente questo concetto, ora in modo più radicale e strettamente personalistico, Wojtyla mostra non solo il fine comune cui le persone coinvolte tendono all’unisono, ma la radice stessa della loro unione. Il bene comune costituisce il nucleo fondamentale di ogni amore e la scelta comune che lo presuppone è ciò che propriamente pone le persone su un piano di effettiva uguaglianza, in cui non può aver luogo alcuna prevaricazione o sfruttamento. L’amore, come unica forma di relazione possibile, conforme alla dignità e alla natura dell’essere umano, ha una portata antropologica sconvolgente. Non indica, infatti, esclusivamente la natura dell’atto che solo alla persona è dovuto, ma anche l’atto di cui solo la persona, nel mondo degli esseri, è capace: la

95 L’uso strumentale dell’uomo da parte di Dio è reso impossibile dall’idea stessa di libero arbitrio. In questo senso l’azione di Dio si determina nei confronti della volontà umana come orientamento della stessa verso determinati fini attraverso la conoscenza. Perché l’uomo, a conoscenza di un determinato fine tenda coscientemente verso di esso per realizzarlo come proprio, è necessario ciò che è stato definito un atto propriamente umano, personale, fondato sul momento libero della scelta. 96 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 478.97 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 479.

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proprietà esclusiva dell’essere umano che emerge nella relazione con l’altro è proprio questa “facoltà di amare”. L’essere umano è l’unica creatura che, per natura, non solo tende al bene, ma che, in virtù della sua volontà e del libero arbitrio, lo cerca coscientemente, insieme agli altri. Questa capacità costituisce la potenzialità tutta umana e personale di amare: ‹‹Solo le persone partecipano a tale amore››.La capacità di scegliere insieme il proprio fine e di essere disposti a subordinarsi ad esso è certamente un atteggiamento da sviluppare e maturare, ma il solo in grado di epurare le relazioni interpersonali da ogni comportamento di tipo utilitaristico nei confronti dell’altro. Sulla base di questa considerazioni l’autore propone un’interessante critica all’utilitarismo e alla sua assiologia 98.Sebbene, da Epicureo in poi, la tendenza utilitaristica percorra tutte le tappe della storia dell’umanità, trova la sua prima formulazione filosofica e dottrinale solo a cavallo tra il XVIII e il XIX sec. ad opera di J. Bentham e J.S. Mill. L’intento fondamentale dei due pensatori era quello di trasformare l’etica in una “scienza positiva della condotta umana”, attraverso l’elaborazione del “calcolo dei beni” come metodo pressoché esatto per la valutazione morale delle azioni umane. In particolare, nell’interpretazione edonista di Bentham, la considerazione del fine dell’azione, desunto dalla natura ontologica e metafisica della persona, viene sostituito dalla centralità dei moventi che di volta in volta spingono effettivamente l’uomo ad agire. Nello specifico Bentham rintraccia nel piacere-godimento il movente supremo cui l’uomo subordina il proprio comportamento e verso il quale tende in ogni suo agire. Dal punto di vista etimologico, il termine utilitarismo è ricondotto da Wojtyla al verbo latino uti, utilizzare, trarre profitto da- , e all’aggettivo utilis, utile. Questo perché di fatto, al di là delle varie sfumature assunte all’interno delle diverse correnti dell’utilitarismo, questa concezione dell’agire umano concentra tutta la propria attenzione sull’efficacia e sull’utilità dell’azione umana ai fini del raggiungimento del piacere e della felicità. Il principio di utilità adottato dall’utilitarismo implica che ogni azione sia finalizzata al raggiungimento del

98 Le linee guida di questa critica seguono la strada aperta da Immanuel Kant nel suo vivo attacco all’utilitarismo. Il fondamento della critica kantiana all’utilitarismo poggia sull’imperativo categorico della ragion pratica ‹‹Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare, per tua volontà, la legge universale della natura›› (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi). Questo imperativo categorico implica un necessario riconoscimento degli altri come soggetti morali per i quali la legge deve poter valere e, dunque, il rispetto assoluto della loro dignità. In questo senso la prima formula assume la seconda forma ‹‹ opera in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo››.

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massimo piacere e del minimo dispiacere possibile. Il carattere sopraindividuale del piacere fa sì che questo stesso principio, principium utilitatis, costituisca la norma morale non solo del singolo, ma della collettività in genere, la quale deve tendere a sua volta al raggiungimento della ‹‹massima felicità divisa nel maggior numero possibile di persone›› 99. Wojtyla individua il limite sostanziale dell’utilitarismo, al di là della superficiale coerenza del sistema, nella considerazione del piacere come unico e massimo bene dell’uomo ( principio che costituisce il cuore dell’utilitarismo stesso). In effetti, per essenza, il piacere non si dà all’interno dell’azione umana come fine fondamentale, ma come bene accessorio e sempre attuale. Si presenta occasionalmente nell’agire e, soprattutto, non costituisce l’unico criterio del comportamento razionale. In tal senso, tanto il piacere, quanto la sua controparte, il dis-piacere, costituiscono un elemento non determinabile a priori, prima dell’atto stesso.L’applicazione del principio di utilità alla condotta umana prova il limite della sua struttura nello stridente contrasto con la norma personalistica introdotta poco sopra. Legittimare la norma morale utilitarista equivarrebbe, infatti, ad ammettere che, in riferimento al piacere, come sommo e unico bene, ogni mezzo sia necessario per il suo massimo conseguimento. Significherebbe, dunque, convalidare anche l’uso strumentale delle altre persone in vista della felicità individuale. Il piano egualitario introdotto dall’idea del prossimo e dalla norma personalista, l’unico sul quale sia realmente possibile fondare un sistema di autentiche relazioni interpersonali, sarebbe sottratto dal piano dell’ “io”, il quale si troverebbe, piuttosto, a lottare per affermare il proprio bene e il proprio piacere. In questa luce, le parole dell’autore acquistano un profondità di significato quasi tagliente: ‹‹l’utilitarismo appare come il programma di un egoismo coerente, da cui non si può passare ad un autentico altruismo›› 100. Di fatto, lo stesso Mill ritiene che l’interesse del singolo per la felicità altrui sia il frutto della legge di un’associazione psicologica, per cui si desidera il bene degli altri perché intimamente associato al proprio e comunque sempre strettamente vincolato dal risultato del personale calcolo della felicità. Se il momento negativo di questa critica consente di individuare il limite sostanziale non solo del sistema utilitarista, ma di ogni sistema morale e di condotta, in genere, fondato su principi esterni alla persona, nell’assunzione di un principio normativo essenzialmente instabile e soggettivo, in questo caso il piacere, passando al momento positivo e costruttivo, è possibile accedere all’idea di un bene oggettivo come base sostanziale dell’unione tra le persone. 99 Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. 100 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 490.

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Nel pensiero di Wojtyla questo bene oggettivo possiede i tratti del bene comune, scelto insieme dalle persone e cui le persone liberamente si sottomettono. Questo stesso bene è ciò che costituisce il loro legame autentico, svincolato dal relativismo del soggettivismo e dell’egoismo: è ciò che determina un oggettivo legame d’amore.Quanto a questo amore, ciò che è stato detto, tuttavia, contribuisce a delinearlo solo in senso negativo. Sebbene, infatti, l’analisi della norma personalistica e del comportamento strumentale della persona ha individuato le condizioni di esistenza di questa realtà, la domanda sulla sua natura resta ancora aperta. Cos’è dunque questo amore ? ‹‹ L’amore è comunione di persone›› 101. Questa frase è posta da Wojtyla così, slegata dal testo, a chiudere la critica all’utilitarismo, quasi come un avvertimento, un’anticipazione perentoria di tutto quello che sarà il suo messaggio e il suo pensiero intorno alla persona e all’amore umano. In effetti, la sintesi di significato, l’integralità concettuale che racchiude, costringe il lettore a fissarla nella mente, isolata e piena, come estremo punto di riferimento di tutte le riflessioni finora condotte. In questo capitolo si tenterà di esplicitare la ricchezza di questi contenuti, i quali condurranno ad una più profonda conoscenza dell’essere umano.In primo luogo occorre riprendere la norma personalistica proposta da Wojtyla, nella sua reinterpretazione dell’imperativo categorico kantiano alla luce della struttura della persona: ‹‹la persona è un bene nei confronti del quale solo l’amore costituisce l’atteggiamento adatto e valido››, e osservarne i due momenti essenziali:

- negativo: la persona, in virtù della dignità propria della sua stessa natura, costituisce un bene tale da non poter essere soggetta ad un uso strumentale da parte di altri, né essere assunta come mezzo per il raggiungimento dei fini altrui. (negazione del principio di utilizzazione )

- positivo: la persona esige dagli altri un atteggiamento conforme alla dignità della sua natura e che, in sostanza, non leda il suo diritto essenziale all’autodeterminazione. Tale comportamento deve necessariamente radicarsi sull’amore, quale specifica realtà umana in cui, a partire dall’idea di bene comune, si stabilisce un legame radicale e sostanziale tra le persone in cui ciascuno può realizzare liberamente se stesso. (affermazione del principio dell’amore )

101K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 491.

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La composizione di questa norma fondamentale, in cui si rispecchia la struttura della persona, prospetta un’assiologia di stampo strettamente personalistica che, ponendo la persona al di sopra di ogni altro valore, si contrappone nettamente alle gerarchie dei valori utilitariste. L’ordine dei valori fondato dalla norma personalistica orienta i rapporti interumani in corrispondenza tanto con l’ordine della persona, quanto col suo valore. Ciò caratterizza l’onestà fondamentale del principio dell’amore il quale, realizzando ciò che è dovuto alla persona, si pone, in tal modo, sul piano della giustizia. Amore e giustizia costituiscono per l’autore due ordini fondamentali per la piena comprensione della relazione interpersonale. La giustizia, riferendosi al valore costitutivo della persona, esige che essa venga amata. Si è, infatti, già individuato, come solo questo atteggiamento sia conforme alla natura della persona secondo il principio stesso della norma personalistica. Simultaneamente, l’amore per la persona, pur innestandosi sull’ordine fondamentale della giustizia, in qualche modo lo trascende, lo oltrepassa, nel suo riferimento essenziale e diretto alla persona stessa: l’amore implica, di fatto, un’ immediata affermazione del valore e della dignità propria della persona, mentre la giustizia non può che riferirsi a tale valore se non indirettamente. L’amore per l’altro comporta, dunque, un atteggiamento giusto verso di esso, parimenti, il suo significato non si riduce a questa giustizia. Il fine dell’amore rimane, infatti, sempre l’affermazione concreta del valore soprareale e soprautilitario della persona. Comprendere questa relazione tra amore e giustizia è fondamentale per la comprensione dell’idea del “giusto amore”, che in qualche modo, rappresenta il contenuto pratico ed effettivo della norma personalistica: amare ogni uomo, accordandogli ciò che gli è spetta in quanto persona. La forma della norma personalistica richiama, in ultima istanza, il contenuto del comandamento evangelico dell’amore ‹‹Ama il prossimo tuo come te stesso›› 102. Mediante il comandamento viene stabilito il piano delle relazioni con l’altro in quanto “prossimo”. La sua fondatezza e il suo criterio di attuabilità si radicano, tuttavia, nel riferimento alla norma stessa, attraverso la quale solo è

102Il comandamento evangelico dell’amore ‹‹Ama il prossimo tuo come te stesso›› è riconducibile, attraverso l’interpretazione personalistica, alla forma ‹‹Ama la persona››. Sebbene la norma personalistica non coincida con tale comandamento, tuttavia lo giustifica. Alla luce del riferimento del comandamento alla norma personalistica è così possibile considerare anche il dettato evangelico dell’amore come una norma personalistica in senso lato. In quanto norma, il comandamento determina la natura adeguata del rapporto dell’uomo con Dio e con gli altri.

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possibile determinare la natura di questo rivolgimento soprannaturale all’altro, sia esso Dio o l’uomo, in conformità con il comportamento che il valore della persona impone.

§4. Persona e dono di séProgressivamente si sta delineando un’idea precisa di amore che, mediata dal comandamento evangelico, si richiama all’ideale di amore cristiano, ma che, al contempo, nel suo riferimento alla norma personalistica, mostra i suoi aspetti oggettivi e universali. Per comprendere più a fondo il livello dell’indagine filosofica dell’autore sull’amore e le sue implicazioni antropologiche, ritengo opportuno effettuare un confronto con la tradizione filosofica greca, la cui riflessione ha profondamente segnato lo sviluppo della concezione occidentale intorno a questa realtà. La nozione di eros, introdotta da Platone, richiama direttamente la categoria del desiderio. Il racconto mitico della nascita di Eros, nel famoso dialogo del Simposio, costituisce la spiegazione su cui si fonda non solo la particolarità della condizione del semi-dio, ma, più in generale, la motivazione delle dinamiche proprie del fenomeno amoroso di cui Eros è immagine. Generato dall’unione delle due divinità, Poros e Penia, Abbondanza e Povertà, la sua natura demoniaca è instabile e precaria: ‹‹Per natura non è né mortale né immortale e talora nello stesso giorno fiorisce e vive, quando prospera, ma talvolta muore e resuscita ancora, proprio per la natura del padre. E quel che accumula sempre si dilegua, tanto che Amore non si trova mai né in povertà, né in ricchezza e si trova sempre in mezzo a sapienza e ignoranza›› 103. La tensione interna alla sua essenza, genera in Eros un bisogno sostanziale che alimenta il desiderio incessante verso il possesso di ciò che sempre le manca.Alla luce di questa concezione, la forza tensiva dell’eros diviene la ragione interna dell’amore, concepito come costante e crescente aspirazione alla pienezza. Questa particolare intenzionalità dell’amore erotico, col quale l’ “io” si rivolge all’altro per assumerlo in se stesso, contrasta, tuttavia, con ciò che abbiamo delineato essere la struttura della persona. ‹‹Per natura, o in altre parole in ragione della sua essenza ontica, la persona è padrona di se stessa, inalienabile e insostituibile quando si tratta del concorso della sua volontà e dell’impegno della sua libertà›› 104. Le facoltà spirituali della persona, sul fondamento delle quali la persona si mostra sui iuris e alteri incommunicabilis, sono, pertanto, la ragione per cui il tentativo di assorbimento dell’altro da parte dell’ “io”, come oggetto del proprio 103 Platone, Simposio, fr.203.e104 K. Wojyla, Amore e responsabilità, p. 585.

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desiderio, non solo è inadeguato, ma destinato fin da principio al fallimento. L’altro, nella sua sostanziale unicità e irripetibilità è l’inafferrabile. Lo sforzo di oggettivazione attuato attraverso l’intenzionalità propria della tensione erotica, scontrandosi con la trascendenza dell’alter-ego, non solo non realizza pienamente un atto di amore, ma costituisce una violazione dell’intima essenza della sua persona.L’incompatibilità della concezione erotica dell’amore con l’antropologia wojtyliana obbliga a cercare altrove la matrice del significato dell’amore all’interno del suo sistema. Il concetto in cui è possibile rintracciare i riflessi del pensiero dell’autore conduce all’ideale dell’agape cristiana 105. Nella tradizione cristiana il significato dell’amore in generale è profondamente influenzato dall’idea di un particolare legame tra Dio e le sue creature, all’interno del quale non solo la creazione e l’intera storia della salvezza appaiono dettate dall’infinito amore di Dio per l’uomo, ma l’uomo stesso, nel riconoscere la profondità di questo mistero, scopre il senso della sua esistenza nella sua fonte, Dio, e ad essa si rivolge, amandolo. La natura di questo vincolo ribalta sostanzialmente la nozione classica dell’amore erotico: da un lato, l’idea dell’amore concepito come desiderio, spinto dal bisogno, contrasta sostanzialmente con l’idea di un Dio, che pur bastando perfettamente a se stesso, orienta il proprio amore ad altro da sé; dall’altro, la struttura intenzionale dell’amore erotico non costituisce una base adeguata per il rapporto della creatura con il suo Creatore, il quale sempre si sottrae, nella sua assoluta trascendenza, a qualsiasi tentativo di possesso da parte dell’essere umano 106. In

105 Il termine agape compare per la prima volta nella traduzione biblica dei Settanta ad indicare la natura dell’amore dello Sposo per la sua Sposa all’interno della narrazione poetica del Cantico dei Cantici. Il termine, tuttavia, raggiunge la sua pienezza concettuale nel nuovo testamento, dove torna con maggiore frequenza e incisività nel riferimento all’amore che Dio ha per il suo Figlio nello Spirito Santo e che, nel sacrificio di amore di Cristo, è accordato anche all’uomo. La caratteristica fondamentale di questo amore è la gratuità col quale investe l’essere umano e attraverso la quale l’uomo stesso è portato al dono gratuito di sé. La concezione wojtyliana del dono di sé, come modalità mediante la quale l’uomo si autoconosce e autorealizza autenticamente, si accorda con la visione neotestamentaria dell’agape, quale via propria nella quale la persona raggiunge la pienezza della propria esistenza: ‹‹ Chiunque perde la sua vita la salverà ›› (lc 17,33). Cfr. M. Harper Mc Carthy, L’amore sponsale alla luce dell’“esperienza elementare”, in Amare l’amore umano, Cantagalli, Siena, 2007.106 La relazione di amore tra Dio e l’uomo oscilla tra due poli fondamentali. Da un lato l’assoluta sproporzione tra Creatore e creato stabilisce una distanza apparentemente incolmabile tra i due termini del rapporto che solo l’idea della somiglianza espressa in Genesi 1 può superare. Questa somiglianza si riferisce, secondo Wojtyla, alla natura

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tal modo la struttura del rapporto amante-amato non si sviluppa più secondo una logica di acquisizione, ma attraverso la nuova dinamica del dono: per amore Dio dona l’esistenza alle sue creature, per lo stesso amore dona suo Figlio; per amore l’uomo dona la sua esistenza a Dio, attraverso il dono di sé al prossimo. A partire dallo statuto metafisico dell’amore-agape della tradizione cristiana, Wojtyla inserisce la dinamica di questo tipo di amore all’interno dell’orizzonte strettamente umano, determinando non solo la struttura del rapporto interpersonale, ma anche l’atteggiamento che le persone all’interno di questo rapporto assumono di fronte al bene.

1) Nell’atto di amore il soggetto sceglie liberamente di donare se stessa alla persona, oggetto del suo amore. La direzione di questo movimento di donazione porta la persona che ama ad uscire da sé, trascendendo in modo effettivo la struttura del proprio autopossesso. Il soggetto, in tal modo, rinuncia liberamente e volontariamente alla propria inalienabilità, cessa di appartenere esclusivamente a se stesso, per concedere se stesso ad altri. Sebbene la dinamica del dono di sé si realizzi attraverso lo smarrimento del proprio “io” a favore dell’amato, tuttavia, questo movimento non comporta una perdita di esistenza da parte del soggetto. Wojtyla definisce questo fenomeno “estasi”107. In senso contrario rispetto alla prospettiva acquisitiva propria della concezione erotica di tradizione greca, nella quale l’ “io” tende intenzionalmente al possesso dell’altro, l’amore-agape si definisce come un processo di donazione in cui il soggetto, donando se stesso all’altro, trova il proprio essere accresciuto, arricchito ontologicamente. Ciò è reso possibile dall’ingresso estatico nella nuova sovrastruttura della comunione di persone che l’amore stesso fonda e

personale che appartiene tanto a Dio quanto all’essere umano e che viene confermata dall’essenza stessa del loro rapporto, quale legame d’amore. Solo le persone, infatti, sono capaci di amore e solo nell’amore le persone realizzano sostanzialmente le loro natura. Dall’altro, se sulla base di questa profonda comunanza l’uomo e Dio entrano in comunione, la sproporzione essenziale e ontologica non cessa di esistere. Poiché solo Dio è pienamente persona in atto, solo Dio all’interno della relazione è in grado di amare attualmente e pienamente l’uomo. L’amore dell’essere umano è invece in costante tensione e sviluppo: è una potenzialità, strictu sensu. La sua capacità di amare va di pari passo con la sua autorealizzazione e, in questo senso, non è mai pienamente attuale. Il limite sostanziale dell’essere umano all’interno del rapporto di amore col suo Creatore è tale che al suo interno l’uomo sia sempre sopraffatto dall’incommensurabile grandezza dell’Amato. Questa realtà trova la più alta espressione nelle esperienze mistiche, in cui la dimensione dell’estasi, descrive il contenuto proprio di questa relazione tra amante e Amato.107 K. Wojyla, Amore e responsabilità, p. 586.

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all’interno della quale la demarcazione strutturale soggetto-oggetto perde il proprio fondamento in funzione del riferimento al bene comune.

2) La particolarità della struttura donativa dell’amore decide dello specifico orientamento delle persone coinvolte in questo rapporto nei confronti dell’idea del bene. La donazione della persona all’altro comporta lo spostamento del fine dell’azione, dalla ricerca del proprio bene al conseguimento del bene altrui. In questo senso, l’amore non muove esclusivamente dall’altra persona in quanto bene in sé, ma dalla volontà del soggetto di perseguire il bene e la felicità dell’altro. Nella sua essenza più pura questo bene coincide col bene infinito, la pienezza oggettiva del bene: Dio.

Questi due momenti corrispondono ad uno specifico movimento interiore delle due facoltà spirituali dell’uomo, mediante le quali l’atto di amore si configura autenticamene come atto della persona: libertà e volontà.

A) L’amore impegna la libertà del soggetto attraverso la realizzazione del dono. Secondo la dinamica propria di questo momento, il soggetto liberamente cessa di possedersi a vantaggio della persona amata. La perdita consapevole dell’autopossesso, tuttavia, coincide con un’apparente limitazione della propria libertà. Sebbene in questo passaggio, nel quale la persona esce da sé verso il prossimo, la libertà sembra costituirsi negativamente, solo in tal modo realizza il suo potenziale creativo e risponde alla sua funzione essenziale: l’ “io” che possiede se stesso, proprio perché si possiede è in grado di trascendere se stesso e la propria struttura. In un certo senso questa è la condizione per mezzo della quale il soggetto può più di quanto strutturalmente potrebbe, vale a dire accogliere ciò che per natura è incontenibile, l’altro. Per questo nel momento della limitazione appare anche il momento della massima realizzazione della libertà nella corrispondenza con la sua finalità intrinseca: la libertà è fatta per amare.

B) La libertà rappresenta, come emerso nella prima parte del lavoro, una proprietà specifica della volontà. Rispondendo alla sostanziale chiamata all’amore, essa inclina la volontà verso ciò che le è proprio per natura, verso il bene. Solo che questa tendenza al bene non si esaurisce nella ricerca di ciò che è bene solo per sé, ma come desiderio autentico di ciò che è bene per l’altro. L’impegno della libertà a favore dell’amore vero svincola così la volontà da un atteggiamento autoreferenziale, rende la volontà propriamente

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libera, per conferirle il disinteresse fondamentale mediante il quale non è più l’altra persona ad essere propriamente desiderata, ma il suo bene.

Attraverso l’impegno della libertà e l’orientamento della volontà verso il bene autentico, la persona perfeziona il proprio essere e la propria esistenza. Per questo si vuole chiudere questa parte generale sull’amore con le parole di Karol Wojtyla, in cui il valore dell’amore è colto in tutto il suo significato e la sua importanza per la comprensione dell’essere umano:

‹‹L’amore è la più completa delle possibilità dell’uomo. E’ l’attualizzazione massima della potenzialità intrinseca della persona. Questa trova nell’amore la più grande pienezza del proprio essere, della propria esistenza oggettiva. L’amore è l’atto che realizza nel modo più completo l’esistenza della persona›› 108.

2. L’AMORE SPONSALE

Le riflessioni condotte sull’amore mostrano questa realtà come il frutto di una scelta consapevole operata tra le persone in vista del bene comune, grazie alla quale esse attualizzano le proprie possibilità essenziali all’interno di quella comunione di vita che l’amore stesso crea. Questo tipo di relazione, instaurato dall’amore, ha valore universale in quanto fondato sull’affermazione del valore assoluto della persona, tuttavia, il campo in cui i principi dell’amore possono realizzarsi in tutta la loro pienezza è quello proprio dell’unione tra uomo e donna, secondo la struttura specifica della differenza sessuale. Questo capitolo sarà interamente dedicato all’analisi dell’amore all’interno della comunità coniugale in cui tutte le dimensioni dell’amore stesso, da quella sessuale a quella spirituale, si esplicano e attualizzano nella perfetta relazione col valore della persona: ‹‹l’amore come si è detto, è condizionato dal comune rapporto tra le persone e il medesimo bene ch’esse scelgono e al quale si sottomettono insieme. Il matrimonio è il campo preferito di questo principio›› 109. Il matrimonio e, in generale, la famiglia che su di esso si instaura, costituiscono una comunità in senso stretto, radicata su un’autentica partecipazione, in cui il fine comune è posto dall’amore, quale legante sostanziale di questa realtà, e 108 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 539.109 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 481.

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orientato al conseguimento del bene e della felicità di tutti i membri che ne fanno parte. Al suo interno la persona è in grado di realizzare, in modo pieno, il proprio essere e la propria esistenza, sperimentando nel dono di sé all’altro la massima esplicazione delle proprie possibilità:

‹‹ E’ la famiglia il luogo in cui ogni uomo si rivela nella sua unicità e irripetibilità. E’ la famiglia – e deve esserlo – quel peculiare ordinamento di forze in cui ogni uomo è importante e necessario per il fatto che è e in virtù del chi è, l’ordinamento il più intimamente “umano”, edificato sul valore della persona e orientato sotto ogni aspetto verso questo valore›› 110.

Perché ciò possa realizzarsi concretamente occorre, tuttavia, che sia sempre mantenuto vivo e attivo il riferimento alla norma personalistica in ogni azione che si compie al suo interno. Ma occorre procedere per gradi.

§. 1 Impulso sessuale e norma personalisticaNei rapporti tra uomo e donna il problema dell’atteggiamento utilitaristico emerge con eccezionale forza. In particolare, è nell’ambito della sfera delle relazioni sessuali che si assiste ad un’amplificazione del rischio proprio della strumentalizzazione e dell’oggettivizzazione della persona da parte del soggetto agente. Questo ampliamento è strettamente connesso al prevalere, nelle relazioni con persone di sesso opposto, della dimensione del piacere-dispiacere all’interno delle esperienze emotivo-affettive che accompagnano tali relazioni e che, sotto la spinta di questo elemento, si caratterizzano per la particolare carica erotica e la straordinaria efficacia e nitidezza con cui tale forza agisce al loro interno. Questo peculiare fenomeno della dimensione sessuale impone di riprendere in esame le implicazioni emerse precedentemente dall’analisi del termine “usare”, in riferimento, questa volta, al godimento caratteristico dei rapporti uomo-donna in relazione alla sfera sessuale.Quando all’interno di questo determinato ambito si compie un azione nei confronti di un altro, tanto l’azione, quanto il suo oggetto, costituiscono una fonte specifica di piacere, sotto diversi aspetti e forme. In particolare, l’oggetto dell’azione, che è l’altra persona, rappresenta, nell’esperienza amorosa il principio essenziale da cui propriamente scaturiscono gli stati emotivi ed 110 K. Wojtyla, La famiglia come “communio personarum”, saggio integrativo in Karol Wojtyla, Metafisica della persona, cit., p. 1463.

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affettivi ad essa inerente. Il valore personalistico della persona da cui erompono tali stati impone, tuttavia, al soggetto agente di realizzare il proprio atto in conformità con tale valore, secondo il principio stesso della norma personalistica. Occorre, pertanto, sollevare la persona che si ha di fronte dalla posizione esclusivamente oggettuale, per ricollocarla sul medesimo livello del soggetto agente. Questo passaggio sottrae la persona dell’altro sesso dall’uso utilitaristico da parte del soggetto, per inserirla all’interno della relazione, non più come riferimento oggettivo, ma come alter-ego, o meglio, in questo caso, come partner. La base egualitaria che la norma personalistica istituisce e su cui si pongono reciprocamente i due soggetti-partner, fa sì che le persone all’interno di questo rapporto non cessino di esser tali e che il reciproco conseguimento del piacere, legato alla loro relazione, sia subordinato a questa condizione. Alla luce del riferimento al valore personalistico, il piacere inerente alla sfera sessuale non si arresta ad un livello meramente fisico, proprio dell’ordine della natura e dell’istinto, ma si realizza come fenomeno relativo alla persona, avente una chiara collocazione nell’ordine morale. Il problema della sessualità, illuminato dalla coscienza della persona, si costituisce come un problema di morale sessuale. Occorre tener presente come questo sia il campo precipuo delle seguenti riflessioni, quello in cui l’autore si muove, esplicitandolo fin da principio, nel tentativo di interpretare la dimensione dell’amore umano nella sua specifica finalità all’interno della totalità e dell’integrazione dei dinamismi propri della persona.L’uomo, in virtù della sua natura razionale, è in grado di distinguere la realtà del piacere-dispiacere, ponendola come fine del proprio agire. Quando il soggetto compie un atto indirizzato ad un simile fine e coinvolge in tale realizzazione l’altra persona, appare evidente come, in relazione al fine posto, la persona coinvolta non costituisca per il soggetto altro che un mezzo per il soddisfacimento del proprio scopo. In questo modo è possibile notare come la subordinazione della propria azione al piacere sessuale abbia un valore morale nel duplice riferimento, oggettivo e soggettivo, al valore della persona. L’amore autentico, come visto in precedenza, esclude ogni possibile comportamento utilitaristico e richiede che, dal punto di vista morale, il piacere sia subordinato all’amore e venga interiormente elevato a livello della persona. Per comprendere a pieno il valore morale dell’atto col quale la persona si rivolge all’altro sesso, a partire dalla spinta interiore che lo orienta in tale direzione, occorre richiamare in campo la struttura dell’impulso sessuale emersa nella prima parte. Attraverso il concetto di integrazione, è, infatti, già stato individuato come ogni dinamismo proprio dell’essere umano acquisisca una

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specifico valore personalistico e come, pertanto, non sia mai isolabile come fenomeno a sé stante e indipendente dalla struttura integrale della persona e dai suoi atti.Il termine impulso mostra, per la sua radice etimologica, impellere, una certa comunanza col termine istinto, derivante dal latino instinguere, di cui è sinonimo. Ciò nonostante, si differenzia da quest’ultimo per il suo specifico riferimento alla libertà della persona. Se, infatti, l’istinto, proprio del mondo degli animali e privo di qualsiasi valore morale, si configura come una forza che agisce interiormente in modo determinante nella realizzazione di un’azione, l’impulso costituisce, viceversa, una tendenza esclusiva dell’essere umano. L’uomo, di fatto, per natura è in grado di azioni sovraistintive, vale a dire di intervenire per mezzo della propria libertà e razionalità nella determinazione dell’atto e, in tal senso, di decidere se assecondare o meno una specifica inclinazione interiore. L’impulso sessuale umano è radicato sulla natura stessa della persona, che si dà sempre come essere sessuato; è un orientamento specifico di tutto l’essere umano risultante dalla divisione stessa della specie umana nei due sessi, maschile e femminile 111.All’interno di una visione integrale della persona, la differenziazione sessuale rivela una specifica valenza non solo fisiologica, biologica e psicologica, ma soprattutto ontologica. Il carattere fenomenico della sessualità costituisce una sorta di sintesi esteriore di ciò che si realizza interiormente, nella complessità della struttura della persona. Come già accennato in precedenza, infatti, la costituzione sessuale configura un particolare orientamento dell’essere a partire dal quale l’impulso sessuale si manifesta come la peculiare tendenza del soggetto verso la persona di sesso opposto. Questo movimento rappresenta un fatto di natura preminentemente ontologica, costituisce, cioè, l’immagine 111 Secondo gli studi propri della sessuologia e della fisiologia, l’impulso sessuale sembra manifestarsi nell’essere umano con la pubertà, ossia con il raggiungimento della maturità sessuale a livello fisiologico. Nella fase che precede la pubertà l’impulso sessuale si presenta, infatti come una forza dai contorni ancora confusi di cui il soggetto non è del tutto consapevole. Dal punto di vista strettamente fisico l’impulso si manifesta attraverso il fenomeno dell’eccitazione sessuale, come reazione delle terminazioni nervose periferiche alle stimolazioni fisiche, psichiche e immaginative ricevute dagli organi sensuali ( in particolare tatto e vista). L’intento di questo capitolo è quello di dimostrare come dal punto di vista morale, al di là degli elementi anatomici o dell’intensità delle reazioni neurovegetative prodotte automaticamente, il suo significato ecceda questi aspetti fino a costituire, alla luce della norma personalistica, il fondamento naturale su cui possa radicarsi l’amore come realtà propria della spiritualità della persona.

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dell’essenziale ricerca interiore dell’uomo del proprio completamento112 a partire dalla contingenza della sua natura. Che la natura dell’impulso sessuale ecceda il dinamismo psico-fisico si evidenzia osservando la dinamica della tendenza che lo caratterizza, rispetto alla quale, il significato dell’oggetto che ne costituisce il fine, non coincide esclusivamente con le caratteristiche sessuali dell’altro sesso, ma è dato dalla persona stessa, nella sua interezza. L’altro, nella sua totalità e identità rappresenta il polo effettivo dell’attrazione, in quanto fonte degli stati emotivi propri di questa esperienza . Da questa analisi emerge come l’impulso sessuale, nel suo appello alla libertà dell’uomo e nel suo rivolgimento all’altro, non come strumento di piacere, ma come e in quanto persona, costituisca la base dell’amore coniugale.In sintesi, l’amore si radica sulla struttura psicofisica dell’essere umano, ma, al contempo, la trascende per mezzo dell’intervento della volontà della persona attraverso la quale essa forma i propri atti. La natura dell’impulso sessuale inoltre, nel suo appello alla libertà del soggetto, fa sì che l’uomo, nella sfera della sessualità, divenga responsabile dei propri atti 113. Occorre, infine, sottolineare come la funzione dell’impulso sessuale nella realizzazione degli atti di amore rivesta, a partire dal valore personalistico dell’atto stesso, un ruolo accidentale. Sia perché tali atti sono essenzialmente e strettamente frutto del libero arbitrio, sia perché la finalità intrinseca

112La differenza sessuale richiama l’idea di un completamento fondato sulla complementareità degli elementi e ciò viene favorito dall’aspetto fenomenico della differenza stessa. Il senso con cui tuttavia Wojtyla si riferisce a questa realtà trascende questa posizione. Sebbene sussistano delle specifiche differenze strutturali psicofisiche, ma anche strettamente ontologiche tra i due sessi e tra queste differenze sussista una certa reciprocità, il completamento per Wojtyla non costituisce il raggiungimento di un’unità sostanziale attraverso l’assunzione degli elementi mancanti da parte del soggetto, ma il compimento della propria persona attraverso l’attualizzazione delle proprie potenzialità essenziali resa possibile solo attraverso la relazione di amore instaurata col prossimo. La relazione con l’altro completa il soggetto dunque in quanto al suo interno esso è in grado di operare positivamente alla propria autorealizzazione, quale fine proprio della sua esistenza, mediante il dono totale di sé. L’altro, in questo senso, costituisce qualcosa di mancante in quanto, senza di esso, l’ “io” è privato di questa possibilità essenziale. 113 La responsabilità della persona negli atti di natura sessuale introduce la riflessione nell’ambito proprio della morale sessuale. Il campo di questa morale inoltre eccede il singolo individuo e assume, a partire dal carattere sociale della persona stessa, un raggio di azione assai più ampio mediante la regolamentazione dei comportamenti sessuali a livello sociale.

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dell’impulso trascende il fine particolare e attuale della singola persona, in quanto orientato verso un fine proprio e sostanzialmente autonomo, che è l’esistenza della persona, bene primo della specie umana. Lo strato fondamentale dell’impulso sessuale mostra dunque, in ultima istanza, un significato strettamente esistenziale, attraverso il quale, l’impulso stesso, è definitivamente collocabile nella sua struttura al di là del dinamismo biologico. A partire dal suo significato esistenziale, l’impulso si radica in maniera ancora più profonda sulla struttura della persona e in tal modo, pur emergendo dal dinamismo somatico dell’essere umano, esige, per la piena realizzazione del suo significato, che tale livello, psichico e somatico, sia integrato al suo interno. Solo mediante tale integrazione esso si costituisce in senso personalistico 114: ‹‹sull’impulso sessuale poggia la tendenza a stare con l’altro, in base alla profonda somiglianza nonché alla differenza derivante dalla diversità di sesso. Questa tendenza naturale costituisce il fondamento del matrimonio e, attraverso la convivenza nel matrimonio, il fondamento della famiglia›› 115.Il legame dell’impulso sessuale col valore della persona è tale che l’amore possa svilupparsi solo in conformità con le finalità essenziali della tendenza stessa, vale a dire la conservazione e l’esistenza della specie attraverso la procreazione: ‹‹la finalità dell’impulso inibisce spesso l’uomo che cerca di evitarla in modo artificioso. Ma questo non può non avere necessariamente delle ripercussioni negative sull’amore tra persone›› 116.La corretta lettura del senso autentico dell’impulso sessuale, alla luce del valore personalistico ed esistenziale, è di primaria importanza per affrontare i problemi della morale sessuale nel rispetto pieno della norma personalistica. Con questa finalità Wojtyla individua all’interno della storia del pensiero umano due indirizzi interpretativi fondamentali che, pur percorrendo strade diverse, offrono entrambi, a causa di un approccio sostanzialmente unilaterale al problema, una 114 Il significato extrabiologico ed esistenziale dell’impulso sessuale inserisce lo studio della tendenza sessuale all’interno della sfera di azione della filosofia la quale trova nell’esistenza il suo oggetto più proprio. 115 K. Wojtyla, Persona e atto, p. 1109.116 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 507.

Il tema delle motivazioni e delle conseguenze proprie dell’intervento artificiale dell’uomo nell’ordine naturale della tendenza sessuale verrà trattato in seguito. Le riflessioni finora condotte costituiscono tuttavia il passaggio chiave della corretta comprensione del valore personale della tendenza sessuale e della finalità procreativa propria dell’amore coniugale. Comprendere questo passaggio significa per Wojtyla individuare la natura dell’armonia sostanziale che intercorre tra l’ordine dell’esistenza e l’ordine della persona mediante la quale la struttura essenziale della persona si configura in conformità con le leggi essenziale della natura.

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visione ridotta della tendenza sessuale, ancorata ad una concezione strumentale dell’essere umano 117.

1) Interpretazione rigorista-puritana: confusa spesso con l’interpretazione evangelica dei valori sessuali, la visione puritana si radica su presupposti di stampo naturalistico o empirico-sensualistico, senza, tuttavia, raggiungere conclusioni conformi a tali principi. Al suo interno tanto l’unione sessuale, quanto le persone che realizzano tale unione, sono subordinate ad una finalità superiore, di natura soprannaturale, coincidente con la conservazione della specie umana. L’assiologia propria di tale impostazione pone, pertanto, il fine della procreazione come bene fondamentale inerente alla realtà coniugale e in funzione del quale essa trova la propria legittimazione. L’unione sessuale, nella totalità delle sue implicazioni psico-fisiche, costituisce nel suo peculiare riferimento alla dimensione del piacere, una realtà sostanzialmente negativa, riscattabile solo mediante l’orientamento esclusivo al bene superiore e positivo della prole. Questa concezione, di chiaro stampo manicheista e ultraspiritualista,

117Le interpretazioni della tendenza sessuale e dell’esperienza amorosa proposte dall’autore rappresentano il prodotto di determinati modelli socio-culturali del suo tempo. L’analisi dell’esperienza mostra, in particolare, come, la mediazione culturale, giochi un ruolo fondamentale nella configurazione del significato intrinseco dell’esperienza stessa. Per comprendere il senso col quale l’esperienza emerge all’interno della coscienza occorre infatti tenere conto, non solo dei specifici dinamismi interiori, propri della struttura della persona, che l’esperienza attiva nell’ “io” nel suo configurarsi, ma anche dei modelli culturali che, a partire dal loro contenuto simbolico, forniscono la base interpretativa della propria esperienza. Le manifestazioni culturali individuate dall’autore rappresentano solo alcune delle modalità attraverso le quali la realtà umana dell’amore viene riletta nel suo significato, nella sua struttura e nelle sue finalità all’intermo della società contemporanea. Esse corrispondono, nello specifico, a due tendenze fondamentali, da un lato, la complessità strutturale dell’esperienza amorosa è ricondotta dallo sguardo razionalizzante alle finalità naturali dell’atto ad essa inerente (interpretazione funzionalista), dall’altro, in opposizione alla lettura meccanicistica, l’attenzione è rivolta alla componente psichica e al legame che viene rintracciato tra essa e la componente sessuale (interpretazione psicanalitica). Si vuole qui, tuttavia, aggiungere altri due schemi dominanti della cultura odierna:: la rivendicazione della componente sentimentale come unico criterio di valutazione dell’autenticità dell’esperienza proposta dall’interpretazione romantica, e la riformulazione del concetto stesso della sessualità alla base dell’amore, introdotta dai movimenti della rivoluzione sessuale degli anni ’60, a partire dal duplice principio del sentimento e del soddisfacimento delle pulsioni.. Cfr. Josè Noriega, Il destino dell’eros, EDB, Bologna, 2007.

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si radica su un’interpretazione negativa del piacere e della dimensione carnale dell’essere umano. In tal modo non tiene conto della complessità della struttura della persona e del diritto al dono iscritto nella sua natura, sul fondamento di questa stessa struttura. Il limite primo di tale posizione, tuttavia, consiste, soprattutto, nel sostenere l’idea di un rapporto strumentale tra Dio e l’uomo, all’interno del quale non trova spazio la libertà dell’essere umano e quindi la sua possibilità di porre autonomamente i propri fini e di determinare i propri atti. Solo, infatti, alla luce di queste possibilità, l’uomo può collocare i rapporti sessuali a livello dell’amore e della persona, capitalizzando le potenzialità che le sono proprie. La dignità oggettiva delle persone non è incompatibile col fatto che l’amore coniugale comporti godimento sessuale. Il nucleo del problema consiste, piuttosto, nel conciliare il piacere sessuale con la norma personalistica: ‹‹gustare il piacere sessuale senza trattare la persona come un oggetto di godimento››. Per mezzo dell’integrazione della persona nell’atto d’amore, il godimento che accompagna la tendenza sessuale è assunto in conformità con la dignità della persona stessa, secondo una modalità strutturalmente diversa dall’intenzionalità dell’uti. Alla luce di tale integrazione il conseguimento del piacere, come fenomeno proprio dell’atto di amore, si costituisce come un bene inerente a tale atto e del quale la persona gode pienamente senza che l’altro sia leso nella sua essenziale inalienabilità. La persona dell’altro sesso non rappresenta, pertanto, l’oggetto di cui faccio uso per il conseguimento del mio piacere, ma la persona con la quale e attraverso la quale fruisco del piacere, quale bene proprio del comune atto di amore. Il godimento come fruizione inerente all’atto sessuale richiama l’ideale di S. Agostino, il quale, col termine frui, indica propriamente la gioia derivante dal piacere intrinseco al rapporto tra i sessi, concorde col piano divino relativo all’amore coniugale. 2) Interpretazione psicanalitica della libido: la riflessione freudiana della tendenza sessuale si sovrappone all’interpretazione generale delle manifestazioni proprie della vita umana, guidate entrambe dal fine unico della libido. Il termine “libido” indica la “voluttà risultante dal godimento”, quale forza interiore in grado di agire deterministicamente sull’azione della persona. La concezione pansessualista della psicanalisi poggia su una visione frammentaria dell’essere umano, il quale smarrisce la propria interiorità a favore di una superficiale sensibilizzazione, derivante dalle stimolazioni sensitive sessuali. Il valore prioritario del piacere condiziona la natura morale del comportamento umano secondo la forma propria dell’utilitarismo, legittimando la validità del carattere soggettivo del piacere, come movente fondamentale dell’azione umana, e la funzione strumentale della persona

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all’interno dell’azione stessa. La realtà della procreazione connessa all’atto sessuale si struttura non come fine essenziale, ma secondario e accidentale, i cui criteri valutativi sono riferibili più al campo economico e sociale, che al valore oggettivo della persona. Come già è stato detto nella prima parte del lavoro, la società moderna e contemporanea è caratterizzata dal radicale contrasto tra tendenza sessuale e procreazione, quale conseguenza della tendenza sessuale stessa. L’espressione più completa di questa opposizione è sviluppata all’interno delle moderne teorie evoluzionistiche maltusiane e neomaltusiane. Wojtyla rintraccia la radice di questa impostazione non solo nella subordinazione del valore della persona a quello del piacere e al relativo squilibrio che si configura all’interno della struttura della persona stessa, ma, soprattutto, ad una più radicale confusione tra la tendenza egocentrica propria dell’umano impulso di conservazione e la tendenza altero-centrica, orientata verso la persona di sesso opposto, propria dell’impulso sessuale: ‹‹ l’interpretazione della tendenza sessuale attraverso la libido introduce una fondamentale confusione in questi concetti. Infatti attribuisce alla tendenza sessuale un significato prettamente egocentrico, che è tipico della tendenza alla conservazione. Per questo l’utilitarismo connesso a questa concezione implica nella morale sessuale un pericolo maggiore forse di quanto in genere si pensi, quello di confondere le linee essenziali ed elementari delle tendenze dell’uomo e delle vie della sua esistenza›› 118.

In conclusione, l’intento fondamentale di Wojtyla è quello di individuare delle finalità proprie e oggettive dell’amore umano che trovino nella struttura della persona la propria ragioni di essere 119. Solo la corrispondenza fra la natura personale e tali finalità consente alla persona di assumerle coscientemente come 118 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 523.119 All’interno della morale sessuale cattolica queste finalità oggettive proprie dell’amore coniugale sono tradizionalmente identificate con la finalità procreativa, unitiva e il rimedio alla concupiscenza. Come accennato nell’introduzione al presente capitolo l’intento fondamentale di “Amore e responsabilità” è proprio quello di fondare oggettivamente tali finalità sulla struttura stessa della persona di modo che essa sia in grado di assumerle liberamente e consapevolmente come proprie e non come semplici norme esteriori: ‹‹Se formare le norme di etica cattolica riguardo alla morale sessuale risulta facile, rimane il fatto che ad ogni passo ci troviamo di fronte alla necessita di una loro motivazione. Queste norme riscontrano spesso obiezioni, più in pratica che in teoria; ma dato che un pastore si trova di fronte alla pratica, deve per forza cercare queste motivazioni. Il compito del pastore non è soltanto quello di ordinare o di proibire, ma di spiegare, di motivare, di chiarire›› (K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p.464).

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proprie e di perseguirle in conformità con l’ideale della propria autorealizzazione e nel rispetto pieno della norma personalistica. Tale norma non rappresenta un fine in sé, ma il principio fondamentale per la realizzazione delle finalità proprie dell’amore, conformemente alla natura della persona. Se la si sottraesse, i fini stessi perderebbero il proprio riferimento oggettivo, assumendo le forme caratteristiche delle deviazioni dell’utilitarismo di stampo rigorista (assolutizzazione della finalità procreativa) o edonista (assolutizzazione del valore del piacere come oggetto della tendenza propria dell’impulso sessuale).

§ 2. L’amore sponsaleFinora è stato individuato nell’impulso sessuale la base naturale dell’amore umano. La complessità metafisica dell’amore richiede, tuttavia, che si esplichino i molteplici aspetti che lo compongono, per meglio comprendere le modalità attraverso le quali la persona si costituisce e realizza al suo interno, nella relazione con l’altro. Voglio ora riproporre in sintesi, le caratteristiche peculiari di questi momenti fondamentali in cui l’amore si struttura in corrispondenza con i dinamismi propri della persona:

- compiacenza: la tendenza sessuale si manifesta nell’interiorità dell’uomo come una forza attrattiva che muove dall’interno, indirizzandosi intenzionalmente verso la persona di sesso opposto. Questo movimento, radicato sulla base dell’impulso sessuale, prende avvio dall’impressione, o meglio da una percezione impressiva, ma si sviluppa come un impegno conoscitivo rivolto all’altro, caratterizzato dalla presenza dominante della sfera dei sentimenti. La volontà e la libertà del soggetto vengono, in tal modo, impegnate dall’emergere della vita affettiva, la quale, evidenziando la peculiare capacità della persona di reagire di fronte ad un determinato bene, fa sì che l’altro non solo sia considerato semplicemente un bene, ma venga assunto dalla volontà della persona in quanto tale. In questo senso, la compiacenza nasce da una particolare esperienza vissuta, in cui la coscienza rintraccia nell’altro un determinato valore, tale da inclinare la sua attrazione verso di esso. La persona, nella sua complessità, si presenta come fonte originaria e unica di una molteplicità di valori. Il significato concreto dell’attrazione nasce dal fatto che il bene attraente sia effettivamente il bene ricercato. Nel momento in cui mancasse tale corrispondenza, l’atteggiamento suscitato dalla reazione emotiva verso un bene in realtà non presente, devierebbe dall’amore affettivo, configurandosi secondo le modalità specifiche della delusione e dell’odio. Le reazioni affettive ed emotive, pertanto, devono sempre riferirsi ad un valore

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vero, mantenere vivo il contatto con la verità della persona. In questo senso, la compiacenza si struttura come un rapporto equilibrato e reciproco tra due verità, quella dell’oggetto con quella dei sentimenti del soggetto. Solo quando questo equilibrio è presente nell’esperienza amorosa, essa è in grado di orientare in maniera autentica l’amore affettivo ad un livello più alto. ‹‹La compiacenza, infatti, fa parte dell’essenza dell’amore, in una certa misura è amore, benché l’amore non si limiti ad essa›› 120. L’esperienza vissuta del valore dell’altro, quale bene proprio della mia compiacenza, si collega all’esperienza dei valori estetici. La categoria del bello rappresenta, in questa fase particolare dell’intera esperienza amorosa, un momento importante, in relazione al quale il contenuto dell’esperienza stessa si configura secondo i tratti dell’ “attrazione”, del “fascino”, etc. Perché la compiacenza possa costituire un’adeguata base di appoggio per la costruzione di un amore in senso maturo deve fare affidamento ad una sensibilità rivolta alla bellezza propria dell’interiorità della persona, ai suoi valori spirituali, e non a valori semplicemente esteriori e fisici.

- Concupiscenza: dal punto di vista ontologico la differenziazione sessuale indica il limite proprio dell’essere della persona: ‹‹la persona è un essere limitato, che non può bastare a se stesso, ha bisogno perciò, nel senso più oggettivo, di altri esseri. La tendenza sessuale può essere interpretata da questo punto di vista come l’espressione oggettiva di questo bisogno essenziale. L’amore di concupiscenza è segnato da questa profonda tensione, costantemente alimentata dal desiderio verso un bene mancante: è il desiderio di un bene per sé: ‹‹io ti voglio perché tu sei un bene per me›› 121. Il riferimento del desiderio proprio dell’amore di concupiscenza al soggetto, piuttosto che all’oggetto, è tale che su questo tipo di amore si innestino più facilmente atteggiamenti di tipo utilitaristico. Da questa caratterizzazione specifica della concupiscenza deriva l’accezione comune del termine, nei suoi tratti negativi. Tuttavia, sebbene l’altro attraverso gli occhi del desiderio costituisca effettivamente un bene utile per il soggetto, ciò non implica necessariamente una corrispondenza di questa utilità con l’oggetto di godimento. E’ necessario, pertanto, riferire, ancora una volta, l’amore di concupiscenza al valore personalistico dell’essere umano, perfezionandolo in prospettiva di un valore dell’amore superiore al desiderio stesso: ‹‹l’amore dell’uomo e della donna che non andasse al di là del desiderio sensuale sarebbe anch’esso cattivo, o per lo

120 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p532.121 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 537.

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meno incompleto, perché l’amore di concupiscenza non esaurisce l’essenziale dell’amore tra persone›› 122.

- Benevolenza: perché l’amore si completi dei suoi elementi essenziali in senso strettamente personalistico, occorre che il soggetto cessi di porsi come fine ultimo del proprio amore, per indirizzarsi esclusivamente all’altro: ‹‹Non basta desiderare la persona come un bene per sé, bisogna inoltre, e soprattutto volere il bene dell’altro›› 123 La benevolenza si struttura in modo radicalmente alterocentrico, “altruista” e in questo suo orientamento costituisce l’essenza più pura dell’amore, fondata sul disinteresse per se stessi. La benevolenza costituisce il fine di ogni amore attraverso il quale, l’amore stesso, perfeziona l’esistenza tanto del soggetto, quanto della persona cui questo amore si rivolge.

Attraverso l’amore, come benevolenza, la persona volontariamente esce dal proprio “io” per rivolgersi all’altro. Questo movimento unilaterale, tuttavia, non soddisfa la pienezza oggettiva dell’amore: ‹‹l’amore non è per natura unilaterale, ma al contrario bilaterale, esiste tra le persone, è sociale. Il suo essere, nella propria pienezza, è inter-personale›› 124. L’amore è dunque essenzialmente relazione, legame, su cui si fonda la reciprocità nel riferimento necessario al bene comune. La reciprocità è il carattere proprio dell’amore autentico grazie alla quale la relazione fondata dall’amore non si struttura come somma di “io”, ma come comunità, in senso stretto, radicata sul “noi”. Per mezzo della realtà della reciprocità avviene all’interno del rapporto una sintesi armonica fra la tendenza della concupiscenza, rivolta verso l’altro come bene per sé, e la tendenza disinteressata dell’amore di benevolenza, quale ricerca del bene dell’altro. Nel dono di sé, dunque, la persona mira direttamente alla realizzazione della comunità e questa intenzionalità propria del dono presuppone una precisa “intenzione di reciprocità”: ‹‹ogni dono comporta una legge di reciprocità, “del dare e del ricevere, del dono di sé e dell’accoglienza dell’altro”›› 125. La stabilità e la validità della reciprocità nel rapporto d’amore dipendono dall’apporto che ciascuna della parti infonde al suo interno a livello di amore personale autentico. Solo se l’amore corrisposto è integrale, la reciprocità

122 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 539.123 K. Wotyla, Amore e responsabilità, p. 540.124 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 541-542.125Josè Noriega, La vocazione al dono si sé, in L. Melina, S. Grygiel ( a cura di ),Amare l’amore umano, Cantagalli, Siena, 2007.

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diviene fonte di stabilità e intimità nel rapporto, lasciando emergere la dimensione del “noi” nella modalità che le è propria, la fiducia. La fiducia è la caratteristica essenziale della realtà stabilità dalla reciprocità. Il “noi” nel quale i due soggetti si danno e ricevono reciprocamente presuppone che fra i due soggetti stessi viga un rapporto di fiducia grazie al quale il soggetto è capace di donarsi all’altro senza divenire per l’altro oggetto di possesso, ma per appartenergli: ‹‹ In forza della donazione reciproca che l’uomo fa della sua soggettività si genera un’ appartenenza reciproca delle persone. Una persona non si dona per diventare possesso di un altro. Si don invece per appartenere ad un altro. Il dono di sé genera, quindi, un’appartenenza reciproca, che si configura come un autentico bene per entrambi: il bene della comunione›› 126.Ogni forma di reciprocità in cui anche solo una delle parti si inserisca secondo un atteggiamento utilitaristico, egoistico e semplicemente concupiscente, è apparente e illusoria, destinata ad estinguersi, in quanto priva del valore morale della persona. La comunità fondata sul “noi” assorbe in qualche modo l’aspetto individuale dell’ “io” all’interno delle relazione interpersonale senza annientarlo. L’ “io” è, infatti, chiamato profondamente ad impegnare, secondo i dinamismi che gli appartengono, la propria volontà e libertà nella realizzazione del dono di sé e della comunità: solo un “io” profondamente radicato in se stesso, capace pienamente di autopossedersi e autodominarsi, è in grado di donarsi liberamente all’altra persona secondo un rapporto di amore autentico. Questa capacità di movimento dell’ “io” verso l’altro è ciò che propriamente Wojtyla chiama “sponsale”.La dinamica propria dell’amore sponsale si fonda su una radicale antinomia: la persona, per sua natura assolutamente incomunicabile e inalienabile, realizza pienamente se stessa nella frattura della struttura del proprio autodominio a autopossesso, attraverso il dono totale di sé. Rinnegando se stesso all’interno del dono, l’ “io” non si annienta, piuttosto si arricchisce nella massima attualizzazione delle sue possibilità essenziali. Il dono di sé è, dunque, una proprietà fondamentale dell’essere umano, radicato nell’ordine morale della persona, che conferma, ampliandola, la struttura ontologica del possesso e del dominio di sé. Il dono di sé richiede, infatti, il massimo impegno delle facoltà spirituali dell’uomo, della sua libertà e volontà, mediante la realizzazione del momento della scelta più radicale di tutte:

126 Josè Noriega, La vocazione al dono di sé, in L. Melina, S. Grygiel ( a cura di), op. cit., p. 201.

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‹‹Per natura, o in altre parole in ragione della sua essenza ontica, la persona è padrona di sé, inalienabile e insostituibile quando si tratta del concorso della sua volontà e dell’impegno della sua libertà. Ora l’amore sottrae alla persona questa intangibilità naturale e questa inalienabilità, perché fa sì che essa voglia donarsi ad un’altra, a quella che ama. Essa desidera cessare di appartenere a se stessa, per appartenere anche ad altri. Rinuncia ad essere indipendente e inalienabile. L’amore passa per questa rinuncia, guidato dalla profonda convinzione di non condurre ad un rimpicciolimento o un impoverimento ma al contrario ad un arricchimento o a un accrescimento dell’esistenza della persona›› 127.

Alla luce delle sue caratteristiche fondamentali, l’amore sponsale si costituisce secondo la struttura della relazione interpersonale, come dono reciproco e reciproca appartenenza. I due doni che in qualche modo lo compongono sono differenziabili a livello fisico e psicologico, tuttavia costituiscono un’unità sostanziale alla luce della visione ontologica e personalistica dell’amore stesso.

§ 3. Amore umano e integrazione Ripercorrendo in maniera più attenta il processo con cui si costituisce l’atto d’amore nella persona, si può osservare come in esso, tutti i livelli dell’essere umano, con le proprie strutture e dinamismi, collaborino e interagiscano in maniera armonica nella realizzazione dell’atto stesso. Questa partecipazione integrale della persona nell’atto d’amore si fonda sulla teoria dell’integrazione della persona nell’atto prospettata nella prima parte del lavoro. Solo a partire dall’integrazione è possibile concepire l’atto d’amore come momento precipuo della realizzazione della persona e l’amore stesso può essere compreso coerentemente col valore personalistico di tale atto. Sulle orme del metodo wojtyliano, voglio ora fornire i passaggi fondamentali in cui, parallelamente all’integrazione della persona nell’atto, i momenti dell’amore sono integrati a livello della persona.Il contatto diretto dei sensi del soggetto con l’oggetto produce una sensazione la cui percezione viene successivamente raccolta dalla coscienza. La percezione, nella sua variabile intensità è accompagnata dall’emozione, anch’essa una reazione sensoriale provocata dall’oggetto, ma relativa non tanto alla sua

127 K. Wojyla, Amore e responsabilità, 585-586.

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rappresentazione quanto ai valori sperimentati. Pur essendo una realtà sensoriale dunque, che trova la propria espressione nel corpo, i valori che la suscitano non hanno carattere materiale, anzi tanto più l’emozione è profonda, quanto più sono spirituali i valori in grado di stimolarla. Nello specifico, a partire dall’energia propria della tendenza sessuale, il contatto diretto uomo-donna è in grado di produrre un’esperienza sensoriale particolarmente decisa, alimentata dalla presenza di valori accessibili ai sensi di natura speciale, la cui fonte è la persona di sesso opposto. Tali valori sono di natura sessuale, legati anzitutto al corpo dell’altra persona e che producono una generale emozione definibile sensualità. L’orientamento della sensualità corrisponde alle finalità proprie della vitalità delle funzioni vegetative sessuali dell’essere umano, volte alla riproduzione e alla conservazione della specie. Nella reazione sensuale il corpo è percepito come oggetto di godimento, per questo la sensualità, pur essendo espressione di un orientamento spontaneo e naturale, di per sé non moralmente cattivo, è tuttavia incline ad una interpretazione utilitaristica dell’altra persona, prossima alla tendenza della concupiscenza. In particolare, il corpo e le caratteristiche sessuali che gli sono proprie costituiscono dei valori fondamentali della persona che, tuttavia, nell’ottica del godimento, mettono a rischio il valore della persona stessa. Una tale svalutazione deriva da due atteggiamenti sostanzialmente limitati nei confronti della persona e del valore personalistico della sua sessualità e corporeità: da un lato, il tentativo di isolare artificialmente il corpo e la sua sessualità dalla persona per considerarli come oggetti di godimento a sé stanti, dall’altro, lo sguardo riduttivo che il soggetto rivolge alla persona che ha di fronte, secondo l’ottica esclusiva del corpo e del sesso.Queste considerazioni inducono ancora una volta a riconsiderare l’orientamento naturale dei valori sessuali del corpo all’interno di una visione più ampia, che tenga conto del valore della persona. La sensualità, l’eccitazione sessuale, con tutta la forza della loro attrazione, non costituiscono, infatti, ancora una forma di amore autentico, proprio perché non si rivolgono alla persona come ad un valore. Si esige, pertanto, che l’orientamento proprio di questi fenomeni, venga integrato nella totalità dei dinamismi della persona ed in tal modo elevato dal livello meramente psicofisico. L’integrazione rappresenta in questo senso un momento fondamentale mediante il quale la tensione propria della sensualità si costituisce come un passaggio integrante, sebbene di difficile gestione, verso la realizzazione di un amore maturo, completo e profondo. Sulla base della medesima percezione sensoriale può verificarsi nei confronti dell’altro sesso l’insorgere di un’emozione di natura diversa la quale, trascendendo i contenuti sessuali in particolare, si rivolge al loro valore in

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generale. Questa sensibilità, diretta alla mascolinità e alla femminilità nel loro complesso, è la fonte dell’amore affettivo. L’affettività rappresenta la capacità del soggetto di reagire di fronte alla persona nel suo complesso. Essa non si indirizza verso il godimento strumentale del corpo, ma verso atteggiamenti non utilitaristici aperti alla contemplazione. La potenza propria di questo tipo di amore si traduce in una speciale forza gravitazionale nella quale il soggetto si inserisce nella ricerca di una costante vicinanza, non necessariamente fisica, ma intima e affettuosa, con l’amato. La struttura psichica e personale della donna mostra una particolare inclinazione verso questo approccio amoroso, che, seppur non direttamente indirizzato al valore del corpo e della sessualità, tende nelle sue deviazioni a conformarsi alle stesse dinamiche proprie della sensualità. I limiti essenziali dell’affettività non coincidono con quelli dell’atteggiamento utilitaristico, ma si radicano su un’estrema e feconda capacità di idealizzazione mediante la quale l’oggetto dell’amore si ingrandisce a dismisura acquisendo su di sé valori che non gli sono propri. Questo allontanamento della persona amata dai suoi valori reali comporta una distorsione del sentimento il quale, non trovando più un’effettiva corrispondenza con la realtà ad esso inerente, perde la propria stabilità interna. Questo fenomeno è tale che il carattere originale del sentimento di amore affettivo possa subire facili mutazioni e orientarsi in senso opposto, fino ad assumere le forme proprie dell’odio affettivo. I due atteggiamenti appena descritti rappresentano le forme tipiche delle reazioni umane nei confronti dei valori sessuali, l’una diretta verso i valori sessuali nella loro connessione col corpo e col desiderio di godimento, l’altra verso quei stessi valori nella loro generalità. Anche se queste modalità di amore sessuale si caratterizzano per la forte intensità e capacità di attivazione delle forze vitali e psichiche della persona, delineano, tuttavia, il profilo esclusivamente soggettivo dell’amore umano. In relazione al lato soggettivo di questo amore, si esige, nuovamente, il processo di integrazione, nel quale i suoi dinamismi possano essere assunti al livello spirituale della persona, della sua libertà, volontà e capacità di riferirsi alla verità oggettiva tanto dell’amore, quanto del suo oggetto. L’amore nella sua autenticità, infatti, si costituisce sempre come impegno della libertà, come atto di volontà facente appello alle strutture interiori della persona. Al contempo, esso richiede un costante riferimento alla verità, non solo in relazione alla sua struttura soggettiva, in cui i sentimenti trovano la loro piena corrispondenza, ma anche nelle forme oggettive della sua realizzazione.L’esigenza di integrazione si fonda sulla considerazione dell’amore tra uomo e donna non come un semplice fenomeno fisico o psicologico, ma come atto eminentemente morale, connesso intimamente alla norma personalistica. Per

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questo si può dire che è il valore stesso della persona ad imporre tale integrazione, di modo che l’amore non si arresti alla sua componente soggettiva, ma tutti gli elementi che la compongono vengano subordinati a tale valore. La dimensione morale dell’amore, come atto della persona, spinge a considerare l’amore stesso al di sopra della sfera dei sentimenti umani e a riferirsi ad esso come e in quanto virtù. L’ordine morale dell’amore poggia sul ruolo della volontà del soggetto, il quale impegna la propria libertà di fronte alla verità della persona che ha di fronte ed è, pertanto, orientato all’affermazione del suo valore, al quale ogni altro valore in essa sperimentato deve essere ricondotto e subordinato. L’amore-virtù, così configurato, include la dimensione corporea e psichica dell’essere umano, elevandola ad un livello adeguato al valore personalistico, e condiziona, con la sua efficacia, il perfezionamento delle potenzialità proprie della persona. Se dunque l’amore, dal punto di vista soggettivo, rappresenta una situazione psicologica, uno stato psichico provocato dai valori sessuali, esso resta in primo luogo un fatto oggettivo e interpersonale, fondato sulla comunione delle persone mediante il dono reciproco. Pur scaturendo dall’esperienza dei fenomeni sensuali e affettivi del soggetto non è mai riducibile ad essi: ‹‹non si po’ sostituire l’aspetto oggettivo dell’amore con uno dei due aspetti soggettivi, né con la loro somma, perché essi costituiscono due volti diversi dell’amore. Il suo volto oggettivo è determinante›› 128.In sintesi, l’amore esige di essere integrato in modo tale che gli elementi derivanti dalle reazioni sensuali e affettive trovino all’interno della persona un forma corrispondente al valore della persona stessa: che vengano innalzati a livello della persona e mantenuti nei limiti di quella realtà, propriamente interpersonale, che prende il nome di communio personarum. 129

128 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 587.129Per comprendere pienamente il significato dell’integrazione dell’amore occorre sempre tener presente la distinzione sussistente tra la soggettività dell’amore umano e il soggettivismo. La soggettività infatti appartiene per natura alla struttura dell’amore (relazione tra soggetti) e rappresenta la fonte stessa della ricchezza dell’amore umano il quale non è mai riconducibile ad un azione oggettiva a-sentimentale, ma è sempre un atto in cui si rispecchia tutta la complessità della persona. Il soggettivismo rappresenta invece la deformazione dell’essenza dell’amore a causa della prevaricazione dell’elemento soggettivo-sentimentale sugli elementi oggettivi dell’azione, ossia sull’attività della coscienza nel suo riferimento alla verità. La dinamica del soggettivismo sostituisce in tal modo i criteri oggettivi dell’atto con il valore soggettivo del sentimento il quale diventa l’unico criterio di valutazione dell’atto stesso. A partire dal pensiero di Wojtyla, l’autenticità del sentimento è verificabile solo nella sua corrispondenza al vero. La conseguenza fondamentale del soggettivismo, o soggettività

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L’amore sponsale approda attraverso l’integrazione al suo significato autentico: ‹‹dono della persona e sua accettazione››. Questa relazione costituisce la dinamica basilare della “comunione delle persone”, realtà strettamente umana fondata sul dono di sé e sulla responsabilità reciproca. La realizzazione di un’autentica comunione tra persone, come livello proprio dell’amore, nel riferimento al valore personalistico dei soggetti inclusi nella relazione, esige, nella sua complessità, il più alto impegno della dimensione spirituale delle persone. Questo perché, nella sua corrispondenza col processo di autocompimento della persona stessa, la comunione tra le persone si costituisce come una struttura che costantemente pretende di essere riaffermata e realizzata nelle sue componenti essenziali e che dunque, incessantemente, richiede l’impegno attivo delle persone che la compongono. Perché l’amore rispecchi l’ideale sponsale sussistono due condizioni: in primo luogo, che si verifichi l’effettiva subordinazione della componente soggettiva per mezzo della volontà del soggetto al valore della persona, nel suo riferimento alla verità, senza la quale si produrrebbero atteggiamenti contrari all’essenza dell’amore e una sostanziale disintegrazione della persona al suo interno. In secondo luogo, che all’interno della relazione interpersonale, il soggetto nei suoi atti si rivolga all’altro nel pieno riconoscimento e nella consapevole affermazione del suo valore personalistico e che, infine, agisca sempre in conformità con esso. Secondo le modalità proprie dell’amore sponsale, i soggetti si collocano, dunque, su un piano di coesistenza e cooperazione sostanzialmente egualitario all’interno del quale, mediante la partecipazione nel conseguimento del bene comune, realizzano un’autentica comunità-comunione. In ultima istanza, è necessario occuparsi dell’analisi wojtylana dell’amore sponsale nel suo valore strettamente morale, vale a dire dell’indagine compiuta sull’integrazione di quelle componenti per mezzo delle quali si costituisce come virtù.

§ 4. Amore e castitàIl valore oggettivo dell’amore umano richiama nell’indagine l’ordine della morale sessuale, non solo perché individua la norma fondamentale cui ogni valore sessuale deve essere subordinato, ma soprattutto perché consente di accedere alla superiore comprensione dell’amore integrale, non come semplice situazione fisica o psicologica, ma come virtù della persona, attraverso la quale essa realizza se stessa nel dono totale di sé.

non integrata, è la formazione di un edonismo teorico e pratico della persona in cui il piacere si costituisce come supremo valore soggettivo.

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La virtù propria dell’amore sponsale è la castità.Al di là dell’apparente antinomia tra castità e amore coniugale, Karol Wojtyla individua, proprio in questa disposizione interiore, una specifica corrispondenza col valore autentico e oggettivo dell’amore umano e ne riconosce la speciale capacità di preservarlo dalle deviazioni proprie del soggettivismo, individuate nel capitolo precedente. ‹‹Il termine “castità” contiene l’idea di eliminazione di tutto ciò che “rende impuro”›› 130, vale a dire la rimozione di tutti quegli atteggiamenti attraverso i quali non si rende possibile il riconoscimento del valore della persona negli atti d’amore, perché legati ad una visione limitata, utilitaristica ed esclusivamente erotica delle realtà amorose. In questo senso, la castità è riconosciuta dall’autore come l’unico atteggiamento conforme alla struttura dell’amore sponsale e attraverso il quale esso si realizza nelle sue possibilità essenziali. Percorrendo l’analisi della castità, Wojtyla si inserisce all’interno delle problematiche proprie dell’amore coniugale, in tutta la loro concretezza.La descrizione della sensualità ha mostrato come la reazione del soggetto ai valori sessuali espressi nel corpo della persona di sesso opposto abbia il potere di suscitare un desiderio di natura sensuale, volto all’assorbimento di tali valori. La sensualità rappresenta, da questo punto di vista, il nodo su cui possono radicarsi, con maggiore facilità, atteggiamenti dettati non più dal semplice desiderio, ma dalla volontà stessa di appropriazione dell’oggetto, che viene in tal modo concepito come oggetto proprio di godimento. Questo passaggio è la strada della concupiscenza carnale, la quale si rivolge al corpo e al sesso come oggetti di piacere, per la soddisfazione personale del soggetto. La semplicità con cui la sensualità devia, esaurendosi, nella concupiscenza rappresenta un grave pericolo morale per la realizzazione dell’amore sponsale autentico, in quanto è in grado di sottrarre l’oggetto proprio dell’amore, la persona, sostituendolo con oggetti di godimento: il corpo e il sesso. Assecondando la dinamica propria della tensione sessuale, l’amore fondato sul desiderio carnale si allontana dalla forma autentica dell’amore, per costituirsi come amore non-integrato, in cui ogni atto, interno ed esterno, si riferisce esclusivamente ai valori sessuali e non al valore della persona nella sua interezza. L’amore sensuale si spegne nella consumazione del proprio oggetto, secondo le dinamiche proprie dell’atteggiamento utilitaristico. La struttura dell’affettività, nel tipico disinteresse per il corpo e la sessualità, sembra rappresentare un antidoto naturale contro la deviazione propria della concupiscenza carnale. Osservandone, tuttavia, da vicino la dinamica

130 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 609.

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caratteristica, è possibile vedere come in realtà non costituisca una soluzione positiva all’atteggiamento utilitaristico della concupiscenza carnale, ma solo una sospensione dell’attività della coscienza, mediante l’attivazione di un processo di idealizzazione. Seppure in direzione opposta alla sensualità, anche l’affettività non fa che apportare “materiale” all’amore, senza evitare che l’amore stesso si esaurisca in esso. Per comprendere il limite e il superamento del movimento utilitaristico della concupiscenza occorre delinearne la struttura essenziale.La forma propria della concupiscenza non coincide esclusivamente con la tendenza naturale per i valori sessuali individuati nel corpo dell’altra persona. La fondamentale deviazione che le corrisponde è, infatti, la particolare disposizione ad invertire l’ordine naturale dei valori in generale, vale a dire la tendenza alla subordinazione del valore della persona ai suoi valori secondari, sessuali e corporali che siano. E’ opportuno evidenziare come, fino a questo momento, si sia parlato della concupiscenza come di una tendenza propria dell’essere umano, vale a dire come una specifica disposizione naturale, capace di rivolgere l’interesse della persona verso i valori sessuali. In questo movimento si situa al di fuori del dominio della volontà del soggetto, come atteggiamento di passivo consenso. Questa struttura, corrispondente all’appetitus concupiscibilis individuato da S. Tommaso, elude la possibilità di stabilire un giudizio morale su di essa. Perché l’orientamento della concupiscenza si trasformi in atto, è necessario il concorso della volontà, mediante il quale il soggetto, consapevolmente e volontariamente, trasforma la tendenza al desiderio carnale in desiderio attuale. L’atto realizzato sotto la spinta della concupiscenza si costituisce come male morale solo quando si realizza nell’impegno cosciente della volontà, in discordanza con la verità oggettiva dei valori, quando, dunque, volontariamente e consapevolmente, il valore della persona viene subordinato ai valori sessuali. La natura spirituale dell’atto consente di analizzare la struttura morale dell’amore e di individuarne le deviazioni secondo la categoria morale del peccato. Il peccato è una particolare categoria morale che caratterizza un ‹‹atto volontario, cosciente e consentito›› 131 in opposizione con la verità oggettiva di una norma. Dal punto di vista della loro configurazione dunque, sensualità e concupiscenza non coincidono con la struttura del peccato, in quanto non includono il momento della decisione, né un atto fondato su un giudizio morale 132. L’idea di peccato si associa ad un impegno della libertà dell’uomo, il quale, 131K Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 625. 132 Seguendo l’interpretazione classica della teologia scolastica, la concupiscenza non è peccato in se stessa, ma fomite del peccato.

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nell’ambito proprio della morale sessuale, consapevolmente rifiuta di subordinare il sentimento al valore della persona: ‹‹l’amore “peccaminoso” ha luogo quando al posto dell’affermazione del valore della persona umana e dell’aspirazione al suo vero bene – che costituisce la radice del vero amore – subentra nel riguardo della persona di sesso opposto la ricerca del solo “godimento” legato ai momenti della sensualità vissuta›› 133. In questo tipo di amore la volontà si orienta soggettivamente. Ciò non solo rende impossibile, strutturalmente, la realizzazione dell’amore vero, ma ne fornisce un’immagine illusoria, in cui la persona o identifica erroneamente lo stato di saturazione emotivo-affettiva con la natura dell’amore o lo carica del godimento egoistico che non le appartiene. In sintesi, sebbene i sentimenti, in particolare quelli connessi al piacere, costituiscano dei beni secondari propri dell’amore, in grado di determinare le sfumature e l’intensità dell’aspetto soggettivo dell’amore ( e in questo senso rappresentano la ricchezza propria dell’amore umano), tuttavia sono insufficienti affinché tale amore possa realizzarsi in funzione loro, come autentica e duratura comunione di persone. Il peccato relativo all’amore coniugale investendo il libero arbitrio della persona, consiste in un consapevole ribaltamento di valori e, in particolare, nell’assunzione dei valori sessuali come beni autonomi e sufficienti. Ciò che propriamente l’autore ricerca è la soluzione positiva al problema della disintegrazione dell’amore umano. Vale a dire quell’atteggiamento attraverso il quale l’amore risulti perfettamente integrato, ossia pienamente corrispondente alla natura della persona. Questo atteggiamento scaturisce dal significato fondamentale della virtù della castità. La castità si radica profondamente nell’essenza dell’amore, agendo in modo positivo al suo interno, affrancandolo da ogni atteggiamento edonistico ed utilitaristico nei confronti della persona. La sua azione ed efficacia si fonda nell’interiorità stessa della persona, in quanto è in grado di purificare la volontà dall’impostazione soggettivistica e, in tal modo, di liberarla alla radice da ogni possibile atteggiamento egoista ed edonista nei confronti dell’altro. Penetrando e agendo nei centri più profondi della persona, ha la capacità di controllare e integrare la sensualità e la concupiscenza, sottraendo il fondamento stesso della loro degenerazione nella ricerca del puro godimento. In questa sua funzione normativa, la castità non rigetta i valori propri del corpo e del sesso, ma, mediante uno sforzo interiore e spirituale, è in grado di innalzarli a livello della persona, attraverso la realizzazione di un processo di integrazione permanente in cui l’amore è preservato nella sua autenticità: ‹‹essere casto, essere puro,

133 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 630.

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significa avere un atteggiamento “trasparente” nei confronti della persona di sesso diverso. La castità è la “trasparenza” dell’interiorità, senza la quale l’amore non è amore e non può esserlo fino a che il desiderio di godere non viene subordinato alla disposizione ad amare in tutte le circostanze››134.Alla luce di queste considerazioni, la castità è individuata da Wojtyla come condizione del “giusto amore”. Sottraendo alla radice ogni atteggiamento utilitaristico, per essenza contrario all’amore, crea nella persona la disposizione autentica ad amare l’altro nel duplice riferimento alla norma personalistica: positivo, imperativo dell’amore, e negativo, divieto di godimento utilitaristico nei suoi confronti. All’interno del pensiero di Wojtyla, l’aspetto che più viene sottolineato e ribadito della castità è la sua relazione con la dimensione corporea. La concezione della castità come disprezzo e limitazione delle realtà del corpo è sostituita dall’idea di rispetto del corpo, secondo le regole della modestia: il corpo è chiamato ad un atteggiamento di “umiltà” rispetto alla grandezza della persona, in quanto è il valore personale a dare la misura dell’uomo e, quindi, del corpo, alla grandezza dell’amore nella sua realtà più autentica, alla grandezza della felicità umana, intesa non come voluttà e piacere sessuale, ma, in senso più ampio e completo, come legame duraturo tra le persone, fondato sul dono reciproco.In ultima istanza, sulla linea proposta dallo stesso autore, occorre presentare le due componenti fondamentali della castità, intesa come virtù propria dell’amore umano.

1) pudore: fenomeno che insorge quando ciò che appartiene per natura all’interiorità umana viene manifestato esteriormente. Il suo essenziale riferimento alla realtà spirituale dell’essere umano gli conferiscono una connotazione strettamente personalistica, mediante la quale si distingue dal fenomeno del timore, la cui struttura esteriore, seppur apparentemente simile a quella del pudore, appartiene alla sfera animale delle reazioni spontanee che insorgono di fronte ad una minaccia e che non prevede nessuna relazione necessaria tra il suo manifestarsi e l’interiorità del soggetto. Il pudore sessuale si presenta come caso particolare del fenomeno del pudore, connesso con il corpo e, soprattutto, con gli organi sessuali, visibile nella tendenza, pressoché generale, che l’uomo ha nel nascondere i valori sessuali alle persone di sesso opposto. Questo atteggiamento, sintesi fenomenica del pudore sessuale, non si riduce, né si identifica semplicisticamente con i fenomeni relativi alla nudità, i

134 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 637.

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quali, piuttosto, trovano la loro origine in motivazioni di carattere fisiologico o ambientale. Il fenomeno del pudore sessuale ha, infatti, un significato preminentemente antropologico e ontologico, costituisce una sorta di protezione naturale della persona dal rischio della strumentalizzazione del proprio corpo. L’esperienza del pudore subentra nella vita della persona nel momento stesso in cui essa acquisisce la consapevolezza che i suoi valori sessuali possono essere assunti come oggetto di godimento e matura un’esigenza interiore volta ad impedire che la persona dell’altro sesso reagisca al suo corpo in modo non conforme al proprio valore personale. Il fenomeno della pudicizia si innesta, pertanto, sulla natura dell’essere umano, sul fondamento del suo autopossesso: ‹‹l’inalienabilità oggettiva della persona e la sua inviolabilità trovano espressione proprio nel fenomeno del pudore sessuale, che non è altro che un naturale riflesso dell’essenza della persona›› 135. Il riferimento del pudore all’essenza della persona si manifesta sia dal punto di vista oggettivo, che soggettivo: da un lato, il riconoscimento del valore della persona avviene mediante il fenomeno delle vergogna relativa ai valori sessuali del proprio corpo, dall’altro, l’inadeguatezza dell’atteggiamento utilitaristico nei confronti della persona dell’altro sesso emerge attraverso il fenomeno della vergogna inerente alla reazione sensuale che si esperisce nei confronti del corpo altrui. In entrambi queste manifestazioni del pudore, l’oggetto diretto è rappresentato dai valori sessuali, tuttavia esso rimanda indirettamente al valore della persona nel suo significato sovrautilitaristico. Questa corrispondenza tra la tendenza naturale e spontanea al pudore col valore della persona manifesta la relazione profonda che intercorre tra l’ordine morale con l’ordine delle natura e verifica ulteriormente le radici stesse della morale nelle leggi di natura. In virtù di questa connessione il fenomeno del pudore esige un’analisi più penetrante dell’indagine fenomenologica, che miri direttamente al cuore delle motivazioni metafisiche del fenomeno stesso. Il pudore rappresenta dunque l’espressione di un bisogno naturale mediante il quale viene affermato, in modo vivo e concreto, il valore della persona nella sua inviolabilità e si traduce nell’appello di un atteggiamento conforme a tale valore: un appello all’amore nel senso autentico e personale. L’amore sponsale trova nel fenomeno della pudicizia un comportamento idoneo alla sua struttura e dunque la via di accesso privilegiata, in cui la persona è protetta dal rischio di subire una svalutazione a rango di oggetto di godimento. Ciò pone il fondamento del fenomeno tipico dell’amore sponsale definito “assorbimento della vergogna”. Questo processo non legittima l’impudicizia all’interno dell’atto coniugale in virtù dell’istituzione del

135 K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 645.

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matrimonio, ma è la forma propria dell’amore in cui la persona si inserisce, senza temere per la propria inviolabilità e inalienabilità. All’interno del rapporto d’amore la sensualità continua ad agire secondo la sua dinamica caratteristica, ma la volontà rimane orientata sempre verso il vero bene della persona. Non è il sentimento ad assorbire la vergogna, ma l’amore di volontà fondato sull’unione tra le persone.

2) Continenza: con questo termine si esprime la facoltà dell’uomo mediante la quale esso è in grado di dominare se stesso, per mezzo dell’uso della ragione, riferendo i propri atti al bene e alla giustizia. Dal punto di vista sessuale si realizza nel controllo della concupiscenza carnale, nella subordinazione dei valori sessuali alla persona, col fine di progredire nel perfezionamento della persona stessa. Il senso del termine rimanda all’idea di un “contenimento” operato dalla ragione sui moti propri della concupiscenza ed in questo riferimento indica la modalità con cui la persona esperisce l’emergere degli stati interiori suscitati dai valori sessuali. Il ruolo della continenza è, dunque, quello di arginare la pressione dei sentimenti nel subordinamento degli stessi al valore della persona. La funzione della continenza deve, tuttavia, essere guidata dalla corretta comprensione dell’ordine oggettivo dei valori e dalla presa di coscienza del valore della persona come valore superiore. Solo in questo modo, infatti, la sua funzione non si riduce ad un respingimento cieco e casuale, ma contribuisce positivamente al perfezionamento della persona, mantenendo al suo interno la ricchezza che il lato della soggettività dell’amore apporta in questo fenomeno, caratterizzandolo in senso strettamente umano e personalistico.

Voglio concludere questo capitolo con le parole di George Weigel nelle quali è sintetizzato il significato essenziale della proposta etica dell’autore relativa alla sessualità coniugale, nella sua sostanziale connessione con un’antropologia radicalmente personalista:

‹‹L’etica sessuale cristiana redime la sessualità sottraendola alla trappola della concupiscenza. E non solo non vieta l’eros, ma lo libera per ‹‹una piena e matura spontaneità dei rapporti, in cui la “perenne attrazione tra i sessi trova il suo compimento

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nel reciproco dono e nella reciproca affermazione della dignità di ciascun partner” 136›› 137

Cenni riassuntivi della dottrina dell’amore umano e nuove prospettive interpretativeL’amore non è solo il fondamento dell’autorealizzazione della persona, ma anche della relazione con l’altro. La dinamica propria di questa realtà chiama l’uomo al dono totale di sé, ad attualizzare le potenzialità più profonde della struttura del proprio autopossesso e autodominio, attraverso un movimento che dal proprio “io” si dirige verso l’esterno, verso l’altro. Se l’intenzionalità propria dell’amore si pone in apparente contrasto con le leggi basilari della struttura della persona, della sua assoluta “incomunicabilità”, costituisce in realtà la massima realizzazione della sua libertà e capacità di possedersi e dominarsi. Solo l’uomo che si possiede pienamente è in grado di donarsi completamente. Solo colui che pienamente domina il proprio essere è in grado di abbandonare consapevolmente se stesso, per assumere l’altro come padrone della propria esistenza e azione. Amare, per Wojtyla, significa dunque, donarsi all’altro accogliendolo come un dono. In questo senso l’amore costituisce il nucleo essenziale, la radice stessa della trascendenza della persona, tanto in senso soggettivo, che oggettivo: non solo la persona oltrepassa se stessa facendosi dono e indirizzandosi verso l’altro, ma, a partire dalla coscienza dell’assoluta trascendenza dell’altro, questo movimento non si esaurisce in un’intenzionalità orizzontale, piuttosto si rivolge all’altro al di là di qualsiasi tentativo di inglobamento, per accoglierlo in quanto dono. La categoria del dono si fonda su due momenti essenziali nella relazione interpersonale: il riconoscimento dell’alterità, nella sua eccedenza rispetto a qualsiasi sforzo di comprensione e oggettivizzazione da parte dell’ “io”, e l’affermazione del valore che tale alterità rappresenta, attraverso l’assunzione dell’unico atteggiamento conforme alla dignità della sua unicità. L’atteggiamento intenzionale col quale l’ “io” si inserisce nel mondo degli enti, l’energia del suo sguardo comprensivo si infrange in presenza della trascendenza del prossimo: l’alter ego non solo è assolutamente inadeguato rispetto a qualsiasi sforzo di inglobamento da parte dell’ “io”, ma il tentativo stesso si costituisce nei suoi confronti come un atto sostanzialmente 136 Giovanni Paolo II, Santità e rispetto del corpo nella dottrina di S. Paolo, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 1981, IV, 1, pp. 177-85.137 George Weigel, Testimone della speranza, 1999, Mondatori, Milano, p. 421.

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inadeguato e violento. Solo dunque nella dinamica del dono si realizza quello che Levinas indica come esigenze impossibili: contenere più di quanto non sia possibile contenere 138. Nel dono l’ “io” diviene ospitalità, accoglienza dell’altro, come unica relazione possibile con esso.La capacità del dono fa inoltre appello direttamente alla libertà e alla volontà del soggetto: nel momento stesso in cui l’altro è riconosciuto nella sua diversità, nella sua eccedenza, il soggetto diviene responsabile di tale esclusività ed è chiamato a rispondere adeguatamente al mistero che questa singolarità rappresenta. L’appello che l’altro rivolge all’ “io” è, innanzitutto, per l’ “io” stesso, un auto-appello. Mentre l’altro investe con la sua presenza la responsabilità dell’ “io”, quest’ultimo è chiamato, al contempo, ad una conoscenza autentica di sé. Non solo, infatti, solo chi si possiede è capace di donarsi, ma solo a partire dalla conoscenza del bene e dell’essere che l’ “io” stesso scopre di sé, è possibile comprendere il bene e l’essere che ogni persona è per se stessa e, dunque, prendere autenticamente coscienza dell’essenza stessa del dono. In questo senso, il primo passo verso l’altro ‹‹è una presa di coscienza del voler varcare la soglie della decisione per il dono di sé all’altra persona›› 139. L’esperienza dell’altro, nella sua irripetibilità ed esclusività, è la scoperta del dovere rispetto al quale l’ “io” non può rimanere indifferente: ‹‹ La persona è affidata a un’altra persona come un munus (dovere). Vivendo con questo dovere, cum-munere, la persona entra nella communio personarum con un’altra persona. Nella loro esistenza, la voce dell’una vibra ( per-sonat) nell’esistenza dell’altra›› 140. In sintesi, attraverso l’altro, l’ “io” è proiettato nel mondo della morale: la rivelazione dell’irripetibilità altrui è, infatti, in primo luogo, la scoperta del valore assoluto dell’esistenza di fronte alla quale il soggetto è sempre chiamato a prendere una decisione, di cui, in un certo senso, è sempre responsabile. Detto ciò, l’amore coniugale, quale espressione particolare dell’amore umano, secondo le modalità essenziali fondate sulla differenziazione sessuale, acquista un significato privilegiato per la comprensione dell’amore come comunione tra le persone. Nella rapporto uomo-donna la dimensione della reciproca donazione, in conformità con la struttura e il valore della persona, si realizza e 138 Cfr. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano, 1986.139 Tadeusz Styczen, L’amore come vincolo matrimoniale e famigliare nella prospettiva filosofica, in L. Melina, S. Grygiel ( a cura di ), op. cit., p. 74. 140 S. Grygiel, Persona, matrimonio, famiglia, patria eventi della libertà, in L. Melina, S. Grygiel ( a cura di ), op. cit., p. 103.

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si completa attraverso l’integrazione e l’attualizzazione dei dinamismi propri della persona stessa, contribuendo in modo sostanziale alla sua autodeterminazione. All’interno di questa relazione, il corpo dell’altra persona è il segno visibile della sua identità e del suo significato. Attraverso di esso, della sua esteriorità, si instaura la comunione: il corpo, indizio evidente della presenza dell’altro, chiama l’ “io” alla relazione. Ed è sempre attraverso il corpo che l’ “io” stesso si immette in essa, realizzando la possibilità del dono. Nel caso uomo-donna, la differenza sessuale propria della corporeità umana non costituisce, quindi, un attributo accidentale, ma racchiude una profonda valenza antropologica e metafisica. L’attrazione che si instaura tra i due sessi è l’espressione del desiderio naturale che la persona ha dell’altro, l’eco di quella fondamentale memoria che li richiama intimamente. L’altro, nella sua assoluta diversità fa appello al mio “io”, alimentando il desiderio attraverso il quale l’ “io” esce da sé per costituirsi come dono, nella realizzazione di una dimensione relazionale radicata sul valore della persona: il legame d’amore. In un certo senso, la differenza sessuale indica la struttura personale del dono, è l’espressione corporea della struttura intima dell’amore stesso. Il fenomeno erotico che scaturisce dal fondamento della differenza sessuale all’interno del rapporto dell’uomo con la donna e viceversa, costituisce il momento essenziale attraverso il quale l’altro viene riconosciuto come un valore e, pertanto, desiderato. Nella differenza sessuale l’altro è colto nella sua diversità fenomenica e in quanto tale diviene l’oggetto della tensione erotica. La natura propria dell’eros tuttavia si struttura secondo la dinamica del possesso e del godimento: il valore che coglie nell’altro non è ancora il valore personalistico, ma un valore strumentale. Perché il movimento introdotto dalla tensione erotica conduca l’ “io” all’altro nella dimensione del dono, secondo la relazione imposta dal legame di amore, l’altro deve essere colto come un valore per sé. Non un bene per l’ “io”, ma un bene in quanto tale. Nell’amore erotico il legame di comunione tra le persone non può realizzarsi proprio perché in esso l’altro rimane vittima del movimento intenzionale dell’ “io”, all’interno del quale viene oggettivato come strumento di piacere personale. Per questo Wojtyla, in riferimento alla natura autentica dell’amore sponsale, introduce nuovamente il concetto di integrazione. L’amore esige che ogni dimensione dell’essere umano sia correttamente integrata nel costante riferimento al valore della persona che, tanto l’ “io”, quanto l’altro, rappresentano. Esige, inoltre, che il movimento erotico del desiderio divenga atto, in senso stretto, che venga cioè integrato dalla volontà del soggetto nel dono, ossia nella dimensione dell’agape.

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L’agape è la forma propria dell’amore sponsale e, in questa sua valenza essenziale, il compito precipuo dell’eros, il suo “peso specifico”, al di fuori del quale il desiderio si smarrisce e l’atto perde il proprio fondamento personalistico 141. Ma l’agape è anche la forma della persona: nell’atto di amore, come dono di sé, la persona si rivela sul fondamento stesso della sua natura, come essere chiamato ad amare. Nella comunione delle persone, in cui l’amore-agape si realizza, la persona ritrova allora incessantemente se stessa, riflessa nell’altro. L’altro, per la sua semplice presenza è un dono che si fa avanti, chiedendo di essere accolto come tale e in questo suo movimento spinge la persona che ha di fronte a donarsi a lui, illuminando in tal modo il senso profondo del suo essere personale. La reciprocità dell’amore è la reciprocità della donazione, ma anche dell’esistenza. Impressa nel volto dell’altro, l’ “io” riscopre continuamente la propria irripetibilità e la propria vocazione al dono, rintracciando il senso profondo della propria esistenza: ‹‹Noverim me – noverim te››, scriveva S. Agostino. Il percorso seguito fino a questo momento, guidato da “Amore e responsabilità”, ha fornito un’immagine globale dell’aspetto soggettivo dell’esperienza dell’amore umano nel quale la persona si realizza e svela, in quanto tale, nel dono di sé. Ora, sebbene l’autore non sembra occuparsene direttamente, la visione che egli stesso propone dell’atto, nella sua connessione con la persona, spinge la riflessione ad andare oltre, alla ricerca del correlato insito nella soggettività della persona, al di fuori del quale il concetto stesso di integrazione perderebbe il suo motivo di essere.La complessità della struttura del soggetto, svela nella dinamizzazione dell’atto di amore, come dono di sé, una sola delle sue possibilità. Il fenomeno “io amo”, all’interno della generale esperienza che l’uomo ha di sé, rivela il momento della trascendenza della persona, la quale, si pone, sul fondamento del proprio autopossesso e autodominio, all’origine di questa particolare azione. Il valore personalistico dell’atto di amore, contenuto reale dell’esperienza, richiede che la persona, nell’impegno della sua libera volontà, sia in grado di autodeterminarsi in questo agire specifico, sulla base della correlazione fondamentale tra persona e atto. Dalle analisi precedenti si è visto come la persona sia in grado di realizzare se stessa all’interno dell’atto di amore, mediante il dono di sé, in quanto è proprio secondo la specifica struttura di questa modalità che egli è in grado di attualizzare il dinamismo proprio della sua trascendenza, scegliendo liberamente di donare se stesso in vista del bene che egli riconosce al di fuori di sé, nella persona amata. La motivazione, quale 141 Cfr. S. Grygiel, Persona, matrimonio, famiglia, patria eventi della libertà, in L. Melina, S. Grygel, op. cit.

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momento fondante della scelta che la persona fa, decidendo di donarsi, è data dal valore che l’altra persona rappresenta per l’ “io” e al quale l’ “io” riconosce una certa preminenza assiologica. Nell’esperienza dell’altro questo valore è dato dalla sua semplice presenza, dal suo statuto personale, che costituisce nella sua assoluta irripetibilità un valore unico e assoluto: un dono, per il semplice fatto di esistere. Dal punto di vista dell’atto, l’esperienza di questo valore, è in un certo senso anteriore, in quanto è al suo interno che la persona rintraccia il fine verso il quale la sua volontà si orienta nell’azione e, dunque, costituisce la radice stessa della sua decisione. In questo senso, l’atto di donazione che la persona realizza: ‹‹si configura come una risposta ad un dono previo›› 142. Ora, certamente, la risposta non è una semplice reazione, ossia non è determinata in modo necessario nel soggetto, in quanto richiede, per sua stessa natura, un’attività consapevole da parte della persona interpellata, la quale liberamente sceglie se e come rispondere. Tuttavia, il fatto che la persona risponda implica non solo che un appello sia stato formulato, ma che sia stato, al contempo, ascoltato e accolto. L’esperienza dell’altro, quale momento fondante dell’atto di amore, è, quindi, innanzitutto un patire: il soggetto è colto dalla presenza dell’altro, investito dai contenuti veicolati dalla sua corporeità, i quali permeano la sua coscienza, trasformandola e attivano gli strati propri del suo dinamismo psicosomatico che attendono di essere integrati nell’atto.Questa esperienza delinea l’aspetto oggettivo dell’esperienza amorosa, all’interno del quale il soggetto fa esperienza di sé secondo la modalità propria delle attivazioni, riconducendo il contenuto dell’esperienza al fenomeno essenziale “qualcosa accade in me”. Sul fondamento della sostanziale unità e complessità del soggetto, questo momento è costitutivo all’interno del configurasi dell’esperienza in generale e in un certo senso anteriore all’atto. Chiamo questo momento “passione”, non perché radicato nella sfera emotiva, ma perché al suo interno il soggetto, ancor prima di rivolgersi intenzionalmente col proprio atto all’altro, lo vive interiormente, lasciandosi permeare dai suoi significati. L’amore passionale, così inteso, sulla base della complessità della struttura della persona, rappresenta il correlato dell’amore come dono e in quanto tale esige di essere integrato al livello della persona. L’importanza di questo aspetto all’interno della riflessione generale sull’amore consente di preservarne quella specifica colorazione che lo rende pienamente umano. Quella ricchezza di elementi unici e irripetibili che la persona apporta al suo interno, che fa l’amore non solo vero, ma semplicemente bello.

142 J. Noriega, La vocazione al dono di sé, in L. Melina, S. Grygiel, op. cit., p 201.

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PARTE TERZA

LA PEDAGOGIA DEL CORPO

‹‹Sono ormai 350 anni che la filosofia occidentale non prende più le mosse dal cosmo, bensì dall’uomo, dal soggetto pensante. Karol Wojtyla, il filosofo, ha preso molto sul serio questa “svolta verso il soggetto” così come l’ha presa sul serio Giovanni Paolo II, il teologo››143.

Il 22 ottobre del 1978 Karol Wojtyla inaugura solennemente il suo ministero di Pastore universale della Chiesa col nome di Giovanni Paolo II. Questo momento segna un confine preciso nel pensiero del nostro autore. Sebbene non si assista ad una sostanziale trasformazione delle sue posizioni in merito alle concezioni inerenti alla natura dell’essere umano, ai significati propri della sua struttura, al valore della sua corporeità e al senso dell’amore nell’ordine della persona, la portata delle sue riflessioni va ora collegata a due elementi fondamentali che non è possibile in alcun modo trascurare. In primo luogo, la natura apostolica del nuovo incarico impone di ricondurre la produzione speculativa di questo preciso periodo all’interno del Magistero della Chiesa Cattolica, come patrimonio universale della comunità dei credenti e come il frutto dello specifico lavoro del Pontefice a difesa dell’integrità del “tesoro della fede”, di cui è fatto custode. In secondo luogo, il duplice aspetto della sua posizione, di Capo di Stato e di Capo della Chiesa, comporta un’ovvia amplificazione nella risonanza del suo messaggio. A parlare non è più, o meglio non solo, il giovane pensatore e attivista della resistenza culturale polacca, né il professore di Etica dell’università di Lublino, così attento alla formazione dei suoi allievi, né il carismatico sacerdote di un circolo di giovani coppie, interessato alle questioni morali, più per la loro rilevanza nella vita concreta dei suoi amici, che per il gusto della semplice speculazione. La biografia dell’autore si incontra, a partire da questo momento, con la Storia, quella dei manuali, e il senso delle sue parole acquista un orientamento universale di cui non è possibile non tenere conto. Lo

143 George Weigel , op. cit., p. 427.

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stesso Wojtyla, fin dagli anni dell’esperienza nel teatro rapsodico, ha scoperto e insegnato il “peso specifico” della parola e, sebbene non sia possibile trascurare lo spessore delle parole dei suoi scritti o discorsi antecedenti, ora la specificità di questo peso è certamente mutata e obbliga il lettore ad una valutazione adeguata.In linea con la funzione pastorale del suo ruolo di Pontefice, il 5 settembre del 1979, Giovanni Paolo II iniziò una serie di udienze generali, che seguirono per quattro anni, col fine di approfondire, in un’ottica squisitamente teologica, le tematiche relative all’amore umano, già trattate in “Amore e responsabilità”, nella loro connessione col destino dell’uomo all’interno del piano divino.L’occasione per lo sviluppo di una simile riflessione fu data dai preparativi per il Sinodo dei vescovi, De muneribus familiare christianae, che si sarebbe tenuto l’anno successivo, il cui argomento principale, come espresso nel titolo, era la comunità umana e cristiana della famiglia e i suoi compiti all’interno della Chiesa e della società. Il Papa si trovò a meditare, tuttavia, non tanto sul tema diretto del Sinodo, quanto sulle “profonde radici” da cui questa problematica scaturisce, ossia sulle fondamenta stesse del matrimonio e della famiglia come comunità di vita in cui la persona è chiamata a realizzare se stessa 144. Le udienze generali furono trasmesse in tutto il mondo dalla Radio Vaticana e raccolte all’interno di sei edizioni settimanali, pubblicate in varie lingue dall’ “Osservatorio Romano”. Nonostante l’ampio raggio di divulgazione, il programma complessivo delle riflessioni all’interno del quale si mosse il Pontefice, vale a dire l’elaborazione di una teologia pedagogica come nucleo essenziale della spiritualità coniugale, restò quasi del tutto sconosciuto. Ne è testimone il biografo americano di Karol Wojtyla, George Weigel, che, proprio in riferimento all’acquisizione delle profonde intuizioni teologiche e dell’innovativo potenziale interpretativo contenuto in tali udienze da parte tanto dei teologi e dei fedeli, quanto dell’opinione pubblica, afferma: ‹‹La teologia del corpo di Giovanni Paolo II ci sfida a concepire la sessualità come un modo per cogliere l’essenza dell’umano, e quindi a discernere qualcosa del divino.

144 Cfr. Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città nuova, Roma, 2007, catechesi I, p. 32: ‹‹Il ciclo delle riflessioni che iniziamo oggi, con l’intenzione di continuarlo durante i successivi incontri del mercoledì, ha anche, tra l’altro, come scopo di accompagnare, per così dire, da lontano, i lavori preparatori al Sinodo, non toccandone però direttamente il tema, ma volgendo l’attenzione alla profonde radici da cui questo tema scaturisce››.

Da questo momento in poi, per motivi di praticità, citerò le catechesi omettendo le indicazioni relative alla raccolta da cui sono tratte, per la quale bisogna fare riferimento a quella sopra indicata. (es: Cat. n° , p. )

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[…] Ma finora sono stati pochi i teologi che hanno raccolto la sfida implicita in questa proposta così radicale. E sono pochi i sacerdoti che affrontano tali tempi nella loro predicazione. Quanto ai fedeli, soltanto una piccolissima minoranza sa che esiste una ”Teologia del corpo”›› 145.In questa terza ed ultima parte del lavoro ho deciso di dedicarmi allo studio delle centotrentatre catechesi che compongono il corpo dell’insegnamento di Giovanni Paolo II espresso nelle suddette udienze generali, non con intento divulgativo, ma nel tentativo di raccoglierne la “sfida implicita” lanciata dal loro autore. L’interesse fondamentale sarà, innanzitutto, quello di individuare al loro interno il culmine di un processo di maturazione intorno all’idea di persona umana, che vede le sue origini già nelle prime opere filosofiche dell’autore, e che segue qui il proprio percorso, mediante il progressivo sviluppo di un’antropologia adeguata, in grado di raggiungere l’integrum dell’uomo e l’uomo nel suo integrum. Sebbene ritengo che non sia possibile leggere e interpretare correttamente i contenuti della proposta teologica di Giovanni Paolo II elaborata nella catechesi senza tener conto delle due opere filosofiche fondamentali cui finora ci siamo riferiti, “Persona e atto” e “Amore e responsabilità”, al suo interno emergono numerosi elementi che invitano, al contempo, ad una rilettura più profonda di questi testi anteriori. Ridurre, infatti, le catechesi ad una sorta di fondazione teologica del pensiero filosofico dell’autore non solo è un passaggio semplicistico e in alcun modo autorizzato, ma manca in pieno il potenziale proprio della teologia del corpo. L’esegesi proposta in merito a determinati passi scritturistici non svela esclusivamente il significato teologico della struttura della persona e della sua capacità di amare. La teologia del corpo consente, piuttosto, di ricomprendere i significati precedentemente emersi dall’indagine fenomenologica di queste realtà, in particolare quella corporea e sessuale, in un modo più radicale ed essenziale.La riflessione antropologica ha finora condotto ad una visione sostanzialmente positiva della corporeità e della sua posizione all’interno della complessa struttura dell’essere umano. La sessualità, nella peculiarità dei suoi dinamismi, ha disvelato inoltre, nell’analisi delle sue finalità e implicazioni, un significato strettamente antropologico ed ontologico, che trascende il senso meramente fisico e psicologico delle sue manifestazioni. Corporeità e sessualità si sono in tal modo progressivamente delineate come momenti essenziali della persona, mediante la quale essa è in grado di realizzare pienamente se stessa nel dono autentico di sé, assumendo un significato personale e una rilevanza particolare

145 George Weigel, op. cit., p. 426.

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nella visione dell’essere umano. La persona non è un essere astratto, ma fatto di carne e sessuato: questa caratterizzazione corrisponde all’orientamento interiore che spinge l’uomo al di fuori di sé, verso l’altro, e ne costituisce, non solo la manifestazione fenomenica, ma lo strumento stesso della sua realizzazione. La teologia del corpo consentirà, tuttavia, di oltrepassare questi risultati, per ricondurre al significato dell’essere della persona, alla verità del suo essere, proprio a partire dall’analisi della corporeità e della sessualità, come contenuti delle esperienze elementari dell’uomo 146. Infine, ritengo che la qualità principale del programma teologico dell’autore vada al di là del carattere speculativo ed esegetico, per radicarsi più profondamente sull’intenzione dal quale è scaturito. Non una dottrina in senso stretto, ma catechesi pastorali, il cui fine non è tanto la formulazione teorica e teologica dei principi essenziali dell’essere umano, quanto la spiegazione e la giustificazione delle realtà umane a partire da tali principi, per fornire un sostegno adeguato alle problematiche morali concrete e alla confusione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Per questo credo che l’obiettivo di Giovanni Paolo II ecceda l’elaborazione di una nuova interpretazione teologica della persona, a partire dalla sua corporeità, per sfociare in un’innovativa e concreta pedagogia del corpo e sotto questa ottica intendo riproporla.

I. L’AMORE NEL PIANO DIVINO

I.I Il “Principio”: fondamenti della teologia del corpo

§1 Alcune premesse di carattere metodologico Come anticipato nella breve introduzione alla terza parte del lavoro, la tematica centrale delle catechesi proposte è l’analisi delle “profonde radici” su cui si fondano matrimonio e famiglia. Individuare il livello di tale profondità e, soprattutto, il metodo col quale l’autore vi penetri, è di primaria importanza per la comprensione generale del loro programma.Fin dalle prime righe della catechesi iniziale emergono due elementi essenziali: in primo luogo, l’appello diretto ed immediato alle parole di Cristo sulla realtà matrimoniale, espresse nel famoso colloquio con i farisei, raccolto nei due brani 146 Con esperienze elementari, o originarie, l’autore si riferisce a quelle esperienze particolarmente significative per la comprensione dell’uomo e per i contenuti essenziali della sua struttura, che si costituiscono anteriormente rispetto alle altre esperienze umane, non in senso strettamente cronologico, ma come nucleo interpretativo all’interno del quale ogni altra esperienza si attualizza.

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evangelici di Matteo (Mt, 19,3ss 147) e di Marco (Mc, 10, 2); in secondo luogo, a partire da questi stessi brani, il riferimento al “principio”, vale a dire quei passi della Genesi cui Cristo nel suo intervento, per ben due volte, si richiama nell’affermare l’unità e l’indissolubilità del vincolo matrimoniale (Gen 1, 27; Gen, 2,24) 148. Giovanni Paolo II imposta, dunque, il suo discorso su un duplice livello fondativo: il colloquio con Cristo è necessario per individuare le risposte relative ai compiti della famiglia cristiana, tuttavia, per comprendere il senso normativo delle sue parole, occorre, su sua indicazione, penetrare ancora più profondamente nel significato della famiglia, illuminando il senso originario della differenziazione sessuale che emerge nel racconto della creazione e su cui la famiglia stessa si radica. Il “principio” indica immediatamente i contenuti dei passi della Genesi che saranno oggetto dell’analisi dell’autore nel primo ciclo di catechesi, tuttavia, esso rappresenta, in senso più generale, un concetto centrale dell’antropologia del Pontefice, attraverso il quale si riferisce ad uno stato originario dell’essere umano, da intendere come “preistoria teologica di ogni uomo storico” 149. Il “principio” rappresenta il momento privilegiato per l’autoconoscenza dell’uomo, in quanto racchiude la verità essenziale sulla sua natura, nel duplice rimando ad uno stato di innocenza originaria, come stato perduto dell’esistenza umana, e alla dimensione escatologica interna al mistero della redenzione, fine dell’uomo “storico”. Questo significato del “principio”, lontano tanto dall’idea comune di un inizio temporale, quanto dal filosofico “archè”, realtà da cui tutto dipende, ha un profondo senso metafisico: indica, infatti, l’essere umano nel momento della creazione, cioè nella sua piena corrispondenza con l’idea del creatore e, dunque, con la sua essenza: essere a “immagine e somiglianza” di Dio. Rivolgendo l’attenzione dei suoi ascoltatori a questa specifica dimensione, Gesù, nel suo dialogo, ha un preciso intento pedagogico, sulla scia del quale si pone l’autore, ossia ricollocare la questione sollevata intorno al matrimonio su un nuovo livello di comprensione, anteriore al dualismo col quale è stata posta,

147 ‹‹Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero:”E’ lecito ad un uomo ripudiare la moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non separi››. 148 Cfr. Cat. 1, p. 31.149Cfr. Cat. I, nota p. 32; Cat.. IV.

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da cui poter godere di una visuale “adeguata” sulla radici del problema stesso. Alla luce di questa precisa scelta metodologica operata da Gesù, il richiamo al “principio” non si configura come l’appello ad un’autorità già riconosciuta dagli ascoltatori, con la quale poter legittimare la norma morale che si vuole presentare, ma l’invito ad inserirsi in quel particolare angolo prospettico, dal quale si lascia scorgere il cuore della norma stessa, nel suo riferimento immediato alla verità. Rivolgere lo sguardo al “principio”, nel suo significato metafisico, ontologico e antropologico vuol dire penetrare nel nucleo essenziale delle propria natura e coglierla nella sua autenticità, seguendo il “senso umano” che emerge dalle esperienze originarie che scandiscono tale principio. Questo passaggio segna il movimento proprio del metodo adottato dall’autore nella costruzione delle sue catechesi sull’amore umano: da un lato, i dati rivelati forniscono una gamma di esperienze originarie il cui significato non è attribuito dall’esterno, ma emerge dall’interno delle esperienze stesse, come criterio interpretativo fondamentale dell’uomo e del senso propriamente umano delle sue esperienze. Dall’altro, tale senso acquista un significato autentico proprio alla luce della rivelazione. Il peculiare rapporto così stabilito tra esperienza umana e rivelazione, nella reciprocità dei contributi apportati all’indagine, rappresenta la novità, in senso stretto, del lavoro del Pontefice intorno alla realtà umana dell’amore. Le esperienze originarie descritte nelle pagine della Genesi costituiscono il punto di contatto tra la rivelazione e l’ “esperienza dell’uomo” in generale. Seguendo il percorso proposto dall’autore il lettore può infatti, a partire dalla propria esperienza, riconoscersi nelle dinamiche delle esperienze originarie e, in tal modo, rileggere il senso profondamente umano delle propria esperienza alla luce del piano divino incluso nella rivelazione: fornire questa possibilità è l’obiettivo pastorale precipuo delle catechesi. La natura del legame appena individuato tra esperienza e dato rivelato, posto dall’autore a fondamento del proprio metodo, verte su una realtà non direttamente espressa, la cui portata è, tuttavia, decisiva per la comprensione della validità del metodo stesso: ‹‹la rivelazione implica un’esperienza, un avvenimento, cioè un contatto con la realtà di Dio che comunica qualcosa›› 150, al contempo, l’esperienza umana, illuminata dalla rivelazione, acquista un significato nuovo, scaturente dalla concordanza del senso umano col piano divino.Il carattere permanente dell’esperienza originaria, la possibilità di un continuo riferimento ad essa da parte dell’essere umano di tutti i tempi, fa sì che l’idea di

150 Josè Noriega, Il destino dell’eros, Dehoniane, Bologna, 2007, p. 35.

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“principio”, quale realtà su cui l’esperienza originaria si forma secondo le modalità essenziali della natura umana, costituisca la radice delle esperienze un “significato” perenne, cui ogni esperienza possa ricondursi. Il “principio” rappresenta, dunque, il varco che conduce alle esperienze elementari dell’essere umano e, in questa sua proprietà, stabilisce il livello adeguato della ricerca: vale a dire ‹‹il terreno di un’antropologia adeguata, che cerca di comprendere e di interpretare l’uomo in ciò che è essenzialmente umano›› 151. In tal senso, il “principio” è la via eminente, attraverso la quale l’autore si rivolge all’uomo per cogliere la verità sul suo essere, a partire dalla concretezza della sua esperienza. Per comprendere, fino in fondo, l’antropologia elaborata in questi testi, occorre esplicare il senso dell’adeguatezza che tale ricerca vuole perseguire. Questo criterio implica non solo che tale antropologia sia in grado di fornire una visione adeguata dell’essere umano, cogliendolo nel suo integrum, ma che sia, al contempo, capace di raggiungere la visione integrale dell’uomo, adeguandosi alla sua integrità, vale a dire poggiandosi sull’esperienza essenzialmente umana. Il concetto di “antropologia adeguata”, come comprensione e interpretazione dell’uomo in ciò che è essenzialmente umano, a partire dalla sua esperienza, comprende in sé il concetto di riduzione: ‹‹questo concetto determina il principio stesso di riduzione, proprio della filosofia dell’uomo, indica il limite di questo principio e indirettamente escluda che si possa varcare questo limite›› 152. Dal punto di vista metodologico, il principio di riduzione si costituisce come quel procedimento attraverso il quale il fenomeno, colto dalla coscienza nella molteplicità dei suoi aspetti, viene ricondotto ai suoi fondamenti essenziali. E’ dunque, ciò che propriamente è in grado di fornire una “visione adeguata” del proprio oggetto. Circa la natura di tale principio, rimando alla descrizione operata nella prima parte di questo lavoro, dove il concetto di riduzione e il momento preparatorio dell’induzione è già stato descritto all’interno dell’analisi dell’opera “Persona e Atto”. Vorrei solo sottolineare come, ancora una volta, l’autore parta dall’analisi dell’esperienza umana, quale realtà conoscitiva privilegiata per il rapporto immediato che è in grado di istituire con il proprio oggetto, il quale si dà al suo interno nella forma originaria. In tal senso, l’analisi fenomenologica dell’esperienza rappresenta, per l’autore, un atto di esplorazione vero e proprio, attraverso il quale i dinamismi della persona si presentano in forma unificata e, tuttavia, complessa. Questo metodo consente al soggetto di stabilire un contatto diretto con l’oggetto della propria esperienza, 151 Cat. XIII, p. 72.152Cat. XIII, nota, p. 72.

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consolidandone in un primo momento l’identità sostanziale, e quindi penetrandolo, mediante la riduzione propriamente detta, nella sua specificità essenziale, dalla quale emergono i “significati perenni” dell’esperienza stessa. Se, tuttavia, l’esperienza costituisce il mezzo essenziale per la costruzione di un’antropologia adeguata, non si può dimenticare, alla luce del nesso tra esperienza e rivelazione, che è a partire dalle fonti rivelate che tale esperienza è interpretata 153. Pur facendo appello all’esperienza concreta dell’uomo, come radice dell’autoconoscenza del soggetto, questa stessa esperienza è costantemente ricondotta alla verità rivelata: ‹‹ La parola viene letta, interpretata e compresa in quanto fonte che genera un’antropologia adeguata, costruita continuamente alla luce che quella parola irradia dentro l’esperienza essenzialmente umana che ogni uomo ha di sé. Questa esperienza consente, senza essere violentata, di essere irradiata e illuminata, perché compresa ed interpretata mediante il principio di riduzione›› 154. Solo alla luce del verbo incarnato la verità dell’uomo raggiunge la sua interezza: ‹‹nonnini in mysterio Verbi Incarnati mysterium hominis vere clarescit›› 155. Da questo punto di vista le parole di Gesù acquistano un duplice significato: disvelamento di un contenuto antropologico autentico e funzione normativa. Non definiscono esclusivamente la verità sulla natura dell’essere umano, come dato esterno indeducibile, ma come norma che sorge nell’uomo e interiormente lo spinge alla realizzazione di tale verità. Questa impostazione metodologica dell’autore sottende un particolare rapporto tra analisi fenomenologica e verità rivelata. Per comprenderlo fino in fondo occorre nuovamente riferirsi al concetto di integrazione: l’esperienza essenzialmente umana è in grado di svelare le ragioni fondamentali della natura umana solo se subordinata, o per meglio dire, illuminata, dalla rivelazione. Solo la conformità con questa relazione consente all’esperienza umana di esprimere 153 La configurazione dell’esperienza all’interno della coscienza della persona, come già visto in precedenza, dipende non solo dai dinamismi propri della sua struttura, ma anche dal modello interpretativo che essa assume, e che, di volta in volta, condiziona, con i contenuti simbolici che gli sono propri, la lettura che il soggetto realizza circa il significato della sua esperienza. Porre la rivelazione come criterio di lettura dell’esperienza umana, significa dunque, lasciare emergere il senso umano di questa esperienza a partire dai contenuti oggettivi del dato rivelato, e in qualche modo ricondurre il significato dell’esperienza dal piano umano a quello divino.

154 Introduzione generale in Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, cit., p. 12.155 Gaudium et spes, 22.

Cfr. Introduzione generale, in Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, cit.., p. 11.

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pienamente il suo contenuto oggettivo, vale a dire la corrispondenza tra esperienza e verità della persona 156. L’integrazione tra esperienza e rivelazione costringe a soffermarsi, ancora una volta, sulla posizione dell’autore. Egli si rivolge all’uomo concreto partendo dall’esperienza effettiva che egli ha di sé, per mostrargli la via attraverso la quale riconoscere la verità sul suo essere. In questa funzione è possibile riconoscere, tuttavia, non solo lo sforzo di colui che persegue una verità filosoficamente fondata, ma l’impegno di chi, in questo percorso, si rivolge pedagogicamente all’uomo, perché anch’esso impari a riconoscerla in se stesso. Questo scarto illumina l’autore sotto la particolare prospettiva della sua attività magisteriale e pastorale: ‹‹ il Papa parla all’uomo come maestro dalle fede della Chiesa, non semplicemente come maestro di una verità filosofica: se parla dell’uomo nel è alla sempre alla luce della fede […] Ma l’uomo di cui parla la Chiesa non è altro che l’uomo che è ciascuno di noi: è l’uomo concreto›› 157. In senso lato, si potrebbe applicare il concetto di integrazione alla vita stessa dell’autore: vera guida e vero fenomenologo, ora in tutta la sua pienezza 158.La sua fenomenologia pedagogica, se così si può dire, cerca il senso umano racchiuso nell’ “esperienza dell’uomo”. Solo che ora, per esplorare questa esperienza, si lascia illuminare dal “principio”, realtà a-storica, su cui, tuttavia, si radica il senso della storia, in modo che anche il fine sia incluso nell’inizio. Questa facoltà disvelativa del “principio”è in grado di cogliere l’essere umano nell’integrità del suo significato: partire fenomenologicamente dal “principio”, non significa, infatti, muovere dai principi ontologici derivati dalle esperienze originali che lo compongono, ma ricondurre l’esperienza quotidiana dell’uomo concreto-storico ai principi perenni in esso racchiusi, ricercando il senso che tali principi hanno per la sua esistenza e comprensione di sé. Da questo punto di vista, leggere la propria esperienza alla luce del “principio” vuol dire proiettarsi nel fine che esso stesso include.

156 Questo passaggio svela, ancora una volta il nesso particolare sul quale si fonda, all’interno del pensiero dell’autore, il rapporto tra ethos e antropologia. Lo scopo dell’antropologia adeguata perseguita tanto da K. Wojtyla, quanto da Giovanni Paolo II è quello di mostrare la verità essenziale dell’essere umano, ossia svelarne l’essere-personale. Tale verità tuttavia, non si dà in atto nella persona, ma come il suo fine più proprio: l’uomo è chiamato a realizzare la verità del suo essere personale mediante il proprio libero agire. All’esplicazione di questo nesso fondamentale tra verità dell’uomo e sua realizzazione è già stato dedicato molto spazio. 157 Introduzione generale, in Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, cit., p. 11.158 Cfr. intra, p. 18

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In definitiva, il significato dell’esperienza umana si configura sulla base del “principio” in relazione al mistero della redenzione, intesa non come semplice ripristino dell’ideale condizione originaria, ma come attualizzazione perfetta delle potenzialità reali e concrete che la persona scopre nella sua esperienza di sé e che trovano nell’analisi dell’esperienza originale la loro conferma.

§2. Identità e differenzaI primi capitoli della Genesi sono, per Giovanni Paolo II, una fonte ricca di contenuti antropologici dalla quale poter attingere quegli elementi, perenni e originari, in grado di illuminare il senso profondo dell’uomo attuale e della sua esperienza personale nel mondo. In questa parte del lavoro invito il lettore a volgersi, anch’esso, a questo “principio illuminante” per scoprire come, grazie all’interpretazione del Pontefice, dall’esperienza del primo uomo emerga il nucleo essenziale delle esperienze di ogni uomo, la sua identità e il senso stesso della sua storia.

a) Definizione dell’uomo del primo racconto della GenesiIl primo racconto biblico della creazione, Gen 1-2, 4a, attribuito alla tradizione sacerdotale ed elohista 159, cronologicamente posteriore al secondo racconto e, rispetto allo stesso, teologicamente più astratto e maturo circa le definizioni metafisiche delle realtà di cui tratta, è strutturato attraverso la presentazione graduale degli esseri creati, i quali sono chiamati all’esistenza da Dio secondo un ordine crescente di dignità, nel quadro di riferimento ideale di una settimana. All’interno del ritmo cronologico della narrazione, la creazione dell’uomo si presenta come atto finale e culmine dell’intero processo, che precede il riposo di Dio. Ripercorrendo lo schema progressivo del racconto, si osserva come l’autore biblico si riferisca all’atto creativo della materia non vivificata, degli enti che compongono la struttura del mondo, mediante una terminologia specifica e, in un certo senso, meccanicistica: “separò”, “fece”, “pose”. Quando, invece, si accosta alla creazione degli esseri animati, l’atto divino si configura diversamente, quasi ad indicare una maggiore intensità e un’originalità particolare dell’atto stesso, attraverso i predicati “creare” e “benedire”. Questo dato iniziale fornisce, nell’immagine di una data modificazione dell’atto

159 La corrente sacerdotale appartiene alla tradizione dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, caratterizzata da uno stile astratto e teologico. Si intreccia in questo racconto con la fonte elohista, la quale deve il suo nome all’utilizzo del nome comune plurale “elohim” per indicare Dio, caratterizzata da uno stile lineare e sobrio.

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creativo divino, una prima indicazione sulla peculiare posizione dell’essere umano all’interno del creato. L’essere umano, infatti, pur inserendosi all’interno dell’ordine cosmologico descritto in questo brano, al contempo, se ne separa. Gli elementi che consentono di formulare una simile affermazione sono molteplici. Non solo all’uomo è conferito il particolare potere di dominare il creato, ponendosi al di sopra di esso (“soggiogate la terra, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”, Gen, 1,28), ma il momento stesso in cui l’uomo viene all’esistenza trascende la scansione graduale che finora aveva segnato l’opera creatrice di Dio, per caricarsi di un valore eccezionale. Innanzitutto, appare evidente come, a differenza degli altri atti creativi, la creazione dell’uomo sia anticipata da una speciale introduzione: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen, 1,26). Da essa è possibile ricavare inoltre, due elementi importanti per la definizione dell’essere umano: da un lato, il riferimento all’immagine di Dio sottolinea il fatto che l’uomo, pur essendo legato per appartenenza alla struttura del creato, differisce e supera per dignità le altre creature, in virtù della specifica somiglianza della sua natura con quella del creatore; dall’altro, il plurale del predicato, isola e innalza definitivamente questo atto creativo dagli atti che lo avevano preceduto: ‹‹il creatore sembra arrestarsi prima di chiamarlo - l’uomo - all’esistenza, come se rientrasse in se stesso160 per prendere una decisione›› 161. Indipendentemente dalla varie interpretazioni esegetiche che questo plurale ha ricevuto nel corso della storia, il suo valore e il suo apparire improvviso all’interno della narrazione mostrano, indubbiamente, l’eccezionalità della deliberazione divina che precede l’evento creativo dell’uomo, lasciando intravedere un richiamo con la natura trinitaria di Dio, alla luce della quale la somiglianza dell’uomo acquista un valore strettamente personalistico. A partire da questi elementi, la posizione dell’uomo nel racconto biblico si delinea oggettivamente da un duplice punto di vista: egli appartiene, in virtù della sua corporeità e della sua contingenza, al mondo visibile, tuttavia, la sua somiglianza col Creatore è tale che il suo essere non sia riconducibile ed interpretabile sulla base esclusiva delle categorie mondane-fisiche. Il tema dell’uomo ad immagine di Dio collabora, infatti, in modo determinante, alla definizione metafisica delle dimensioni dell’essere e dell’esistere sulla quale si fonda la sua assoluta preminenza nell’ordine del creato. Un ultimo elemento che occorre, infine, tenere presente e che sarà di estrema importanza per lo sviluppo delle successive riflessioni, è la vicinanza 160 Cfr. S. Agostino, De Genesi ad litteram.161 Cat. II, p. 34.

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concettuale posta tra la creazione dell’uomo ad immagine di Dio e la creazione dell’uomo sulla base della differenziazione sessuale. “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen. 1, 27). Per meglio comprendere questa frase occorre riferirsi alla versione originale in cui, in realtà, il termine “uomo” è indicato dal sostantivo plurale, “ha-‘adam”, traducibile, seppure in modo imperfetto, col termine “umanità”, mentre i vocaboli maschio e femmina sono espressi rispettivamente dai termini “zakar” e “unequeba” 162. La rilevanza di questa constatazione sta nella duplice indicazione che fornisce in merito al significato della sessualità umana, dal punto di vista ontologico e metafisico. La definizione che accosta l’umanità, l’ immagine di Dio e la divisione dell’uomo in maschio e femmina, mostra non solo che la differenza sessuale, nella sua appartenenza alla realtà corporea dell’essere umano secondo le sue modalità specifiche, vada interpretata alla luce della somiglianza con Dio, piuttosto che con gli animali 163, ma che l’uomo e la donna sono ad immagine di Dio proprio a partire da questa differenza. Il carattere metafisico della differenziazione sessuale nell’essere umano è ulteriormente e definitivamente segnalato dalla struttura della benedizione divina che accompagna la creazione dell’uomo: “Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gen. 1, 28). Anche in questo caso è possibile rintracciare nel passo un duplice indizio metafisico. Innanzitutto, la correlazione tra la creazione dell’uomo e la dimensione procreativa è l’espressione diretta del fieri che caratterizza la natura contingente dell’essere creato. D’altro canto, il fatto che la benedizione divina si volga espressamente alla capacità riproduttiva dell’essere umano, piuttosto che dell’essere vivente in generale, assegna a questa realtà un significato che eccede il senso meramente biologico proprio della “fecondità” animale, per radicarsi nell’intenzione divina stessa.

162 La traduzione del termine ah-‘hadam è stata definita imperfetta in quanto nella lingua italiana, così come nella maggioranza delle lingue europee, il termine uomo si riferisce tanto all’uomo nel suo senso generico, quanto all’uomo nella sua mascolinità. Nella lingua ebraica, così come nel latino ( homo e vir ) e nel greco ( anthropos e aner ), questa distinzione era bene presente ed espressa appunto con i suddetti termini. 163 Nel testo biblico la necessità di interpretare la differenza sessuale dell’essere umano agli occhi della somiglianza con Dio, piuttosto che in relazione al mondo animale, è ulteriormente sottolineato dal fatto che, sebbene anche agli animali Dio ordini di essere fecondi e di moltiplicarsi, solo nei confronti dell’uomo questa differenziazione viene specificata e riferita alla fecondità, al di la dell’ottica naturalistica, come un compito specifico dell’essere umano, oggetto della benedizione divina.

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b) Definizione dell’uomo nel secondo racconto della Genesi Il secondo racconto biblico della Creazione (Gen. 2,4b-3,24 164) appartiene alla tradizione javhista 165 e si caratterizza per la particolare profondità psicologica con il quale penetra la soggettività dell’essere umano. L’autore ne parla come: ‹‹la più antica descrizione e registrazione dell’auto-comprensione dell’uomo, […] e la prima testimonianza della coscienza umana›› 166. La ricchezza di questo racconto, soprattutto dal punto di vista dell’analisi antropologica dell’essere umano secondo l’ottica della filosofia moderna, si fonda sulla complessità di significati che assumono al suo interno le esperienze originarie del primo uomo e dalle quali emerge, con estremo vigore e coerenza, la struttura dell’autocoscienza umana. Per penetrare in queste esperienze è stato ritenuto opportuno suddividere il racconto nei vari momenti fondamentali che lo compongono e studiarne le rispettive implicazioni.

- La solitudine del soggetto“Allora il Signore plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen. 2,7). Con queste parole l’autore biblico del secondo racconto narra l’evento dell’essere umano. Anche in questo caso, per individuare il senso profondo di questa descrizione, occorre far subito riferimento al testo originale, dove il termine “uomo” viene espresso con l’ebraico “‘ah’adam”. L’utilizzo del nome collettivo per individuare il nome proprio del primo uomo, Adamo, è ancora una volta significativo. Consente di comprendere infatti, come l’autore si riferisca qui all’uomo in generale, al di là della distinzione sessuale. Il primo elemento che emerge nella descrizione dell’essere umano, in generale, è l’indicazione dell’origine della sua umanità: l’uomo è tratto dalla terra. Questa provenienza segna un’appartenenza, in senso stretto, col creato, col mondo

164I passi citati includono due racconti: da un lato la creazione del mondo distinta da quella dell’uomo, la creazione della donna, l’apparizione della prima coppia umana, dall’altro il racconto della caduta e del castigo conseguente. Questi due racconti sono tuttavia da intendersi come un racconto combinato in cui la presentazione della felicità e dell’innocenza originaria è correlata con la realtà del paradiso perduto. 165 La fonte javhista prende il nome dall’utilizzo del nome divino Javhè, “Signore”. Il secondo racconto, attribuito a questa fonte, cronologicamente anteriore al primo, è caratterizzata da uno stile colorito, primitivo, ricco di forme figurate in cui trova spesso spazio una caratterizzazione piuttosto antropomorfizzante di Dio. 166Cat. III, p. 36.

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visibile, manifesta nella sua dimensione corporea. L’uomo, per mezzo del proprio corpo, entra in relazione diretta col mondo che lo circonda, possiede la capacità di manipolarlo e, attraverso i sensi, di subirne gli influssi. Tuttavia, come nel primo racconto, l’essere umano non è riducibile a questa “terra” da cui è plasmato. Lo spirito di vita infusogli dal creatore, in ebraico “nefesh”, anima, lo costituisce come essere animato, ossia come essere in cui anima e corpo si danno in assoluta unità. Questa struttura duale, ma radicalmente unificata, condiziona la struttura ontologica dell’essere umano. Sul fondamento di questa unità, egli entra in relazione in modo particolare con il resto del creato. Questa modalità è qui indicata col termine “personale”. Sebbene, infatti, attraverso il proprio corpo l’uomo si collochi all’interno del creato e rimanga aperto al contatto con esso seconda la passività strutturale della sua corporeità, egli non appare mai esclusivamente come oggetto, come un “qualcosa” tra gli altri enti, ma, a partire dalle facoltà della propria anima, di sentire ciò che proviene dall’esterno, di interpretare il proprio sentire, di agire in conformità o meno col proprio sentire, come un “qualcuno”. Lo statuto ontologico dell’essere umano nella sua unità anima-corpo determina il suo intervento nel creato: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen. 2, 15). Il compito affidato all’uomo evidenzia non solo una capacità specifica dell’essere umano che nessun altro essere vivente possiede ( “Quando Dio creò il cielo e la terra […] nessuno lavorava il suolo […] allora il Signore plasmò l’uomo”, Gen. 2, 4b-5.7), ma, soprattutto, una superiorità che lo rende differente da tutti gli altri esseri. Tale preminenza non si mostra esclusivamente come grado di perfezione nella gerarchia degli esseri, ma, in primo luogo, come sostanziale alterità tra il suo essere e gli esseri che lo precedevano. L’essere umano entra, dunque, in relazione col mondo visibile attraverso la sua capacità di agire in esso in riferimento a dei fini precisi: lavorare consapevolmente la terra perché produca dei frutti e assicurarsi che le risorse che lo circondano siano custodite in conformità con l’ordine originario. Questa attività pone l’uomo in un rapporto di intenzionalità col creato e presuppone una conoscenza previa della natura che lo circonda. Nel testo biblico questa conoscenza intima che l’uomo ha di ogni essere attorno a lui è evidenziata dal particolare potere, conferitogli dal creatore, di assegnare i nomi agli esseri del creato: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” (Gen. 2, 19). La capacità di attribuire il nome agli esseri viventi indica, qui, non la semplice funzione del linguaggio

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di riferirsi ad una determinata realtà, individuandola, ma, ancor più radicalmente, quella capacità di esprimerne, nominandola, l’essenza. La conoscenza che l’uomo ha della natura non si limita, pertanto, ai contenuti dell’esperienza sensitiva che egli raccoglie nel contatto della sua corporeità con la realtà esterna, ma, per mezzo dell’attività nomotetica, penetra intimamente nei suoi significati essenziali167. La capacità di dominare il mondo secondo le modalità esposte si fonda sulla struttura stessa dell’essere umano, quale essere unico tra tutti gli esseri del creato. Questa realtà, tuttavia, pur corrispondendo alla sua natura, non coglie in pieno le finalità del suo ethos interiore. “Non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto che gli sia simile” (Gen. 2, 18). L’esercizio del potere conferitogli dal creatore introduce progressivamente l’essere umano verso la scoperta della propria solitudine: egli conosce tutti gli esseri che lo circondano, al punto di poter loro assegnare il nome che gli appartiene, ma in questo processo non trova un essere che abbia la sua stessa natura: “Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile” (Gen. 2, 20).Il confronto dell’uomo col mondo degli esseri animati rappresenta il punto di partenza di un’eccezionale esperienza. Nel suo rivolgersi verso l’esterno, alla ricerca di una corrispondenza con la propria natura, l’uomo scopre non solo la propria superiorità, ma l’assoluta alterità che lo divide dal mondo che lo circonda. Il movimento intenzionale, col quale l’uomo si era spinto al di fuori di sé, manca il suo obiettivo essenziale, riorientandosi verso l’interiorità del soggetto. La dinamica che svela la sostanziale solitudine dell’uomo nel creato fa sì che l’uomo scopra se stesso come soggetto alla ricerca della propria definizione. Il confronto col mondo esterno porta, in tal modo, l’uomo all’introspezione e costituisce il primo atto dell’autoconoscenza.L’esperienza della solitudine ha un duplice significato nello sviluppo della conoscenza di sé: la constatazione della differenza, svelata dal movimento intenzionale della conoscenza col quale il soggetto esce da sé, segna negativamente la definizione del suo essere, indicando tutto ciò che esso non è; al contempo, in questo atto di differenziazione, esso si rivela a se stesso nella peculiarità della propria natura: non solo l’unico essere in grado di rivolgere intenzionalmente la propria conoscenza verso gli oggetti che lo circondano, ma soggetto in grado di porre se stesso come oggetto del proprio atto conoscitivo, acquisendo una generale coscienza di sé.

167 Cfr. Yves Semen, op. cit., pp. 78-79.

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La strada aperta dall’uomo nell’esperienza della solitudine verso la definizione di sé concorre ad una prima delineazione della sua natura personale: ‹‹Analizzando il testo della Genesi siamo, in un certo senso testimoni di come l’uomo “si distingue” di fronte a Dio-Jahvè da tutto il mondo degli esseri viventi (animalia) col primo atto di autocoscienza, e di come pertanto si riveli a se stesso ed insieme si affermi nel mondo visibile come “persona”›› 168.La consapevolezza della solitudine originaria è il primo passo dell’antropologia del “principio”. Per comprendere, tuttavia, fino in fondo il contributo essenziale di questa esperienza, è necessario soffermarsi su una componente fondamentale attraverso la quale essa si configura. Anche se nella narrazione javhista non si riscontrano riferimenti diretti alla realtà del “corpo” umano, uno sguardo attento consente di cogliere alcune implicazioni rilevanti che questa dimensione comporta nell’esperienza della solitudine originaria e nella definizione progressiva dell’essere umano.

1) L’uomo entra nel mondo come “corpo tra i corpi”. Il suo corpo, plasmato dalla terra, è non solo il mezzo attraverso il quale esperisce la propria appartenenza al creato, ma anche col quale entra in rapporto diretto con gli altri esseri. Questa relazione si fonda su due momenti: da un lato il corpo, nella sua sostanziale vulnerabilità, viene toccato dal mondo esterno attraverso i sensi. Dall’altro, le facoltà superiori della sua struttura personale, ossia le facoltà spirituali, sollevano il corpo da questa passività assoluta, rielaborando interiormente i dati “sentiti”. Grazie alle sue capacità, l’uomo entra, attraverso il corpo, in una relazione conoscitiva col mondo che lo circonda, ma, se fino a quel momento la sua esteriorità evidenziava una comunanza col mondo dei viventi, l’attività conoscitiva segna un allontanamento radicale. L’uomo giunge, in tal modo, alla consapevolezza della sua differenza sostanziale dal mondi degli animalia, scoprendosi solo: ‹‹L’uomo, ‘adam, avrebbe potuto, basandosi sull’esperienza del proprio corpo, giungere alla conclusione di essere sostanzialmente simile agli altri esseri viventi (animalia). E invece, come leggiamo, non è arrivato a questa conclusione, anzi è giunto alla persuasione di essere “solo”›› 169. Dalla coscienza del proprio corpo l’uomo passa alla consapevolezza della complessità della sua struttura personale e della superiorità che ne deriva rispetto agli altri esseri del creato. Da questo punto di vista,

168 Cat . V, p. 46-47.169Cat. VI, p. 49.

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l’esperienza della propria corporeità sospinge l’uomo verso il primo atto di autoconoscenza e autodeterminazione. All’interno di questo passaggio fondamentale nell’esperienza originaria dell’uomo, si configura il significato proprio della corporeità, non solo oggetto di possesso del soggetto, ma parte integrante della sua struttura personale. L’essere umano non solo “usa” il suo corpo, ma “è” il proprio corpo. La specifica modalità umana col quale il soggetto vive il proprio corpo si fonda sulla sostanziale unità della sua struttura e, a partire da essa, il corpo stesso diviene mezzo eminente col quale l’uomo si rivela se stesso.

2) La coscienza che l’uomo ha della propria superiorità rispetto agli altri esseri del creato coincide con l’unicità dell’attività umana. Solo l’uomo è chiamato a coltivare e a custodire la terra. La specificità di questa prassi è correlata con una precisa consapevolezza del significato del proprio corpo: ‹‹La struttura di questo corpo è tale da permettergli di essere l’autore di un’attività permanentemente umana. In questa attività il corpo esprime la persona›› 170. La coscienza e la consapevolezza della propria corporeità ha, quindi, un senso primariamente antropologico, derivato, non da un’analisi metafisica sul dato originale, ma dalla base concreta della soggettività umana. Il corpo è il segno della persona, è la realtà attraverso la quale la persona si rivela a se stessa e al resto del creato nella sua natura personale, secondo la struttura dell’autocoscienza e dell’autodeterminazione.

3) L’esperienza originaria della solitudine svela, infine, il significato esistenziale della corporeità. Il senso di questa esperienza si fonda, infatti, su un’esperienza ancora più originaria, che è quella dell’esistenza, quale modalità essenziale del proprio essere, conferita dal Creatore. All’interno di questo orizzonte di esistenza sorge nel racconto biblico una nuova prospettiva: “tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gen. 2, 16-17). Le parole del creatore confermano un dato fondamentale che l’essere umano rintraccia nella struttura stessa dell’esperienza della solitudine, vale a dire la sua sostanziale contingenza. La possibilità della morte appare all’interno dell’esperienza dell’esistenza come

170Cat. VII, p. 52.

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una contraddizione in cui si svela la dipendenza dell’uomo nell’esistere e la sua costante vulnerabilità rispetto alla non-esistenza inerente alla propria corporeità.

- La “communio personarum”, come realtà originaria La struttura del secondo racconto ha evidenziato la profondità dell’appartenenza della corporeità alla struttura personale del soggetto. Rispetto alla prima narrazione, il significato di questa corporeità è riferito all’uomo, nella sua umanità, e in tal senso è anteriore e più radicale della differenziazione sessuale di Genesi 1. A partire da questa constatazione, l’esperienza originaria della solitudine si configura, in relazione all’uomo in generale, indipendentemente dalla sua appartenenza al genere maschile o femminile. Ora, però, l’esperienza della solitudine, pur indirizzando l’uomo verso l’autoconoscenza, non è in grado di fornire una risposta adeguata al soggetto in cerca di sé. Egli si confronta con gli esseri viventi che lo circondano, da tale confronto è in grado di cogliere ciò che non è, tuttavia non trova accanto a lui nulla che gli sia simile, nulla in cui rispecchiarsi. In questo senso, il significato della solitudine riconduce ad una mancanza ontologica che l’uomo scopre ed è quella dell’altro essere umano. Sul limite della solitudine si apre la strada ad un’altra esperienza originaria, quella dell’unità: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò, gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto all’uomo una donna e la condusse all’uomo” (Gen. 2, 21-22).Poiché non era buono che l’uomo fosse solo, Dio fece scendere su di lui un torpore. Il termine “torpore”, in ebraico “tardemah”, indica un sonno profondo in cui cade l’uomo, ‘adam, l’umanità. All’interno delle Sacre Scritture questo vocabolo ricorre in concomitanza di eventi di straordinaria importanza nella storia della Salvezza. Ed è in questa ottica che occorre leggere il sonno genesiaco di Adamo. Sebbene, come sottolinea Giovanni Paolo II, la mentalità contemporanea sia portata ad interpretare la dimensione del sonno come un passaggio al subcosciente, in questo specifico contesto esso va ricondotto a qualcosa di più profondo e originario. Nel sonno dell’umanità quello che si verifica è un ritorno al non-essere, al momento immediatamente precedente la creazione dell’uomo 171, dal quale ‹‹l’“uomo” solitario possa riemergere nella sua duplice unità di maschio e femmina ›› 172. 173 171

172 Cat . VIII, p. 55.173Questa scansione all’interno dl testo biblico tra la creazione dell’uomo, in senso generale, e la creazione della donna, nel senso della differenziazione sessuale, non vuole

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Il torpore genesiaco indica inoltre, che la creazione della donna avviene per opera esclusiva di Dio. Questo evento segna la nascita dell’umanità, ‘adam, sulla base della differenza sessuale. La comune appartenenza dei due sessi, maschio e femmina, nel testo originale “‘ish” e “‘ishshah”, alla medesima umanità viene ulteriormente sottolineata nell’immagine della costola. Interpretandola alla luce del linguaggio mitico e metaforico con cui il secondo racconto si sviluppa, la costola indica un’omogeneità tra i sessi non solo somatica, ma, soprattutto, ontologica: ‹‹la donna viene creata sulla base della medesima umanità›› 174. La comunanza dell’essere tra l’uomo e la donna viene ancora richiamata dal gioco linguistico col quale l’autore biblico si riferisce loro. La donna, ‘ishsha, è letteralmente colei che viene dall’uomo, ‘ish. Questa provenienza, sulla quale si fonda la loro comune appartenenza al medesimo essere, alla medesima carne, instaura un legame di somiglianza reciproco in cui non solo la donna trova la definizione della propria identità per bocca dell’uomo: “la carne della sua carne e le ossa delle sue ossa” , (Gen. 2, 23), ma l’uomo stesso, in questo riconoscimento, ritrova se stesso a partire dalla donna: ‹‹ Ognuno è costituito dall’altro e non può essere indipendentemente da lui o da lei›› 175. Sul fondamento dell’identità ontologica, la donna è per l’uomo un altro se stesso, l’immagine riflessa della proprio essere, attraverso la quale può positivamente scoprirsi e definirsi. La natura di questa relazione è reciproca: nell’incontro, uomo e donna ritrovano se stessi, l’uno nell’altro. In questo rapporto, l’uno riceve dall’altro la propria umanità come un dono, ma, indirettamente, come dono del creatore stesso. La scoperta dell’altro come dono, nel quale viene superata la solitudine originaria del proprio essere, rivela il valore dell’altro. L’incontro delle origini tra uomo e donna rappresenta ‹‹il primo cerchio dell’esperienza vissuta dell’uomo come valore›› 176. Il contenuto di questa esperienza, il valore dell’altro, deriva, a sua volta, dall’esperienza originaria dell’unità, nella quale emerge il dato fondamentale della reciproca somiglianza.

indicare la presenza di due momenti cronologicamente distinti nel processo della creazione dell’essere umano, ma solo sottolineare come il significato del corpo non solo preceda, ma, al contempo, fondi, il senso del suo presentarsi nella modalità della differenziazione sessuale.174Cat. VIII, p. 57. 175Margaret Harper McCarthy, L’amore sponsale alla luce dell’esperienza elementare, in L. Melina, S. Grygiel ( a cura di ), op. cit. , p. 144. 176Cat. IX, p. 58

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Riconducendosi all’unione uomo-donna, emerge, tuttavia, come essa si configuri non solo a partire dalla natura comune, ma sempre in riferimento ad una differenza, quella sessuale. L’unità delle origini è, in questo senso, duale, fondata, cioè, sulla distinzione dell’essere umano nel genere maschile e femminile. Alla luce di questa constatazione, il valore dell’altro eccede la somiglianza, per rimandare all’alterità. La comunanza della natura fonda il rapporto, stabilendolo su un livello comune ed egualitario. In questa relazione, però, l’altro è accolto al di là della sua somiglianza. L’apertura all’altro, nel riconoscimento della sua alterità, consente all’uomo di scoprire se stesso come persona, ancor più che attraverso la distinzione con gli esseri del creato. Partendo, infatti, dall’esperienza della solitudine, nell’incontro con l’altro sesso l’uomo fa esperienza della propria trascendenza, quale caratteristica del suo essere personale e della possibilità di stabilire una relazione adeguata tra le persone 177. Giovanni Paolo II definisce questa realtà interpersonale, “comunione”: ‹‹“Communio” indica con precisione appunto quell’aiuto che deriva, in un certo senso, dal fatto stesso di esistere come persona “accanto” a una persona›› 178. La comunione tra le persone, come relazione fondata sul reciproco “aiuto” era, in qualche modo, implicita già nell’esperienza della solitudine originaria. Ciò si rende visibile non solo dal significato negativo col quale la solitudine si configura nell’orizzonte di esperienza del soggetto, ma ancor più sul fatto che la comunione stessa si realizza come incontro di una duplice solitudine: solo sul fondamento della coscienza della propria soggettività e della consapevolezza del significato della propria corporeità, sorte nel processo di distinzione dal mondo degli esseri viventi, l’incontro dell’uomo con la donna si trasforma in un reciproco riconoscimento, in un canto di amore 179, in cui si afferma il valore 177 Cfr. Cat IX, p. 59.178 Ibid.179“Ossa delle mie ossa, carne della mia carne”. Esprime secondo l’autore biblico il primo canto di amore della storia dell’umanità. Per comprenderne a pieno il significato è opportuno sottolineare due elementi linguistici della cultura ebraica presenti in questa breve frase: innanzitutto, nella lingua ebraica non è presente il superlativo, il cui senso viene tuttavia reso raddoppiando la parola cui si riferisce. Ed è questo il significato strettamente letterale delle due formule. Inoltre, occorre tener presente che nella cultura dell’autore biblico non sussiste una distinzione nella concezione dell’essere umano tra anima e corpo. Le espressioni “ossa” e “carne” non sono riducibili pertanto al significato meramente fisico, ma, a partire dalla sostanziale unità dell’elemento corporeo con la componente spirituale, si riferiscono alla persona stessa nella totalità del suo essere. Alla luce di questa breve indicazione emerge con ancor maggiore chiarezza il senso profondo con la quale la donna appare di fronte all’uomo, come suo alter-ego,

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dell’altro come significato stesso della propria esistenza: ‹‹esistenza della persona “per” la persona›› 180.All’interno del secondo racconto genesiaco la creazione dell’essere umano si completa nella creazione della donna, come espressione della “communio personarum”. Dal punto di vista teologico, riavvicinando i due racconti sulla nascita dell’essere umano, si osserva come l’immagine e somiglianza di Dio non si realizzi nell’uomo solo a partire dalla sua natura, dal fondamento ontologico della sua umanità in generale, ma attraverso la comunione tra le persone. E questo perché l’umanità stessa dell’uomo si compie, come emerge nel momento dell’unità, nel dono di sé all’altro e nell’accoglienza dell’altro come dono proprio della comunione. Ciò consente di cogliere il significato dell’”immagine” che l’uomo è e in cui si rispecchia il modello dell’imperscrutabile comunione divina tra le Persone. Nella loro unione, l’uomo e la donna diventano icona della Trinità: questo è il profondo mistero inscritto fin dalla creazione nell’essere umano. In questo mistero tuttavia è racchiuso il significato stesso dell’uomo, il suo nucleo essenziale, ‹‹il midollo stesso della realtà antropologica›› 181. Occorre ora rivolgersi al contenuto raccolto dall’analisi dell’esperienza originaria dell’unità per individuare il particolare significato che assume al suo interno la corporeità.In primo luogo, il corpo, nella sua manifestazione esteriore, è ciò, attraverso il quale, l’uomo e la donna riconoscono a livello fenomenico la loro somiglianza, la loro natura comune, stabilendo il piano della loro relazione.In secondo luogo, è attraverso il corpo che l’uomo e la donna realizzano concretamente la loro unione, a partire dalla loro differenza sessuale.Per questo il corpo è l’espressione tanto dell’umanità, quanto della comunione tra le persone, come modalità essenziale dell’umanità stessa: per questo, in sintesi, ‹‹il corpo rivela l’uomo››. Il significato profondamente antropologico e, al contempo, teologico del corpo che emerge in questa affermazione è già tutto racchiuso nell’espressione “carne della mia carne”: la scoperta dell’altra persona come colei che è in grado di completarmi, di rivelarmi, di trarmi fuori dall’esperienza radicale della mia solitudine, avviene nel riconoscimento della corporeità altrui, come possibilità stessa della comunione. Questa evidenza trova espressione nel canto di amore adamico, in cui l’esultanza per la presenza dell’altro scaturisce dalla “carne”, piuttosto che dall’intelligenza o dallo spirito, sebbene siano in essa comprese.

come essere del suo stesso essere, come intimamente “sua”. 180 Cat. IX, p. 59181Cat. IX, p. 60.

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Ciò significa, per Giovanni Paolo II, che l’uomo è chiamato alla comunione nella totalità della sua persona a partire dalla sua corporeità, mascolinità o femminilità. In questo senso nuovo e, tuttavia, originario, mascolinità e femminilità non rappresentano esclusivamente il duplice aspetto della costituzione corporea dell’individuo, ma richiamano ad un significato profondo della corporeità come espressione della persona nella sua essenziale vocazione all’unità e alla comunione.Alla luce della teologia del corpo, contenuta nell’analisi del secondo racconto della creazione, la sessualità umana si configura al di là del suo significato strettamente biologico, come componente profondamente e “costitutivamente” umana. L’unione di cui parla la Genesi è, sì, l’unione coniugale nei suoi aspetti sensibili, il significato che, tuttavia, veicola, riconduce la persona verso le proprie origini e verso la riscoperta del proprio significato autentico. Nell’unione sessuale, intesa come realizzazione della comunione tra le persone, l’uomo riscopre l’unità duale delle origini e supera nuovamente il limite della propria solitudine, riflettendo l’immagine del proprio Creatore. Ultimo aspetto della realtà coniugale espressa nel racconto è la dimensione della scelta: “l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie” (Gen. 2, 24). Il patto coniugale, come espressione della propria decisione, rivela la struttura della persona e il suo fondarsi sulla capacità di autocoscienza e autodeterminazione. Da questo punto di vista, il dono di sé realizzato nell’unione sessuale è sempre una questione di libertà. Perché la libertà impegni, tuttavia, la volontà nella direzione del dono, occorre che la persona riscopra la vocazione al dono iscritta nella propria natura, acquisendo una autentica consapevolezza della propria corporeità.

- Corpo e donoL’esperienza dell’unione tra l’uomo e la donna si accompagna con l’esperienza reciproca del corpo, nella sua mascolinità o femminilità. Ora, il testo della Genesi descrive lo stato di coscienza che caratterizza queste esperienze attraverso il fenomeno dalla vergogna: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna” (Gen. 2, 25).Per comprendere il significato tanto della nudità, quanto della mancanza di vergogna nell’esperienza reciproca del corpo, bisogna tenere conto del fatto che esse non costituiscano degli elementi accidentali all’interno del racconto, ma momenti essenziali che invitano a penetrare nel cuore di questa esperienza originaria.Dalle analisi fenomenologiche della vergogna, nella modalità del pudore sessuale, emerge non solo la complessità di tale esperienza, ma, soprattutto, lo

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specifico nesso tra il fenomeno del pudore con la struttura della persona. La manifestazione del pudore insorge, nell’orizzonte di coscienza del soggetto, in concomitanza del timore esperito per il proprio “io”, nei confronti della persona che si ha accanto. Per questo il pudore sessuale si riconduce, senza, tuttavia, identificarsi in esso, col fenomeno della nudità, quale stato di eccezionale vulnerabilità non solo del corpo, ma della persona nella sua totalità: ‹‹Stare nudi l’uno davanti all’altra, in pace interiore, in uno stato di totale confidenza dell’uno verso l’altra richiede una grande maturità di comunione coniugale. In effetti, è difficile accettare il proprio corpo, con tutte le imperfezioni – reali o immaginarie – che gli attribuiamo, perché ciò suppone un’immensa trasparenza e un totale confidenza nello sguardo e nell’atteggiamento interiore dell’altro››182.Questa riflessione individua due fattori fondamentali nel configurarsi dell’esperienza del pudore: la natura dello sguardo dell’altro e il suo atteggiamento interiore. Il timore che il soggetto esperisce, pur scaturendo dalla particolarità della condizione corporea della nudità, non si riduce esclusivamente alla tensione per il proprio corpo. Indica piuttosto, l’appello che la persona rivolge all’altro affinché il suo sguardo non si arresti al corpo come ad un oggetto, ma sia in grado di cogliere ed affermare il valore effettivo della persona che il corpo veicola. Nel pudore sessuale la persona afferma se stessa e chiede all’altro un comportamento adeguato alla dignità della sua natura. La “trasparenza” invocata dal pudore indica, quindi, da un lato la capacità dello sguardo di penetrare attraverso la corporeità direttamente al cuore della realtà che rivela, dall’altro la natura dell’atteggiamento che l’altro deve assumere, scevro da qualsiasi intento utilitaristico. La trasparenza e l’intimità proprie tanto dello sguardo, quanto dell’atteggiamento, sono dunque i tratti caratteristici della comunione originaria tra l’uomo e la donna. Al suo interno il fenomeno della vergogna, come difesa “istintiva” e “naturale” dell’ “io” non è presente. Questa assenza rimanda al particolare stato di coscienza dell’uomo nei confronti del corpo, vale a dire alla qualità del suo sguardo rispetto a questa realtà. In tal senso, la nudità originaria e la relativa mancanza di vergogna non è riconducibile ad uno stadio primitivo di sviluppo del fenomeno del pudore, né, tanto meno, a modelli psicologici propri dell’età infantile o dei popoli primitivi. La nudità che il testo biblico chiama in campo non si riferisce alla mancanza di vestiti o ornamenti, ma al significato della corporeità nella relazione tra l’uomo e la donna e al significato proprio della loro mascolinità e femminilità. Sulla base della comunione, lo

182 Yves Semen , op. cit., p. 89.

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sguardo dell’uomo non si arresta sul piano della percezione “esteriore” del corpo: ‹‹esso infatti esprime la persona nella sua concretezza ontologica ed esistenziale, che è qualcosa di più dell’ “individuo”, e quindi esprime l’”io” umano personale, che fonda dall’interno la percezione esteriore›› 183. Il corpo, così compreso, rende possibile la relazione, prima col mondo, ora con la persona. In questa relazione-comunione la corporeità non costituisce un ostacolo tra le persone, ma la trasparenza della persona stessa attraverso la quale essa si svela, a partire dalla propria caratterizzazione sessuale: ‹‹mascolinità e femminilità sono due incarnazioni di ciò che significa essere uomo ed entrambe sono in una relazione costitutiva›› 184. Il fenomeno della nudità originaria, in cui non sussiste vergogna, ha dunque un duplice significato: da un lato ribadisce il significato originario del corpo come segno della persona, dall’altro richiama l’attenzione sulla pienezza dello sguardo che la persona rivolge all’altro e alla sua capacità di penetrare la trasparenza stessa del corpo, fino a cogliere il valore esistenziale della persona che si ha di fronte all’interno della comunione. Nella comunione l’altro è colto definitivamente come un dono, come uno specifico arricchimento del proprio essere. La qualità del dono trascende il principio di utilità, per indicare la pienezza ontologica che è in grado di conferire con la sua stessa presenza al significato dell’esistenza del soggetto. Il senso kenotico dell’altro ha il suo correlato nel significato sponsale del corpo: uomo e donna sono chiamati, a partire dalla struttura stessa della loro mascolinità e femminilità, a donarsi l’un l’altro nell’unione dei loro corpi.La nudità originaria costituisce, in definitiva, la dimensione nella quale si svela il significato del corpo e della persona, vale a dire il livello adeguato della comunione delle persone. Uomo e donna si presentano l’uno all’altra nella loro autenticità, senza frapporre alcun velo tra di loro: questo fenomeno, proprio della loro relazione prende il nome di “intimità”. Questa proprietà richiama alla mente una caratteristica essenziale del fenomeno amoroso, come quella particolare situazione psicologica che l’atto coniugale non solo crea, ma soprattutto presuppone. Dal punto di vista psicologico, il fenomeno dell’intimità si avvicina alla dimensione del pudore sessuale, esprime, infatti, la situazione adeguata alla realizzazione dell’atto coniugale e una protezione dal rischio che il significato di tale atto possa essere sminuito nel suo valore essenziale. In questo caso, tuttavia, l’intimità indica una realtà che interpella direttamente la persona nella sua capacità di autodominio e autopossesso: la persona entra nell’intimità nella piena consapevolezza della propria identità e soggettività. 183 Cat.. XII, p. 70.184 J. Noriega, Il destino dell’eros, cit., p. 58.

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All’interno della relazione il soggetto, in un certo senso “presente a se stesso”, esperisce nella dimensione del desiderio che lo spinge verso l’altro, una specifica tendenza del proprio essere, un movimento intenzionale che lo porta a di fuori di sé verso la persona. Questa disposizione, tuttavia, non si contrappone all’ “io”, ma lo asseconda nel suo moto interiore, fondato sul proprio autodominio e autopossesso e, in tal modo, svela al soggetto la natura di quel particolare legame che sorge tra lui e la persona amata. Nell’intimità il soggetto si rivela a se stesso non solo nella sua appartenenza a stesso, ma, soprattutto, nell’appartenenza a quella realtà, altro da sé, dalla quale è interiormente attratto. Da questo punto di vista, l’intimità trascende la condizione esteriore dell’incontro, per collocarsi nello spazio interiore della comunione tra i coniugi, vale a dire quel luogo dell’anima in cui essi si rendono capaci di donarsi l’un l’altra senza riserve, sulla base di una reciproca appartenenza. L’intimità rivela il significato più profondo della nudità originaria, individuando lo spazio concreto di questa realtà nell’interiorità della persona. In questo rimando alla dimensione dello spirito della persona, emerge il significato esistenziale che il corpo veicola e la comunione tra le persone può realizzarsi al di là dell’unione fisica, come reciproco scambio di doni.

- Il significato sponsale del corpo La nudità rappresenta, alla luce delle riflessioni appena condotte, la trasparenza della visione originaria con cui l’uomo e la donna si esperiscono l’un l’altra nell’incontro dei loro corpi. La mancanza della vergogna, in questo reciproco presentarsi in tutta la pienezza della loro natura, svela, inoltre, la quiete interiore del loro sguardo e del loro cuore, nella quale si realizza l’intimità della loro comunione: ‹‹l’originario significato della nudità corrisponde a quella semplicità e pienezza della visione, nella quale la comprensione del significato del corpo nasce quasi nel cuore stesso della comunità-comunione›› 185.Nel nucleo di questa comunità-comunione emerge il significato originario della corporeità, quello che Giovanni Paolo II indica col termine “sponsale”. Per il nesso individuato dalle precedenti analisi, il significato del corpo deve necessariamente rimandarci al significato esistenziale della persona. Penetrare, dunque, nella costituzione della corporeità vuol dire cogliere il profondo contenuto antropologico alla luce del quale la persona si manifesta come tale. E’ questo il senso proprio della teologia del corpo e il suo ruolo all’interno della ricerca di un’antropologia adeguata in grado di penetrare nell’integrum umano. Il primo passo sarà pertanto l’analisi del termine “sponsale”.

185 Cat. XIII, p. 71.

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Per Giovanni Paolo II la scoperta del significato sponsale del corpo corrisponde con la rivelazione dell’uomo nella verità essenziale della sua corporeità e sessualità e nella dimensione propria della sua autodeterminazione, mediante la quale è in grado di realizzare liberamente l’ethos inscritto in esse. Nell’ottica della Creazione il senso del corpo umano e della sessualità eccede il significato naturalistico della riproduzione, in quanto espressione della capacità umana di esprimere il proprio amore: ‹‹quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e – mediante questo dono – attua il senso stesso del suo essere ed esistere›› 186. Il significato sponsale del corpo, come possibilità stessa della realizzazione del dono della persona, si fonda dunque sulla libertà. Nell’intimo incontro tra l’uomo e la donna, è il momento della libertà a segnare la reciprocità della donazione: l’uomo ritrova se stesso nell’unione con la donna e solo sulla base di questa autocoscienza sperimenta quell’appartenenza all’altro che è in grado di mettere in moto la propria libertà in favore dell’amato. L’uomo decide, infatti, di donarsi non sotto la forza costrittiva dell’impulso sessuale, ma si dona “per se stesso”, come unica risposta adeguata alla scoperta dell’intima vocazione al dono della propria natura, ma anche all’affermazione del valore della persona che ha di fronte. Il corpo orienta, quindi, la persona dall’interno verso il dono di sé, oltrepassando la dimensione esteriore e corporea della sessualità. Il significato sponsale del corpo è proprio quello di svelare, a partire dalla propria esteriorità, la dinamica del dono che fonda la comunione tra le persone: per mezzo del corpo l’uomo esperisce la possibilità di donarsi quale modalità essenziale del proprio destino, al contempo, coglie la persona che ha di fronte come un dono, come persona, il cui valore esige di essere affermato all’interno del rapporto: esige che tale dono venga accolto “per se stesso”, nella sua unicità e irripetibilità e corrisposto nel dono di sé. All’interno della dinamica del dono, donazione di sé e accettazione rappresentano due momenti essenziali e strutturalmente connessi. Questa struttura è illuminata dal racconto genesiaco: la donna è data da Dio all’uomo. L’uomo riconosce la natura del dono accogliendo la donna. La donna risponde a questo riconoscimento, facendosi a sua volta dono e scopre, a partire dalla modalità con la quale è stata accolta, la propria identità personale, giungendo ad un più autentico possesso di sé. Questo ritrovare se stessi nel dono è la fonte di un nuovo dono, è il motore stesso che alimenta l’interiore disponibilità alla donazione e alla reciprocità dello scambio. Infine, l’uomo riceve il dono della donna. Il frutto di questo dinamismo di donazione e accoglienza proprio della comunione tra le persone è

186 Cat. XV, p. 77.

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l’arricchimento reciproco. Non solo l’uomo è arricchito dal dono della donna e della sua femminilità e viceversa, ma entrambi, nel dono di sé all’altro, riscoprono se stessi, acquisendo un maggior possesso e dominio di sé. La legge estatica del dono è infatti tale che l’uomo, perdendo se stesso, si ritrovi accresciuto nel proprio essere. La radice di questo accrescimento è la profonda corrispondenza che sussiste tra la donazione totale di sé e la realizzazione della propria umanità secondo l’ethos che le è proprio: ‹‹L’uomo […] non può ritrovarsi pienamente se non attraverso il dono sincero di sé›› 187.In ogni incontro amoroso, il significato sponsale del corpo è lo strato più profondo e autentico che fonda, dall’interno, la relazione nella sua verità essenziale. Su questo principio ogni esperienza di amore è promessa di comunione: “e i due saranno una carne sola” (Gen. 2, 24). Questa comunione trova la propria manifestazione-mediazione nell’unione sessuale in cui, letteralmente, si realizza l’unione della carne, e tuttavia rimanda ad una realtà più complessa, alla cui edificazione lavorano le persone con la loro libertà e capacità di autodeterminazione. Il riferimento dell’ethos del corpo alla libertà svela il senso di questa facoltà umana in tutta la sua pienezza. Questa proprietà emerge dalla scelta che l’uomo è chiamato a compiere all’interno dell’esperienza amorosa: ‹‹grazie ad essa la persona può accettare il destino che le si presenta nell’esperienza d’amore, o respingerlo, configurando in tal modo tutta la sua esistenza nella prosecuzione di tale destino›› 188. La libertà è dunque “fatta per amare” nella misura in cui il destino dell’uomo si realizza nel dono di sé. Per mezzo di questa libertà, l’uomo è in grado di trascendere il dinamismo del corpo con i suoi impulsi, per indirizzare liberamente la propria azione verso la persona, al di là del proprio interesse o del proprio utile. Tuttavia questa libertà resta incarnata, sperimenta cioè nel suo incontro col corpo, il proprio orientamento originario. Corporeità e sessualità sono, in un certo senso, il serbatoio da cui la libertà attinge il materiale del proprio agire rimanendo ancorata all’ “io” concreto, in tutta la sua ricchezza personale: ‹‹la libertà si vede così configurata e diretta da una verità che le si manifesta nell’esperienza affettiva e che si radica nella corporeità: non si tratta di una libertà “indifferente” davanti alla realtà, ma di una libertà originariamente inclinata, e inclinata proprio all’unione sessuale›› 189.Il momento della libertà fonda l’esperienza di amore tra l’uomo e la donna tanto soggettivamente, quanto oggettivamente: l’attrazione sessuale che sorge 187 Gaudium et spes, S 24.188 J. Noriega, Il destino dell’eros, cit., p. 62.189J. Noriega, Il destino dell’eros, cit., p. 63.

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dall’esperienza corporea e affettiva e che sospinge la persona nella sua totalità verso l’altro, esige che essa rientri in se stessa, perché liberamente possa decidere di amare, di donarsi. La libertà da cui scaturisce il dono trova tuttavia, il proprio senso oggettivo nel suo riferimento alla verità della persona: la libertà è autentica solo quando è capace di corrispondere alla sua finalità originaria, che è la capacità di amare, quale verità essenziale dell’uomo. L’esperienza dell’amore tra l’uomo e la donna realizza, nella sua profonda corrispondenza col telos della persona, il dono come senso dell’esistenza umana: è questo il valore autentico della corporeità e della sessualità che emerge dall’analisi di Giovanni Paolo II sui primi due capitoli della Genesi e sul quale si fonda l’intero impianto della sua teologia del corpo. Il significato dell’uomo sorge sullo sfondo della creazione, nel suo valore essenziale, attraverso il concetto del dono di sé. La creazione costituisce, da questo punto di vista, lo schermo dal quale emerge l’antropologia adeguata dell’autore. La sua dinamica, infatti, è quella del dono, sulla quale si configura la struttura dell’essere umano come l’unico essere rispetto al quale la creazione acquista un senso e l’unico in grado di corrispondervi. Il termine creazione nel testo originale del primo racconto è proprio “beresit bara”, donazione: dono originario che Dio fa all’uomo, chiamandolo, a sua volta, al dono. La dimensione del dono costituisce il significato essenziale della creazione, la verità del “principio”, il criterio ermeneutico in riferimento al quale l’esperienza originaria dell’essere umano acquista valore. Il dono è, inoltre, la caratteristica dell’esistenza della persona e della sua essenza, concretizzata nel riferimento a quell’ “aiuto simile” mediante il quale l’uomo scopre se stesso come essere per- e con- qualcuno.Solo alla luce dell’ermeneutica del dono si delinea con chiarezza quella profonda corrispondenza, o somiglianza, che l’uomo realizza nella comunione tra le persone col suo Creatore. Un circuito di amore e donazione in cui la persona riceve se stessa, anzi più di se stessa. Solo in base a questo dinamismo, su cui si radica tutta la natura, la reciproca donazione dell’uomo e della donna appare ancorata alla verità. In un certo senso, Dio è il testimone dell’autenticità del loro stesso rapporto e, al contempo, la fonte essenziale del loro amore: ‹‹alla radice della nudità del dono – dono disinteressato di se stessi -, proprio quel dono permette ad ambedue, uomo e donna, di ritrovarsi reciprocamente, in quanto il Creatore ha voluto ciascuno “ per se stesso”›› 190. Solo il riconoscimento dell’altro come dono che viene dall’Altro, come dono del Creatore al proprio essere e alla propria esistenza, l’altro diviene l’oggetto del

190Cat. XV, p. 78.

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mio amore e della mia donazione, come unica risposta possibile alla sue esistenza unica e irripetibile, ‹‹scelta dall’eterno Amore›› 191.Alla luce della presenza di Dio nella comunione delle sue creature, il corpo riceve il suo significato ultimo: testimone del radicamento della persona nell’Amore. Questa funzione del corpo è tale che l’uomo di ogni tempo possa ritrovare in esso l’ethos del dono iscritto nella sua natura dall’eternità e nella sua realizzazione riscoprire se stesso. Il corpo è il custode della verità dell’uomo: è la manifestazione visibile ed esteriore della realtà invisibile e spirituale dell’essere umano attraverso la quale esso partecipa all’economia di amore e verità che è in Dio stesso. Nell’uomo, per mezzo del suo corpo, si disvela la sacramentalità stessa della creazione, quale dinamica di amore e donazione. Nella consapevolezza del significato sponsale-sacramentale del proprio corpo l’uomo partecipa alla movimento di amore che anima la natura e si inserisce al suo interno per mezzo del suo libero intervento di donazione. La concretezza del vissuto del significato sponsale del proprio corpo nell’unione sessuale, in cui l’uomo sperimenta la propria appartenenza alla realtà divina dell’amore, si completa e manifesta attraverso il fenomeno della fecondità: l’uomo e la donna nella loro unione vedono il frutto della loro reciproca donazione, all’interno del mistero al quale partecipano, mediante la possibilità di generare una nuova vita. La dimensione della procreazione non è un dato accessorio della comunione tra i due sessi, ma una componente essenziale dell’esperienza dell’amore reciproco. Il figlio è il bene proprio della comunione, in cui l’uomo e la donna riconoscono il senso del loro dono: ‹‹la procreazione fa sì che l’uomo e la donna si conoscano reciprocamente nel “terzo”, originato da ambedue››. La trasmissione della vita si configura come la possibilità essenziale di comunicare la ricchezza del proprio amore e della propria vita. Questa possibilità non si esaurisce nella collaborazione con l’opera creatrice di Dio, ma è l’immagine stessa dell’Amore divino che si comunica alla creature. In essa, l’uomo e la donna, donandosi reciprocamente, partecipano alla donazione di una nuova vita e alla creazione di una più ampia comunità di persone. Al contempo, questo donare è originariamente e autenticamente accettazione di un bene, che è la persona del figlio, che viene da Dio stesso. Il mistero della fecondità dell’Amore, che vive nella comunità delle persone divine, è il mistero della Vita. L’uomo diviene partecipe di questo mistero grazie al suo corpo e alla sua sessualità: strumenti di amore e vita.

191Cat. XV, p. 79.

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I.II Peccato e redenzione

§1. Peccato e destrutturazioneLo sguardo sull’uomo illuminato dal “principio” ha svelato il significato autentico e originario del suo destino. Il valore delle riflessioni finora condotte sta nell’avere individuato lo sfondo essenziale, definito da Giovanni Paolo II “preistoria teologica”, su cui si radica l’uomo storico, vale a dire l’uomo concreto, che noi stessi siamo. Lo stato originario proprio della preistoria teologica emerge in tutta la sua forza direttamente dalla Rivelazione e dall’analisi delle esperienze originarie, tuttavia non è assolutamente deducibile dall’esperienza storica dell’uomo. Ciò nonostante, l’ethos svelato dall’analisi dell’esperienza originaria dell’amore umano costituisce il nucleo essenziale di ogni altra esperienza, in virtù di una convergenza sostanziale tra lo stato originario della natura integra e lo stato dell’uomo storico. Alla luce di questa fondamentale continuità occorre leggere l’irrompere del peccato con l’insieme delle sue conseguenze all’interno della storia umana.

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In questo paragrafo si vuole affrontare il tema dell’azione del peccato sulla struttura dell’essere umano, tenendo aperto il confronto con lo stato originario.Il peccato si configura all’interno del racconto della Genesi, capitolo 3, come una frattura storico - ontologica definitiva fra la condizione originaria, in cui l’uomo era in grado di corrispondere con le sole forza della sua natura al significato originario del corpo, e il nuovo stato, dove questo significato appare ormai deformato. In realtà, ad essere alterato non è tanto il senso del corpo nel suo orientamento al dono, quanto la sua trasparenza nel duplice senso: dello sguardo dell’uomo verso il corpo dell’altro e nella capacità che il corpo ha di esprimere la corrispondenza del suo significato sponsale con l’intima vocazione della persona al dono di sé. Nella narrazione genesiaca il peccato originale viene descritto formalmente come l’infrazione al comando divino che vietava agli uomini di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male: ‹‹Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete›› (Gen. 3, 2-3). In relazione alla norma divina, il peccato dei protoplasti ha un doppio significato: da un lato indica una precisa scelta da parte dell’uomo di contravvenire al volere del proprio creatore, dall’altro, e ciò coincide, alla radice, con la motivazione di tale scelta, mostra il punto di rottura dell’alleanza fra Dio e l’uomo nel momento del dubbio, insinuatosi nel cuore dell’essere umano, sul valore del Dono divino e quindi, in senso ancor più radicale, sul suo Amore. Mettere in discussione l’Amore divino, essenza di Dio, fondamento della Creazione e dell’Alleanza, significa per l’uomo non solo rigettare l’autorità su cui si fonda il precetto, quanto rivendicare l’indipendenza dal proprio principio, rinnegando, in tal modo, l’esistenza del Creatore e, con essa, le radici della propria.L’uomo dopo il peccato è orfano, senza Padre, sradicato dal fondamento stesso della sua essenza ed esistenza 192. Questa breve riflessione sul peccato delle origini illumina due elementi fondamentali per la comprensione dell’uomo “storico” nel suo integrum:

- il luogo del peccato non è il corpo, ma il cuore dell’uomo all’interno del quale sorge il dubbio e si radica la scelta.

- Il dubbio del dono e dell’amore divini, strappa l’uomo dal suo fondamento. Poiché il significato originario del corpo è quello di essere

192 Cfr. Cat . XXVI, p. 123.

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“testimone del radicamento dell’uomo nell’Amore” 193, il peccato, separando l’uomo dal suo principio, deforma, al contempo, il senso autentico della corporeità, la quale non trova più nel cuore dell’uomo la fonte del proprio significato e del proprio fine.

L’azione del peccato sull’essere umano, sottraendo il fondamento autentico dell’esistenza umana, elimina, simultaneamente, il suo telos e il senso della felicità. Ora, tutto questo si manifesta in una sostanziale alterazione della capacità del soggetto di percepire il proprio ethos, quale forma interiore del proprio agire rispetto alla realizzazione di sé, come persona. Inserendosi nell’ottica del peccato, l’uomo perde l’innocenza dello sguardo col quale aveva accesso all’autenticità della propria essenza e in tal modo smarrisce la possibilità di raggiungere la pienezza della propria felicità nella realizzazione di se stesso, in conformità con il valore autentico della propria natura. Lo sguardo che l’uomo ha su di sé è uno sguardo distorto, perché il “principio” che lo illuminava si è oscurato. Il “principio” cui rinvia Gesù nel suo discorso sul matrimonio con i farisei è, dunque, la fonte sempre attuale in cui l’uomo scorge nell’esperienza elementare, il proprio “orizzonte perduto”, e su cui sempre si fonda, tuttavia, la verità del proprio essere. Il nuovo stato della natura umana è caratterizzato dalla perdita definitiva dell’innocenza dello sguardo e dell’atteggiamento che l’uomo rivolge nei confronti dell’altro e della trasparenza col quale il corpo rivela il valore della persona. Ciò viene espresso nella scrittura mediante la descrizione della relazione tra l’uomo e la donna che segue la manducazione del frutto proibito: ‹‹Allora si aprirono i loro occhi e i due si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture›› (Gen. 3, 7). Anche in questo breve passaggio emergono due punti fondamentali e strettamente connessi: da un lato si evidenzia un cambiamento sostanziale nella natura dello sguardo reciproco che l’uomo e la donna si rivolgono, dall’altro emerge, nel loro rapporto, l’esperienza della nudità come fonte di vergogna. Il fenomeno della vergogna appare come la conseguenza immediata della trasgressione, ma anche come l’elemento che più profondamente scuote le fondamenta dell’esistenza dell’essere umano, il suo rapporto con l’altro e con Dio. L’esperienza della vergogna, così lontana dalla nudità delle origini, rivela ‹‹una specifica difficoltà di avvertire l’essenzialità umana del proprio››194 finora sconosciuta, che si riflette nell’atteggiamento di nascondimento e di copertura e che segna 193 Cfr, intra, p. 234.194 Cat. XXVIII, p. 129.

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l’insorgere nel cuore dell’uomo della paura per il proprio “io”: ‹‹ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto›› (Gen.3, 10). Questa affermazione emblematica esprime il ruolo della nudità all’interno di questa esperienza. Il senso di questo fenomeno non è da ricercare nell’esclusivo rapporto col corpo, anzi a partire dal significato del corpo stesso, rimanda al nucleo della persona, la quale, priva ormai della partecipazione al dono divino e alienata dall’Amore originario su cui fondava le radici della propria esistenza, ha smarrito il fondamento ontologico della proprio essere. Attraverso la nudità dell’altro, l’uomo rivolge il proprio sguardo a se stesso e si scopre nudo. Questa esperienza è per lui fonte di paura in quanto, mancando l’essenziale riferimento della propria nudità al significato sponsale del corpo, esso si trova, in un certo senso, delocalizzato, smarrito nel proprio essere. Le prime parole che di fatto Dio rivolge all’uomo dopo il peccato sono proprio: “Dove sei?”. In essa, la nuova condizione dell’essere umano emerge nell’incapacità totale del proprio corpo di collocarsi armonicamente nel mondo visibile. L’uomo acquista dopo il peccato una consapevolezza nuova: ‹‹di essere inerme, e il senso di insicurezza della sua struttura somatica di fronte ai processi della natura, operati con un determinismo inevitabile›› 195.Il peccato originale segna in primo luogo una frattura ontologica dell’essere umano nella sua unità somatica e spirituale. Staccandosi dal proprio fondamento, la natura umana perde la stabilità della propria struttura e della propria integrità. Ciò si rende visibile innanzitutto, nella mancata accettazione della propria corporeità e, con essa, della stessa relazione col mondo visibile che tale corporeità esprimeva. Egli non è più in grado di partecipare al creato, secondo la modalità della trascendenza, come custode. Si instaura, piuttosto, tra lui e il mondo, un sistema di forze in tensione all’interno del quale, a partire dal suo disordine interiore, vive la propria condizione come assoluta vulnerabilità rispetto a ciò che lo circonda. La destrutturazione dell’essere umano ha dunque per esso una portata cosmica: egli esperisce interiormente la frattura che ormai lo allontana, contrapponendolo, dal resto del creato e rispetto al quale la vergogna rappresenta uno schermo difensivo necessario.La paura, come caratterizzazione emotiva dell’esperienza della vergogna, instaura nell’uomo “storico” un’inquietudine radicale che investe non solo l’esistenza umana di fronte alla prospettiva della morte, ma anche il valore etico della persona. Il peccato infatti, scuote fin dal profondo l’ordine strutturale della persona, minando la capacità propriamente umana dell’autodominio e dell’autopossesso. In tal modo, la facoltà di integrare il proprio corpo

195 Cat . XXVII, 128.

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nell’ordine personale non avviene più in modo naturale, ma si costituisce come specifico compito della persona, che solo in questo modo è in grado di autodeterminarsi e quindi di realizzare se stesso 196.

§2. Peccato e intersoggettivitàIn seguito al peccato insorge nell’uomo l’esperienza della vergogna. Come indicato poco sopra, questa esperienza ha un primo significato cosmico, in cui l’uomo smarrisce la propria capacità di partecipazione col resto del creato, del quale era chiamato ad essere il custode. In secondo luogo essa si colloca come dato immanente, che mina l’integrità della persona, creando una rottura sostanziale della sua struttura tale che, l’unità spirituale e somatica non si dia più come il frutto di una integrazione spontanea e naturale, ma come il fine di un costante lavoro dell’uomo su se stesso all’interno del conflitto delle sue forze.Dal testo biblico emerge tuttavia, un’ulteriore caratterizzazione: perdendo la capacità di esperire il significato autentico della propria corporeità, l’uomo non è più in grado di entrare in relazione con l’altro a partire dal proprio corpo e dalla propria sessualità: ‹‹Intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture›› (Gen. 3, 7). La vergogna si configura in questo passo come una specifica realtà all’interno della relazione reciproca tra le persone, nella quale esse esperiscono l’esigenza di nascondere il proprio corpo, e, in particolare, il segno visibile della loro mascolinità e femminilità. Da questo punto di vista, la vergogna emerge come fenomeno proprio e caratteristico della sfera sessuale umana, in grado di alterare la natura stessa dei rapporti tra uomo e donna. Il senso del pudore riferito al proprio corpo appare come l’indicazione più evidente della minaccia che l‘uomo sente, stando di fronte all’altra persona, per il proprio valore personale e la misura più adeguata che esso assume istintivamente per preservare tale valore dallo sguardo non più trasparente, ma concupiscente, dell’altro. Il carattere relativo della vergogna invita ad una duplice riflessione. Da un lato definisce la natura dello stato postlapsario nella sua corrispondenza con l’insorgere della concupiscenza, dall’altro, il particolare riferimento della sua presenza nella sfera della sessualità, mostra la perdita della funzione propria del corpo e della differenza sessuale di realizzare naturalmente la comunicazione reciproca tra l’uomo e la donna all’interno di un’autentica comunione tra persone.

196 Cfr. Cat XXVIII, nota p. 131.

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La nuova economia tra uomo e donna, successiva al peccato, è illuminata dalla specifica relazione sussistente proprio tra concupiscenza e sessualità. La dottrina biblica della concupiscenza, espressa nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2, 16-17), suddivide questa realtà in tre categorie, concupiscenza della carne, degli occhi e superbie della vita, il cui comune denominatore sta proprio nel qualificare, ognuna secondo le proprie caratteristiche, lo stato di allontanamento dello spirito umano dalla sua condizione originaria in seguito al peccato. La concupiscenza, dunque, non coincide col peccato originale, ma ne è la diretta conseguenza, nella quale l’uomo sperimenta nel suo cuore la frattura del suo essere nella rottura dell’Alleanza col proprio Creatore. Penetrando nell’intimo umano la ‹‹concupiscenza porta con sé una quasi costitutiva difficoltà di immedesimarsi col proprio corpo; e non soltanto nell’ambito della propria soggettività, ma ancor più riguardo alla soggettività dell’altro essere umano›› 197. L’effetto primario della concupiscenza è quello di sconvolgere l’originario significato sponsale della corporeità espresso nella differenziazione sessuale, la quale non viene più esperita come il fondamento della reciproca donazione tra i due sessi, quanto come elemento di contrapposizione e allontanamento. L’opposizione è concretamente vissuta nell’esperienza della vergogna, tuttavia, occorre sottolineare come l’origine del pudore non sia da rintracciare nel corpo in sé, ma nella consapevolezza dell’insaziabile desiderio di unità che l’uomo prova nel suo cuore per l’altro sesso come riflesso degli impulsi derivanti dal suo sostrato somatico. Come emerso dalle analisi precedenti, il desiderio di unione corrisponde alla vocazione originaria del corpo. L’effetto della concupiscenza, tuttavia, deforma il senso di tale unità a favore dell’appagamento dei bisogni fisiologici del corpo. La paura che accompagna l’esperienza della vergogna è, dunque, il timore che il proprio corpo, estraniato dall’azione della concupiscenza dalla dimensione del dono, diventi per l’altro oggetto di godimento. La concupiscenza trasforma il significato dell’originaria attrazione che animava il sostrato somatico e sessuale dell’uomo, come espressione della particolare vocazione dell’uomo al dono di sé e alla comunione, in una “forza quasi autogena” che muove il corpo secondo la spinta propria dell’impulso e che si contrappone alla realizzazione delle manifestazioni spirituali dell’essere umano 198. Questa rottura dell’integrità della persona coincide con l’alienazione della 197 Cat.. XXIX, p. 134.198 La forza caratteristica dell’impulso sessuale agisce in modo quasi costrittivo all’interno del dinamismo corporeo contrapponendosi all’esercizio dell’autodominio da parte della persona e limitando in tal modo il campo della libertà personale propria della dimensione del dono. L’inquietudine del corpo e dei sensi alimentata da un impulso

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corporeità umana dalla dimensione del dono e, parallelamente, ad una sostanziale depersonalizzazione del valore della sessualità nei rapporti tra i sessi. La concupiscenza riduce, pertanto, il senso della relazione uomo-donna alla componente esclusivamente biologica e materiale del corpo e della sessualità, nella quale non si verifica l’unione propria del dono, ma un rapporto di appropriazione secondo il criterio del godimento edonistico. Il movimento di appropriazione sottrae lo spazio della reciprocità, in quanto si indirizza unilateralmente verso l’altra persona. Questa sostanziale mutazione nella struttura del rapporto rappresenta la negazione, in senso stretto, della possibilità stessa della comunione: l’altro diviene oggetto di possesso e il suo valore si restringe alla misura della possibilità del suo utilizzo. Alla luce di queste riflessioni è possibile ora comprendere il senso del testo della Genesi in cui il rapporto tra l’uomo e la donna viene ridescritto alla luce del peccato: ‹‹ Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà›› (Gen. 3, 16). Questo breve passo esprime, nella contrapposizione delle parti che lo compongono, la frattura della primitiva comunità umana. Sebbene, infatti, l’ethos originario del corpo continui ad agire nel cuore umano, orientando lo spirito delle persone verso la reciproca unione, questa tendenza è offuscata dall’azione della concupiscenza la quale, sottraendo il piano egualitario su cui la comunione si rende possibile, pone l’uomo e la donna su livelli contrapposti e subordinati. La donna appare all’interno del nuovo rapporto come l’oggetto del dominio maschile. Questo fatto è l’indice del carattere appropriativo della loro relazione e, al contempo, mostrando il particolare valore che questo tipo di rapporto ha per la donna, richiama l’attenzione sulla speciale responsabilità dell’uomo. Alla luce del piano originario, infatti, egli ‹‹avrebbe dovuto essere custode della reciprocità del dono e del suo autentico equilibrio›› 199, e in tal senso, il responsabile primo della sua alterazione.

§3. Amore e norma evangelicaIl peccato originale rappresenta dal punto di vista teologico, ontologico e antropologico, un punto di rottura fondamentale tra la condizione originaria e lo stato dell’uomo “storico”.

sciolto dal proprio autodominio e indirizzata al proprio soddisfacimento impegna la libertà dell’individuo sul livello più esteriore della persona e in tal modo si consuma in esso. Questo dinamismo manca il riferimento essenziale della volontà alla verità, ottunde l’attività riflessiva, disattende la voce della coscienza ( Cfr. Cat, XXXIX, p. 166).199 Cat. XXXIII, p. 145.

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E’ importante ora, innanzitutto, capire cosa sia questo uomo “storico” e se, per esso, l’orizzonte perduto del “principio” abbia effettivamente un senso. Per rispondere a pieno alla prima questione occorre penetrare nel contenuto etico del passo evangelico proposto dall’autore e scrutare la categoria del “cuore”: ‹‹Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio nel suo cuore›› (Mt. 5, 27). L’importanza di questo brano, al centro di numerose riflessione nelle catechesi sull’amore di Giovanni Paolo II, sta nel richiamare e nel collocare all’interno della persona umana la condizione descritta nel terzo capitolo della Genesi: la concupiscenza contamina la trasparenza dello sguardo dell’essere umano, il quale smarrisce, in tal modo, il significato sponsale della propria corporeità e sperimenta nel proprio cuore la radicale frattura del suo essere, tra corpo e anima. La concupiscenza generata dal peccato penetra nella profondità della natura umana, nel cuore, sconvolgendo la sua capacità di cogliere i valori propri della persona. La dimensione del cuore, espressione dell’intimo della persona, ha, dal punto di vista personalistico, un significato universale sul quale Cristo costruisce la piattaforma della norma evangelica:

- il contenuto delle parole di Gesù ha un esplicito significato antropologico in quanto richiama quei significati “perenni” che sorgono dal “principio” e in cui si svela la verità dell’ essere umano.

- Il contenuto delle parole di Gesù ha un senso etico, in quanto, nel momento stesso in cui fonda un’antropologia adeguata, esige che l’uomo si conformi alla propria autentica natura, ed ‹‹entri nella sua piena immagine›› 200.

- Il cuore è il luogo privilegiato in cui l’uomo è in grado di rientrare in se stesso per cogliere la verità del proprio significato, il proprio ethos interiore, e realizzarlo.

Il messaggio di Cristo è, dunque, un richiamo al cuore dell’uomo. Il contenuto normativo delle sue parole si radica, infatti, sui significati essenziale della persona e che la persona stessa, mediante questo richiamo, è in grado di recuperare al suo interno. Ritrovando nel cuore la propria immagine, l’uomo assume la realizzazione di sé non come il dettato di una legge esteriore, ma come libera iniziativa che sorge dall’esperienza del proprio valore essenziale: ‹‹la morale in cui si realizza il senso stesso dell’esser uomo […] si forma nella 200 Cat. XXV, p. 118.

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percezione interiore dei valori da cui nasce il dovere come espressione della coscienza, come risposta del proprio “io” personale›› 201. Lo spostamento applicato dalle parole di Cristo all’interno della morale dalla forma legalistico-precettistica alla dimensione del cuore, quale luogo in cui l’uomo dà forma alla norma nella propria interiorità, svela la natura del suo interlocutore. Rivolgendosi infatti al cuore, egli si indirizza all’ “uomo della concupiscenza”, nel cui cuore la concupiscenza agisce, offuscando il significato autentico e originario del proprio esistere. L’uomo “storico” è dunque, l’uomo che, a causa dell’influenza della concupiscenza, ha perso la propria capacità di amare spontaneamente e che costantemente vive interiormente il conflitto fra questa disposizione al dono e l’orientamento della concupiscenza 202.L’uomo “storico” è “ogni” uomo, nella sua universale partecipazione all’umanità e, al contempo, nella sua assoluta unicità: ‹‹con la categoria del cuore, ognuno è individuato singolarmente ancor più che per nome, viene raggiunto in ciò che lo determina in modo unico e irripetibile, è definito nella sua umanità “dall’interno”›› 203. Occorre, tuttavia, evidenziare che l’universalità del messaggio evangelico non si fonda su un passaggio di generalizzazione, ma sulla piena coincidenza fra il suo contenuto etico e la verità che l’uomo sperimenta circa la propria natura, come valore da realizzare. L’ “ogni” dell’uomo “storico” non indica una validità generale del contenuto morale delle parole di Cristo, ma individuale e sempre attuale: ‹‹L’uomo al quale Gesù si riferisce, è proprio l’uomo “storico”, quello di cui abbiamo rintracciato il “principio” e la “preistoria teologica” nella precedente serie di analisi. Direttamente è colui che ascolta con le proprie orecchie il discorso della montagna. Ma insieme con lui, c’è anche ogni altro uomo, posto di fronte a quel momento della storia, sia nell’immenso spazio del passato, sia in quello, ugualmente vasto, del futuro›› 204.E’ necessario soffermarsi ancora per un attimo sulle parole del discorso della montagna citate in fase iniziale. La struttura del passo è divisibile in due parti fondamentali. Da un lato viene richiamato il comandamento antico

201 Cat.. XXIV, p. 114.Giovanni Paolo II concepisce l’ethos come il cuore della morale a partire dal

quale la norma si riconduce nella profondità stessa dell’uomo-soggetto della morale. In questo senso l’ethos forma una “morale viva”, il cui significato poggia non tanto dall’insieme dei comandi, precetti e divieti esteriore, ma dal senso esistenziale che anima alla norma..202Cfr. Cat. XXXII, p. 143 .203Cat. XXXIV, p. 149. 204Cat.. XXV, p. 117.

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sull’adulterio e riaffermata la sua validità, dall’altro, il significato di questo stesso comandamento, viene ampliato e consolidato nell’interiorità dell’essere umano. Attraverso la categoria del cuore il senso etico del precetto passa dal compimento esteriore dell’atto, alla sua dimensione interiore, anteriore alla realizzazione dello stesso in quanto inerente al momento della decisione-intenzione. Il nesso instaurato tra la conferma del valore morale del comandamento e il consolidamento del suo significato nell’interiorità dell’uomo, fa sì che il principio fondante della norma, vale a dire la conformità dell’indissolubilità matrimoniale con piano originario di Dio, venga riscoperta nel cuore umano attraverso la rilettura autentica del suo ethos interiore. Il discorso della montagna, da cui il brano riportato è tratto, ma, più in generale, le norme evangeliche, si rivolgono ad ogni uomo, perché sia in grado di scorgere nel proprio cuore, offuscato dalla concupiscenza, “la pienezza perduta della propria umanità” e di riacquistarla, ristabilendo al suo interno la condizione di purezza e innocenza interiore in cui solo si può ricostruire l’integrità della sua natura nella dimensione originaria del dono. Nel recupero della propria immagine originale, l’uomo si colloca sulla soglia del “principio”, riscoprendo in esso il significato originario della propria corporeità, nel quale si rivela la verità della propria natura. L’ethos cristiano, nel suo appello alla coscienza umana, svela nuovamente il valore fondamentale del corpo e della sessualità umana, quali sostrati della comunione tra le persone, in cui l’uomo coglie e realizza la pienezza del proprio essere e della propria esistenza 205. Il riscatto del significato autentico del proprio corpo e della propria sessualità, alla luce dell’ethos evangelico, impone che l’uomo sia in grado di realizzare con l’altra persona un rapporto autenticamente fondato sul senso di questi valori e che abbia piena consapevolezza dei propri atti, esteriori ed interiori. A partire dai contenuti del discorso della montagna Giovanni Paolo II individua tre condizioni fondamentali che determinano la maturità e la spontaneità dell’atto nei confronti dell’altra persona 206:

205 La natura dell’ethos cristiano sottrae la morale evangelica dall’accusa di manicheismo. L’appello delle norme morali espresse nel vangelo si rivolge infatti, non al corpo e alla sessualità, ma al cuore dell’uomo, ossia il luogo in cui si costituisce, per mezzo del libero orientamento della propria volontà, il male morale del proprio atto. Accusare il corpo e la sessualità di essere mali in sé equivarrebbe a trasferire la negatività reale del male morale dall’atto al suo oggetto, perdendo così il senso stesso della morale. 206 Cfr. Cat. XLVIII, p. 199.

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- che l’atto sia conforme al dettato della coscienza, orientata rettamente alla verità.

- che il soggetto possieda un autodominio maturo, vale a dire che sia l’autentico padrone dei propri impulsi. Questa capacità esige che l’uomo sia radicato profondamente sul fondamento della sua struttura. Solo in questo modo infatti, diviene l’autore originale, libero e consapevole dei propri atti.

- che il soggetto sia capace di orientare i propri impulsi interiori sul fondamento dell’autentico significato sponsale del proprio corpo, ossia, integrando continuamente ciò che proviene dal sostrato somatico e psichico della sua costituzione, sia in grado di subordinare i propri orientamenti naturali alla piena realizzazione del dono libero di sé 207.

La realizzazione dell’atto, in conformità coi suddetti principi, è il frutto dell’impegno personale dell’uomo. Tuttavia, il senso del suo sforzo si concretizza solo in relazione al mistero incluso nel “principio”, il quale costituisce la “forza originaria” che muove il soggetto al di là dei limiti della concupiscenza, verso il recupero della propria umanità. Giovanni Paolo II chiama questa forza anche “grazia”, in quanto capace di perfezionare l’essere umano sulla base della verità essenziale della sua natura. Questa indicazione fondamentale consente di delineare il significato ultimo del processo che la persona realizza nel recupero del senso originario della propria natura e del proprio ethos, come percorso di “redenzione”. Il concetto di redenzione apre una prospettiva nuova, illuminata dal “principio”, in cui l’uomo si colloca con le proprie aspirazioni. All’interno di questo orizzonte il “principio” non è semplicemente lo stato da recuperare o il luogo del ritorno, ma il criterio e la misura sulla quale l’essere umano deve costruire le ‹‹forme vive dell’uomo nuovo›› 208. Si instaura in tal modo un ethos nuovo, radicato sui significato perenni dell’ethos originario, nel quale l’uomo è

207 L’integrazione degli impulsi rimanda ad una questione cruciale per la comprensione della realtà dell’amore umano, quale l’integrazione dell’eros nell’amore. L’eros, come forza interiore che spinge interiormente l’uomo verso l’altro, deve essere elevato a livello dell’amore perché il suo oggetto non si riduca ai soli valori sessuali, ma coincida con la totalità della persona come valore in sé. Integrare l’eros significa renderlo conforme al significato sponsale della corporeità, in modo che si sviluppi armonicamente con l’ethos proprio dell’essere umano.208 Cat.. XLIX, p. 202.

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chiamato a riscoprire e ad attuare pienamente se stesso nel proprio cuore. L’uomo della redenzione, l’“uomo nuovo”, si realizza solo conformando il proprio essere alla sua verità originaria e la propria azione al nuovo ethos, contrastando l’effetto deformante della concupiscenza che agisce nel suo intimo. Il senso del messaggio evangelico si concretizza, pertanto, sulla linea di questo ethos, attraverso l’individuazione, nelle norme morali del discorso della montagna, della via realmente percorribile di questa auto-realizzazione: ‹‹Cristo indica con chiarezza che la via per giungervi deve essere via di temperanza e di padronanza dei desideri, e ciò alla radice stessa, già nella sfera puramente interiore (“chiunque guarda per desiderare…”)›› 209.

§ 4. Ethos della redenzione: amore e virtùL’ethos della redenzione che emerge dall’analisi del breve passo evangelico del discorso della montagna, apre una nuova prospettiva morale nella quale l’uomo possa ritrovarsi. Il luogo, se così si può dire, in cui questo ethos nasce e si realizza, è il cuore dell’uomo. Nel cuore, infatti, l’uomo “storico” vive la rottura interiore del proprio essere sotto l’azione della concupiscenza, che proprio l’ethos della redenzione mira a risanare, per far riemergere la sua immagine integrale. Alla luce delle precedenti riflessioni, si è visto come la realizzazione della nuova vocazione impone che l’uomo rientri in se stesso, in un certo senso, riconquistandosi, ossia recuperando la facoltà di autodominio e di autopossesso attraverso le quali è in grado di integrare i moti interiori provenienti dagli impulsi del suo dinamismo psichico e somatico, orientandoli verso il valore della persona. Questa capacità è frutto di un impegno autentico e costante delle proprie facoltà spirituali e della progressiva acquisizione di un comportamento specifico nel proprio cuore, atto a contrastare efficacemente l’influenza della concupiscenza. Giovanni Paolo II chiama questa disposizione in vari modi: “dominio di sé”, “continenza” o “temperanza”. Il fine che indica è, tuttavia, unico ed è quello di ricondurre nel profondo il soggetto al valore che più gli è proprio, ossia al valore sponsale del proprio corpo, segno trasparente dell’intima vocazione al dono e alla comunione, che il Creatore ha inscritto nella sua natura.Temperanza e continenza sono quindi le vie che conducono la persona alla realizzazione di atti essenzialmente personali, in quanto radicati sulla struttura dell’autopossesso e dell’autodominio. La persona riacquista, in tal modo, il

209Cat. XLIX, p. 202.

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senso della propria dignità ed è in grado di liberare gli strati più profondi della propria soggettività, che la concupiscenza altrimenti non lascerebbe emergere. Il dominio attuale dei propri desideri sgombera il cuore dall’influenza della concupiscenza e dai legami in cui essa rinchiude la volontà del soggetto rispetto ai propri impulsi. Questa azione di “pulizia” interiore è ciò che propriamente apre la strada alla “purezza del cuore”. “La purezza del cuore” è, per l’autore, la condizione della scelta libera e autentica dell’uomo. La persona, infatti, svincolata, dal peso deterministico con cui gli impulsi della propria corporeità agiscono al suo interno, è in grado di orientare liberamente la propria volontà verso la realizzazione dei veri valori che esperisce in relazione a se stesso a agli altri. Per questo la “purezza del cuore” è anche la condizione essenziale dell’amore: ‹‹è la dimensione della sua verità interiore nel “cuore”dell’uomo›› 210. Affrancato dall’azione deformante della concupiscenza, l’uomo è definitivamente capace non solo di cogliere e assumere si di sé il significato della propria corporeità nello suo intimo orientamento al dono, ma, al contempo, di tornare a riscoprire, nella persona che ha di fronte, un valore fondamentale. “La purezza del cuore” rispecchia nell’uomo “storico” l’innocenza delle origini, restaurando la possibilità del dono di sé e ponendo la relazione tra l’uomo e la donna al livello dell’amore. Nell’ordine della redenzione, la purezza ha quindi una valenza, innanzitutto, morale, sulla quale si fonda la bontà dell’atto che la persona compie verso l’altro. Dal punto di vista antropologico ed etico, essa rappresenta un’attitudine della persona, radicata nella volontà, che rende l’uomo capace di agire conformemente alla struttura del proprio autodominio e autopossesso : in questo senso specifico è da intendersi come virtù. All’interno del pensiero paolino sulla virtù, riportato da Giovanni Paolo II, la virtù della purezza presenta una duplice funzione: da un lato è la forma di una specifica astensione dall’impudicizia ( cfr. 1 Ts. 4,3), dall’altro, realizza il dominio e il superamento delle passioni attraverso il mantenimento del “proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni libidinose” (1 Ts. 4,4). Questi due aspetti, astensione e conservazione del proprio corpo con rispetto, sono strettamente interdipendenti: per un verso il mantenimento rispettoso del corpo esige l’astensione, per l’altro l’astensione stessa riceve il significato adeguato proprio da tale mantenimento.Di particolare importanza all’interno di questa dottrina e, più in generale, della dottrina ecclesiologica sulla corporeità, è il tema del “rispetto”. Questo termine

210 Cat.. XLIX, p. 204.

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indica con particolare precisione il duplice valore della dignità del corpo e della persona e, al contempo, il superamento della dimensione della vergogna, come conseguenza essenziale della concupiscenza, mediante il ripristino dell’unità somatico-spirituale dell’essere umano. Recuperando la dignità personale del corpo, la purezza trasferisce tale dignità all’interno dei rapporti interpersonali: in essa l’uomo e la donna realizzano l’unità originaria in cui si manifesta l’immagine del creatore, recuperando reciprocamente il senso autentico della propria mascolinità e femminilità.Alla luce di questa riflessione è possibile comprendere le parole che il pontefice rivolge a tale virtù: ‹‹la purezza […] attua in esso [l’uomo] una tale pienezza di dignità nei rapporti interpersonali, che Dio stesso è glorificato. La purezza è gloria del corpo davanti a Dio. E’ la gloria di Dio nel corpo umano, attraverso la quale si manifestano la mascolinità e la femminilità›› 211.Il termine “gloria” indica, trascendendola, l’idea della dignità che la purezza restituisce all’uomo. E questo perché, attraverso il modo di essere che essa imprime nel soggetto, la persona non solo è ricostituita nel suo integrum, radicata nella libertà, capace di donarsi, ma attraverso l’esperienza della nuova condizione, scopre se stessa come soggetto di santità 212: la purezza è una virtù morale e, al contempo, un dono dello Spirito Santo. Attraverso questo Spirito la corporeità umana è permeata dalla forza divina e, mediante il suo orientamento sponsale, significato perenne iscritto nella sua struttura, diviene segno trasparente della realtà divina, immagine del creatore: sacramento della persona.Le riflessioni del pontefice sulla virtù della purezza, o enkrateia, si instaurano nel solco della tradizione cristiana con una profondità e ricchezza antropologica, tuttavia, assolutamente originale. L’invito alla “continenza” e alla “temperanza” che egli rivolge all’uomo nell’imperativo del dominio di sé, dà inizio una nuova realtà all’interno della persona, che è l’esperienza originaria del valore del proprio corpo e del proprio essere personale. La purezza del cuore, ricevuta come dono e praticata come virtù, ri-forma dall’interno l’unità della dell’essere umano, delle sue dimensioni, somatiche, psichiche e spirituali, secondo i rapporti di integrazione propri della struttura della persona. L’uomo è così ricostruito interiormente nella sua soggettività personale secondo l’immagine originaria: è ri-creato nella sua identità personale. Questa dimensione della purezza apre un duplice orizzonte di riflessione, su cui si svilupperanno due cicli delle catechesi di Giovanni Paolo II.

211 Cat. LVII, p. 229.212 Cfr. 1Ts. 4, 7-8.

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Nel primo, il senso della redenzione del corpo, come ripristino dell’ordine della persona, è ricondotto ad un’ideale di perfezione, in cui l’uomo possa realizzare pienamente la propria soggettività, attualizzando la totalità delle sue disposizioni personali nell’unità completa e integrale della sua natura 213. Questa possibilità si costituisce all’interno del piano della resurrezione della persona, nella sua unità corpo e spirito, quale realtà capace di svelare il significato ultimo della corporeità umana, che, nella perfetta spiritualizzazione della nuova condizione, diviene espressione trasparente della persona e, in essa, della comunione delle persone divine. L’inserimento nell’orizzonte dell’uomo “storico” della prospettiva finale della redenzione, come risurrezione della persona nella pienezza del suo essere, orienta il significato sponsale del corpo in una direzione nuova e più radicale rispetto alla realizzazione dell’unione tra uomo e donna, ossia l’ambito in cui la verginità “per il regno dei cieli” 214, oggetto di un ciclo specifico di catechesi, trova le proprie radici autentiche. La prospettiva escatologica della resurrezione presenta la perfetta integrazione della corporeità nella totalità della persona, come la realizzazione della profonda vocazione umana, inscritta nel significato sponsale del corpo, alla comunione con Dio e con gli altri, all’interno della quale la forma strettamente coniugale dei rapporti è sostituita dalla forma spirituale-verginale. L’ottica escatologica svela il senso ultimo della corporeità e della sua capacità di esprimere la verità della persona. L’ideale della continenza per il Regno, alla luce del significato sponsale del corpo 215, acquista un valore profondo, non solo come anticipazione della realtà futura, ma soprattutto, come manifestazione del senso radicale della corporeità umana, quale segno dell’intima vocazione dell’uomo ad essere dono per - . La verginità cristiana acquista il suo significato proprio nel riferimento alla realtà extramondana del Regno 216, come esperienza vissuta della propria chiamata al 213 Cfr. Cat. LXVIII, p. 270.214Cfr. Colloquio di Gesù coi sadducei sulla legge del levirato (Mt. 22, 24-30; Mc. 12, 18-27; Lc 20, 27-40). 215Il valore della scelta celibataria non si fonda sulla svalutazione artificiosa della dimensione sessuale, ma su una comprensione autentica della mascolinità o femminilità e del suo significato sponsale. Solo penetrando nel senso della propria sessualità la persone è in grado di acquisire la consapevolezza della libertà del dono, nel duplice atto di rinuncia e affermazione del valore in essa incluso. 216La continenza per il regno nella sua finalità soprannaturale diviene segno della realtà escatologica e anticipazione della glorificazione del corpo mediante la spiritualizzazione della totalità della persona. E’ dunque l’espressione più autentica del mistero della redenzione e possibilità più alta che l’uomo “storico” ha di conformarsi al proprio valore.

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dono nella dedizione totale a Dio, quale oggetto primo ed ultimo dell’amore umano.Matrimonio e celibato non rappresentano solo due stati possibili della condizione dell’uomo “storico”, ma le due espressioni, concordi e complementari, della medesima vocazione al dono che l’uomo sperimenta nell’esperienza originale del proprio corpo: ‹‹Poggiandosi sulla stessa disposizione del soggetto personale, grazie a cui l’uomo si ritrova pienamente attraverso un dono sincero di sé, l’uomo (maschio o femmina) è capace di scegliere la donazione personale di se stesso, fatta all’altra persona nel patto coniugale, in cui essi divengono “una sola carne”, ed è anche capace di rinunciare liberamente a tale donazione di sé ad un ’altra persona, affinché scegliendo la continenza “per il regno dei cieli”, possa donare totalmente se stesso a Cristo›› 217. Nella loro realizzazione l’uomo esprime la propria capacità di amare, quale facoltà essenziale della propria natura. Comprende il nesso profondo che unisce queste due forme di amore consente di cogliere l’una e l’altra in modo più autentico: come scelta libera della persona di amare, fondata sulla virtù 218. La virtù della castità, espressione della purezza del cuore, appare, alla luce della correlazione che fonda vita coniugale e celibataria, come la radice morale di entrambi queste specifiche scelte di vita: ‹‹esigenza dell’amore››219 umano, in ogni sua forma.

3. La pedagogia del corpo

§1. La pedagogia come parte integrante della teologia del corpoNelle precedenti riflessioni sono state individuate le linee fondamentali della “teologia del corpo” che Giovanni Paolo II elabora in seno alla serie di catechesi presentate nelle udienze generali del mercoledì. Il fine e, al contempo,

217Cat. LXXX, p. 316.218Matrimonio e celibato si illuminano reciprocamente. Sebbene, infatti, il celibato si configuri come l’esplicita rinuncia al bene del matrimonio, in questa scelta non si verifica una svalutazione dei suoi beni, ma la valorizzazione del fondamento stesso della vita coniugale alla luce della dignità del dono. Parimenti il matrimonio, nonostante corrisponda a dinamiche ed esigenze così lontane dalla vita celibataria, è, nel suo fondamento, la forma che Dio stesso ha scelto fin dal “principio” perché l’uomo scopra e realizzi la propria vocazione al dono e in questo senso illumina e giustifica il senso stesso del dono incluso nella vita verginale.219 Cat.. XLIX., p. 204.

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il nucleo di questa proposta teologica è quello di ricavare, a partire dal contenuto morale del messaggio evangelico, i principi essenziali, altrimenti detti “significati perenni”, su cui poter costruire un’antropologia adeguata, in grado di cogliere l’integrum dell’essere umano, esplorando il cuore dell’esperienza essenzialmente umana. All’interno di questa prospettiva, le parole di Gesù forniscono all’autore un duplice indirizzo speculativo: il contenuto immediato dei testi riportati ha un esplicito e diretto significato normativo, mediante il quale viene individuato l’ethos interiore che la persona è chiamato a realizzare. Al contempo, questo ethos si fonda e rimanda alla verità essenziale dell’uomo, quale oggetto primo del suo dovere: ‹‹queste parole, mediante il loro contenuto etico, simultaneamente costituiscono una tale antropologia ed esigono, per così dire, che l’uomo entri nella sua immagine›› 220. La simultaneità tra antropologia ed etica si dà all’interno di questo sistema in modo tale che l’uomo, posto di fronte alla verità del suo essere, riconosciuto il significato sponsale del proprio corpo, viva interiormente questa consapevolezza come un preciso compito da realizzare. La ricchezza della riflessione del pontefice, tuttavia, sta nel delineare, oltre alla verità dell’essere umano come meta da raggiungere, in conformità con i significato originari e perenni inscritti nella sua natura, le indicazioni morali che costituiscono la strada reale che l’uomo può e deve percorrere a tale scopo. Nell’interpretazione dell’autore, l’ethos evangelico non esprime un semplice dover-essere, ma istituisce, sul fondamento di questo ethos, una prassi concreta che, in virtù di questa concordanza, l’uomo è capace di ritrovare in se stesso e di assumere come sua propria. Alla luce del significato antropologico e etico, la teologia del corpo è nello stesso tempo una pedagogia: ‹‹La pedagogia tende ad educare l’uomo, ponendo davanti a lui le esigenze, motivandole, ed indicando le vie che conducono alla loro realizzazione›› 221.

- il contenuto antropologico della teologia del corpo fornisce alla pedagogia del corpo la verità del suo oggetto, l’essere umano, sia dal punto di vista della sua essenza, che della visione integrale dei suoi dinamismi. La descrizione fenomenologica e metafisica dell’esperienza umana operata sullo sfondo dei dati rivelati, mostra l’uomo all’interno della prospettiva pedagogica

220 Cat.. XXV, p. 118.221 Cat.. LIX, p. 235.

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nel suo significato personale: essere chiamato, attraverso la realtà del suo corpo e della sua sessualità, al dono autentico di sé nella comunione tra le persone.

- Il contenuto etico della teologia del corpo fornisce alla pedagogia del corpo il compito fondamentale di realizzare l’umanità della persona e di valorizzare la sua dignità, mediante il recupero autentico dei valori essenziale che le sono propri. Il significato del corpo e della sessualità costituiscono, in particolare, l’obiettivo precipuo di questa pedagogia in quanto indice del più generale e profondo ethos della persona.

- La teologia del corpo, mostrando principio e fine della persona, costituisce il metodo stesso della pedagogia: impone che l’azione formativa si indirizzi all’essere umano nella sua integralità e che esso non divenga oggetto di riduzioni parziali o unilaterali, secondo le modalità delle moderne scienze dell’uomo. Esigendo una visione globale dell’essere umano, impone inoltre che la pedagogia educhi la persona al “mantimento rispettoso” del proprio corpo, a partire da una concezione adeguata della corporeità stessa. Il corpo, in quanto segno della persona e della sua dignità, deve essere interpretato al di là del suo significato biologico ed essere escluso dalla possibilità di manipolazioni. In tal senso, la teologia modella l’accesso della pedagogia alla corporeità umana e alla persona stessa, secondo un criterio strettamente spirituale, per mezzo del quale il corpo venga colto dallo spirito come suo specifico compito.

- La pedagogia del corpo è, innanzitutto, auto-educazione: l’essere umano è intimamente chiamato a realizzare se stesso e la propria umanità, maturando le capacità interiori di autodominio e di autopossesso. Lo sviluppo di queste due disposizioni è decisivo rispetto alla possibilità che l’individuo ha di autodeterminarsi, in quanto fondano la capacità stessa dell’essere umano di compiere liberamente i propri atti nel riferimento essenziale della propria volontà alla verità del proprio essere. L’uomo che saldamente si possiede ed è in grado di dominare gli impulsi provenienti dallo strato psicosomatico integrandoli a livello spirituale, conquista l’integrità della propria struttura ed attualizza le proprie potenzialità essenziali sotto il governo della ragione e della libera volontà. Il conseguimento della maturità spirituale, parallelo al processo di integrazione della persona, si manifesta attraverso una prassi guidata dalla virtù ed, in questo senso, è la condizione necessaria affinché l’uomo sia in grado di donare se stesso al prossimo, conformemente all’ethos interiore della propria corporeità. La capacità di amare è la facoltà propria dell’essere umano

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attraverso la quale egli si determina come persona e tuttavia, la sua attualizzazione è il frutto di un lavoro costante e di un processo continuo di autoformazione.

- Il luogo dell’educazione è il “cuore”. La teologia del corpo, indicando con questa categoria l’interiorità della persona, in cui essa ha accesso al mondo dei valori, mostra alla pedagogia lo spazio della sua azione. L’importanza di questo fatto sta nel determinare il carattere proprio dell’educazione: essa non deve fornire alla persona un insieme regole esteriori, ma orientare il suo intervento al nucleo spirituale dell’essere umano, permettendo ai valori di emergere nell’interiorità della persona nel loro riferimento essenziale alla verità, in modo tale che possano essere riconosciuti autonomamente dal soggetto. Il cuore è dunque, quello spazio interiore in cui il soggetto riscontra una concordanza fra i contenuti della proposta pedagogica e i valori che egli scopre come veri nella sua esperienza. Solo così l’azione formativa è veramente efficace, in quanto il soggetto assume liberamente e con convinzione, sul fondamento del proprio autodominio e autopossesso, i valori oggettivi del proprio essere personale, impegnandosi nella loro realizzazione. Educazione, in tal senso, è presentare all’uomo valori conformi alla verità della sua natura; auto-educazione, ricercare nelle proprie esperienze, tali valori e conformarsi ad essi.

La scelta dei valori determina, infine, il valore morale dell’azione che l’uomo compie e contemporaneamente lo sviluppo della persona, che si costituisce nei propri atti come “buona” o “cattiva”. La conformità dei valori alla verità, da cui dipende il valore morale dell’azione e dunque il carattere dell’autodeterminazione del soggetto, è il momento primo e più decisivo dell’intero percorso di formazione e, in questo senso, anche il primo compito della pedagogia.

- L’ethos del corpo è il criterio e la misura dell’azione pedagogica. Il significato sponsale della corporeità, nella duplice direzione del dono – ‹‹in cui il donare dell’uno si incontra con l’appropriata ed adeguata risposta dell’altra al dono››222 - è il sistema di riferimento essenziale nella formazione e nel giudizio dei comportamenti, delle azioni, della cultura nella loro conformità con la dignità della persona.

222 Cat.. LXI, p. 242.

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§2. Il problema dell’amore nell’Humanae vitaeLa tematica pedagogica implicita nei contenuti della teologia del corpo non è per Giovanni Paolo II un semplice risultato speculativo, ma il riflesso della preoccupazione pastorale che sottende e anima la sua riflessione: ‹‹La teologia del corpo non è tanto una teoria, quanto una specifica, evangelica, cristiana pedagogia del corpo››223. Essa rimarrebbe dunque incompleta, se si escludesse, dal piano generale che prospetta, un’autentica pedagogia, come percorso di formazione concreto della persona.Lo scopo fondamentale della teologia del corpo, già individuato nel tentativo di formulare risposte adeguate, teoriche e pratiche, ai problemi morali delle persone all’interno dell’ambito coniugale e familiare, si manifesta soprattutto nell’ultima serie di catechesi sull’amore umano, attraverso il confronto diretto con le problematiche sollevate dall’enciclica di Paolo VI, Humanae Vitae 224. Il commento di Giovanni Paolo II al documento pontificio, posto all’interno di questo percorso globale, è in grado di individuare nuove prospettive da cui poter interpretare il senso e i contenuti della lettera papale, completandoli all’interno di un’ottica personalista. Il valore di questo contributo sta soprattutto nel riconfermare gli elementi presenti nell’enciclica, assorbendoli nel nuovo impianto teologico, a partire dal quale essi riemergono giustificati nelle loro profonde radici bibliche e valorizzati nel riferimento al significato sponsale del corpo e alla dignità della persona. Per Giovanni Paolo II l’enciclica di Paolo VI risponde pienamente al carattere pedagogico della teologia del corpo, perché, promuovendo il vero bene dell’uomo alla luce della sua struttura personale, non si limita a formulare un’esposizione di carattere normativo, ma, in linea con l’orientamento del Concilio Vaticano II, espresso nella costituzione dogmatica Gaudium et spes, vuole fornire risposte adeguate agli interrogativi dell’uomo contemporaneo: ‹‹Date le condizioni della vita odierna e il significato che le relazioni coniugali hanno per l’armonia tra gli sposi e per la loro mutua fedeltà, non sarebbe forse indicata una revisione delle norme etiche finora vigenti, soprattutto se si osserva che non possono essere osservate senza sacrifici, talvolta eroici?›› 225. Questa domanda esprime la grande sensibilità col quale il pontefice ha saputo cogliere l’inquietudine dell’uomo del suo tempo e le problematiche effettive della vita coniugale nella società moderna. La consapevolezza che ricava dallo sguardo sul suo mondo, anima il suo intento pastorale e pedagogico. Su questa 223 Cat.. CXXIII, p. 466.224 Cat.. CXVIII, p. 453.225 Paolo VI, Humanae Vitae, 3.

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linea Paolo VI non si accontenta di riaffermare i principi della morale sessuale cattolica, già noti, ma vuole prospettare, all’interno di una visione concordante della legge divina con la struttura e il significato della natura umana, la possibilità di attuazione delle norme stesse. Tale corrispondenza è resa possibile dal recupero del senso autentico delle norme nel cuore dell’essere umano. L’attività propriamente pedagogica dell’ Humanae Vitae è dunque quella di rispondere alle esigenze dell’uomo, promuovendo i veri valori della persona e fornendo, al contempo, la regola di comprensione attraverso la quale il soggetto sia in grado di scoprirli in se stesso, nella loro profonda concordanza col piano divino, e di realizzarli conformemente alla propria natura, come beni propri.Seguendo l’impianto proposto dall’autore, questo capitolo sarà dedicato all’analisi dei punti cardine della struttura dell’enciclica.

- significato dell’unione coniugale: ‹‹La Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita […] Tale dottrina, più volte esposta dal Magistero, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo›› 226.In questo passaggio sono presenti due indicazioni imprescindibili: l’istituzione della norma morale propria dell’atto coniugale, l’apertura alla trasmissione della vita, e la fondazione di tale norma sul significato essenziale di tale atto: unitivo e procreativo. La struttura ontologica dell’atto determina il valore della norma e il criterio di verità su cui ogni atto possa essere misurato. Perché, tuttavia, la norma si trasformi nella personale legge interiore dell’ agire della persona, occorre che la persona stessa sia in grado di interpretare adeguatamente la natura intrinseca dell’atto coniugale, trasferendo i significati, fondati oggettivamente, nella propria coscienza, come riferimenti primari del proprio agire. Il passaggio dalla struttura ontologica dell’atto alla dimensione soggettiva e psicologica dei significati, deve compiersi conformemente al valore della norma. Ciò implica un necessario riferimento tanto della norma, quanto della struttura personale del soggetto, per il quale la norma ha senso, alla

226 Paolo VI, Humanae Vitae, 11-12.

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verità, fondamento di entrambi le dimensioni, oggettiva e soggettiva. Di fronte alla norma della morale coniugale la persona deve dunque essere capace di cogliere i due significati essenziali del proprio atto, ma anche la ‹‹connessione inscindibile ›› che intercorre tra di essi all’interno della ‹‹intima struttura›› dell’atto stesso. Da questa comprensione deriva il valore oggettivo di questi significati: ‹‹il “significato” nasce nella coscienza con la rilettura della verità (ontologica) dell’oggetto. Mediante questa rilettura, la verità (ontologica) entra per così dire nella dimensione conoscitiva: soggettiva e psicologica›› 227.I significati della norma emergono solo da una comprensione adeguata della struttura dell’oggetto della norma e, solo in tal modo, possono essere riconosciuti dal soggetto come propri e ragionevoli, secondo le intenzioni dell’enciclica: ‹‹Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere profondamente ragionevole ed umano di questo fondamentale principio››228.Il carattere di ragionevolezza che Paolo VI attribuisce alla norma esige che il principio fondante la norma stessa sia accessibile alla ragione e che dunque si radichi sulla legge naturale: ‹‹Richiamando gli uomini alla osservanza delle norme della legge naturale interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita›› 229. Questa affermazione colloca la norma dell’atto coniugale, propria della morale cristiana, all’interno della legge naturale, determinandone l’universalità e l’oggettività nella conformità che tale legge ha con la ragione umana. Al contempo, questa connessione è trasposta nella relazione tra legge naturale e tradizione magisteriale della Chiesa. Sebbene, infatti, la norma non sia espressa formalmente all’interno delle Sacre Scritture, il suo principio è adeguato alla dottrina rivelata, scaturente dall’interpretazione delle fonti bibliche: ‹‹le basi di questa conformità sono da ricercare particolarmente nell’antropologia biblica. D’altronde è noto il significato che l’antropologia ha

227 Cat. CXIX, p. 456.228 Paolo VI, Humanae Vitae, 12.229 Paolo VI, Humanae Vitae, 11.

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per l’etica, cioè per la dottrina morale. Sembra essere del tutto ragionevole cercare proprio nella “teologia del corpo” il fondamento della verità delle norme››230.Significato unitivo, espressione dell’intima comunione che i coniugi realizzano nel reciproco dono di sé, e significato procreativo, segno dell’apertura della coppia alla trasmissione della vita come risposta personale al dono dato e ricevuto nell’unione, sono dunque connessi inscindibilmente nell’atto coniugale: ‹‹per sua intima struttura l’atto coniugale, mentre unisce profondamente li sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo le leggi inscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna›› 231. Questa connessione, fondata sulla struttura ontologica dell’atto, riflette da un lato il significato oggettivo dell’ethos del corpo, come segno dell’intima vocazione dell’uomo al dono di sé e alla comunione, dall’altro, la struttura ontologica della persona stessa, che in questo ethos si realizza.A partire da queste considerazioni, il valore morale dell’infrazione della norma che determina l’illiceità dell’atto coniugale, come intervento che artificialmente scinde nell’atto i due significati che gli sono propri, non si riduce esclusivamente alla trasgressione di un precetto esteriore della morale cristiana in sé, ma ad una più radicale violazione dell’ordine morale della persona, della sua dignità e della sua vocazione autentica. La connessione tra i due significati è tale che non è possibile godere dell’uno escludendo l’altro, secondo le modalità iscritte nell’ordine naturale.

- significato procreativo: indica la disposizione dei coniugi nell’atto coniugale alla trasmissione di una nuova vita. Questo atteggiamento richiesto alla coppia si fonda innanzitutto su criteri oggettivi, ‹‹che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana›› 232. Questo

230 Cat. CXIX, p. 457.231 Paolo VI, Humanae Vitae, 12.232 Gaudium e spes, 51.

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aspetto dell’amore coniugale determina un compito particolare per l’uomo e la donna, i quali sono chiamati a collaborare in prima persona con la propria disponibilità, prima interiore e poi fisica, alla nascita di un nuovo essere umano. Il dovere della procreazione chiama in gioco la totalità delle facoltà spirituali dell’essere umano, il quale viene investito di una responsabilità “speciale” relativa all’esercizio della funzione paterna e materna. Il concetto di “paternità responsabile” è sviluppato nell’enciclica di Paolo VI sul fondamento di una visione integrale dell’essere umano e dell’amore coniugale. La realtà morale di questa dimensione investe, infatti, il giudizio della persona nel molteplice riferimento al proprio bene personale e a quello dei figli nati o che potrebbero nascere233, secondo una retta valutazione, non solo delle condizioni di vita materiali e spirituali della famiglia, ma anche del piano divino iscritto nell’atto coniugale 234. Il retto giudizio richiesto dalla responsabilità del ruolo paterno e materno esige inoltre, perché corrisponda pienamente alla realtà personale propria e degli altri individui che coinvolge, che la persona sappia maturare una visione adeguata dei molteplici aspetti che riguardano la funzione della paternità-maternità: conoscenza dei processi biologici e rispetto delle loro funzioni, controllo della sfera psicologica per mezzo del dominio della ragione e della volontà 235. Il giudizio del soggetto circa le condizioni e le ragioni che possono condizionare l’atto devono inoltre mantenere fermo il riferimento alla struttura dell’atto coniugale, il quale determina la qualificazione etica della scelta. Ciò significa che la regolamentazione della fertilità e delle nascite deve rimanere conforme al significato procreativo dell’atto e che, sebbene si sia motivati da “ragioni plausibili”, tale controllo debba usufruire delle disposizioni naturali proprie della sessualità umana, mediante il ricorso ai periodi infecondi del ciclo naturale della donna. Da questo punto di vista, è da ritenersi illecita qualsiasi forma di alterazione del processo naturale di

233 Il concetto di paternità responsabile si costituisce in relazione al bene comune in senso stretto, vale a dire il bene superiore della famiglia, in cui i beni individuali dei membri che la compongono vengono integrati.234 Cfr. Paolo VI, Humanae Vitae,10.235 Cfr. Paolo VI, Humanae Vitae, 10.

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generazione per mezzo di pratiche anticoncezionali, della sterilizzazione diretta e dell’interruzione del processo generativo iniziato (aborto). La differenza fra le due possibilità di regolamentazione, naturale o artificiale, è di natura strettamente etica e fa appello all’intrinseco valore dell’atto sessuale della coppia, all’ordine interiore della comunione coniugale e quindi, indirettamente, alla struttura stessa della persona che fonda tale ordine 236. Il significato procreativo dell’atto coniugale investe la struttura personale del soggetto il quale è chiamato a stabilire: ‹‹un adeguato rapporto tra ciò che viene definito “domino delle forze della natura” (HV 2) e la “padronanza di sé” (HV 12)›› 237. In riferimento a queste due capacità strettamente umane, Paolo VI individua una particolare tendenza dell’uomo contemporaneo a trasferire le possibilità di dominio sulla natura, prospettate dagli sviluppi in campo scientifico, al campo della persona e alla totalità dei suoi aspetti. Questo passaggio, tuttavia, minaccia la struttura stessa della persona, in quanto, astraendo dalla sua soggettività, la ripropone come oggetto di manipolazione. La conseguenza dell’intervento umano sulla propria struttura riduce il campo della sua trascendenza, lede la verità essenziale della sua natura, che non è mai riconducibile alla sola sfera delle reazioni sessuali, distorce il significato della corporeità e dunque il senso della donazione reciproca propria dell’atto coniugale. Il metodo cosiddetto “naturale” della regolamentazione delle nascite, ossia quello di conformare la scelta dell’atto alla conoscenza dei ritmi biologici della fecondità appartenenti all’ordine naturale, è corrispondente alla verità della persona e alla sua dignità, in quanto fa riferimento a due verità oggettive della stessa: in primo luogo la sua struttura soggettiva e spirituale di essere libero e ragionevole, e dunque in grado di dominare liberamente i dinamismi delle forze naturale per mezzo dell’intervento della propria intelligenza e conoscenza, in secondo luogo, l’appartenenza dei ‹‹ritmi naturali immanenti alle funzioni generative›› alla verità oggettiva del linguaggio del corpo. La conoscenza dei dinamismi generativi naturali, a differenza dello sviluppo dei

236 Cfr. Cat. CXXIII.237Cat. CXXIII, p. 467.

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metodi contraccettivi artificiali, non produce una separazione del corpo dalla verità del suo significato, per farne un oggetto astratto della propria ricerca, ma assicura che ‹‹l’integrale verità del suo linguaggi›› sia espressa in modo maturo e consapevole nelle scelte della coppia 238. Questa possibilità si radica, tuttavia, sul legame inscindibile che unisce la “paternità responsabile” e la regolamentazione della fertilità, con l’ordine morale. L’applicazione del metodo è, infatti, sempre subordinata al momento della scelta nella quale la persona è chiamata a valutare secondo “retta coscienza” la possibilità di accogliere una nuova vita. Questo significa che usufruire dei periodi infecondi, senza che ciò si fondi su una riflessione sul bene effettivo proprio e della propria famiglia e, dunque, su giuste ragioni, equivale ad intervenire meccanicamente sui ritmi dei processi generativi, rimuovendo il necessario riferimento al valore personalistico e sacramentale dell’atto coniugale, al pari di ogni altro metodo contraccettivo. Il fondamento morale della scelta indica, in ultima istanza, che l’idea di paternità responsabile non sia indirizzata unilateralmente alla regolamentazione delle nascite in senso negativo, come limitazione delle stesse, ma rimanga aperta alla possibilità contraria, come disponibilità dei coniugi, sulla base del loro giudizio, ad accogliere una famiglia numerosa.

- Significato unitivo: la persona è, in quanto tale, padrone di sé e capace di autodominio. Questa dimensione, propria della trascendenza della sua struttura, è la condizione per mezzo della quale essa può donarsi liberamente all’altro nell’atto coniugale. La libertà del dono, al contempo, costituisce la qualifica stessa di tale atto, come atto di amore, nel quale le persone realizzano la profonda e intima comunione alla quale sono chiamate nel cuore stesso della loro natura. L’atto coniugale, come espressione consapevole del significato iscritto nella propria corporeità, diviene dunque la manifestazione della verità del proprio essere. L’atto coniugale, pertanto, non può configurarsi come risultato della reazione istintiva al proprio impulso sessuale, ma come atto della persona in senso stretto: la persona

238 Cfr. Cat. CXXV.

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è chiamata a subordinare per mezzo del proprio autodominio le forze che agiscono sotto l’azione degli stimoli e delle passioni, in modo che il proprio atto possa configurarsi autenticamente come sforzo personale della propria autorealizzazione nella verità. L’integrazione delle proprie forze psicofisiche al livello della propria libertà rende l’atto conforme non solo alla verità dell’essere personale che lo compie, ma anche di quello verso cui tale atto si rivolge. L’atto sessuale, così concepito, è elevato dalla dimensione meramente corporea a quella propria dell’amore tra le persone e il “linguaggio del corpo”, espresso in esso, diviene la manifestazione della verità integrale della persona, di cui la dimensione affettiva costituisce una dimensione peculiare e una ricchezza propriamente umana. La radice essenziale del significato unitivo, espressione dell’intima vocazione della persona al dono di sé e alla comunione con le persone, è tale che l’atto coniugale sia lecito anche se praticato nei momenti di infecondità. Sebbene, infatti, significato unitivo e procreativo non siano disgiungibili per via dell’intima struttura dell’atto stesso, in questo caso viene comunque mantenuto intatto il fondamento dell’atto coniugale come realizzazione della verità e della dignità della communio personarum.

§3. Amore coniugale e castitàLa norma espressa nell’enciclica Humanae Vitae, sulla regolamentazione delle nascite, nel suo senso positivo e negativo, non è costruita su una visione “biologizzante” del corpo e dei propri ritmi generativi, quanto sul significato personalistico del suo linguaggio e sul valore etico delle sue implicazioni. La giustezza della norma è data dal riferimento alla dignità delle persone che coinvolge nella molteplicità dei suoi aspetti: del soggetto che assume tale norma come fondamento del proprio agire e della totalità degli individui che restano coinvolti in tale atto, il coniuge e i figli, già presenti o potenziali. Ma anche dal riscontro della coscienza con la verità oggettiva delle ragioni che la persona assume a fondamento della propria scelta in conformità con la norma stessa. Dal punto di vista della struttura dell’atto, il rispetto dei suoi significati essenziali si esprime nell’adeguazione dell’atto alla norma personalistica: l’atto sessuale, perché sia autenticamente atto della persona e, al contempo, pienamente atto di amore, necessita che il soggetto si riferisca all’altro nel rispetto della sua unicità, irripetibilità e dignità. Ciò significa che la persona è

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chiamata ad agire non sulla spinta incontrollata delle proprie pulsioni, ma sul fondamento del proprio autodominio e autopossesso, e che, nel suo atto, l’altra persona non divenga l’oggetto del proprio godimento, ma sia piuttosto riconosciuta e affermata nel suo valore essenziale. Il significato dell’atto coniugale, come atto di amore della persona, ci riporta alla realtà del dono di sé ed è questa l’ottica in cui la norma dell’enciclica acquista la pienezza del suo significato. In essa trova espressione il senso autentico del linguaggio del corpo, della mascolinità e della femminilità, ma anche la verità dell’essere umano di cui queste realtà sono il segno trasparente. L’amore tra le persone, su cui si fonda l’atto sessuale e la comunità coniugale, inserisce i coniugi nell’ordine della morale. Perché il loro reciproco donarsi sia l’immagine del significato incluso nel linguaggio del loro corpo, essi sono chiamati a salvaguardare l’unità dei significati del loro gesto, orientando la propria vita ‹‹ verso la pienezza del bene e perciò di ogni vero bene›› 239. Nel loro reciproco rapporto, verità del corpo e verità dell’amore, sono per la coppia il fondamento e la forza della loro unione. Solo su questa radice i due significati dell’atto coniugale sono integrati non solo nella teoria, ma come espressione spontanea della vita coniugale:‹‹ La forza dell’amore – autentica nel senso teologica ed etico – si esprime in questo, che l’amore unisce correttamente “i due significati dell’atto coniugale”, escludendo non solo nella teoria, ma soprattutto nella pratica, la “contraddizione” che potrebbe verificarsi in questo campo[…] occorre un analisi approfondita per dimostrare che non bisogna qui parlare di “contraddizione”, ma soltanto di difficoltà›› 240. Queste considerazioni e, in particolare, il ricorrere nell’enciclica del termine “difficoltà”, mostrano ancora una volta come l’amore sia per la persona e, in special modo, per i coniugi, il compito essenziale della propria esistenza. La natura dell’amore, nel suo senso teologico ed etico, esige che la persona sia padrona di sé, che sappia governare, orientare ed integrare le pulsioni sessuali proprie della soggettività psicosomatica della sua struttura. La formazione della persona inoltre, come processo di maturazione della propria capacità di autodominio e autopossesso, va di pari passo con la formazione della capacità di esprimere la verità del dono, impressa nella propria corporeità e sessualità nell’atto coniugale: è questo il senso della pedagogia del corpo, che l’uomo sia capace di amare autenticamente. Ora, ‹‹tale capacità, in quanto disposizione costante della volontà, merita di essere chiamata virtù››241e, nello specifico, prende il nome di “continenza”.239 Cat. CXXVII, p. 478.240 Cat. CXXVII. P. 479.241 Cat. CXXVIII, p. 481.

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‹‹La continenza, che fa parte della virtù più generale della temperanza, consiste nella capacità di dominare, controllare ed orientare le pulsioni di carattere sessuale e le loro conseguenze, nella soggettività psicosomatica dell’uomo›› 242. Il conseguimento di una simile disposizione richiede un impegno intenso e costante da parte della persona nell’esercizio della propria volontà ed è questo propriamente il senso della “difficoltà”, espresso poco sopra in relazione alla possibilità della realizzazione dell’unità tra i due significati dell’atto coniugale nella vita della coppia. L’esercizio della continenza all’interno della comunione tra i coniugi è la condizione dell’integrazione del loro reciproco amore a livello della persona, non solo perché, contrastando le spinte della “concupiscenza della carne”, del desiderio sessuale, impegna la volontà della persona, ma soprattutto perché, attraverso questa resistenza, la volontà e la libertà vengono orientate verso i valori più profondi e autentici della corporeità e della sessualità. In questo senso, la continenza illumina la dimensione del dono iscritta nel rapporto sessuale dell’uomo e della donna che, in tal modo, trascende il godimento carnale per riferirsi direttamente alla verità del loro amore. ‹‹Se la castità coniugale (e la castità in generale) si manifesta dapprima come capacità di resistere alla concupiscenza della carne, in seguito essa gradualmente si rivela quale singolare capacità di percepire, amare e attuare quei significati del “linguaggio del corpo” che rimangono sconosciuti alla concupiscenza stessa e che progressivamente arricchiscono il dialogo sponsale dei coniugi, purificandolo, approfondendolo ed insieme semplificandolo›› 243. La virtù della continenza, come parte essenziale della spiritualità coniugale, nella sua funzione fondamentale di garante del valore personalistico della relazione tra l’uomo e la donna, non è dunque riducibile esclusivamente alla “capacità di astenersi dai rapporti” nei casi in cui ciò si ritenga opportuno (funzione negativa della continenza), ma ha un senso più ampio e generale, di natura positiva, come espressione della padronanza di sé propria della maturità spirituale della persona, vale a dire della ‹‹ capacità di dirigere le rispettive reazioni, sia quanto al loro contenuto sia quanto al loro carattere›› 244. Il valore fondamentale di tale padronanza è, dunque, quello di integrare i due significati dell’atto coniugale, costruendo nell’interiorità della persona un equilibrio tra la spinta proveniente dallo stato di eccitazione del corpo di fronte ai valori sessuali dell’altra persona, che volge l’ “io” alla ricerca del piacere sensuale, e il movimento proprio dell’emozione che sorge dal contatto con i valori della la femminilità e mascolinità altrui, verso la realizzazione di una condivisione di 242 Cat. CXXVIII, p. 481.243Cat. CXXIII, p. 482. 244 Cat. CXXIX, p. 485.

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carattere personale. L’integrazione operata dalla virtù sulle reazioni proprie della sfera soggettiva dei coniugi nel loro rapporto amoroso fa sì che l’atto coniugale si costituisca a livello della persona nel rispetto del significato autentico e sponsale della corporeità e che, al contempo, venga, tuttavia, mantenuta e raccolta la ricchezza reattiva-emotiva della soggettività umana. In tal senso, la continenza capitalizza il potenziale soggettivo della persona, senza perdere di vista il valore essenziale della sua natura, creando il terreno fertile della comunione tra le persone.

§4. “La regola”: educazione alla spiritualità coniugaleL’interesse di Giovanni Paolo II per i contenuti dell’enciclica di Paolo VI, Humanae Vitae, affonda le sue radici già nel periodo antecedente il suo pontificato. Egli scorge nelle direttive normative in essa espresse, un potenziale pedagogico che trova un fondamento adeguato nell’antropologia strutturata all’interno della teologia del corpo, nella tradizione del Magistero, nella Sacra Scrittura e, soprattutto, nel cuore stesso dell’esperienza umana. La convinzione che Karol Wojtyla nutriva circa la possibilità di trasferire le norme della morale coniugale presenti nella lettere papale su un piano non semplicemente astratto, ma come aiuto concreto alla famiglie per la maturazione spirituale della loro unione, portò all’ideazione di un gruppo di coppie, le quali si impegnavano liberamente ad assumere, sulla linea dell’enciclica in questione, i principi morali evangelici come essenza della propria vocazione coniugale. I punti chiave del programma di questo circolo furono prospettati in un dattiloscritto, raccolto oggi presso l’arcidiocesi di Cracovia e recentemente riscoperto, intitolato “Regola per il gruppo di coppie di sposi Humanae Vitae”. Nonostante la forma concisa ed essenziale della “Regola”, il suo scopo emerge con chiarezza: promuovere, a partire dalle esperienza delle coppie, un cammino di vita spirituale, conforme alla norme della morale cristiana e all’integralità dell’insegnamento evangelico. Il senso di questo percorso è, per Wojtyla, quello di fornire delle prospettive concrete, all’interno delle quali le coppie contemporanee potessero realizzare nella loro vita coniugale un matrimonio “autenticamente cristiano”, da un lato riflettendo sulle modalità pratiche con cui poter applicare i contenuti delle norme evangeliche, dall’altro maturando, con il proprio impegno e sforzo personale, un’“adeguata spiritualità”, non solo individuale ma della coppia stessa, che muova interiormente i coniugi alla realizzazione dei valori inclusi nelle norme, come principi fondamentali della propria relazione. La centralità del problema dell’amore all’interno della comunità matrimoniale, realtà essenziale, ma non per questo scontata, si configura come compito della

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coppia e, di conseguenza, della persona. L’uomo e la donna sono chiamati, nella loro relazione, a maturare una vita spirituale interiore adeguata alla loro unione. Il senso della regola e, più in generale, della Humanae Vitae, è quello di fornire gli elementi necessari per una valida preparazione matrimoniale. In “Riflessioni sul matrimonio”, Wojtyla individua due elementi necessari alla costruzione di una simile propedeutica: che sia fondata sulla conoscenza di tutto ciò che riguarda il tema della vita sessuale nei suoi molteplici aspetti, attingendo alle ricchezze che la scienza fornisce in merito nella psicologia, fisiologia, sociologia, etc, e che, al contempo, il criterio primo e ultimo nel quale i dati della conoscenza devono essere integrati e interpretati, sia la persona nella sua totalità.Nel riferimento alla visione integrale dell’essere umano, la propedeutica matrimoniale collima con l’etica, la quale, muovendo dalla verità dell’essere umano, non solo si rapporta al suo oggetto a partire da ciò che è, ma illumina, al tempo stesso, ciò che dovrebbe essere. Questo duplice orientamento mediante il quale etica e propedeutica si rivolgono tanto alla verità dell’essenza, quanto all’ethos interiore dell’uomo, costituisce la base dell’integrazione di ogni aspetto dell’amore umano nell’ordine universale della persona. La formazione della spiritualità dei coniugi, rimanda, dunque, al campo della morale e, in questo senso, la virtù diviene nuovamente il punto centrale su cui costruire la pedagogia della coppia: ‹‹La propedeutica al matrimonio, ovvero l’educazione delle persona alla maturità necessaria alla vita di coppia è, in linea di massima, una questione di virtù›› 245.E’ già stato detto come questa maturità sia, per Wojtyla, il frutto di un impegno personale volto a riscoprire il senso autentico della propria vocazione, impressa nel significato sponsale del corpo e della propria sessualità. Questo traguardo, che richiede alla persona la capacità di rientrare in se stessa per possedersi pienamente, è il risultato di un indubbio sforzo ascetico e si concretizza solo nella pratica della virtù. Che la persona sia resa consapevole di questo percorso e che sappia riscoprire i valori essenziali che la guidano in esso è la preoccupazione propria di Wojtyla e del suo impegno pedagogico-pastorale.Ritengo che la teologia del corpo, brevemente introdotta nel primo capitolo di questa parte, vada letta e interpretata in questa specifica ottica. La conoscenza dell’uomo, come più volte affermato nei suoi scritti, deve essere sempre subordinata ed integrata all’affermazione del suo valore e, dunque, sempre

245 K. Wojtyla, Riflessione sul matrimonio, in Bellezza e spiritualità dell’amore coniugale, a cura di Grygiel L, Grygiel S. Kwiatkowski P., Cantagalli, Siena, 2009, p 43.

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finalizzata a fornire all’uomo stesso gli strumenti essenziali perché egli sia capace di ritrovare se stesso nella verità. La teologia del corpo acquista il suo senso in vista del suo fine e in relazione ad esso si configura come una adeguata ed evangelica pedagogia.

CONCLUSIONEL’esperienza del corpo è forse la più originale e più elementare che l’uomo possieda. Fin dal momento della nascita egli vive il proprio corpo, non come una sostanza separata, ma in quell’intima unità di vita che lo apre al mondo in un modo unico e personale: gli occhi raccolgono sagome e volti dai contorni sfocati, suoni e voci familiari acquistano nitidezza, l’odore della madre, il gusto caldo del suo seno, la sua carezza, primo, incommensurabile gesto di amore. Tutto questo il corpo assorbe in pochi istanti di vita e proietta l’uomo nel suo mondo, segnando l’inizio della sua storia. Il corpo del bambino appena nato non è un semplice corpo vivo, ma un corpo già vissuto dal di dentro, mediante il quale l’ “io” comincia non solo a esprimersi nei modi più elementari, ma avvia un processo continuo di formazione di sé e delle proprie esperienze, che seguirà fino alla morte. Ora, è certamente vero che il corpo della persona, soprattutto quello del neonato, in cui ancora non sussiste un pensare o un agire cosciente, segue ritmi e funzioni strettamente biologici in modo più o meno deterministico, ritenere, tuttavia, che il suo significato si riduca a quello di organismo, è tutt’altra cosa. La carica dei contenuti che il corpo veicola all’interno della persona, già nel suo venire alla luce, rende, dal mio punto di vista, una simile riduzione alquanto fuorviante. Allo stesso tempo, la ricchezza di questi dati, altrimenti inattingibili per l’ “io”, spinge a pensare la realtà della persona come un tutto, unico e complesso.Ho voluto ripercorrere il pensiero di Wojtyla all’interno di questa tesi proprio per cercare di riscoprire il senso autentico della corporeità umana, così compromesso dalle tendenze spiritualiste e materialiste del pensiero moderno. Il suo contributo, ritengo, sia stato quello di aver saputo elaborare una riflessione coerente intorno alla persona, da cui il valore del corpo emerge spontaneamente, assumendo una centralità assolutamente unica e originale. Innanzitutto, per Wojtyla, il corpo è segno della persona: non esclusivamente la manifestazione esteriore dell’intima struttura dell’organismo, ma l’espressione autentica della sua identità.La correlazione tra persona e corpo è un fatto evidente che sorge dall’esperienza vissuta che l’uomo ha dell’altro e di sé, nel contatto con l’altro. Quando la

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persona entra in rapporto diretto con un’altra, il corpo rappresenta ciò che, in senso stretto, stabilisce il contatto. A partire dalla sua immagine esteriore la persona che si ha di fronte è riconosciuta come tale, nella sua identità. Rivolgendosi al suo corpo, tuttavia, l’”io” non si sofferma su di esso come su un oggetto, ma, per la capacità propria del corpo di rivelare la persona, indirizza immediatamente il soggetto verso il soggetto che anche l’altro è. Quando per strada riconosco una persona, ciò non avviene per qualche misteriosa trasmissione empatica. Ciò che si riconosce è il suo volto, la sua figura, nella quale, tuttavia, è l’identità personale ad essere colta. Quando, al contempo, questa stessa persona entra in relazione col mio corpo, il vissuto contenuto in questa esperienza, si riconduce immediatamente alla profondità del mio “io”. Il contatto con l’altro non si esaurisce, infatti, al livello fisico esteriore, ma rimanda alla totalità della persona. “Chi mi ha toccato?”, esclama il soggetto, e non semplicemente “Chi ha toccato il mio corpo?”. All’interno di queste due esperienze vissute, comuni, anzi quotidiane, il corpo è vissuto dal soggetto non come un semplice possesso, ma come il segno della propria identità personale. Il carattere personale del corpo fa sì che anche il suo linguaggio lo sia. Ogni gesto umano, ogni comportamento, non è una semplice manifestazione esteriore del corpo, ma ha un proprio contenuto specifico, oggettivo, il cui correlato è nella persona stessa. La capacità che il corpo ha di esprimere gli stati emotivi attuali dell’ “io”, è, per esempio, il contenuto delle più familiari esperienze che l’uomo vive tutti i giorni. Un sorriso o un volto contratto dal dolore sono dati oggettivi dell’esperienza che l’uomo ha dell’altro, in cui il soggetto è facilmente in grado di leggere, al di là della semplice espressione somatica, il significato che essa veicola e che fa direttamente riferimento al particolare vissuto psichico e spirituale della persona. Il carattere universale e oggettivo del linguaggio del corpo, accessibile ad ogni uomo, di qualsiasi latitudine o tempo, si radica sull’unità sostanziale fra corpo e persona. Su questo fondamento il “corpo rivela la persona” in senso profondo: non solo manifestando oggettivamente e sensibilmente ciò che proviene dall’interiorità soggettiva dell’ “io”, ma svelandone il valore ontologico e morale. Il contenuto oggettivo del corpo è, dunque, la verità della persona e del suo ethos interiore. Nell’esperienza del proprio corpo l’uomo, infatti, fa esperienza di sé e della propria trascendenza. All’interno della fondamentale unità di vita che lo lega al proprio corpo, il soggetto si esperisce come colui che è anche in grado di possederlo, di agire e determinarsi attraverso di esso. In questa esperienza, in un certo senso posteriore all’esperienza dell’unità tra “io” e

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corpo, la persona si rivela a se stessa in quanto tale, come colei che solo si possiede e che, al contempo, è costantemente chiamata a possedersi. L’esperienza del corpo, tuttavia, è anche l’esperienza dell’assoluta contingenza del proprio essere. Il costante orientamento verso l’altra persona, che l’uomo sperimenta, in particolare attraverso la propria sessualità, svela un profondo bisogno dell’ “io”, che muove dall’interno la propria natura verso il suo completamento. La persona si esperisce, così, come colei che solo possiede se stessa, ma che in questo autopossesso e autodominio, non si basta. La dimensione sessuale, espressione di un radicale desiderio di unità, ha una profonda valenza antropologica e ontologica che conduce l’ “io” alla consapevolezza del suo ethos interiore: la persona è fatta per amare. L’incontro con l’altro sesso inaugura la dimensione del dono di sé, quale realtà sostanziale della persona nella quale essa scopre, nell’attuazione cosciente delle proprie potenzialità spirituali, il senso della propria esistenza. E’ questo il significato originario e radicale del corpo, quello che Wojtyla definisce “sponsale”. Il valore oggettivo di questo significato si fonda sulla struttura stessa della persona, la quale sperimenta, sulla base del suo autopossesso e autodomio, la sua massima potenzialità personale nella capacità di donarsi liberamente alla persona che ha di fronte. La possibilità del dono, come facoltà strettamente personale, in cui la persona è in grado di realizzare se stessa, nella sua pienezza, è, tuttavia, il riflesso della contingenza esistenziale dell’essere umano. L’esperienza della finitezza del corpo coincide, infatti, con il riconoscimento del valore della propria esistenza, la quale non si dà come necessaria, ma come qualcosa che è stato ricevuto. Il corpo rivela così, in ultima istanza, il senso metafisico della persona: l’essere della persona è, innanzitutto, un dono che viene dall’Alto, dono di Chi ha chiamato l’uomo all’esistenza, imprimendo nella sua natura l’eco profondo di questa donazione. I vari livelli attraverso il quale il corpo diviene il segno visibile della vita interiore della persona costituiscono la realtà sacramentale di questa dimensione umana. Percorrendoli, a partire dalla propria esperienza, la persona è in grado di raggiungere il cuore del proprio essere e il senso della propria esistenza. E’ questo lo scopo principale di Wojtyla nei testi che sono stati trattati in questo lavoro: tracciare la strada che, dall’analisi dell’esperienza concreta dell’uomo, conduca la persona al riconoscimento del proprio essere e del proprio dover essere, in modo che possa conformarvisi. La persona, in quanto tale, è chiamata a rispondere della propria umanità; è responsabile, innanzitutto, di fronte a se stessa, della propria realizzazione. La metafisica dell’amore, delineata dall’autore, è dunque, primariamente, una pedagogia, che dirige l’uomo alle

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forme autentiche del proprio esistere. E’ questa l’ottica con la quale ho voluto accostarmi alle sue opere e la prospettiva che lascio al lettore, perché possa verificarne l’autenticità nell’esplorazione sincera della propria esperienza.

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RingraziamentiLa storia di questa tesi è costellata dall’impegno e la dedizione quotidiana di tante persone, alle quali non posso non ritornare col pensiero prima di concludere questo lavoro, che è tanto mio, quanto loro.Il mio primo ringraziamento va a mio marito Simone, sorgente della mia energia, sostegno nello sconforto, che non ha mai cessato di incoraggiarmi e credere che, in fondo, qualsiasi cosa faccia, sia fatta per bene. Per lui è una convinzione, per me è “solo” amore, tutto l’amore di cui ho bisogno.Al mio ometto Nazareno e alla dolce Maddalena. E’ nei loro grandi occhi e nei loro sorrisi gratuiti che ogni mattina ho trovato il senso della mia fatica e il coraggio che la vita richiede. A mio padre Giovanni e a mia madre Veronica, per avermi dato l’opportunità di avvicinarmi agli studi universitari, per avermi sostenuto moralmente e materialmente nel loro corso, per avermi insegnato l’importanza di perseguire gli obiettivi prefissati con impegno.A mio suocero Bruno (se la tesi fosse scritta in chilometri, allora il nome nell’intestazione dovrebbe essere il suo) e a mia suocera Rita: nonni infaticabili e premurosi.Al Professore Furio Pesci, per la disponibilità e la fiducia accordatami in questi anni, per il tempo investito in ogni momento della ricerca. Al Professor Josè Noriega, per il prezioso aiuto che le sue competenze hanno apportato nella realizzazione di questo lavoro, per la fiducia mostratami, per il tempo e la dedizione che mi ha concesso nel periodo di preparazione a questa tesi. A Silvia, che in tutti questi anni di studi e di vita trascorsi insieme, è sempre stata una consigliera affidabile e un’amica sincera.A Don Riccardo e alla mia comunità, per la preghiera incessante con la quale mi hanno sostenuto.A Don Paolo, amico e padre. Se non avesse fatto l’errore di prestarmi il suo libro, il progetto di questa tesi non sarebbe mai nato.