Dean & Me (Una Storia d'Amore)

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Jerry Lewis si racconta in un'autobiografia che, finalmente, svela i retroscena del sodalizio con Dean Martin.

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Jerry Lewis

DEAN & MEUNA STORIA D’AMORE

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Jerry Lewis e James KapLanDean & me.(Una sTOria D’amOre)

TraDUZiOne di Tiziana Lo porto

TiTOLO originale:Dean & me.(a Love story).

Copyright © 2005 by Jerry Lewisprefazione di Gary Lewis © Gary Lewis, 2010prefazione di … © ..., 2010immagini © Getty imagesTutti i diritti riservati

Copyright © sagoma, 2010

Original publisher DOUBLeDaya disivion of random House, inc.DOUBLeDay is a registeredTrademark of random House, inc.Tutti i diritti riservati

Largo pontida, 1820059 Vimercate (mB)Tel. +39 039 5967800Fax +39 039 [email protected]

i edizione: giugno 2010isBn 978-88-6506-007-0

www.libri.sagoma.com

Indice

prefazione di Gery Lewis iX

prologo 1

Cap. 1 Primo movimento 17

Cap. 2 Poche parole possono cambiarti la vita? 21

Cap. 3 “Prendimi” 35

Cap. 4 Entra in scena il demone 45

Cap. 5 Il mio cuore non è sulle Highlands 51

Cap. 6 Uno yankee all’Old Vic 55

Cap. 7 Sfumature di grigio 59

Cap. 8 Don Giovanni a New York 65

Cap. 9 Il momento peggiore, il momento migliore 71

Cap. 10 Madre coraggio 83

Cap. 11 Il sapore della libertà 93

Cap. 12 Il re è morto. Lunga vita al re! 99

Cap. 13 “Finalmente libero, finalmente libero. Grazie

Margie Wallies. Sono libero finalmente” 105

Cap. 14 Scusi se sono entrato mentre era con

quella ragazza 119

Cap. 15 Secondo movimento. Springtime for Hitler 125

Cap. 16 Il nero è il mio colore preferito 135

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Per Dani, la giovane signora che è l’aria nei miei polmoni, e per la sua giovane madre,

che è il battito del mio cuore, grazie a entrambe per avermi portato qui.

Cap. 17 Una ragione c’è, ma non so qual è 145

Cap. 18 New York, New York 155

Cap. 19 La nascita del mostro 169

Cap. 20 Le Petit Prince 177

Cap. 21 Sherlock Holmes ha un fratello ebreo 189

Cap. 22 Crisi in bianco e nero 195

Cap. 23 Leo Bloom si è fatto fotografare 205

Cap. 24 Sidney Poitier ed io: nessuno ci può fermare 219

Cap. 25 Hanky-Panky con Roseanne Roseannadanna 225

Cap. 26 Non credo nel destino 247

Cap. 27 Terzo movimento 255

Cap. 28 Attrice comica – ballerina 1946-1989 267

Cap. 29 Ce n’è sempre una! 275

Cap. 30 Baci rubati 289

epilogo 293

ringraziamenti 295

note biografiche 297

indice analitico 299

Le sagome 306

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PREFAZIONEdi Gary Lewis

Quanto mi manchi zio Dean

Dal 1956 la gente non ha mai smesso di chiedermi perché mio padre Jerry Lewis e Dean martin avessero rotto. Questo libro dovrebbe rispondere in modo esaustivo alla domanda, anche se credo sarebbe più giusto chiedere: “Come hanno fatto Dean mar-tin e Jerry Lewis a stare insieme dieci anni?” Le cose più evidenti che zio Dean e mio padre avevano in comune erano i loro talenti individuali, e un irrefrenabile desiderio di intrattenere il pubblico. anche se Dean martin non fosse mai diventato una star avrebbe comunque cantato in piccoli night club e registrato di tanto in tanto un disco. papà, da parte sua, non avrebbe mai potuto fare a meno della celebrità. il suo ego non gli avrebbe mai permesso di accontentarsi di qualcosa di meno. perché una coppia comico-musicale abbia successo dev’esserci contrasto tra i due partner. il contrasto tra Dean martin e Jerry Lewis fu fruttuoso, e fu tanto la chiave del loro straordinario successo quanto la causa della loro rottura. Che fossero sul palco di un night club, ospiti di un pro-gramma radiofonico, o a recitare in un film, la singolare chimica tra martin e Lewis eccitava, entusiasmava e deliziava le platee. La coppia comico-musicale diventò celebre letteralmente in una notte, ancor prima della loro prima apparizione televisiva.

Vengo da una famiglia con una lunga tradizione teatrale. i miei nonni, Danny e rae Lewis, erano dei performer di successo del

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vaudeville. Quando papà incontrò patti palmer, la futura signora Lewis, lei era già una cantante affermata. Quando aspettava me, mamma continuò a cantare con le orchestre: fino al settimo mese di gravidanza. e quando si sposarono fu mamma a essere la prima partner italiana di papà! molti anni dopo mamma tornò nel mon-do della musica, come prima manager della mia band rock’n’roll famosa in tutto il mondo: Gary Lewis and the playboys.

Da bambino mio padre passò diverse estati con i suoi nei ce-lebri resort delle Catskill mountains, nello stato di new york. malgrado fosse alquanto giovane imparò il mestiere guardando attori, cantanti e ballerini esperti che si esibivano negli alberghi. per un po’ lavorò servendo il tè nella sala ristorante di un alber-go, ma venne presto licenziato perché invece di servire ai tavoli faceva il buffone con i clienti dell’albergo. Fu allora che iniziò a mettere in piedi il suo numero. Usando la sua faccia espressiva e il corpo dinoccolato Jerry Lewis iniziò la sua carriera nello showbusiness mimando e canticchiando mentre muoveva le lab-bra in sincrono con le canzoni di altri. La sua grande occasione arrivò in un night club di atlantic City, dove si stava esibendo. Una sera che il cantante dello spettacolo si ammalò, papà se-gnalò Dean martin come rimpiazzo. millantò al proprietario del locale che lui e Dean martin si esibivano in coppia e facevano dei numeri divertenti. papà ha sempre avuto un modo tutto suo di “colorare la verità”. in realtà martin e Lewis non s’erano mai esibiti sullo stesso palco, anche se erano stati in cartellone insieme. Jerry Lewis accantonò il numero dei dischi e interagì sul palco insieme a Dean martin. e come per magia la cosa funzionò. Fu lì che cominciò la storia di martin e Lewis.

io sono nato nel 1945, un anno prima che martin e Lewis diventassero famosi. La mia vita è stata per molti versi specu-lare a quella di mio padre. papà esordì sul palco a cinque anni,

Una Coca-Cola e due cannucce e le risate sono assicurate: qui martin e Lewis nel 1955 con uno dei loro tradizionali sketch.

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padre per tutto il 1965 come suo manager personale e produt-tore. Le star del cinema Tony Curtis e sua moglie Janet Leigh venivano spesso da noi e presero parte ai filmini buffi che papà girava in casa con se stesso, i membri della famiglia e i suoi amici famosi. e questa casa cinematografica “domestica” ven-ne affettuosamente chiamata Gar-ron productions prendendo il nome da quelli di mio fratello ron e mio.

i figli delle celebrità si portano addosso un’immensa respon-sabilità. nel mio caso mi sono ritrovato spesso a difendere mio padre quando riceveva critiche negative. Tenete a mente che Jerry Lewis sul palco e al cinema interpretava la parte di un buffo bambino di nove anni. più di una volta mi sono ritrovato a fare a botte con i miei compagni di classe che criticavano mio padre perché non capivano che era un attore straordinario calato in un ruolo. ricordo anche che andavo al cinema a vedere i film di martin e Lewis perché mi divertivo a sentire le reazioni del pubblico quando scoppiava a ridere per le loro buffonate. spesso mi sedevo accanto a qualcuno che non aveva idea che il pazzo sullo schermo fosse mio padre. e ne andavo molto fiero.

Quando martin e Lewis misero fine alla loro partnership tutti pensarono che papà avesse fatto bene, ma dubitavano che De-an martin ce l’avrebbe fatta da solo. papà sentiva l’esigenza di farcela da solo, e anche lo zio Dean. i due ex partner si presero a cazzotti a mezzo stampa, mostrando le loro insicurezze e fru-strazioni. e fu per tutti un sollievo quando fu chiaro che martin e Lewis ce l’avrebbero fatta anche da soli. Quando Il Delin-quente Delicato,1 il primo film che papà fece da solo, diventò un campione di incassi, papà ritornò a fare il matto in casa, il caos tornò tra noi e la vita riprese a essere “normale”. mamma

1 The Delicate Delinquent, regia di norman Taurog (1955).

andando in scena con i suoi. La mia prima apparizione in scena di cui si ha testimonianza fu anch’essa quando avevo cinque anni. in una rara foto del 1950 che mamma ha conservato sono su un palco di Chicago, tenuto in braccio da Dean martin per arrivare al microfono. papà e io avevamo entrambi vent’anni quando siamo diventati delle star. papà con Dean martin, e io con la band Gary Lewis and the playboys.

Crescendo ho visto mio padre e zio Dean insieme nei tempi felici e in quelli tesi. nel 1949 mamma e papà fecero armi e ba-gagli per lasciare il nostro appartamentino di newark, nel new Jersey, e trasferire la nostra famiglia in una casa in affitto in California che era appartenuta all’esotica star del cinema maria montez. e visto che casa nostra era sempre affollata di attori, musicisti e produttori, ero convinto che tutti i bambini avessero amici famosi e genitori che lavoravano nel cinema. Lo zio Dean spesso veniva a trovarci con in mano il suo leggendario drink. e mi divertivo da morire quando portava i suoi figli, Claudia, Deana, Gail e Craig. andavamo fuori in cortile mentre i nostri padri restavano in casa a discutere di affari. e che sbandata che mi presi per la seconda moglie di Dean, Jeanne! era così bella, e per lei ho provato cose di cui i bambini non hanno il coraggio di parlare.

e mentre la fama di papà cresceva, cresceva anche la famiglia, e di lì a poco ci trasferimmo nella “Grande Casa”. era enorme e tutta Hollywood veniva a trovarci. Quando avevo cinque anni ero affascinato dalla batteria e il leggendario batterista ameri-cano Buddy rich mi diede qualche lezione alla batteria di mio padre. Uno dei nostri ospiti fissi era ernie Glucksman, che nel 1950 diventò produttore esecutivo e direttore della celebre se-rie televisiva di martin e Lewis The Colgate Comedy Hour. a seguito della rottura tra martin e Lewis ernie rimase con mio

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DEAN & ME

mi spiegò che la vita cambia e la gente prende strade diverse. anche se ai fan mancava la loro coppia di attori preferita, mar-tin e Lewis, il mio vero dispiacere era che zio Dean non fosse più parte della nostra famiglia e della nostra vita. mi mancava allora, e mi manca ora.

La cosa che mi colpì di più di quei due è che, per quanto liti-giosa fosse diventata la loro relazione, non delusero mai il loro pubblico. per riuscirci dovettero essere dei grandi attori, e in tutti gli anni a venire i loro fan non riuscirono mai a capire come due persone che sembravano amarsi così tanto avessero potuto dirsi addio per sempre. a rallegrarmi oggi è il fatto che zio Dean e mio padre sono diventati delle star amate in tutto il mondo anche se quel giorno le loro strade si sono separate per sempre.

Gary LewisAprile 2010

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La gran parte del mondo là fuori non aveva alcuna idea della voragine che si era creata tra di noi, e noi continuavamo a fare soldi come la Zecca di stato. ma era inevitabile: il tempo aveva fatto il suo corso. nel più tranquillo e pratico dei modi, Dean e io decidemmo di uscire allo scoperto.

La notte di martedì 24 luglio del 1956 – a dieci anni dalla no-stra prima apparizione insieme al 500 Club di skinny D’amato ad atlantic City – ci esibimmo nei nostri ultimi tre spettacoli, al Copacabana, sulla sessantesima est a manhattan.

La serata acquisì in fretta l’imponenza di un grande evento. Del resto, in quell’ultimo decennio, martin e Lewis avevano incantato l’america e il mondo. eravamo stati amati, idolatrati, contesi. e adesso stavamo rompendo l’idillio.

La lista delle celebrità invitate a questa serata delle serate non faceva che crescere. a circa mezz’ora dall’inizio dello show Dean e io non avevamo molto da dirci. sarebbe stata una nottataccia, ma sapevamo entrambi che non potevamo permetterci di essere sciatti o poco professionali. per cui avevamo in mente di divertirci, se possibile, e di fare il miglior spettacolo che ci riuscisse.

Verso le 19.35 attraversai il corridoio diretto alla suite del mio partner solo per dirgli che mi serviva del ghiaccio. Dean aveva

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sempre del ghiaccio. andai verso il bar e me ne versai un po’ nel bicchiere. Lui mi guardò consapevole: provava quello che provavo io e non c’era granché da spiegare. arrivai fino alla porta e quindi gracchiai: “Buono spettacolo, paul” (paul era il suo secondo nome, e io lo chiamavo sempre così). e lui: “anche a te, ragazzo”.

Uscii in corridoio e pensai che mi si sarebbe spezzato il cuo-re. stavo perdendo il mio migliore amico e non sapevo perché. e anche se lo avessi saputo, che differenza avrebbe fatto? Col senno di poi penso che visto che doveva accadere, quantomeno accadde in fretta. mariti e mogli ci mettono anni a separarsi, o rimangono insieme per le ragioni sbagliate.

Dean e io sapevamo che dovevamo riappropriarci delle nostre vite, e che lavorare insieme non funzionava più. per quanto suoni sentimentale, avevamo goduto entrambi della benedizione di Dio ma alla fine anche Lui aveva detto: “Basta!”

Credo che entrambi fossimo quasi del tutto consapevoli di quanto stava succedendo. È solo che avevamo paura, e non vo-levamo che si sapesse. paura di dove saremmo andati e di che cosa avremmo fatto. C’eravamo abituati al nostro favoloso stile di vita. avrebbero continuato a chiederci autografi? saremmo riusciti a fare qualcosa l’uno senza l’altro? saremmo stati ac-cettati nel momento in cui fossimo diventati diversi da quello che eravamo?

Dean aveva quel suo modo sorprendente di far sembrare anche le cose peggiori non così brutte. non è che negasse la realtà, è solo che a lui non sudavano mai le mani. Comunque si mettesse-ro le cose, Dean riusciva a far sembrare che tutto stesse andando esattamente come aveva previsto.

e invece bastava un’occhiata alla mia faccia per leggerci tut-to: disperazione, gioia, felicità, dolore. mio padre mi chiamava ‘signor neon’. e aveva ragione. Lasciavo sempre che gli altri capissero che cosa provavo. se avessi fatto diversamente mi sa-

rei sentito un bugiardo. per quanto dolorosa, la verità è sempre stata per me la più grande alleata e l’unica via percorribile. Dean riusciva a mentire per non ferire gli altri. a me risultava molto difficile farlo.

Beh, comunque ci sentissimo, il mio socio e io avevamo an-cora i nostri ultimi tre show da fare al Copa, ed era arrivato il momento di affrontarle.

io entravo in scena sempre prima di Dean, facevo il mio nu-mero e lo presentavo. Lui nel frattempo se ne stava al piano di sopra del Copa, ad accogliere la gente e a fare il simpatico mentre io ero sul palco a preparare il pubblico al suo ingresso. ma quella notte, quando arrivò per me il momento di dire: ed ecco il mio socio, Dean martin, le parole mi si bloccarono in gola. L’aria era satura dell’intensità del momento: il pubblico, costellato di celebrità, sapeva che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui avrei pronunciato quelle parole e probabilmente spe-rava che all’ultimo minuto ci ripensassimo. C’era un’atmosfera di inquietudine e incertezza. io stesso non sapevo se le potenti vibrazioni dentro il Copa fossero buone o cattive. Bisognava fare questo primo spettacolo per scoprirlo.

e così Dean venne fuori, come faceva sempre: apparente-mente tranquillo, con l’aria rilassata. ma io conoscevo il mio socio. i suoi occhi mi dicevano che provava lo stesso dolore e la stessa perplessità che provavo io.

Ci stringemmo la mano come facevamo sempre, anche se questa volta si sentì un mormorio attraversare la sala. “Forse c’è una possibilità?”

il mormorio vibrò nell’intero edificio.Dean fece le sue tre canzoni senza grandi colpi di scena, più

o meno come le faceva sempre, e dopo io iniziai con la solita routine. “È bello che tu abbia ridotto a undici le tue canzoni. stavo per andare a rifarmi la doccia! Fuori non c’è scritto Dean Martin, punto, c’è scritto Dean Martin e Jerry Lewis! Te lo sei

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scordato, o hai paura di restare disoccupato?”erano le solite battute di sempre, ma quella notte ogni frase

pesava più del solito. andammo avanti, sapendo che presto sa-rebbe finita. ancora due spettacoli, e poi basta.

procedemmo sparati e arrivammo all’ultima canzone dello spettacolo, “pardners”.1

You and me, we’ll always be pardnersYou and me, we’ll always be friends2

Ora, cantare quella canzone poteva essere un errore perché, una volta cantata, avrebbe tolto ogni dubbio al pubblico: era finita, e loro erano lì che guardavano l’ultimo numero prima della fine. Terminammo la canzone, e l’applauso fu assordante.

Finimmo il secondo spettacolo, e il terzo cominciava alle due e trenta in punto. Dean e io lo sapevamo: Ci siamo! L’ultima volta, mai più, è finita.

era come sentirsi strozzare senza che nessuno ti stringa la gola. ma eccoci. sono le due e venticinque e Dean è in piedi al suo posto in fondo alle scale, a destra del palcoscenico. anche io sono in piedi in fondo alle scale, a sinistra del palcoscenico. Le Copa Girls ci passano vicino mentre finiscono il numero di apertura e anche loro hanno le lacrime agli occhi. invece di correre ai loro camerini, se ne stanno a guardare in piedi lungo le scale, sui due lati del palcoscenico. avevano sentito tutti la campana a morto, e volevano esserci.

e noi andammo avanti e uccidemmo tutti, compresi noi stessi. eravamo crollati entrambi prima ancora di arrivare a “pardners”, e non la cantammo neanche così bene, ma la can-

1 Pardners (in italia Mezzogiorno... di Fifa) è anche il titolo del film con Lewis e martin diretto da norman Taurog uscito nelle sale di new york il giorno suc-cessivo al loro ultimo spettacolo, e in tutti gli states il 1° agosto 1956. [n.d.r]

2 “Tu e io, saremo sempre soci / Tu e io, saremo sempre amici”. [n.d.t.]

tammo comunque, e nell’alzarsi per celebrare tutto ciò che avevamo fatto, il pubblico sapeva che era finita. Ci furono urla, lacrime, applausi. sembrava la notte di Capodanno, anche se era ancora luglio.

Dean e io ci dirigemmo verso l’ascensore, allontanando quelli che si avvicinavano. Quando le porte si chiusero, ci abbracciam-mo, lasciando che la diga cedesse. arrivammo al nostro piano, e grazie a Dio non c’era nessuno in giro. andammo nelle nostre suite e chiudemmo le porte. presi il telefono e chiamai Dean.

“ehi, amico”, disse. “Come va?”“ancora non lo so. C’è una cosa che voglio dirti: insieme ce

la siamo spassata, no, paul?”“Continueremo a spassarcela”.“Già, beh, stammi bene”.“anche tu, pardner”.riagganciammo e chiudemmo il libro di quei dieci anni gran-

diosi, tolti gli ultimi dieci mesi. Quelli erano stati tremendi. Dieci mesi di sofferenza e rabbia, incertezza e dolore.

adesso era tempo di rimettere insieme i pezzi. non sarebbe stato facile…

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nell’era di Truman, eisenhower e Joe mcCarthy noi liberam-mo l’america. nei dieci anni che seguirono la seconda guerra mondiale, Dean e io non solo diventammo il fenomeno di mag-giore successo nello showbusiness, ma facemmo la storia.

se non lo sapete, l’america del Dopoguerra era una nazio-ne parecchio morigerata. a condurre i programmi radiofonici c’erano dei censori, i presidenti portavano il cappello, le signore indossavano i bustini. noi saltammo fuori dal nulla: nessuno si aspettava niente che fosse come martin e Lewis. Un tizio di bell’aspetto e una scimmia: ecco come ci vedeva certa gente. in un’epoca di autorealizzazione freudiana, noi fummo l’esplosione dell’es dello showbusiness.

Come Burns e allen,1 abbott e Costello,2 Hope e Crosby,3 noi eravamo i cosiddetti vaudevillian, gli artisti del palcoscenico che si esibivano insieme al pubblico. anche se c’era una bella

1 Coppia comica composta da George Burns e da sua moglie Gracie allen, attivi tra gli anni Venti e i sessanta. [n.d.r]

2 william abbott e Lou Costello, attivi come coppia tra gli anni Trenta e i Cin-quanta, e noti in italia come Gianni e pinotto. [n.d.r]

3 Bob Hope e Bing Crosby: insieme hanno interpretato undici pellicole dal 1940 al 1962, compresa la serie Road to... [n.d.r]

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differenza tra noi e tutti gli altri. Gli altri avevano un copione. noi ci esibivamo senza, come fanno i bambini quando giocano, o i musicisti jazz quando improvvisano. e nell’attimo in cui nei night club davamo inizio allo spettacolo, il pubblico si innamo-rava di noi. Come disse alan King4 qualche anno fa in un’in-tervista: “sono stato nello showbusiness per cinquantacinque anni, e fino a oggi non ho visto niente che facesse più ridere di martin e Lewis. Loro non facevano solo ridere: loro scatenavano il pandemonio. La gente si sdraiava sui tavoli”.

Come molti divertimenti che esplodono all’improvviso, anche noi capitammo quasi per caso.

era una frizzante giornata del marzo 1945 nel centro di man-hattan. io avevo appena compiuto diciannove anni, e mi sentivo immortale. riuscivo a sentire l’elasticità delle gambe e l’aria nei polmoni. La seconda guerra mondiale stava per finire, e new york pullulava di eccitazione. Broadway era intrisa di odori cit-tadini: tubi di scappamento di autobus e taxi; noccioline arrosto e hot dog caldi; e più eccitante di tutti, il profumo di belle donne. il centro brulicava di magnifiche pollastrelle! segretarie, ragazze in carriera, ragazze dell’alta società con cagnolino al seguito: sfi-lavano tutte lì davanti, tic tac, tic tac, facendomi balzare il cuore ogni dieci passi. io ero un giovanissimo sposino, con una moglie molto incinta che era tornata a newark. ma avevo gli occhi, e guardavo. e guardavo. e guardavo.

stavo camminando col mio amico sonny King, diretto a un appuntamento con un agente a Times square. sonny era un ex pugile di Brooklyn che stava cercando di sfondare come cantante, un uomo dall’aria da gangster, esperto della vita e dalla battuta

4 irwin alan Kniberg (1927-2004), comico americano ebreo noto per il suo umorismo dissacrante e graffiante. [n.d.r]

facile, un po’ genere Tony Danza5 degli esordi. andava fiero della sua bella voce da tenore e di conoscere tutti i pezzi grossi dello showbusiness. anche se poi non è che l’andare fieri di qualcosa corrisponda sempre alla realtà. ma sonny era così, uno che si dava da fare. e io? io ero un ragazzetto del new Jersey che cercava di sfondare come comico. il mio spettacolo – siete pronti a sentirlo? – era questo: io salivo sul palco e facevo facce buffe mentre le labbra andavano in sincrono coi pezzi suonati dal fonografo. il termine professionale con cui descriverlo era “spettacolo demen-ziale”, definizione su cui non voglio soffermarmi troppo. Oggi saprebbe più di stroncatura.

Volete sapere i lati positivi e quelli negativi? i positivi: ero giova-ne, pieno di entusiasmo e pronto a conquistare il mondo. il negati-vo: non avevo alcuna idea del modo in cui ci sarei riuscito. e anche che guadagnavo a malapena di che vivere: intascavo 110 dollari a settimana quando mi andava bene, e quasi mai mi andava bene. Con questa somma principesca dovevo pagare il mio manager, abner J. Greshler, più l’affitto dell’appartamento di newark, più da mangiare per due, quasi tre persone. più vestiti, dolcetti, mil-kshake e dischi per lo spettacolo. più i conti dell’albergo. Quando lavoravo a new york abitavo in centro, per essere vicino al lavoro – quando ce l’avevo – e per essere dove c’era movimento. stavo al Belmont plaza, tra Lexington e la Quarantanovesima, dove di solito mi esibivo al Glass Hat, un night club dentro l’albergo. mi pagavano 135 dollari a settimana, più la stanza.

Di colpo, tra Broadway e la Cinquantaquattresima, sonny vide qualcuno che attraversava la strada: un uomo alto, scuro e incre-dibilmente bello, con un cappotto di cammello. si chiama Dean martin, disse sonny. il solo guardarlo mi intimidì: Come fa uno a essere così bello?

5 anthony salvatore iadanza (1951), attore italo-americano noto per il ruolo di Tony Banta nella serie TV Taxi e più recentemente in Crash – Contatto Fisico di paul Haggis (2004). [n.d.r.]

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sorrisi nel vedere quel cappotto di cammello. Harry Merdadi-cavallo, pensai. Chiamavamo così i tizi che sembrava non aves-sero problemi con le donne. Chiunque indossasse un cappotto di cammello, con una cintura di cammello e gemelli di diamanti finti, era automaticamente un Harry merdadicavallo.

ma quest’uomo, lo sapevo, era un pezzo da novanta. se ne stava lì in piedi con un tizio più basso e più vecchio, e quando vide sonny ci salutò col braccio. attraversammo la strada. mi entusiasmai nuovamente nel vedere da vicino quanto fosse bello: un viso lungo e duro; un grande profilo; sopracciglia e ciglia spesse e nere. e la tintarella a marzo! Come diamine aveva fatto? mentre parlava col tizio più anziano mi accorsi che emanava una sorta di scintillio. più in là avrei imparato la parola “carisma” . all’epoca sapevo solo che non riuscivo a distogliere lo sguardo dall’amico di sonny.

“ehi, Dino!” disse sonny quando li raggiungemmo. “Come butta, Lou?” disse all’uomo più anziano.

Venne fuori che Lou era Lou perry, il manager di Dean. ave-va l’aspetto da manager: basso, labbra sottili, sguardo rilassato. sonny mi presentò, e perry mi guardò senza troppo interesse. ma sonny sembrava eccitato. si rivolse all’amico in cappotto di cammello. “Dino”, disse sonny. “Voglio presentarti un ragazzo che è uno spasso, Jerry Lewis”.

Cappotto di cammello sorrise calorosamente e mi tese la ma-no. io la strinsi. era una mano grande, forte, ma non esagerò con la stretta. mi piacque, mi piacque lui, all’istante. e lui sembrò sinceramente felice di conoscermi.

“ragazzo”, disse sonny – sonny mi chiamava ragazzo dalla prima volta che l’avevo visto, e avrebbe continuato a chiamar-mi ragazzo a Las Vegas cinquant’anni dopo – “questo è Dean martin. Canta anche meglio di me”.

sonny era fatto così: spasso e battute. Ovviamente non poteva immaginare che mi stava presentando a uno dei più grandi ta-

lenti comici del nostro tempo. neanch’io ne avevo idea – né, se per questo, ne aveva idea Dean. in quel momento, alla fine della seconda guerra mondiale, eravamo solo due tizi che lottavano per farsi largo nello showbusiness, e si stringevano la mano all’angolo di una strada affollata di Broadway.

scambiammo quattro chiacchiere. “Lavori?” chiesi.sfoderò il suo sorriso da un milione di dollari. adesso che

lo guardavo da vicino riuscivo a vedere il leggero segno di una cicatrice sul dorso del naso. il chirurgo plastico aveva fatto un gran bel lavoro. “Oh, sì, qua e là”, disse Dean. “Lavoro a radio wmCa, per mantenermi. non mi pagano, ma mi danno un alloggio”. aveva una voce calda e indolente, con una leggera inflessione del sud. sembrava infischiarsene del mondo, come se conquistasse tutti ovunque andasse. ne ero convinto. Di lui sapevo solo che era indebitato fino al collo con perry e con diversi altri manager.

“e tu?” mi chiese Dean.annuii in fretta. Di colpo, con tutto me stesso, volevo fare

colpo su quell’uomo. “Ho appena finito la mia ottava settimana al Glass Hat”, dissi. “al Belmont plaza”.

“sul serio? io vivo lì”, disse Dean.“al Glass Hat?”“no, al Belmont. me lo paga la radio”.proprio in quell’istante una bella brunetta si avvicinò, con in-

dosso un cappotto con il collo di pelliccia. Dean abbassò lenta-mente le palpebre e la folgorò con un sorriso, e diamine se lei non ricambiò! perché con me non reagivano così? Lei lo guardò a lungo da sopra la spalla mentre andava via, un chiaro invito, e Dean scosse il capo, sorridendo spiacente.

“Guarda quest’uomo”, disse sonny con il suo accento rauco di Brooklyn. “Ha un radar per le pollastre!”

mi bastò guardare sonny negli occhi per capire che idolatrava Dean – del quale, di colpo, ero ansioso di riconquistare l’atten-

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zione. “Vai mai da Leon and eddie’s?” Chiesi, con la voce che suonò più acuta e stridula di quanto non lo fosse già di suo. Leon and eddie’s era un ristorante e night club a un paio isolati da lì, sulla favolosa Cinquantaduesima strada – che, in quegli anni, era un’infilata di ristoranti e spacci clandestini come il 21, e di locali di musica dal vivo come il Five spot e il Birdland. in quei giorni pretelevisivi l’intrattenimento dal vivo era il massimo in america, manhattan era la capitale mondiale dei night club, e Leon and eddie’s la mecca del cabaret. La domenica c’era la Ce-lebrity night: il divertimento cominciava dopo la chiusura del locale, quando tutti quelli del giro salivano sul palco e facevano un numero del loro spettacolo. Vedevi gente come milton Berle, Henny youngman, Danny Kaye. era magico. io di solito andavo lì e me ne stavo in piedi come un allocco, come un bambino in un negozio di caramelle. Un giorno, pensavo… ma al momento nessuna occasione. non volevano spettacoli demenziali – al mo-mento, ero solo un assistente.

“sì, ogni tanto ci passo la domenica notte”, disse Dean.“anch’io!” urlai.mi rifece quel sorriso, caldo ma sempre molto rilassato agli

angoli. Ti inondava della sua luce, anche se non ti lasciava entrare. agli uomini non piace ammetterlo, ma un uomo che sia veramente tale – un cosiddetto “uomo perfetto” – ha qualcosa che lo rende magnetico tanto per noi quanto per le donne. È così che vorrei essere, pensai. Forse se lo frequento, diventerò un po’ come lui.

“e allora magari un giorno o l’altro ci vediamo lì”, mi disse Dean.

“sì, certo”, dissi. “e vedi di recuperare lo smoking che ti sei impegnato”, disse.risi. era buffo.

sonny King era un tizio con cui uscivo, ma non un amico. io avevo disperatamente bisogno di un amico. ero un ragaz-

zo solitario, figlio unico di due attori di vaudeville che a casa non c’erano quasi mai. mio papà, Danny, era un cantante e un intrattenitore a tutto tondo. Faceva di tutto: canzonette, imita-zioni, cabaret. mia mamma, rachel (rae), era la pianista e la presentatrice di Danny. per cui ero cresciuto facendo la spola di famiglia in famiglia, di parente in parente. adoravo i momenti preziosi in cui mamma e papà mi portavano in tour con loro. e per loro stare insieme significava mettermi nello spettacolo: la mia prima apparizione sul palco la feci a cinque anni, nel 1931, al presidente Hotel, un resort estivo di swan Lake, new york. indossavo uno smoking (ovviamente) e cantavo un classico degli anni della Depressione, “Brother, Can you spare a Dime?” Da quel momento in avanti, lo showbusiness mi entrò nel sangue. insieme alla solitudine.

a sedici anni avevo mollato la scuola ed ero diventato un aspirante uomo di spettacolo. Un aspirante che-aspirava-dispe-ratamente. Lavorai nei resort delle Catskill mountains come autista (pagato) e come animatore (gratis). ero il tizio che faceva baldoria, faceva le facce, metteva i clienti di buon umore intrat-tenendoli prima dello spettacolo vero e proprio. Quanto avrei voluto essere io lo spettacolo vero e proprio. sì, ma come? ero alto, scheletrico, goffo; carino, ma dall’aria buffa. Con la voce che Dio mi aveva dato, di certo non sarei stato un cantante come mio padre, un baritono alla al Jolson. io vedevo sempre il lato comico delle cose, non perdevo occasione di fare una battuta. ma non ero così sicuro di me da starmene in piedi sul palco e parlare.

poi arrivai a una soluzione geniale, o quantomeno quella che all’epoca mi sembrò una soluzione geniale. Una notte, in un resort del new Jersey dove i miei stavano facendo il loro spetta-colo, una mia amica e aspirante attrice, Lonnie Brown – la figlia di Charlie e Lillian Brown, proprietari del resort e destinati a diventare molto importanti nella mia vita – stava ascoltando un disco del cantante inglese Cyril smith, cercando di impararne il

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perfetto accento. io avevo una cottarella per Lonnie e per cercare di fare colpo su di lei iniziai a fare il pagliaccio, muovendo le labbra a tempo di musica, roteando gli occhi e facendo delle mossette da diva. Beh, Lonnie scoppiò a ridere, e quella fu mu-sica per le mie orecchie. era nato uno spettacolo.

passai un paio di duri anni in giro, esibendomi in teatri di burlesque dove tizi coi giornali opportunamente in grembo mi fischiavano per farmi scendere dal palco e poter vedere le spogliarelliste. ancora adolescente diventai un veterano del-lo showbusiness con uno spettacolo battezzato “Jerry Lewis: impressioni satiriche in pantomima”.

avevo perfezionato lo spettacolo e devo ammettere che era maledettamente divertente. mi mettevo una parrucca spavento-sa e una redingote e muovevo le labbra in sincro con il grande baritono igor Gorin in “Largo al Factotum” del Barbiere di Siviglia. Uscivo fuori vestito da Carmen miranda, con della frutta sul cappello, e facevo mirando. poi con una giacca ges-sata, succhiando le guance, facevo sinatra che canta “all or nothing at all”. Conoscevo ogni graffio o salto di ogni disco, e quando arrivavano, gli facevo il verso. ero diventato sempre più bravo nel contorcere il mio corpo lungo e ossuto in modi che sapevo avrebbero procurato un effetto comico. mi eserci-tavo facendo le smorfie davanti a uno specchio fino a quando non scoppiavo io stesso a ridere. Dio non mi aveva fatto bello, ma mi aveva dato qualcosa, l’avevo sempre saputo: il senso dell’umorismo.

e sul palco non dicevo mai una parola.in quei giorni che vedevano il declino della comicità dei pa-

gliacci lo spettacolo demenziale era un sottogenere in estinzio-ne, e anche il mio show aveva i giorni contati. eravamo rimasti in pochi a lavorare facendo spettacoli in cui muovevamo le labbra in sincro, e anche se mi piaceva – e continua a piacermi – pensare che ero il migliore di tutti – nessuno sa muoversi,

cadere o fare le facce come Jerry Lewis – solo tre degli undici spettatori a serata erano dalla mia. mentre mi esibivo quelle tre o quattro o nove persone si pisciavano addosso dalle risate, e il resto del teatro (sempre che ci fosse qualcun altro) batteva le mani svogliatamente, o fischiava… Dateci le spogliarelliste!

e io non dicevo mai una parola.La verità è che mi venivano sempre in mente frasi divertenti:

io pensavo divertente. ma con quella voce nasale da ragazzi-no che mi ritrovavo, mi vergognavo di cosa sarebbe venuto fuori se avessi parlato. per cui in scena ero divertente, ma ero divertente solo in parte. ed ero sempre alla ricerca del pezzo mancante.

La stanza 1412 del Belmont plaza Hotel era più un cubicolo che una stanza: c’erano un letto, un divano, un cassettone e… basta. non potevi neanche andare in gabinetto senza farti male agli stinchi. io e sonny andammo a trovare Dean, che era appe-na tornato da un appuntamento decisamente-poco-arrapante.

“aveva una compagna di stanza...”, disse roteando gli occhi. “Ditemi un posto dove si può scopare in santa pace in questa dannata città!”

si versò uno scotch per calmarsi, poi ci guardò. “non mi farete bere da solo, no?”

La cioccolata calda era la cosa più forte che avessi mai bevu-to in vita mia, ma coraggiosamente accettai il bicchiere degli spazzolini da denti mezzo pieno di una cosa che puzzava di detergente. Finsi anche di berne un sorso o due mentre Dean metteva dei 78 giri sul giradischi e noi tre avanzavamo verso quella che sarebbe stata una nottata di chiacchiere tra uomini. al suono di Billie Holiday, Tommy Dorsey, Benny Goodman e Louis armstrong, ci sedemmo e parlammo fino all’alba, o sarebbe meglio dire, uno di noi lo fece. Dopo che sonny si addormentò, io rimasi seduto in adorazione mente Dean

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teneva banco.La notte e un bicchiere o due di scotch lo avevano reso par-

ticolarmente loquace, e andò avanti a raccontarmi la storia di come Dino Crocetti di steubenville, Ohio, ce l’avesse fatta e fosse diventato Dean martin. alle mie orecchie suonava come una favola: la dura e selvaggia cittadina sul fiume Ohio piena di fabbriche d’acciaio, spacci di alcolici e bordelli. La famiglia italiana unita, suo padre il barbiere che passava le giornate a fare barba e capelli per un quarto di dollaro a cliente mentre sua madre cucinava pentole di spaghetti e polpette per tutti i parenti. Dino aveva lasciato la scuola (“non faceva per me”, disse) ed era andato a lavorare in una fonderia, poi ci aveva messo poco a capire che non era fatto neppure per il lavoro in fabbrica. aveva venduto liquori per un contrabbandiere; s’era battuto con un pugile professionista di nome Kid Crochet. ave-va giocato a blackjack e poker nel più celebre dei (molti) casinò illegali di steubenville, il retro del negozio red Cigar. aveva lasciato il pugilato prima di rovinarsi la faccia. e aveva cantato.

“È un dono che ho”, si limitò a dire Dean. se ne aveva l’oc-casione – in un bar, a una festa, o solo camminando per strada con gli amici – non ci voleva molto a convincerlo a usare le sue corde vocali. Di lì a poco la sua reputazione aveva preso a circolare e sammy watkins, il leader di un gruppo di Cleve-land, lo aveva scritturato.

a quel punto era successa una cosa incredibile: Frank sina-tra aveva cancellato una serata al riobamba di new york, e la music Corporation of america, la mCa al cui rappresentante di Cleveland piaceva lo spettacolo di Dean, lo aveva scritturato per andare sulla east Coast a rimpiazzarlo. Da allora non s’era più spostato da manhattan.

sembrava una favola, ma poi mi chiesi: che ci faceva in questa stanza d’albergo grande quanto una scatola di scarpe?

Dean era come me: era arrivato nella città giusta ma per lui non era ancora arrivato il momento giusto. Bazzicavo il giro da troppo tempo per non sapere che le probabilità di farcela erano pochissime. prima di tutto, dovevi volerlo veramente. e io lo volevo così disperatamente che quasi mi mancava l’aria. ma non ero così sicuro che per quel tizio fosse lo stesso.

e per quanto fossi folgorato da lui riuscivo a vedere che in Dean c’era ancora parecchia steubenville. Le scarpe bianche e rosse di vernice che portava, per esempio: scarpe da magnac-cia! e di tanto in tanto, nel parlare, aveva qualche inflessione dialettale: in parte retaggio del suo essere un immigrato ita-liano (fino ai cinque anni non aveva parlato inglese, mi disse), con un tocco di accento sudista del west Virginia, situata sull’altra riva del fiume rispetto a steubenville. Guardai di nuovo le sue grandi mani: mani che avevano trasportato ac-

martin e Lewis giovanissimi nel 1950: sul set de Il Sergente di Legno

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ciaio, che s’erano battute su un ring, che avevano distribuito carte. La vita era dura, e quell’uomo, per quanto bello fosse, lo sapeva.

“mi chiamano il ragazzo con la Voce alta, Tenebrosa e Bella”, disse con un sorriso mezzo fiero e mezzo autoironico.

io mi limitai a fissarlo. Di certo il soprannome era appropriato.“e guardami, sono anche un padre di famiglia”, disse, e tirò

fuori un paio di foto. sua moglie Betty era carina, sembrava la ragazza della porta accanto in un film della mGm. e c’erano tre bambini: un maschio, Craig, e due femmine, Claudia e Gail. il ragazzo s’era dato da fare! e il fatto che nel pomeriggio fosse andato a donne non mi stupì: anche questo era showbusiness.

“anch’io ho un figlio in arrivo”, dissi a Dean.si svegliò dai suoi sogni a occhi aperti. “mi prendi in giro?”

disse. “Quanti anni hai, amico?”Di colpo mi sentii timido come una ragazza. “ne ho appena

fatti diciannove”, dissi. “ma sono sposato con patti da ottobre, e il bambino nascerà a luglio”. non riuscii a fare a meno di sorri-dere orgoglioso. “Tu quanti anni hai?” chiesi, come un bambino delle elementari.

“molti più di te”, disse Dean. “ne ho quasi ventotto”.Nove anni di differenza, pensai. Potrebbe essere il mio fratello

maggiore. sorrisi all’idea.

mentre patti diventava sempre più incinta io correvo su e giù per la east Coast, esibendomi in localini e vecchi teatri a Balti-mora, washington D.C., philadelphia, sempre per la stessa cifra: 125 a settimana. i veri soldi arrivavano dalla Grande mela, dove le serate che facevo periodicamente al Glass Hat mi portavano altri dieci bigliettoni a botta. e credetemi, quei dieci dollari in più erano una gioia: comprai un vestito premaman a patti che lo portò a bambino già nato, fino all’undicesimo mese. ma un vestito è un vestito, se ci stai dentro.

era buffo: in quella primavera-estate del 1945, ovunque mi capitasse di esibirmi, Dean sembrava esserci, di solito una set-timana o due prima o dopo di me; era come se noi due avessimo un minicircuito all’interno del circuito. a volte, se vedevo che era scritturato dopo di me, gli lasciavo un biglietto attaccato alla parete in camerino, scrivendogli tipo che era un privilegio esibirci in ambienti di classe come quello. Lui non mi rispondeva mai. non sembrava granché portato per la scrittura.

poi tornai a new york, questa volta in un night club di Broa-dway, l’Havana-madrid tra la Quindicesima e la Cinquantune-sima. e lì scoprii che, miracolo dei miracoli, Dean e io eravamo stati entrambi scritturati per lo stesso periodo, il marzo del 1946.

L’Havana-madrid era uno dei numerosi locali latinoamericani apparsi a manhattan a fine anni Trenta, quando s’era diffusa la febbre della rumba. il proprietario si chiamava angel Lopez e gli piaceva alternare numeri in inglese e spagnolo. Dean era il cantante; io ero lì con la mia parrucca spaventosa e i dischi. in cartellone con noi c’erano la compagnia di ballo dei Barrancos, pupi Campo e la sua orchestra, e in testa a tutti la grande can-tante cubana Diosa Costello.6

ero eccitato all’idea di essere in cartellone insieme al mio fratello maggiore immaginario. ma essere con lui contempora-neamente nello stesso posto non mi bastava. Come tutti i fratelli minori, bramavo la sua attenzione. e una notte, alla terza replica, mentre Dean era sul palco dell’Havana-madrid che intratteneva il pubblico (e soprattutto le signore) con la sua versione sdolci-nata di “where or when”,7 trovai il modo per farlo.

i Barrancos si erano esibiti prima di Dean, chiudendo con

6 nota come “la bomba latina”, Juana de Dios Castrello era in realtà nata a por-torico, e in quegli anni era sposata proprio con il cubano pupi Campo. [n.d.r.]

7 Brano del musical Babes in Arms composto nel 1937 da richard rodgers e Lorenz Hart, e in seguito diventato uno standard per molti cantanti e musicisti. [n.d.r.]

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un numero in cui battevano mani e piedi per accompagnare il signor Barranco che teneva sospesa la signora Barranco su un pentolone di fuoco. molto drammatico. Lasciarono il palco con un grande applauso, e lasciarono anche il fuoco acceso. Con le luci basse per il numero romantico di Dean, le fiamme scoppiet-tanti nella pentola dietro di lui emanavano un bagliore invitante.

La terza replica era alle prime ore del mattino quando del pub-blico erano rimaste più o meno otto persone. Di fatto, a quell’ora della notte, nel locale c’erano più camerieri che clienti: camerieri e maître sparsi per la sala, in piedi, con i tovaglioli sul braccio. era il momento giusto per irrompere, e fare esattamente quello che avevo deciso di fare.

i riflettori erano puntati su Dean e il resto del palcoscenico era in ombra, così mi fu facile intrufolarmi di nascosto dalle quinte nella mia divisa da cameriere presa in prestito. avevo avvisato il tecnico delle luci. non appena Dean cominciò a cantare entrai di colpo in scena tossendo come un matto, e un secondo riflettore si accese su di me. ero lì in piedi con un chilo e mezzo di carne cruda infilzato a una forchetta.

“Chi ha ordinato una bistecca?” urlai con tutto il fiato che avevo in gola.

inutile dire che Dean fu costretto a interrompere il numero.Devo ammettere che per un istante mi si fermò il cuore, non

sapendo come Dean avrebbe reagito. La maggior parte degli artisti seri si sarebbe infuriata per essere stata eclissata da uno scherzetto così idiota. ma avevo riflettuto su Dean: mi ricordavo del sorriso incredibile che aveva fatto quando mi aveva raccon-tato la storia della sua vita, per cui non poteva essere uomo che si prendeva troppo sul serio, e anche lui doveva vedere la vita tutta come una grande pazza burla.

L’istante successivo le mie riflessioni si rivelarono corrette. Dean studiò attentamente il pubblico: cominciò a guardare dal

se VUOi COnTinUare a LeGGere,

COrri in LiBreria