[Victor Turner] Dal Rito Al Teatro-italiano

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Victor Turner Dal rito al teatro il Mulino

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Antropologia

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Victor Turner

Dal rito al teatro

il Mulino

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TURNER, Víctor Dal rito al teatro / Victor Tiimer. Bologna: Il Mulino, 1986; [Introduzione all*edÌ2Ìone italiana di Stefano De Matteis]-218 p. 21 cm, (Intersezioni, 27). ISBN 88-15-00983-3 1. Antropologia culturale - Stadi 2. Riti 3. Teatro - Origini rituali. I De Matteis, Stefano 392

Edizione originale: from Ritud io Theatre. The Human Se-riousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publi-cations, 1982, Copyri^t © 1982 by Performing Arts Journal Publications, New York. C o p y r ^ t © 1986 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Paola Capriolo. Edizione italiana a cura di Striano De Matteis*

È vietata la riproduzione anche parziale, con gualcasi memo efet-tuata^ compresa la fotocopia^ anche ad uso intemo o didattico, non autorizzata.

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Introduzione all'edizione italiana

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Introduzione all'edizione italiana

Trop peu, Je suis. Mais je ne suis pas en posses-sion de moi-méme. Telle est Foiigiae de notxe devenir.

Ernst Bloch, Traces

Ttirna: è stato, nella sua vita, nei suoi studi e ndle ricerche, uti uomo propositivo e ottimista. Sarà per la sua formazione cattolica che gli ha temprato un forte umani-smo, ha sempre lavorato sul lato ^positivo' della storia e del sodale, sugli elementi 'costitutivi' fino a prendere in considerazione valori rassicuranti nei mutamenti e nei cam-biamenti sodali. Ma Turner ha anche lavorato su un ter-reno ostico e difficile. Fin dall'inÌTio ha individuato il suo interesse in quella terra di nessuno, in quella zona che sta al centro della contrapposizione tra le difficoltà personali rispetto all'ambiente e i problemi culturali e pubblid di strutture sodali siano esse organizzazioni tri!:¿li o stadi più avanzati con maggiori complessità organiszative. Ma non basta. Ha sviluppato anche un sistema di lavoro che mirava ad analizzare biografia e storia, nel rapporto red-proco, in determinati momenti e in definite strutture so-dali. Tale sistema è figlio di tante contaminazioni e di tanti riferimenti, costitutivi per la sua biografia ma mai considerati definitivi e condusi. In particolare Dal rito d teatro rappresenta uno dd tentativi meno compiuti e de-finiti anzi è tra le sue ricerche una delle piti azzardate. In questo lavoro confluiscono precedenti studi e trovano spazio nuove riflessioni che me^o definiscono assunti già acquisiti. H metodo di Turner è caratterizzato mai da un modello unico, da griglie precostruite, bensì da modelli in trasformazione dove ogni nuovo risultato permette una riconsiderazione di tutto il lavoro svolto. Dd rito d teatro può, e secondo noi dovrebbe, essere letto come uno dei momenti più 'pietii' della ricerca di Turner e, nello stesso tempo, più 'aperti': non si tenta qui, seguendo un metodo

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Introduzione dl'edszione itdiana

esplicativo e dimostrativo, di illustrare ima ricerca con-clusa, quanto di riportare riflessioni e considerazioni che muovono da un corto circuito che è alla base delle sue recenti ricerche doè di applicare gli strumenti dell'antro-pologia sodale e della simbologia comparata, che Thanno guidato nelle ricerdie sul rito, d teatro, soprattutto quello moderno, per leggere tutte le relative implicazioni che esso ha con la cultura, lo svago, il tempo libero da un Iato e con l'attore e la ricerca scenica dall'altro. Il volume esplica ed elenca assunti teorid che forse avrebbero trova-to madore ampiezza e approfondimento in opere succes-sive. I temi e gli ambiti della ricerca sono quindi vasti e tenuti in relazione tra loro da fili sottilissimi che trovano collocazione in un tentativo di comprensione attraverso le comuni matrid culturali e le comuni funzioni sociali.

Qui Turner mescola una varietà di temi e una diversità di riferimenti, dascuno studiato e approfondito singolar-mente per e^ere confrontato e verificato con gli altri, aprendo ogni settore o 'zona* per sconfinare continuamen-te in aree tra loro apparentemente indipendenti. Eppure Turner sembra essere partito da un altro metodo che sem-brava incarnare Pafíermazione di Marcel Mauss:

È un errore credere che ü credito cui ha diritto una proposi-zione scientifica dipenda strettamente dal nmneio dei casi in cui si creda di poterla verificare. Quando Ü rapporto è stato stabilito in un caso, anche unico, ma metodoiogicatoente e minuziosamente stu-diato, la validità è ben più sicura di quanto per dimostrarlo, lo si illustn con fatti nimierosi, ma disparati, am esempi curiosi, ma presi a prestìto dalle sodeià, dalle rasase, dalle civiltà più disparate.

Turner è figUo di una delle scuole più rappresentative dell'antropologia britannica \ quella di Manchester che ha adottato, seguendo la strada percorsa da Malinowski, il metodo del partecipant observation (osservazione parted-pante) che segnò una rottura con la tradizione dassica del-l'antropologia. Sebbene tale cambiamento, come sostiene Lévi-Strauss, era già stato avviato nelle ricerche e negli studi di Franz Boas, Emile Durkheim, Marcd Mauss, la ricerca di Malinowski sulle isole Trobriand^ fu Topera pia Significativa in questa direzione:

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Introdudone dl'edmone italiana

nell'elaborare le regole e le regolarità del costume indigeno, n d ricavare una formula che le esprime con precisione dai dati raccolti e dalle affermazioni degli indigeni, d accorgiamo die questa esat-tezza è estranea alla vita reale, cbe non si conforma mai rigidamente ad alcuna r ^ l a , e deve essere intq^rata dall'osservazione del modo in cui un dato costume è seguito, del comportamento dell'indigeno nell'obbedire alle r ^ l e cosi esattamente formulate dall'etnografo, delle stesse ecceáoni che quasi sempre ricorrono nei fenomeni sodo-logici

Forse è proprio da Malinowsld che Turner mutua Tin-teresse, sempre crescente nelle sue opere, di rilevare the imponderabÜity of everyday life (l'imponderabile della vita quotidiana) eie — analiszando e registrando ojmporta-menti e consuetudini, verificando direttamente con l'osser-vazione e indagando le mentalità dei gruppi studiati — gli permette di leggere e successivamente dì codificare le smagliature tra afíermazioni e comportamenti, tra status sociali e crisi, tra lotte inteme e relative modificazioni o solidificazioni di poteri costituiti.

A Malinowsld va aggiunto RadcMe-Brown che influen-zato dal pensiero di Durkheim (dove Tinsieme dei fatti so-ciali andava visto come un sistema in cui ciascun elemen-to aveva un significato solo se riportato alla complessità del sistema) dichiarò l'importanza del concetto di 'strut-tura' denunciando TimpossÌbilità di analizzare una cultu-ra separandola dall'intero contesto e sistema sociale dove venivano determinati comportamenti e r ^ l e che definiva-no la specificità di quella determinata struttura sociale.

Dal rito

Fin dal suo primo lavoro Schism and Continuity in an African Society. A Story of Ndemhu Village Ufe Turner cercò di fondere due Hvdli d'analisi: lo studio dei fatti considerati secondo la successione temporale e lo studio dei fatti prescindendo dalla loro evoluzione. Analizza qui un certo ninnerò di villaggi sulla base di studi di dimensio-ne, mobilità, composizione genealogica e sociale, secondo

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il più tradizionale dei tnetodi di ricerca, individuando le OQstmtì e le funzioni ricorrenti tra più villa^, passando suixessivamente ad analizzare la regolarità e la funziona-lità di un singolo villaggio. Turner arriva cosi a mostrare una radiografia di un villaggio non solo seguendo la forma e la struttura sociale, ma disegnando un grafico in movi-mento, riuscendo ad esprimere la realtà dinamica e consi-derando, soprattutto, il ruolo dei singoli individui e di gruppi di questi nel processo sodale. Già in questo primo lavoro individua una griglia interpretativa eie utìHzzerà anche in futuro per leggere i processi di trasformazione sociale appKcandoli anche a situazioni contemporanee. Tur-ner individua la centralità e l'importanza processuale dei conflitti (sociali e culturali) tra persone o gruppi apparte-nenti a un insieme sociale governato dagli stessi principi, G)nflitti che possono portare a cambiamenti radicali e a trasformazioni, oppure a rafforzamenti dello status prece-dente ma che comunque esprimono zone di malessere, sta-tomi di inadattamento e bisogni di modificazione. Questi conflitti sono definiti da Turner <( drammi sociali »: in essi c'è Torigine della trasformazione, e da essi nascono anche le opere d'arte tra cui il teatro. Il dramma sociale viene individuato come il luogo della maggiore creatività, dove il nuovo si manifesta ma non sempre si afferma.

Nel corso ddla mia ricerca sul campo, mi resi conto die fatti gravi turbavano la vita del gruppo sodale col quale mi trovavo a vivere. Poteva essere spaccato in due fazioni in guerra tra loro^ le partì contendenti iii^obavano alcuni ma non tutti i membri del gruppo; oppure dispute potevano avere carattere interpersonale. I disordini insomma avevano un peso diverso di portata sociale. Dopo un po' commád a riconoscere delle costanti in questi scoppi dixorb. flitt^tà: notai delle fasi nel loro sviluppo che sembravano susse-guirsi in modo più o meno regolare. Queste esplosioni, che chiamo « drammi sociali » , si presentavano in forma di processo a più fasL Ho diviso provvisoriamente il processo che costituisce ü « dramma sociale » in quattro fasi principali: 1, Avviene rinérazione dei nor-mali rapporti sociali, regolati da norme tra persone o gmppi al-rintemo dello stesso sistema. L'infrazione diventa di pubbüco do-minio con la violazione aperta o il non adempimento di qualche norma importante che regola i rapporti tra le parti. 2. All^interru-zione dei normali rapporti sociali, segue nna fase di crisi montante,

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Iníroduzione dl*e<Uxione itdiana

diirante la quale, a meno che si riesca a sofiocare il conflitto rapi-damente, all'interno di una cerchia limitata di rapporti sociali, c'è la tendenza a un allargamento della crisi fino a sovrapporsi ad alcuni dei conflitti dominanti nei rapporti sociali piti a l la t t i nei quali rientrano i gruppi contendenti. Questa fase della crisi mette in luce il modo in cui la lotta di fazione si svolge all'interno del gruppo sociale rilevante, si tratti del villaggio, di una 2ona o di tutto il territorio che rientra sotto la giurisdizione di un capo; e dietro a questo diventa visibile la struttura sodale di base^ meno duttile, più duratura e al tempo stesso capace di modificarsi gradualmente, strut-tura che è fatta di rapporti costanti e consistenti, 3- Per limitare l'estensione del conflitto, vengono rapidamente messi in moto alcuni meccanismi riparatori e correttori, formali o no, da parte dei membri più importanti del gruppo sodale che conta, 4. La fase dae ho individuato come finale considerato o nella reintegrazione del grup-po sociale attraversato dalla crisi o nel riconoscimento sodale del-rirreparabilità dell'infrazione tra le parti contendentL In breve la forma del dramma sociale può essere cosi formulata: 1. infrazione; 2. crisi; 3s azione riparatrice; 4, reintegrazione o riconoscimento dello scisma.

Solo alla fine di Schism and Continuity^ Turner analiz-za il rituale e> studiandone la funzione politica, individua quanto questo sia unjelemento di integrazione sociale: combinando gli aspetti quantificabili e il racconto partico-lareggiato dei riti, viene dimostrato quanto certi rituali rappresentino i momenti di unità e di continuità di società individualiste e senza forte coesione organizzativa e poli-tica, n ritu^^ rafcraa i valori comuni superando le conflit-ti^tà, le lotte e gli scontri intestini alla comunità. Qui Tanalisi dd particolare gli permette di risalire al generale, definendo questo lavoro « un esperimento di microsodo-logia diacronica », dove « l'unicità, la causalità, Tarbitra-rietà sono subordinate alla consuetudine all'interno di im unico sistema spazio-temporale di relazioni sociali ».

Schism and Continuity è da considerarsi anche la prima ribellione operata da Turner nei confronti dell'ortodossia struttural-funzionalista, contro la chiusa e sterile analisi statistica, contrapponendo la volontà di voler leggere e pre-sentare la società come un procedo, un campo di forze, il luogo dei conjflitti, le cui contraddizioni sono espresse, confessate, appianate o rese esplosive nd drammi sodali.

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Turner continua per questa strada — opponendosi sempre pili a quella tradizione antropologica — approfondendo poi, con gli anni sessanta, lo studio di Freud e, soprattut-to, di Jung — dei quali riconobbe apertamente Tinfluen-za — e definì il suo campo di ricerche nella simbologia comparata, che divenne una delle caratteristiche distintive del suo lavoro. I primi segni di tale ricerca sono rintrac-ciabili in due successive monografie: Ndembu Divination: Its Symbolism and Technique (1961) e Chihamba the White Spirit: A Ritual Drama of the Ndembu (1962). La terza sesione di quest'iiltima è intitolata « Some White Symbols in Literature and Religion: An Experiment in Cross-Cultural Comparison » e si conclude con una discus-sione su Moby Dick.

Turner dichiara di essere stato indotto allo studio dei generi simbolici da alome implicazioni presenti nel lavoro di Van Geúnep, Les rites de passage È proprio negli anni sessanta che il testo di Van Cìennep, del 1909, viene risco-perto, approfondito e utilizzato dalla scuola antropologica britannica e, nello stesso tempo, rilanciato in Francia da Qaude Lévi-Strauss che riteneva il lavoro di Van Gennep uno spartiacque fondamentale tra la vecchia e la nuova antropologia. Van Gennep elabora uno sdiema d'analisi che raggruppa tutte le sequen2« cerimoniali che accompa-gnano il passaggio da una situazione a tm'altra e da im mondo (cosmico o sociale) a un altro e die si prestano a una trattazione analitica come riti di separazione, riti di marine o liminali, riti di aggregazione. È proprio suUa fase di transizione, Hminale, che Turner focalizza il suo interesse. Lo studio sul rito si amplia e si problematizza grazie a Van Gennep: nella ricerca di Turner tale studio acquista coordinate sodali e culturali che gli permettono di superare la dicotomia schematica presente in Schism and Continuity. Ora i simboli del rituale sono analizzati e stu-diati ciascuno per sé e poi considerati come parte di un sistema di significati più ampio, sociale e culturale, evi-tando ogni rischio offerto dal ricorrere a categorie stretta-mente sociologiche.

La complessità dei riferimaiti e la lettura a più livelli

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Introdurne dVedmone {(diana

dei rituali — che aveva trovato una prima traccia nd-r<( esperimento di cultm^ opposte a confronto » elaborato nel Chihamba — prende ora forma in due lavori succes-sivi: La foresta dei simboli (1967) e II processo rituale (1969) Due testi molto importanti per Tiorner sia dal punto di vista metodologico sia da queJlo teorico. In par-ticolare La foresta dei simboli^ che raccoglie saggi scritti in epoche diverse, documenta l'evoluzione dello studio sul rito. Il lavoro dell'antropologo non può fermarsi alla mera raccolta e classificazione dei dati e, nei confronti del rito, non può considerare solo il livello razionale e consapevole che gli appartenenti a una determinata cultura esprimono dei propri comportamenti rituali. Secondo Turner bisogna considerare tre livelli interpretativi: le interpretazioni indi-gene, le forme e le caratteristiche esteriori del rito e la collocazione di un determinato rito in rapporto ad altri. Questo comporta ima vasta considerazione della comples-sità sociale, da cui il rito prende corpo e a cui risponde, individuando nel simbolismo rituale il nucleo centrale del-l'analisi perché il simbolo affonda le sue radici nella realtà concreta e soprattutto in quegli aspetti ignoti e sconosciu-ti anche dagli stessi agenti rituali e dallo stesso complesso sociale. Quindi è importante individuare la funzione del rito per il tessuto sociale e culturale, per individuare suc-cessivamente la complessità e la varietà dei simboli andbe estrapolandoli da quel contesto, per meglio leggerne la composizione. Questo permette di spostare l'accento dal-l'analisi di ciò che nel rito è da tutti riconosciuto verso quelle forze, celate e nascoste, del sociale, che in esso prendono corpo: gli obiettivi impliciti presenti nel sim-bolismo rituale, egli afierma, spesso vanno in senso oppo- sto a quelli espliciti. Il simbolismo rituale acquista ndlo ! studio di Turner una nuova dimensione: i simboli parte-cipano, in quanto depositari della tradizione e della me-moria sociale, alle trasformazioni e le rappresentano di-venendo protagonisti del processo non solo rituale ma so-ciale. <c I simboli producono l'azione ^ scrive Turner e « uno degli aspetti del processo di simbolizzazione, con-siste nel rendere visibili, udibili e tangibili credenze, idee

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Introduzione dl'ediziofte itdiana

e valori, sentimenti e disposizioni psicologiche » renden-do pubblico dò che è privato, sociale ciò che è personale. Questa è andie una strada per superare il mero sociologi-smo, avviandosi a una ricerca d'inconsueta profondità di indagine e di ricchezza di analisi, verificando che nell'atti-vità simbolica convergono sia Telemento creativo, specifico della natura e del com-portamento dell^uomo e nel quale emerge la singolarità e Firtipetì-bilità delle manifestaaoni individuali, sia Teletnento comunicante, che assicura la trasmissione nel tempo e nello spazio d^li dementi più significativi di una cultura tra individuo e individuo e contri-buisce quindi alla coesione della struttura sociale.

La compl^sità sodale esprime cosi sia forze coesive che mantengono saldo un determinato status sia forze inno-vatrici che g^erano nuovi valori e diversi rapporti interin-dividuali. Ogni struttura genera una antistmttura, dalla dialettica tra esse scaturiscono elementi innovatori e tra-sformatori per la sfera sociale e culturale. Il rapporto tra queste due strutture è stato profondamente indagato ne Il processo rìtude.

Qui Turner approfondisce un altro concetto, già pre-sente ne La foresta, preso dallo studio di Van Gennep, Les rites de passage, che è il concetto di « liminalità ». Quello che più Io ha interessato del lavoro di Van Gen-nep non sta nello schema come pura costruzione logica, quanto la possibilità che offriva lo schema stesso di rispon-dere ai fatti, alle tendenze profonde e nascoste, nonché alle necessità della vita sociale. Txxmer stesso dichiara di essere stato indotto allo studio dei generi simbolici da alcune implicazioni del lavoro di Van Gennep affermando che « l'essenza della liminalità consiste nella scomposizio-ne della cultura nei suoi fattori costitutivi e nelk ricom-posizione libera o ludica' dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra ». La limi-nalità è la fase intermedia del rito di passaggio, quella fase di cambiamento in cui non si appartiene né alla strut-tura già acquisita, né a quella cui si deve giungere: è una fase di perdita di riferimenti verso il sociale e di ima

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completa estxanearione di destrutturazione, altamente crea-tiva, Ma Turner dimostra, a differenza di Van Gennep, che questa fase non rappresenta im passaggio graduale (dalla separazione, al liminale, alla a^^adone) quanto un mo-mento di rottura, di cambiamento radicale che conduce a una trasformazione anche delle strutture simboliche e so-dali precedenti. Vengono introdotti qui nuovi valori e nuove strutture simboliche che non hanno un peso solo in-dividuale, bensì acquistano xm valore collettivo. La limina-lità è la forza dell'antistruttura quale unità dinamica sodale dove tutto è considerato in una situazione di sospensione strutturale. È in questi momenti che ogni membro della so-detà ricostruisce e ritrova il significato sociale globale. Ma si tratta sempre di momenti di passaggio: Tantistruttura co-me momento di sospensione riapre poi alla struttura, riela-borandola e modificandola.

La liminalità come energia in movimento, permette il superamento dello studio statico e riduttivo recuperando le forze processuali della vita sociale, indagando nella globa-lità delle trasformazioni sia da un punto di vista indivi-duale sia da quello collettivo: ora Turner ridefinisce il rito conie elemento med[Ìatore del passalo dalla struttura alla antistruttura, a una successiva stìruttura. Questa processua-lità influisce sul rito come sui simboli che gli sono propri, infatti dalla sua ricerca risulta chiaro che i simboli non sono costruzioni metastoriche o astoriche anzi partedpano alla processualità strutturale, assumendo significati e valori sia strutturali sia antistrutturali, condensando valori sodali, culturali e offrendo ima pluralità di significati. Nel Processo rituale Turner dimostra, differenziandosi dalle ricerche di Lévi-Strauss, che il simbolo rituale vive di una propria strut-tura di significati e di una propria funzione dinamica, è in-serito direttamente nel processo di trasformazione o di asse-stamento sociale senza rispondere però a una Ic^ca lineare. Questo comporta, per lo studioso, Tacquisizione di una me-todologia complessa e ampia, predsa e particolare in modo da penetrare dall'interno le strutture simbolidie per leg-gerle nella forma processuale individuando in e^e le meta-

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fore originarie, ricostruendo infinite variazioni subite, veri-ficandone le funzioni sociali.

^tetìxitmra e liminalità sono le condizioni die creano la CommunitaSy cioè una base di relazioni che non rispondo-no a criteri di status e di differenza tra chi ne è parte int^ grante; è una situazione di ugualità, con un rapporto — co-me afferma Turner citando Buber — dialogico, spontaneo e immediato tra i componenti. La fase liminale potrebbe esse-re riferita anche al terzo punto dei drammi sociali, quello della crisi. Sia i drammi sociali, sìa i riti di passaggio rispon-dono a una forma processuale: un ordine regola il crescente conflitto, la frattura in cui l'apparente pace si tramuta in aperto scontro. <& La fase di crisi — afferma Turner — met-te a nudo lo schema ddlla lotta in corso fra fazioni all'in-terno del gruppo sociale in questione fino all'apparato for-male, legale e giuridico ». H dramma sodale è il sintomo del cambiamento a>stante sia riportato a livello microsto-rico sia a livello macrostoria). La matrice rousseiana-kan-tiana della cultura ritiene che l'obbligo da parte dei sog-getti di rispettare le leggi della comunità o della società derivi dalla supposizione di un totale accordo con il slatore, tanto da considerare le leggi non come volontà estranea ma come emanazione degli stessi soggetti che com-pongono la comunità o la società. Il tacito accordo, decre-tato dal momento della nascita, di adeguarsi e accettare le nonne e le leggi di una determinata comunità, si basa su un consenso implicito determinato, appunto, dalla nascita stessa. Un consenso che non prevede però, in termini giuridici, un dissenso: tanto — come dimostra Hannah Arendt — da non poter definire « volontaria » la parted->azione alle norme e alle leggi che r^olano la comunità o a sodetà. Ogni dramma sodale si determina quando un gruppo infrange le norme stabilite. Sebbene Turner affermi che « ogni infrazione nei rapporti sociali è occasione per ribadire le norme che regolano il tutto », la spinta alla crisi è mossa dalla convinzione di un gruppo che i canali del cambiamento non funzionano più. Si potrebbe affermare che i drammi sodali esprimono tensioni al cambiamento e, azzardare, che il dramma sociale è la forma processuale di

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Introduzione dVedizhne italima

Ogni « disobbedienza y> comunitaria e civile die sfida aperta-mente regole, norme e leggi. Infatti, aflEerma ancora Tm:-ner, « il dramma sociale è una sfida perpetua a tutte le aspi-razioni alla perfezione dell'organÌ2sza2Ìone sociale e poli-tica » oltre ad essere la matrice empirica da cui derivano i principali generi di performance culturale.

A tutto dò va aggiunto ancora un altro dato dbe in-fluenza positivamente le ricerdie di Tiamer: Papprofondi-mento delle teorie di Wilhelm Dilthey. Attraverso la teoria dell'esperienza Turner riconsidera il rapporto tra sistemi di analisi e realtà analizzata acquisendo come categoria di rife-rimento Tesperienza. Questo permette, ancora di più, di valutare il contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Qui ogni performance culturale (dalla cerimonia al rito, al teatro) è la conclusione adeguata di im'esperienza: anche il simbolismo rituale è risposta a tutto ciò, e offre un carico di significati e di simboli da interpretare. È proprio nel presente volume che Turner sin-tetizza e porta avanti la sua ricerca sui simboli come sistemi dinamd sodo-culturali, ciie acquistano e perdono signifi-cato, appaiono e scompaiono per riaffiorare ia altri di rituffi. La simbologia comparata di Turner tenta di affer-rare i simboli nel loro movimento dalla nasdta individuale fino alla funzione processuale. Cosi il rituale, attraverso i simboli in cui si esprime, ha una funzione attiva, mai sdero-tica, formale o convenzionale, ha la forza di operare modi-fiche creative su se stesso e di avere una funzione trasfor-matrice. Il rituale muove sempre dal cambiamento, dal con-flitto o dalla trasformazione.

Poiché le r ^ l e e i valori sociali, stabiliti per mezzo di questi vari rapporti — afferma Gluckman — , inducono essi stessi gji indi-vidui e i sottogruppi a entrare in coiàitto con gli stessi compagni dd gmppo ai quale sono obbligati, il rituale ha il fine di masche-rare i profondi conflitti che sono sorti. Turner ed lo pensiamo die questa sia la situazione da cui scaturiscono le procedure rituali

t La simbologia rituale però, secondo Turner, esprime la più alta e contestualizzata fantasia, la trasforma e la modi-

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IntroduTÌone all'edizione italiana

fica sotto gli occhi di tutti secondo tin procedimento simile a quello del teatro. L'unica differenza è die il rito accoglie e assume i conflitti e le crisi, dimostrandoli simbolicamente e mascherandoli nella sua forma diversamente dal teatro che svela i conflitti e mostra le zone oscure dell'individuo e il malessere sociale.

Al teatro

f ^ « In effetti il teatro è un'ipertrofia, un'esasperazione di processi giuridici e rituali; non è una semplice ripetizione della naturale' struttura processuale totale del dramma so-

; dale ». I drammi sodali sono stati sempre, nel teatro, rie-laborati dal teatro. È dagli anni sessanta che buona parte di registi e attori, e soprattutto quelli meno conservatori, con-venzionali e di consenso, hanno cercato di esprimere con-dizioni particolari più che universali, frammenti e brandelli di esperienze rielaborate in linguaggi teatrali. Non a caso questo avveniva quando si sandva la fine delle tradizioni e sì sentivano le prime conseguenze dell'ideologia che stava

^dietro agli anni del benessere e del boom economico. Per gli uomini dd Libro, come li definisce Turner, un

testo chiave che dal punto di vista dello spettacolo riferisce di questi cambiamenti e che riletto oggi è un requiem per le tradizioni è Copioni da quattro soldi di Pandolfi Qui si dimostra quanto in seno alle dassi subalterne si siano ve-nute ad elaborare attività creative autonome che hanno ope-rato con libertà di intenti e ad esclusivo uso e consumo dei gruppi sodali fra cui sorgevano. Ma Telaborazione di una cultura subalterna come ricreazione di ordine fantastico, che muova la sua immaginazione e allarghi la sua conoscenza, si è trovata di fronte una cultura di msssa nascente, appiat-tente quanto convenzionale. Un libro, quello di Pandolfi, che dai rituali passa ai palcoscenid, fino ad analizzare il successo di « Lasda o raddoppia ». Parlare di fine delle tra-dizioni significa chiudere con un'era in cui alcune forme di spettacolo erano strettamente collegate alle tensioni sodali (come i generi popolari), dove lo spettacolo non è più fina-

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lizzato a xm avvenimento culturale riconosciuto collettiva-mente (come in alcune forme rituali) ma dove si oJfee a tutti la possibilità (come a « Lascia o raddoppia ») di poter essere protagonisti. Solo che mentre il teatro ha sempre fun-zionato da rispecchiamento e da riflesso (modificato, ingran-dito, ravvicinato) del sociale, qui si oflEre a tutti la possibi-lità di mostrarsi, farsi vedere, essere attori nel sodale pur non avendo alcuna capacità di stare in scena, cioè di essere attori (consapevoli e coscienti) del proprio agire.

Lo specchio si rompe e ciascuno ne afferra un pezzetto e tutti cominciano a mostrarsi attraverso esso: la società dello spettacolo, come un enorme specchietto delle allo-dole, prende il via. Il solo mostrarsi, l'esibirsi ha trovato terreno fertile nel narcisismo dell'era postpolitica degli anni ottanta che ha — chiuso il periodo 'liminale' di un lun-ghissimo sessantotto e ricomposti i cambiamenti realizzati più a livello antropologico che a livello culturale — rista-bilito valori nelle etichette delle confezioni, nelte marche dei jeans e delle scarpe definendo un'area di piccoli manager appartenenti tutti alla stessa, omogenea quanto omologata, cultura piccolo borghese

Dagli anni sessanta le strade del teatro si biforc^o (Raramente in due, una imitativa e una produttiva. La pri-ma risente del sociale, offre consolazioni attraverso conven-zionalismi stereotipati, la seconda rielabora frammenti di realtà. Entrambe riflettono, una con compiacimento, una con cinismo. La seconda, quella più vicina agli esempi ripor-tati da Turner, individua, rielal^ra, produce esperien^, si sottrae dallo spettacolo, tenta di ricoUegare i fili di tradizio-ni tramontate, ne riscopre il principio attivo e cerca luoghi dove è possibile ancora fare esperienze e creare eventi. Fa toolto di più che riflettere, mette in crisi e crea corti circuiti: produce cultura e chiama in causa, direttamente, lo spetta-tore, « H teatro nutrito dalia civiltà non si limita a riflettere la società, piuttosto produce società, aggiunge » ^ Per riu-scire in questo c'è bisogno di un'attenzione e di una 'curio-sità' nei confronti del contesto, di una capacità di ricono-scere i drammi sodali e di rielaborarli teatralmente. Se-guendo la lettura di Schechner:

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Introduzione dl'edtdone staliana

Turner afferma dbe questo schema occidentale di rottura, crisi, a2flone compensativa e reintegrazione è realmente universale. [ . . .] L'interesse sta nello scoprire come anche il teatro delle culture di mia conoscenza sia conforme allo sdiema, e dò permette di intuire una struttura universale del dramma che corre parallda al processo sociale: il dramma quindi è Tarte in cui soletto, struttura e azione trovano riscontro nd processo sociale

Tutto dò non può, però, avvenire per simmetria: il tea-tro parte dal sociale, prende da esso (nelle persone che lo fanno, nelle idee che esprimono, nel linguaggio che usano) e alla fine si scontra nuovamente con il sociale da cui è stato prodotto. Solo cosi, seguendo Turner, il teatro « a>ntiene al suo intemo i germi di una critica fondamentale di tutte le strutture sociali conosciute finora ».

Il lavoro del teatro si gioca in un processo che viene poi contenuto nell'opera, che esprime le persone che lo agi-scono, che parla di loro e, nello stesso tempo, di un tema, di un riferimento o di un testo.

Agisce sui livelli intimi della persona-attore e le chiede una capacità crìtica nei confronti del suo agire in relazione alla sua consapevolezza sociale Il processo che conduce all opera muove da quella zona di margine in cui si crea, dove ci si spoglia dell'io per vestirsi dd sé, dove si lascia l'individuo e s'incontra il soggetto. È li che inizia il lavoro di analisi, in una fase processuale che determina la scrittura teatrale, dell'attore, sulla scena. E Sdiechner utilizzando i contrasti di Lévi-Strauss sostiene che la sua complessa opera analizza i due contrasti natura/cultura, crudo/cotto. In termini teatrali l'azione « cotta » non è solo un'imi-tazione del comportamento problematico, è una riattualizzazione, uno stato o una sequenza di comportamento completamente nuova, ma rapportata analogicamente o metaforicamente^!

Questo ci allontana da Turner quando afierma che « ogni performance culturale, compresi il rito, la cerimonia, il carnevale, il teatro e la poesia, è spiegazione ed esplicita-zione della vita stessa ». È questo che separa le ricerche di Turner da quelle, sia teatri sia antropologiche, di Grò-towski. L'umanesimo di Turner è inconciliabile con la gno-stidtà di Grotowski. Con quest'ultimo saremmo portati ad

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IntroduTÌone all'edizione i t a l i a n a

aflfermare che ogni performance culturale interroga la vita, aggiunge vita, non esplica semplicemente.

L'arte e il teatro in particolare — potremmo dire rileg-gendo Adomo — diventa fatto sodale via della sua contrapposizione alla società, e quella contrapposizione essa la ricopre soltanto come arte auto-noma. Cristallizzandosi in se come fatto a sé stante invece di accon-discendere a nonne sociali esistenti e di qualificarsi come *social-mente necessaria', essa critica la società mediante il suo semplice

Passando ora dal terreno teorico a quello pratico, vengono subito a galla le difficoltà. Dalla formulazione dell' estetica negativa' di Adomo molti anni sono passati e molte cose sono cambiate: proprio uno dei più convinti assertori della teoria adomiana dell'avanguardia, Enzensberger, riconosce che questo lioguaggio è diventato quello della pubblicità. Comt tanti altri prodotti culturali, la letteratura e il teatro sono spesso al servizio dell'esi-stente, facendo di tutto per ribadirlo e confermado, confor-tando e consolando lettori e spettatori. Accanto al teatro della 'normal a schema fisso che ripropone le sue finzioni e i suoi attori replicanti si è fatto strada un genere di tea-tro bestseller sofisticato e pretenzioso che emana una im-mortale noia. L'identificazione e il piacere del pubblico in tali generi è segnale della vittoria di una industria culturale che, nello spettacolo, rivela la sua onnipotetiza,

È anche evidente che con il crescente conformismo si evita e si mettono a tacere sia le possibili crisi sìa queBe proposte culturali che infastidiscono o interferiscono nelle abituali forme di consumo. Forse possiamo trovare qual-die suggerimento iti Marcuse, che ha portato avanti le idee adomiane eliminando la contraddittorietà che le anima e spostando l'accento dal 'negativo^ al 'positivo': le possibi-lità possono essere individuate nella capacità dell'arte, e del teatro in particolare, di dichiarare la sua autenticità non solo nella forza del contenuto, né della forma, ma « per opera del contenuto che si è fatto forma » e di veri-ficare la sua capacità di « infrangere il monopolio della real-

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Introduzione aWedidone Udiana

tà costitmta (ovvero di coloro che Phanno costituita) e di definire dò che è rede »

A questo punto, superando le miopie e le indiJÌerenze, è importante guardare, identificare e moltiplicare i 'drammi sociali', utilizzadi nel proprio processo artistico purché que-sti si facciano forma.

STEFANO D E MATTEIS

From Ritual to Theatre ha ioaugorato la collana « Performance Studia Series » diretta da Richard Scheclmer e Brooks McNamara del Performing Arts Journal Publications, a cui ba fatto seguito una nuova raccolta dì S Ì ^ di Tumer, The Anthropology of Per-formance.

Nella presente edizione italiana i pochi riferimenti bibliografici deU^autore sono stati inseriti nell'apparato di note che ü curatore há approntato per il lettore italiano,

B curatore del volume ringrazia Fabrizio Crudani^ Renata Moli-nari, Rino De Pace, Giorgio Forti, Un ringraziamento particolare va a Carla Rabuffetti, per l'aiuto fornita.

Note

1 Cfr. Giovanni Arrigjii e Luisa Passerini (a cura di). La politica della parentela. Analisi situazionali di società africane in transiúoney Milano, FdttinelH, 1976.

2 Brocislaw Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, London, 1922; trad, it. Argonauti del Pacifico occidentdcy Roma, Newton Compton, 1975.

^ Ibidem, trad, it, p, 43, ^ YìctoT Tumer, Schism and Continuity in an African Society. A

Study of Ndembu Village Ufe, Manchester, Mandiester University Ptess, 1957, Alcune parti di Schism and Continuity sono apparse in italiano nel-Tantoli^a Let pdiiica della parentela, dt. da cui più avaná sí dta,

5 Arnold Van Gennep, Les rites de passage, Paris Bmile Nouiry, 1909; trad, it, í riti di passaggio, Torino, Boringhieri, 1981.

6 The Forest of Symbols, Aspects of Ndembu Ritual, Ithaca and London, Cornell University Press, 1967; trad. it. La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndemhu, Bresda, Morcefliana, 1976; The Ritual Process Structure and Anti-Structure, Chicago, Aldine Publishing Com-pany, 1969; trad it, II processo rituale. Struttura e anti-struttura, Brescia, Morcelliana, 1972.

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Introduzione aU'ediziofie ttdiana

f Hannah Arendt, Politica e menzog^, Milano, SugarCo, 1985, in particolare il sa^o La disohbedienza chñle, pp, 123-166.

8 Max Gluckman (a cura di). Il rituale nei rapporti sodaliy Rama, Officina Edizioni, 1972, p. 57,

^ Vito Pandolfi, Copioni da quattro soldi, Firenze, Ludano Landi Editore, 1958.

^ Hans Z^gnus Enzensbeiger, Sulla piccola rghesia, M3ano, li Saggiare, 1983, e il più recente Alfonso Beratdinelli, Uesteta e il politico. Tonno, Einaudi, 1986.

Qaudio Meldolesi, Teatro e sodologia, manoscritto inedito, cart. IIL

^ Ridiard Schechner, La teoria della performance 197019B3, Roma, Bulzoni, 1984, p. 130.

^ Un tale concetto può trovare riferimenti sia in Turner che in Schechner: si legge di quest'ultimo: «Turner pone ü fondamento del dramma nella trasformazione^ nell'idea cioè di sperimentare, attuare e ratificare il cambiamento facendo teatro. Qui le trasformazioni avvengono in tre luoghi diversi, e a tre digerenti livelli: 1) nel dramma, cioè nella storia; 2) nei performer, ai quali spetta di sottomettersi a una temj^ranea riorganizzazione del loro complesso corpo/mente; 3) nel pubblico, in cui i cambiamenti possono essere o temporanei (intrattenimenti) o permanenti (riti) » op. cit, p. 133,

Richard Sdiechner, op. cit, p. 134. 15 Theodor W, Adomo, Teoria estetica, Torino, Einaudi, p. 318.

Herbert Marcuse, La dimensione estetica, Milano, Mondadori, 1978, p. 25-

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Victor Turner

Dal rito al teatro

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Introduáone

I capitoli di questo libro segnano la mappa del mio viaggio personale di scoperta dagU studi antropologici tradMonali sulla performance rituàde a un vivo interesse per il teatro moderno, in particolare per qudlo speri-mentale. In im certo senso, tuttavia, il viaggio è stato anche un 'ritomo del rimosso*, dato che mia madre, Vio-let Witter, era stata a Glasgow membro fondatcare e attrice dello Scottish National Theater, che negli anni Venti ambiva ad essere Tequivalente del grande Abbey Theater di Dublino, se non la risposta ad esso. Ma ahimé, i celti scozzesi, contaminati da progenitori normanni e calvinisti, non potevano emulare la trascinante eloquenza nazionalista o il duro metacoromento politico di un'Irlan-da in lotta per la sua libertà, un'Irlanda ricca di bardi e di drammaturghi. Ben presto Ü National Theater chiuse i battenti. Mia madre però rimase una teatrante fino alla fine e, come Ruth Ehraper presentava dei recital attin-gendo Ü suo repertorio da autori allora considerati 'ribel-li', come Ibsen, Shaw, Strindberg, O'Casey, Olive Schrei-ner e Robert Bums Era anche una specie di fermninista, e incluse fra i suoi pezzi una scelta di brani presentati con il titolo Grandi donne da grandi drammi^ che spazia-va da Euripide, attraverso Shakespeare e Webster, Gin-greve e Wycherly, fino a uno strano assortimento di 'moderni' composto da James Barde, Fiona McLeod (in realtà il critico William Sharp, che si presentava come donna in ornalo al rinascimento letterario celtico), Qe-mence Dane {la regina Elisabetta in WM Shakespeare^) e di nuovo Shaw {La grande Caterina e Candida^. Il tema ricorrente era il carisma femminile, quella sorta di maestà innata o acquisita che intimidiva i sáücenti maschi domi-natori, Mio padre invece era un ingegnere elettrotecnico

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Inlrodtmone

(o 'elettronico', come si direbbe oggi), un fantasioso uomo d'affari che aveva lavorato intensamente con John Logan Baird^ un pioniere nello sviluppo ddla televisione. Per il teatro aveva scarso interesse e scarsa capacità di discer-nimento, mentre adorava i romanzi di H.G. Wells (so-prattutto quelli di fantascienza), che una volta aveva co-nosciuto di persona. Come era inevitabile die accadere nell'epoca delle « due culture 3s> teorizzate da CJ?. Snow dbe ancor più dell'« oriente e occidente » di Kipling non avrebbero mai « potuto incontrarsi », essi finirono per di-vor2áare, e seppellirono me , ^pena undicenne ma già fervente nazionalista sco^ese, nonni materni, che vi-vevano da pensionati nel profondo sud dell'Inghilterra, a Bournemouth. Quell'angolo in riva al mare era stato onorato occasionalmente dalla presenza di Verlaine e Rimbaud, Walter Scott, Tolstoj, Robert Louis Steven-son, James Elroy Flecker e altri autori di minore impor-tanza; ma era la sua natura, non la sua cultura, ad emo-zionarmi: il suo mare e i suoi promontori, la sua vicinan-za alla New Forest, la fragranza dei suoi pini. Separato di fatto da entrambi i miei genitori (mia madre girava per l'Inghilterra meridionale insegnando i principi di Delsarte e la dizione alle signorine in varie Free Schools, mentre mio padre, rimasto in Scozia, 'fece bancarotta' nella depressione degli Trenta), oscillavo fra l'arte e la scienza, lo sport e i classici. A dodici anni vinsi un premio per una poesia su « Salamina », che mi procurò per molti anni Io scherno dei miei compagni di scuola e mi costrinse a mettermi in evidenza come ^^datore e gio-catore di cricket piuttosto violento (conquistai vergo-gnandomene il superbo titolo di carro armato) per can-cellare le stigmate della sensibilità.

Non c'è dunque da meravigliarsi se col tempo diven-tai un antropolo^, cioè un adepto di ima disciplina so-spesa in equilibrio precario tra quelle che promuovono la 'sdenza della cultura' sul modello delle sdenze natu-rali dd didannovesimo secolo e quelle che mostrano come 'noi' (ocddentali) possiamo partedpare dell'umanità de^ altri (non ocddentali). Le prime ragionano in termini di

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Introduzione

materialismo monointenzíonale, le seconde in termini di comunicazione reciproca. Probabilmente sono necessari en-trambi i pimti di vista. Dovremmo cercare di scoprire come e perché insiemi di esseri umani in luoghi e tempi diversi sono simili e differenti nelle loro manifestazioni culturali; dovremroo anche indagare come e perché tutti gli uomini e le donne, se si sforzano di farlo, riescono a comprendersi a vicenda. All'inizio studiai con gli 'strut-tural-funzionalisti* inglesi, eredi non soltanto dei filosofi empiristi inglesi, Locke e Hume, ma anche dei positivisti francesi, Comte e Durkheim. Certi marxisti da salotto hanno accusato quelli di noi che n^li anni Cinquanta vivevano a contatto con la 'gente' nei villaggi africani, malesi e oceanici, spesso per diversi anni, di 'sfruttare' Ü funzionalismo strutturale per fornire una patente di oggettività 'scientifica' a un'ideologia accettata acritica-mente (il colonialismo nell'antropologia prebellica, il neo-imperialismo oggi). Queste arcigne «Teste Tonde» mo-derne (una banda infrarossa nello spettro mondiale delle maggioranze morali) sono ossessionate a tal punto dal po-tere, che non sono in grado di avvertire la complessità e la molteplicità di livelli dell'esistenza imiana esperita direttamente, e sono perciò incapaci di ironia e di indul-genza.

L'addestramento per il lavoro sul campo risvegliò in me lo scienziato: il retaggio paterno. L'esperienza sul campo rivitalizzò la vocazione teatrale die mi veniva da mia madre. Giunsi a un compromesso inventando im'imità di descrizione e di analisi che chiamai <c dramma socia-le » Durante il lavoro sul campo la mia famiglia ed io non vivevamo in una 'torre d'avorio': trascorremmo circa tre anni in villaggi africani (Ndembu, Lamba, Kosa, Gisu), abitando per lo più in capanne d'erba. Una sorta di 'dram-ma' emergeva continuamente, addirittura prorompeva, dalla superficie per il resto assai uniforme della vita so-dale. Per lo scienziato che era in me, questi drammi so-ciali rivelavano le relazioni 'tassonomìdie' tra gli attori (i loro legami di parentela, le posizioni strutturali, la classe sociale, lo status politico e cosi via), i loro vincoli

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Introduzione

e opposizioni contemporanei di interesse e di amicizia, la rete dei loto legami personali, le loro relazioni informali. Per l'artista che era in me, il dramma rivelava il carattere individuale, lo stile personale, il talento oratorio, le dif-ferenze morali ed estetiche e le scelte dichiarate e messe in atto. Ma soprattutto mi rese consapevole del potere dei simboli neUa comunicazione umana. Questo potere non investe solo il lessico e la grammatica comuni dei linguaggi parlati e scritti, ma andbe la costruzione indivi-dude del discorso, retorica o poetica, attraverso tropi atti a persuadere: metafore, metonimie, ossimori, « paro-le sagge » (una figura rctonca degli Apache occidentali) e molti altri. E la^^mum mediante i simboli non si limta alle parole, pgni cultura, e ogni ìnSviduo al-Tintemo di essa, sfrutta Tintera gamma sensoriale per trasmettere messaggi: gesti delle mani, espressioni faccia-li, posizioni del corpo, respiro rapido, lieve o pesante, lacrime a livello individuale; gesti stilizzati, figure della danza, silenzi prestabiliti, movimenti sincronizzati come la marda, le mosse e gli atteggiamenti dei giochi, degli sport e dei rituali a livello culturale. Claude Lévi-Strauss fu uno dei primi a richiamare la nostra attenzione sulla molteplicità dei « codici sensoriali » attraverso i quali l'in-formazione può essere trasmessa, e su come essi si posso-no combinare e « tradurre » l'uno nell'altro

Forse senza Ü mio precoce contatto con il teatro (Ü primo spettacolo che riardo chiaramente è !a versione della Tempesta di Sir Frank Benson quando avevo cin-que anni), non sarei stato colpito dal potenziale 'teatrale' della vita sodale, specie in comunità cosi saldamente strut-turate come i villaggi africani. Ma a nessuno sarebbe po-tuta sfuggire l'analogia, addirittura l'omologia, sia pure su scala ridotta o limitata, fra quelle sequenze di eventi apparentemente 'spontanei' che mettevano in piena evi-denza le tensioni esistenti in quei villaggi e la caratteri-stica 'forma processuale' del dramma ocddentale da Ari-stotele in poi, o dd poemi epid e delle saghe ocddentali. Inoltre nessuno poteva non accorgersi di quando il 'tempo drammatico' si sostituiva alla routine della vita sociale.

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Introduzione

Il comportamento assumeva quel carattere che i neurobio-logi cliiamano «ergotropico)>. Secondo la loro defimaáone, esso è caratterÌ22;ato da « eccitazione, intensificazione del-Pattività e delle reazioni emotive ». Non c'è dubbio che se avessi posseduto gli strumenti tecnici di misurazione avrei potuto scoprire negli 'attori' « scariche simpatetiche accresciute » quali « aumento del ritmo cardiaco, della pressione del sangue, della sudorazione, della dilatazione delle pupille, e l'inibizione delle funzioni motorie e secre-torie gastrointestinali » In altre parole durante i dram-x, mi sociali l'atmosfera emotiva di un gruppo è piena di tuoni, fulmini e venti variabili! Ciò che è accaduto è che il normale funzionamento della società è stato interrotto da una pubblica rottura, che può andare da una grave trasgressione dei codice di comportamento a un atto di violenza, un pestaggio o addirittura un omicidio. Tale rot-tura può essere il prodotto di un sentimento autentico, magari un delitto passionale, o di freddo calcolo come un'azione politica contro la struttura di potere esistente. La rottura può anche accadere sotto forma di un caso sfortunato: una lite per un boccale di birra, una frase incauta o udita per caso, una lite non premeditata. Non-dimeno, una volta che gli antagonismi sono venuti allo scoperto, ì membri di un gruppo prendono inevitabilmen-te posizione. O altrimenti cercano di indurre i contendenti a riconciliarsi. Quindi la rottura sfocia nella crisì^ e i cri-tici della crisi cercano di ristabilire la pace. Questi critici sono di solito persone fortemente interessate al manteni-mento dello status quo ante- gli anziani, i legislatori, gli amministratori, i giudici, i sacerdoti e i tutori della legge della comunità in questione. Tutti o alcuni di loro tenta-no di applicare un meccanismo di compensazione^ di ap- "" pianare i dissidi, di riannodare' i legami sociali spezza-ti, di 'rattoppare i buchi' nel 'tessuto sodale', con i mezzi giuridici dei tribunali e dei processi giudiziari o con quel-li rituali forniti dalle istituzioni religiose: divinazione delle cause occulte del conflitto sodale (stregoneria, col-lera degli antenati, disapprovazione degli dèi), sacrifido profilattico, rituale terapeutico (che implica Tesordzzazio-

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Introduzione

ne degE spiriti maligni e la propÍ2áazione di quelli « buo-ni e infine trovano l'occasione adatta per Tesecuzione di un rito importante che celebri i valori, gli interessi comuni e Tordine morale della più ampia comunità cul-turale ed etica riconósciuta, dbe trascende le divisioni del gruppo locale. Il dramma sociale si conclude (se mai si può dire che esso abbia un « ultimo atto ») o con la ri-condliaáone delle parti in conflitto o con il loro comime riconoscere rinsopprimibilità delle dijfferenze, il che può^ comportare che una minoranza dissidente si stacchi dalla ' comimità originaria e si cerchi un nuovo habitat (il tema dell'Esodo, che però è esemplificato anche, su scala mi-nore, dalle scissioni dei villaggi centro-africani).

Nelle società moderne di grandi dimensioni i drammi sociali possono espandersi dal livello locale alle rivoluzio-ni nazionali, o assumere fin dall'inizio la forma di una guerra tra nazioni. In tutti i casi, dal livello deUa fami-glia e del villaggio al conflitto intemazionale, i drammi sociali rivelano strati « sottocutanei » della struttura so-ciale, poiché ogni « sistema sociale dalla tribù alla na-zione al campo delle relazioni intemazionali, è composto da diversi 'gmppi', categorie sociali', status e moU, di-sposti in gerardiie e internamente articoIatigNelle società cH picx:oIe dimensioni vi sono opposizioni tra clan, sotto-dan, stirpi, famiglie, fasce di età, associazioni religiose e politiche, eccetera. Nelle nostre sodetà industriali d sono familiari le opposizioni fra classi, sottodassi, gmppi etni-d, sette e culti, regioni, partiti politid e associazioni ba-sate sulla divisione del lavoro o sull'appartenenza allo stesso sesso o alla stessa generazione. Altre sodetà sono divise al loro intemo in caste e corporazioni tradizionali, I drammi sodali hanno la caratteristica di attivare queste opposmoni classificatorie, e molte altre: fazioni che pos-sono scavalcare le divisioni tradizionali di casta, di dasse o di stirpe in nome del perseguimento di un interesse immediato comune; movimenti di 'rinascita' religiosa die possono mobilitare precedenti nemid 'tribali* per una op-posizione congiunta a potenze colonizzatrid straniere con xma tecnologia militare superiore; alleanze e coalizioni in-

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Itftrcdmone

temazáonali di grappi ideologicaineate eterogenei che ri-tengono di avere nn nemico romune (spesso ugualmente eterogeneo nella composizione nazionale, rdigiosa, di clas-se, ideologica ed economica) e interessi immediati comu-ni, I drammi sodali hanno il potere di trasformare que-ste opposizioni in conflittL

L^ vita sodale dunque, anche nei suoi momenti di apparente quiete è eminentemente 'gravida* di drammi sodali. È come se ciascuno di noi avesse una faoáa 'della pace' e una 'della guerra', come se fossimo programmati per la cooperazione, ma preparati per il conflitto. La mo-dalità agonistica perenne e primordiale è il dramma soda-le, Ma come la nostra spede si è evoluta nel tempo ed è divenuta più abfle nell'uso e nella manipolazione dd simboli, come il nostro dominio tecnologico della natura e il nostro potere di autodistruzione sono cresduti espo-nenzialmente nelle ultime migliaia di anni, in misura ana-loga è in qualche modo aumentata la nostra abilità nel-Tideare modalità culturali per affrontare, comprendere, fornire di un significato e talvolta risolvere la crisi: ñ secondo stadio dell'in^tirpabile dramma sodale che d minaccia in ogni momento, in ogni luogo e ad ogni livello dell'organizzazione sodoculturale. La terza fase, qudUia delle modalità di compensazione, che ha sempre contenu-to almeno il germe dell'autoanalisi, un modo pubblico per valutare ü nostro comportamento sodale, si è trasferita dalle sfere della legge e ddla religione a quelle delle varie arti. La crescente complessità della divisione sodale ed economica del lavoro, oltre a fornire k possibilità di sfug-gire, grazie alla spedalizzazione e alla professionalizzazio-ne, all'assorbimento totale nel processo sodale in atto, ha anche prodotto complessi sistemi sodoculturali con effica-, ci strumenti di autocontrollo. Mediante generi quali il teatro, comprese le marionette e il teatro d'ombre, la dan-za e i cantastorie professionisti, vengono offerte deHe performance che sondano i punti deboli di una comunità, chiamano i suoi capi a renderne conto, dissacrano i valori e le credenze che essa tiene in maggior conto, riproduco-no i suoi conflitti caratteristid proponendo per essi delle

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Introduzione

soluzioni, e valutano in generale la sua attuale collocazio-ne nel 'mondo' conosduto.

Le radici dd teatro sono dunque nel dramma sociale, e il dramma sociale si accorda benissimo con la forma drammatica che Aristotele ha ricavato per astrazione dalle opere dei tragici gred. Ma nelle complesse società urba-ne, con dimensioni da 'civilizzazione', il teatro si è trasfor-mato in un settore specializzato, all'interno del quale è diventato legittimo sperimentare modalità di rappresenta-zione, molte delle quali si allontanano radicalmente (e consapevolmente) dal modello aristotelico. Tuttavìa que-ste stesse sofisticate deviazioni sono già implicite nel fatto die il teatro deve la sua genesi specifica alla terza fase del dramma sodale, una fase che è essenzialmente un tenta-tivo di attribuire un significato agli eventi 'sodal-dtamma-tici' mediante quel processo che Richard Schedmer ha re-centemente definito « recupero del passato » In effetti il teatro è un'ipertrofia, ^m'esagerazione di processi giuri-did e rituali; non è una semplice ripetizione della 'natu-rale' struttura processuale totole del dramma sodale. C'è perdo nel teatro qualcosa del carattere di indagine di giu-dizio e persino di punizione proprio della prassi legale, e qualcosa del carattere sacrale, mitico, numinoso, addirit-tura sovrannaturale' dell'azione religiosa, a volte fino ad arrivare al sacrifido, GrotowsH ha designato perfettamen-te questo aspetto con le sue espressioni « attore santo » e « sacralità laica »

Le scuole positív ístiche e funzionaHstiche di antropo-logia, le prime di cui appresi concetti e metodi, potevano consentirmi soltanto una comprensione limitata delle di-namiche dei drammi sodali. Ero in grado di contare le persone coinvolte, stabilire il loro status e i loro ruoli so-ciali, descrivere il loro comportamento, raccogliere da altri informazioni biografidie su di loro, e collocarle struttural-mente nel sistema sodale della comunità manifestato dal dramma sodale. Ma questo modo di trattare « i fatti so-ciali come cose », secondo l'esortazione che il sodologo francese Durkheim rivolgeva ai ricercatori, serviva a poco per comprendere i motivi e i caratteri degli attori di que-

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Introduzione

gli eventi saturi di intenzioni, di emozdoni e di 'significati*. Gradualmente, con sc te temporanee per studiare i pro-cessi simbolici, le teorie sull'interazione simbolica, le idee dei fenomenologi sociali e quelle degli strutturalisti e dei decostruzionisti francesi, fui attratto verso la posizione fondamentale delineata dal grande pensatore sociale tede-sco Wilhelm Dilthey, che in fotografia fa pensare a un vecchio contadino dai capelli grigi. Questa posizione si basa sul concetto di esperienza vissuta (in tedesco; Erleb-nis, letteralmente « dò che si è vissuto fino in fondo »). Kant aveva sostenuto che i dati dell'esperienza sono « pri-vi di forma ». Dilthey non era d'accordo Egli ricono-sceva che qualunque « molteplidtà » osservabile, sia essa una formazione o un organismo naturale, una istituzione culturale o un evento mentale, contiene certe relazioni for-mali che possono essere analizzate. Dilthey le chiamò « ca-tegorie formali »: unità e molteplicità, somiglianza e dif-ferenza, tutto e parte, grado, e altri concetti elementari di questo genere Hodges, nel suo libro su Dilthey, riassu-me cosi questa concezione:

Tutte le forme del pensiero discorsivo analizzate dalla logica formale e tutti i concetti fondamentali della matematica possono essere ridotti a queste categorie formali. Esse costituiscotto un si-stema entro il quale deve trovar posto ogni pensiero su qualsiasi argomento* Sono applicabili a tutti i possibili oggptti del pensiero, ma non esprìmono la natura peculiare di nessuno di essi-, e come senza di esse nulla può essere compreso, cost nulla può essere com-preso con esse soltanto^ [i corsivi sono miei].

Dilthey prosegue sostenendo che Tesperienza, nel suo aspetto formale, è più ricca di quanto le categorie formali generali possano rendere conto. Non è che Ü soggetto per-cipiente imponga categorie come lo spazio, la sostanza, la causalità, l'azione reciproca e cosi via al mondo fisico, e la durata, la libertà creativa, il valore, il significato e si-mili al « mondo spirituale Piuttosto, gli stessi dati del-Tesperienza contengono una « tendenza alla forma », e il compito del pei^iero è di elaborare la « connessione strut-turale » ^ implidta in ogni Erlebnis o unità di esperienza

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Introduj^ume

osservabile, sia essa un affare di cuore, una cause célèbre di importanza storica come il caso Dr^rfus, o un dramma sociale.

Le strutture dell'esperienza, per Dilthey, non sono le esangui 'strutture conoscitive', statiche e 'sincroniche', tanto care all'approccio strutturalista allo studio del pen-siero che per tanto tempo ha dominato l'antropologia fran-cese. Ovviamente, la conoscenza è un aspetto, sfaccettatu-ra o 'dimensione' importante di qualsiasi struttura d'espe-rienza. n pensiero chiarifica e universalizza l'esperienza vissuta, ma questa è intrisa di sentimento e di volontà, fonti rispettivamente dei giudizi di valore e delle norme. Dietro l'immagine del mondo di Dil&ey c'è il fatto fonda-mentale dell'essere umano totale (!'« uomo vivo » di DJH. Lawrence) alle prese con il suo ambiente, dell'essere uma-no che percepisce, pensa, sente, desidera. Come egli dice, « la vita coglie la vita ». E Hodges continua:

Tutte le stmtture intellettuali e linguistiche che i filosofi stu-diano, e dalle cui complessità e oscurità sorgono i problemi della filosofia, sono episodi di questa interazione fra l'uomo e il suo mondo

Secondo me l'antropologia della performance è una. parte essenziale dell'antropologia dell'esperienza. In un certo senso, ogni tipo di performance culturale, compresi il rito, la cerimonia, il carnevale, il teatro e la poesia,, è spiega2áone ed esplicazione della vita stessa, come Dñthqr sostenne spesso. Mediante il processo stesso della perfor-| ^ mance dò che in condisioni normali è sigillato ermetica-mente, inaccessibile all'osservazione e al ragionamento quo-tidiani, sepolto nelle profondità della vita sociocuitur^e,-è tratto alla luce: Dilthey usa il termine Ausdruck, « espressione », da ausdrücken^ letteralmente « premere o spremere fuori ». Il 'significato' è 'spremuto fuori' da un • evento che è stato esperito direttamente dal drammaturgo o dal poeta, o che relama a gran voce una comprensione {Verstehen) penetrante e fantasiosa. Un'esperienza vissu-ta è già in se stessa tm processo che 'preme fuori' verso un"espressione' che la completi. Qui l'etimologia di per-

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Introduzione

formance può fornirci un indizio prezioso: essa infatti non ha niente a che fare con 'forma', ma deriva dal francese antico parfourmfy <( completare » o « portare completamen-te a termine ». Una performance è quindi la conclusione adeguata di un'esperienza. I cinque 'momenti' ddl^Erleb-nis presentati da Dilthey hanno una struttura processua-le, sono collegati geneticamente. Ciascun Erlebnis o espe-rienza vissuta particolare ha: a) ìm nucleo percettivo (pia-cere o dolore possono essere avvertiti più intensamente che nei comportamenti ripetitivi, divenuti routine); h) im-magini di esperienze passate vengono evocate con « inso-lita chiarezza di contorni, poten:^ di senso ed energia di proierione » c) Ma gli eventi passati rimangono inerti a meno che i sentimenti originariamente collegati ad essi non possano essere pienamente rivissuti d) il « signifi-cato » ^ si genera con il pensare, connotato « sentimental-mente », alle interconnessioni fra gli eventi passati e quelli presenti. Qui Dilthey distingue fra « significato » {Bedeu-tung) e « valore » {Wert) Il valore appartiene essen-zialmente a un'esperienza in im presente cosciente e ineri-sce al godimento aJBFettivo di esso. I valori non sono inte-riormente connessi tra loro in modo sistematico. Come dice Dilthey:

La vita appare, da questo ptmto di vista del valcoe, come ima pienezza infinita di valori esistenziali positivi e n a t i v i , una pienez-za di valori propri. Essa è un caos di armonie e dissonanze, in cui le dissonanze non si risolvono però nelle armonie. Nessun suono, die riempia un momento presente, ha xin rapporto musicale cx>n un altro antenote o successivo

Il processo di scoperta e determinazione del « significa-to » consiste invece proprio nel porre il passato e il pre-sente in un « rapporto musicale ». Tuttavia essere perve-nuti a un significato per conto proprio non è sufficiente; e) un'esperienza vissuta non è mai veramente completa finché non viene « espressa », cioè finché non viene co-municata in termini intelligibili dagli altri, tramite il lin-guaggio o in altro modo. La cultura è appunto l'insieme di tali espressioni: l'esperienza vissuta de^ individui resa

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Introduzione

disponibile alla scxietà e accessibile alla penetrazione sim-patetica di altri ^spiriti'. Per questa ragione Dilthey pen-sava aUa cultura come allo « spirito elettivo » {objectiver Geist) Secondo lui « la nostra conoscenza di dò che è dato ncWErlehnis á amplía mediante Tinterpretazione delle oggettivazioni della vita, e questa interpretazione, a sua volta, è resa possibile dall'immersione neUe profondità del-Tesperienza soggettiva »

Perciò noi possiamo conoscere le nostre profondità soggettive non solo attraverso Tintrospezione, ma andie esaminando le oggettivazioni significative espresse' dagli altri spiriti. Inversamente, l'autoesame può fornirci indi-cazioni per penetrare le oggettivazioni della vita generate dall'esperienza altrui. In ciò è implicita una sorta di « cir-colo ermeneutico o meglio di <f spirale », dato che ogni giro trascende quello precedente.

Per Dilthey vi sono diverse classi di espressioni. Ci sono le « idee », che possono essere trasmesse con preci-sione, poiché possiedono un alto grado di universalità. Esse però non d dicono nulla sul particolare stato di co-sdenza deUa persona, in cui sono apparse la prima volta. « La nostra comprensione qui è predsa, ma non profon-da », dice Dilthey. « Essa d dice quale idea ha un indivi-duo, ma non come è giunto ad averla » Una seconda dasse di espressioni è costituita dalle « azioni » umane. Ogni azione, sostiene Dilthey, è P^ecuaone di un proget-to, di una volizione, e poidié la relazione fra azione e pro-getto è costante e intrinseca, è possibile risalire dalla prima al secondo. L'azione è stata compiuta non per esprimere il progetto, ma per realizzarlo; nondimeno, per un osser-vatore esterno, essa di fatto esprime dò che realizza . Questo vale non soltanto per le azioni che un individuo agente compie nella sua vita privata, ma anche per gli atti pubblid dei legislatori e per il comportamento di masse di persone in drcostanze pubbliche. Nel descrivere e nel-Tanalissare i drammi soddi in Africa e altrove, ad esem-pio, io ho acquisito una forte consapevolezza della rela-zione fra le azioni da un lato, i progetti e gli scopi dal-l'altro, anche se Ìo mi spingerei più lontano di Dilthey e

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lí^oiuúone

affermerei che molte azioni esprimono e realizzano proget-ti e scopi inconsci.

Questa componente formativa inconscia è ancora piti importante per quanto riguarda la terza classe di espres-sioni: le opere d'arte. Dilthey doveva essere consapevole della sua importanza quando scriveva:

Dispongo davanti a me il complesso delle pubblicazioni artisti-che, letterarie e scientifiche di Goethe, e il resto dei suoi scritti Qui può essere risolto ü problema di comprendere la loro intima natura, tu un certo senso megUo di quanto Goethe non compren-desse se stesso

Le opere d'arte sono profondamente diverse da molte espressioni dell'esperienza politica, che sono sottomesse al potere di interessi ^oistici o di parte, e quindi sopprimo-no, distorcono o falsificano i prodotti d^'esperienza au-tentica. Gii artisti non hanno nessun motivo per ingan-nare o per nascondere qualcosa: essi si sforzano al con-trario di trovare la forma espressiva perfetta per la loro esperienza. Come scrisse Wilfred Owen, <c I veri poeti devono essere veridici », In qualdie modo essi hanno un accesso immediato e innocente a qaelio strano spazio li-minale (presente in tutti noi, ma n^Ji artisti in forma più evidente) dove, come scrive Dilthey, « la vita si dischiude a una profondità inaccessibile all'osservazione, alla rifles-sione e alla teoria » Ma una volta « espressa )> in forma di opere d'arte, i lettori, gli spettatori o gK ascoltatori possono riflettere su di esse, poiché si tratta di messaggi degni di fede dalle profondità della nostra specie, e della vita « umanizzata » che, per cosi dire, si discìdude.

Ricapitolando, dunque, abbiamo tracciato una via che dalla terza fase del dramma sodale conduce alla perfor-mance teatrale, la quale risulta quindi coUegata al « quinto momento » di un Erlebnis diltheyano, o imita d'esperienza strutturata. È in questo momento che il poeta, l'artista o il drammaturgo « dispiega liberamente le immagini oltre i confini della realtà » L'artista cerca di penetrare l'es-senza stessa àé^*Erlebms. Cosi facendo dà libero accesso alle profondità dove « la vita cogEe la vita ».

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ìntrodtmone

N^Ji ultimi dnque anni sono stato direttamente ini-ziato (k Ridiard Schedbner al lavoro del teatro sperimen-tale che era fiorito negli Stati Uniti nei tardi anni Se^anta e nei primi anni Settanta, ma che purtroppo c ^ sembra ridotto alle ultime scintille. Molti dei saggi di qu^to libro sono coU^ati alle teorie di Schedmer e alla sua attività pratica di regista. Il teati» di Scbechner era attento ai drammi sodali del nostro tempo, e cercava, « dispiegando liberamente le immagini oltre i confini della realtà », di afferrare la natura delle sue difficoltà. In realtà l'intero pro-cesso che metteva in moto dopo aver scelto un tema drammatico era più o meno una traduzione in termini pub-blici e espliciti del movimento interiore, descritto da Dil-they, éaSÌ^Brlebnis come ^perienza immediata al suo esito significativo ed estetico, sotto forma di opera d'arte. La « esperienza immediata » era di solito qualche problema della vita privata di Scbechner o di quella del Performan-ce Group di cui era direttore. Egli allora si metteva alla ricerca di un 'testo' o di un 'copione' die gli servisse da specchio, da strumento di riflessione, per esaminare fl suo problema. All'« esperienza immediata )> era legato anche il processo di assegnazione delle parti, il cui complesso meccanismo non ho qui lo spazio per descrivere. Poi co-minciava la iase di 'laboratorio', che spesso durava per_ più di un anno, e che una volta mi venne da paragonare all'accampamento nella foresta dove i novizi vengono ini-ziati nei riti africani di circoncisione, nel corso dei quaBT i neofiti vengono introdotti alla conoscenza esoterica, ad-destrati in utili tecniche pratiche, sottoposti a prove, mes-si a confronto con figure mascherate e numinose che rap-presentano divinità e remoti progenitori della tribù, ven-gono loro descritti i miti dell'origine e, di fatto, la loro ^ precedente personalità sodale viene dissolta al fine di ^ farli ricrescere per usare un'espressione aj6ricana molto j nota, come persone mature e capad di autocontrollo. Come avviene abitualmente nel teatro 'postmoderno' (doè sue- í cessivo alla seconda guerra mondile), a volte il testo viene ' composto {o testi di drammaturghi vengono smontati e j poi rimontati) nel corso delle prove. H testo non occupa '

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Introdurne

I una posizione di privilegio. Lo spazio scenico gli attori, i il r ^ t a , i messi utilizzati (strumenti di amplificazione e distorsione delle voci, schermi televisivi, film, diapositive, nastri registrati, musica, recitazione in play back, fuochi d'artificio e molti altri), la prolungata separazione fra Fat-tore e il personaggio ottenuta mediante svariati accorgi-menti, tutti questi fattori ed espedienti v ^ o n o combi-nati e ricombinati in modo flessibile, come riflessi di quella volontà comune che sorge dai rari momenti di « commu-nitas » fra gii uomini che fanno parte del gruppo tea-trale.

Questi mezzi e codici espressivi multiformi e indeter-minati sono risposte provvisorie e sperimentali ^'esperien-za dei membri della subcultura teatrale postmoderna in quanto membri della nuova biosfera-noosfera (per usare i termini di Teilhard de Chardin) creata dal salto di qualità dei mem di comunicazione e di trasporto planetari, dalla computerizzazione di miriadi di « bit » di informazione, dal-l'espansione tentacolare delle multinazionali, rette da invi-sibili oligarchie che si sottraggono al riconoscimento poli-tico diretto, e soprattutto dalla spada di Damocle della distruzione nucleare che oggettivamente minaccia tutto e soggettivamente blocca a metà strada il progressismo uma-nistico, 'moderno'. Schediner sostiene questa tesi in un recente articolo. Egli eqxiipara !'« esperienza » a « avveni-menti abituali in una dimensione lineare », « narrativa » e al « significativo », e l'attribuisce alla visione « moder-na » dell'azione umana essenzialmente rinascimentale, oggi superata Ma il termine non può in realtà essere àteo-scritto entro confini spaziotemporali cosi angusti. La pa-rola « esperienza » si è mantenuta, in diverse forme affini, in molte lingue derivate dall'indoeuropeo originario. Per analogia con la geologia, l'archeologia e la psicologia del profondo, si potrebbe considerare l'etimologia delle parole diiave ddle Éngue principali come im sistema a più livelli i cui strati sono composti da sedimentazioni successive del-l'« esperienza » storica. Dopo tutto l'etimologia è un modo di « recuperare il passato », una forma di « autoriflessio-ne » Imguistica. La crosta geologica della terra, composta

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IntToduxhne

di molti livelli o 'laminata', è ancora 'viva' (si pensi al-reru2áone di monte St. Helen); ancora più viva è la 'men-te' o 'psiche' umana, con i suoi livelli conscio, preconscio e inconscio, ciascuno suddiviso in strati o fasce depositate da ripetute 'esperienze traimiaticiie' o drammatiche. I neu-robiologi che studiano il sistema nervoso centrale ricono-scono la sopravvivenza di strutture 'arcaidie' nel cervello, nel proencefalo e nei sistemi autoncmd, che continuano ad interagire con la neocorteccia. In modo simile, i 'sensi' passati di una parola moderna hanno influenzato ñ suo at-tuale spettro di significati.

Alcuni studiosi, fra cui Julius Pokomy riportano il termine « esperienza x ad una ipotetica base o radice indo-europea pev'y « tentare, azzardare, rischiare », da cui de-riverebbe il greco peira^ « esperienza », fonte della nostra parola « empirico ». Essa è anche la radice verbale da cui deriva il germanico " feraZy che ha dato origine al termine dell'inglese antico faery « pericolo, disgrazia improvvisa », da cui l'inglese moderno fear « paura ». Possiamo già ve-dere come ^per- prenda direzioni 'gnoseologiche' nd con-testo greco e direzioni affettive in quello germanico: il che, c'è da scommetterci, avrebbe destato l'interesse di Dilthey. Ma più direttamente, experience deriva, passando per il medio inglese e il francese antico, dal latino experientiay che significa « tentativo, prova, esperimento », a sua volta generato da experiens, participio presente di experiri, « tentare, esaminare », composto da ex, « fuori », e dalla radice per come in perituSy « esperto », « colui che ha im-parato mediante tentativi ». Con l'aggiunta del suffisso,

si tramuta nella forma più estesa ^peri-tlo, da cui il latino periclum, periadumy « tentativo, pericolo, cimen-to ». Ancora una volta troviamo il concetto di esperienza collegato a quello di rischio, tendente verso il 'dramma', la crisi, anziché verso un blando apprendere in senso pu-ramente conoscitivo! La forma con suffisso dell'indoeuro-peo ^per-y per-ya, emerge, come abbiamo già detto, nel greco peira, ma ciò che avevamo tralasciato di dire è che la parola « pirata » deriva da quella parola greca, passan-do per peirateSy « aggressore », da peiran, « tentare, aggre-

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Introdtmone

dire ». Risalendo ancora più indietro, studiosi di etimolo-gia quali Walter Skeat e Pokomy ritengono die la radice verbale facda parte di un gruppo foneticamente si-mile, il cui concetto centrale sta forse alla base di q u ^ ' avverbi e preposizioni il cui nucleo semantico è <c innanri », « attraverso ». Perciò il verbo greco perao significa « io passo attraverso ». Se dobbiamo considerare, in termini dilthejrani, le istituzioni culturali e le forme simboliche come secrezioni cristallizzate di quella die un tempo fu l'esperienza vivente degli uomini, sia individuale che col-lettiva, allora possianK) forse considerare la stessa parola « esperienza » come un viaggiatore che accumula esperien-ze attraverso il tempo. Oppure possiamo ricondurla alla metafora di un « albero )>, la cui radice è l'idea di « pas-saggio periojloso », o addirittura di « rito di passaggio ». Sempre da "per- derivano le parole inglesi \are (viaggiare) e ferry (tragitto, traghetto), in base ^ a legge di Grimm che descrive i mutamenti regolari cui vanno soggette le consonanti plosive indoeuropee quando si ripresentano nel germanico (in questo caso, k p si trasforma in f) Infine, anche « esperimento », come <f esperienza », deriva dal la-tino expeririy « tentare o esaminare ». Se mettiamo insie-me questi vari sensi, otteniamo un sistema semantico « la-minato », imperniato su «esperienza», che la dipinge come un viaggio, una verifica (di se stessi o di ipotesi circa altre persone), im passalo rituale, xm esporsi a un ri-sdiio o a un cimento, una fonte di timore. Mediante la esperienza, noi 'viaggiamo' con 'paura' attraverso 'perico-li' procedendo 'sperimentalmente' Tutto ciò suona assai simile alla descrizione diltheyana déTerleben, « vivere at-traverso » una sequenza di eventi (che può e^re un ri-tuale, un pell^rinaggio, un dramma sodale, la morte di im amico, imo sforzo prolungato o un'altra serie qualsiasi di Erlebnisse). Tuttavia una tale esperienza è incompleta, a meno che uno dd suoi « momenti » non sia la 'perfor-mance', doè un atto creativo di retrospezione, nel quale agli eventi e alle parti dell'esperienza viene attribuito un « sigtiificato » anche se questo è « non c'è nessun signifi-cato ». L'esperienza è dunque sia un « vivere attraverso »

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Introduzione

che un « pensate all'indietro ». È andie un « volere o de-siderare in avanti », doè uno stabilire mete e modelli per Tesperienza futura, nella quale si spera che gli errori e i risài dell'esperien2a passata saranno evitati o eliminati.

n teatro 'sperimentale' non è altro die l'esperienza portata a compimento nella performance, cioè « recupera-ta », qud momento nel processo esperienziale (un 'mo-mento' spesso protratto e internamente articokto) in cui il significato emerge mediante il 'rivivere' l'esperienza ori-ginaria (spesso un dramma sociale, percepito soggettiva-mente), e viene dotato di ima forma estetica appropriata. Questa forma diventa poi parte integrante della sapienza comunicabile, e aiuta gli altri (mediante il Verstehen, Tin-tendere) a intendere meglio non solo se stessi ma anche ì tempi e le condizioni culturali dei quali si compone la loro « esperienza » complessiva della realtà. Sia Richard Sdiechner che io, affrontando questa questione da direzio-ni diverse, vediamo nel teatro un mezzo importante per la trasmissione interculturale di modalità d'esperienza fatico-samente acquisite. Una perfetta comprensione transcultu-rale non può mai essere raggiunta, se mettiamo in scena ciascuno gli altrui drammi sociali, riti e performance tea-trali con ima piena conoscanza dd tratti salienti del loro originario contesto sodoculturale, il lungo e intenso lavo-ro che Schechner dhlama « il processo di training-prove-preparazione » non può non awidnare gli attori a « modi diversi di vedere » e di cogHere quella « realtà » che le nostre formazioni simbolidie si sforzano da sempre di com-prendere e di esprimere.

Ho iniziato questa introduzione con una nota autobio-grafica e la concludo con un appello alla comprensione cul-turale su scala planetaria. A Qiarlottesville, in Virginia, dove ora insegno all'università, l'espressione « Mr. Jeffer-son l'avrebbe approvato » è il suggello finale che ratifica qualsiasi azione- Analogamente, a me piace pensare che « il professor Dilthey avrebbe approvato » i tentativi com-piuti da un pugno di antropologi, di studiosi e di profes-sionisti del teatro per sviluppare un'antropologia e un teatro dell'esperienza dbe cerdii di « comprendere le altre

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IntTodumne

persone e le loro espressioni sulla base della propria espe-rienza vissuta, dell autocomprensione e deE'interazione co-stante fra le due » Qui fra le « altre persone » sono compresi i membri di ogni cultura e di ogni paese di cui possediamo una documentazione abbastanza ricca per poter essere utilizzata ai fini di ima performance. I materiali etnografici, le letterature, il rituáe, le tradizioni teatrali di tutto il mondo stanno oggi a nostra disposizione come base per una nuova sintesi comtmicativa transculturale da realizare mediante la performance. Per la prima volta pos-siamo procedere verso una compartecipazione a esperienze culturajyi, alle molteplici « forme dello spirito <^ettivo », il cui originario sfondo affettivo può in qualche modo es-sere recuperato attraverso la performance. Questo può es-sere un modesto passo avanti per allontanare Timianità dalla distruzione che sicuramente attende la nostra spede se continuiamo a coltivare deliberatamente l'incomprensio-ne reciproca in nome di interessi di potere e di profitto. Possiamo imparare dall'esperienza, dalla messa in scena e dalla performance delle esperienze trajtnandate culturalmen-te dagli altri popoli, da quelli della Brughiera come da quelli del Libro.

Note 1 Ruth Drai^ (1889-1956), attrice nordamericana, dicitrice e interpre-

te di monologhi. Si esibiva in riviste o in 'assoli'; numetosissime le sue tournée in Europa; fu in Italia nel secondo dopoguerra.

2 Uno degli spettacoli della Diaper su questi autori fu A Man's a Man for a^Tbat.

3 Qemence Dane, Wül Shakespeare. An invention in four acts, London, Heinemann, 1921.

^ John Logan Baird (1888-1946), fisico inglese, fu il primo a realiz-zare un sistema di televisione.

5 Charles Percy Snow (1905), sdenziato e narratore inglese. Le due adirne è un saggio, del 1959, sulla frattura tra scienza e valori umani-stici nella sodetà moderna-

6 Francois Delsarte (1811-1871). Il suo melx>do e i suoi principi sono ricavati dall osservazione dei compoitaioenti spontanei sostenendo die « a o ^ ftinaone spirituale corrisponde una fuiKdone del corpo » e mirava

li a realizzare una perfetta traduzione delle funzioni psichiche e spi-

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Introdtmone

rìtaali in movimenti espressivi. Da lui deriva sia la danza libera di Isadora Duncan áa la teoria delle contraction and release di Martha Graham.

' n « dramma sociale » è uno dei concetti base della teoria di Turner; ne pada difusamente nel secondo e tesso capitolo del presente volume e, in particdare, in Schism and Continuity in an African Society. A Study of Ndembu Village Ufe, Manchester, Manchester University Press, 1957 (di cui i capitoli IV e V sono appai^ in La politica della parentela. Analisi situazionali di società africane in transizione, a cura di Giovanni A r r i ^ e Luisa Passerini, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 147-207. Altri riferimenti al concetto di «dramma sociale» sono rintracciabili in: The Forest of Symbols. Aspects of Ndembu Ritualy Ithaca e London, ComeO University Press, 1967; trad, it. La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Brescia, Moicelliatia, 1976; The Drums of Afflictin. A Study of Religious Processes among the Ndembu of Zambiay Oxford, The d i n d o n Press, 1968; Sociology of Simbols, Social Drama and Ritual Symbols, nell'anabito del seminario dal tema ^ t u a l and Symbols» , Univetsity of Chicago, 1971; Dramas, Fields, and Metaphors. Symbolic Action in Human Society, Ithaca, Cornell University Pr¿s, 1974.

® Cfr. Claude Lévi-Strauss, 11 crudo e il cotto, Milano, H Saggiatore, 1966, Antropologia strutturale, Milano, H Saggiatore, 1966, Il pensiero selvaggio, Milano, II Sa^iatore, 1964, Vita familiare e sociale degli Indiani Nambikwara, Torino, Einaudi, 1970.

^ Sir Francis Robert Benson (1858-1939) è stato uno cki phi rinomati interpreti scespiriani. H suo nome è leg^o soprattutto all'attività che svolse ndle province inglesi. Scrisse di lui Shaw «Benson è del parere die sia m ^ o regnare in provincia piuttosto che sottostare alla volontà dei finanziatori per raggiungere la scomoda posizione di direttore a Londra». È stato una delle forze propulsive del teatro inglese con una scuola d'arte drammatica e con la sua compagnia che Si definita la « nursery » delle scene britanniche.

Barbara Lex, Neurobiology of Ritual Trance, in E. d'Aquili, C Laughlin, Jr. e J. McManus (a cura di), The Spectrum of Ritud, New York, Columbia University Press, 1979, pp. 117-151.

^ Ridiard Scfaechner, Restoration of Behavior, pi^licato in «Studies in Visual Communication 1981 e raccolto nell'edàione italiana dei suoi scritti La teoria della performance 1970-1983, Boma, Bulzoni Editore, 1984, pp. 213-301.

^ Cfr. Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni Editore, 1970.

^ Per le citazioni rimandiamo all'antologia Wilhelm Dilthey, Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1982 in particolare alla terza sezione Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito. La critica alle formulaziom' kantiane è in Dilthey, op, cit., p. 49 ss., p. 294 ss.

^ Dilthey a£Eerma che « Le categorie formali sono modi di dire relativi a ogni realtà », op, cit., p. 295, e più avanti: « le categorie formali sono espressioni astratte per i procedimenti logici della distinzione e delllden> tità deE'^prendimento e dei gradì della distinzione, dell'unione e della separazione. Esse sono un esperire di grado superiore, die constata sd-tanto e non costruisce a priori. Esse si presentano già nel nostro pensiero primario e si &imo valere egualmente nel nostro pensiero discorsivo, legato a segni, su un grado più alto. Esse sono le condirioni formali tanto

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Introduzhne

dell'intendere quanto del conoscere, tanto defle scienze dello ^itito quanto delle scienze della natura», op. cit.y p, 301.

15 H.A. Hodges, The FMosopby of Wtlelm Dilthey, London, Rouded-ge and Kegan Paul, 1952, pp. 68-69.

Dilthey, op, cit., pp. 54, 65, 72, 299. Hodges, op. át^ p. 349, Rudolf A. Makteel, Dilthey. The Philosopher of the Human

Studies, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 141. DUthey, op. cit., pp. 335-336. Ibidem, p. 337 ss,

21 Ibidem. 22 Ibidem, p. 342. 23 Dilthi^, op, cit., p. 315. « Per spinto otggettivo intendo le molte-

plici forme in cui si è c^ettivata nel mondo sensibile k comunanza che sussiste tra gli individui . 24 Ciía2áoQe tratta dall'antologia dütheiana curata da HP. Rkkman,

Selected Writings, London, Cambridge University Press, 1976, pp. 195-196,

25 W. Dilthey, Gesammdte Scbriften, Teubner, Liepzig e Berlin, Vandenhoeck & Ruprecht, 1927, pp. 205-206, vol VIL

26 Cfr. Hodges, op. cit., p. 130. ^ Dilthey, Gesammelte Schriften, dt., p. 206. 28 ibidem, p, 207. ^ Ibidem, p. 137.

II concetto di « communitas viene più avanti definito come « la liberazione delle potenzialità umane di conoscenza, sentimento, volizione, creatività ecc., dalle costriàoni normative che impocigooo di occupare una serie di status sociali, di impersonare una molteplidtà di tuoH». Ne Il processo rituale^ dt., pp. 147-148, Turner definisce k communitas come «un rapporto tra i^vidui concreti, storìd, particolari [...] non frazionati in ruoli e status ma [che] si trovano ^ uni di fronte agli altri [in un] incontro diretto immóiiato e totale tra identità umane. [.,,] Raramente la spontaneità e Fimmediatezza delk communitas — CCMI-trapposta al carattere giuridico-politico delk struttura — possono man-tenersi molto a lungo. È la communitas stessa che sviluppa ben presto una struttura, ndk quale i rapporti liberi tra gfi individui si trasfomiGano in rapporti diretti da norme tra persone sociali

Schechner, The End of Humanism, in « Perforaiing Arts Journal », 10/11, IV (1979), nn. 1-2, pp. 11,13; trad, it. in « Adiab», supplemento a «Scena», 1981, n. 5.

^ JuHiis Pokomy, Indogermanisches Etymclogisches Wortethuchy Bern, 1959.

^ Jacob Grimm (1785-1863) scrittore e erudito tedesco impegnato in ricerche storico-linguistidie e storico-culturali. Ha impostato nel 1852 un monumentale dÍ2áoiiario tedesco. La l^ge di Grimm è k formulazione della ptima rotazione consonantica delle Itr ffl e germaniche.

^ Letteralmente: <c 'viaggiamo' {fare) con 'paura* {fearfully) attraverso 'pericoli' (perils)»,

^^ Dilthey, Seleaed Writing;!, a cuta di Rickman, dt., p. 218.

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Capitolo primo

Dramma e riti di passaggio, lo svago e il lavoro.

Saggio di simbologia comparata

Per prima cosa voglio spiegare die cosa intendo per 'simbologia comparata^ e in che senso, grosso modo, essa differisce da discipline quali la 'semiotica' (o 'semiologia') e la 'antropologia simbolica', die hanno ugualmente a che fare con lo studio di termini come simboli, segni, sanali, significaaoni, indici, icone, significanti, significati, veicoli di segno, denota2doni, ecc. A me interessa piuttosto esa-minare alcuni dei tipi di processo o contesto sodo-culturale nei quali di solito vengono generati nuovi simboli verbali e non verbali. Questo mi condurrà a \m confronto fra fe-nomeni « liminali ^ e « liminoidi », termini die voglio brevemente considerare.

Secondo il New World Dictionary di Webster, la « sim-bologia » è « lo studio o Pinterpreta2áone dei simboli è anche « rappresentazione o espressione per me22:o di sim-boli ». H termine 'comparata' significa semplicemente che questa branca di studi annovera fra i suoi metodi la com-parazione, come ad esempio nel caso della linguistica com-parata, La simbologia comparata è più ristretta della 'se-miotica', o 'semiologia' {per usare il termine di Saussure e di Roland Barthes e più ampia dell''antropologia sim-bolica' per quanto riguarda la gamma e l'estensione dei dati e dei problemi. G>me tutti sanno, la 'semiotica' è « ima teoria generale dei segni e dei simboli, in spedai modo l'analisi della natura e delle relasioni fra i segni nd linguaggio, e normalmente comprende tre branche: la sin-tassi, la semantica e la pragmatica ».

a) Sintassi: le relazioni formali redproche fra i segni e fra i simboli, prescindendo dai loro utenti e riferimenti estemi; l'organizzazione e la struttura relazionale di gmp-pi, espressioni, frasi, enunciati e struttura enunciativa.

b) Semantica: la rdazione dei segni e dd simboli con

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Dramma e riti di passaggio

le cose alle quali essi si riferiscono, cioè il loro significato referen2áale.

c) "Pragmatica-, le relazioni dei segni e dei simboli con i loro utenti.

Nella mia analisi dei simboli rituali, alla sintassi corri-sponde più o meno ciò che io chiamo « significato posizio-nale », alla semantica il « significato esegetico » e alla pragmatica il « significato operazionale ». La semiologia sembra avere ambizioni assai più vaste die non la semio-tica, dal momento che viene definita come la « scienza dei segni in generale », mentre la semiotica si limita a consi-derare i s^ni del linguaggio, benché Roland Barthes so-stenga che « la linguistica non è una parte [...] ddla scien-za generale dei segni, ma viceversa la semiologia è una parte della linguistica »

La simbologia comparata non è direttamente interessa-ta agii aspetti tecnici della linguistica, ha invece parecdiio a che fare con molte specie di simboli ìion verbali nel ri-tuale e nell'arte, benché sia generalmente riconosciuto che tutti i linguaggi culturali hanno importanti componenti, relais o 'significati' linguistici. Nondimeno, essa si occupa delle relazioni fra i simboli e i concetti, sentimenti, valori, nozioni, ecc., associati ad essi dagli utenti, dagli interpreti o ¿Sí^ esteti; in breve, ha dimensioni semantiche^ ha a che fare con il significato linguistico e contestuale. I suoi dati sono ricavati per la maggior parte dai generi o sotto-sistemi culturali di una cultura espressiva. Essi compren-dono sia i generi orali che quelli scritti, e si possono anno-verare fra essi tanto le attività che associano azioni simbo-liche verbali e non verbali, come il rito e il dramma, quan-to i generi narrativi, come il mito, Tepica, la ballata, il romanzo e i sistemi ideologici. Si potrebbero anche aggiun-gere forme-non verbali come il mimo, la scultura, la pittu-ra, la musica, il balletto, Parchitettura, e molte altre ancora.

Ma la simbologia comparata non si accontenta di stu-diare i generi culturali astraendo dall'attività sociale umana. Se lo facesse diventerebbe semiologia, il cui corpus di dati « deve eliminare al massimo gli elementi diacronici » e coincidere « con uno stato del sistema, con uno spaccato'

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della storia » Nel 1958, considerando i dati sul rituale che avevo raccolto durante il lavoro sul campo fra gli Ndembu dello Zambia nord-ocddentale, scrissi di non poter analizzare [questi] simboli rituali senza studiarli in serie temporale in rapporto ad altri ^eventi* [dove anche il sìmbolo è corisTderato un ^evéito^ e Hòn ima 'tósa'}^ pcnché í singoli sono intimamente connessi al processo sodale [e anche ai processi psico-logici, aggiiingerei o ^ L Sono arrivato a considerare le esecuàoni del rituale come fasi distinte del processo sodale grazie alle quali i gruppi riusdvano a trovare im aggiustamento alle modificazioni inteme (sia che essi fossero determinati da dissensi personali o di fazioni e conflitti fra norme, sia die derivassero da innovazioni tecniche o organizzative) e un adattamento all'ambiente estemo (tanto sodoculturale quanto fisico-biologico). Da questo punto di vista il simbolo rituale diventa un fattore di azione sociale, una forza positiva in un campo di attività» I simboli inoltre svolgono un molo cmdale nelle situazioni di mutamento della sodetà: il simbolo viene assodato agli interessi, agli intenti, ai fini, alle aspi-razioni e a ^ ideali umani, individuali o collettivi, indipendente-mente dal fatto che questi siano esplidtamente formulati o che si debba inferirli dall'osservazione del comportamento. Per queste ragioni, la stmttura e le proprietà di un simbolo rituale diventano quelli di un'entità dinamica, almeno nell'ambito del contesto di azione che gli è proprio ^

Più tardi esamineremo più da vicino afcune di queste 'proprietà'. Ma qui voglio sottolineare che proprio perdié fin ddVinizio ho definito i simíx)li come sistemi dinamici sodo-culturali — che perdono e assumono significati nel corso del tempo e mutano di forma — non posso consi-derarli meramente come dei 'termini' in un sistema gnoseo-logico atemporale, logico o protologico. Non c'è dubbio^ che nei generi spedalizzati delle sodetà complesse, come i sistemi filosofìa, teologid e k^co-formali, i simboli, e i segni derivanti dalla loro scomposizione, acquistino dav-vero questo carattere 'algebrico' o logico, e possano essere effettivamente considerati in base a relazioni di 'opposi- ^ zione binaria', come 'mediatori' e via dicendo, snaturati dal i predominio dell'attività conosddva specialistica. Ma les symboles sauvages, come appaiono nelle culture tradiziona-li, 'tribali', e anche nei generi di 'intrattenimento cultu-rale' come la poesia, il teatro e la pittura ddUa sodetà

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postindustriale, hanno il carattere di sistemi semantici di-namici, die acquistano e perdono significati {e in un conte-sto sodale il significato ha sempre dimensioni emotive e volitive) anche solo nel « viaggiare attraverso » un singolo rito o opera d'arte, figuriamoci poi attraverso secoli di performance, e che mirano a produrre effetti sugli stati psicologici e sul comportamento di coloro che sono esposti ad essi o sono costretti ad usarli per comunicare con altri esseri umani. Ho sempre cercato di coligare il mio lavoro di analisi dei processi, ad esempio studi sul processo in atto della politica di villaggio , con il mio lavoro di analisi delle performance rituali,

È forse per questo che ho concentrato spesso la mia attenzione sullo studio dei simboli indimdudiy sui loro campi semantici e sul destino processuale che li attende quando lasciano lo scenario di una particolare performanci rituale e ricompaiono in altri tipi di rituale, o addirittura sí trasferiscono da un genere all'altro, ad esempio dal ritualè ad un cido mitologico, ad una narrazione epica, ad un rac-conto di fate, ad ima massima da dtare ad un dibattimen-to processuale. Questo punto di vista lasda il fu too se-mantico di dascun simbolo, per cosi dire, aperto,; mentre Panalisi formale di un insieme totale di simboli dié a prio-ri si assume come un sistema o una Gestalt, trattato come un 'corpus' o collezione finita di materiali, chiuso, atempo-rale e sincronico, tende a porre l'accento sulle proprietà e sulle relazioni formali di un dato simbolo e a sdezionare dalla ricchezza dd suoi significati solo quella specifica de-notazione che ne fa xm termine appropriato in qualche opposizione binaria: questa, a sua volta, è un tassello rela-zionale di un sistema gnoseologie» ben delimitato. Lo sche-ma binario e l'arbitrarietà vanno solitamente insieme, en-trambi hanno sede nell'universo atemporale dei *significan-ti'. Un simile trattamento — benché si presenti spesso con un'deganza seducente, un frisson per le nostre facoltà co-nosdtive — isola Tinsieme totale dd simboli dalla vita sodale complessa e continuamente mutevole, oscura o scin-tillante di desiderio e di emozioni, die è il suo milieu e il suo contesto e lo condaima a un rigor mortis dualistico. I

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simboli, sia come strumenti di comunicazione percepibili sensibilmente (signifiants), sia come insiemi di 'significati' (signifiés), sono fondamentalmente coinvolti in una mol-teplice variabilità, la variabilità di quelle creature essen-zialmente viventi, coscienti, emotive e volitive che li uti-lizzano non soltanto per dare un ordine all'universo in cui abitano, ma in modo creativo, per sfruttare anche il disor-dine, da un lato superandolo o riducendolo, a seconda dei casi, dall'altro servendosi di esso per mettere in questione i principi assiomatici che sono diventati un ostacolo alla comprensione e alla manipolazione della realtà contempo-ranea. Ad esempio gli ammali disordinati e scatologici di forme simboliche con cui Rabelais significava le azioni e gH attributi disordinati di Gargantua e Pantagruele, met-tevano in discussione la nitidezza dei sistemi teologici e filosofici della scolastica: paradossalmente, il risultato fu la distruzione di un oscurantismo inattaccabile con stru-menti logici. Quando certi nostri moderni ricercatori ìm^ gidiscono i simboli in operatori logici e li subordinano a r ^ l e sintattiche implicite, quelli di noi che li prendono , troppo sul serio perdono la capacità di cogliere il poten-ziale creativo o innovativo che i simboli possiedono in quanto fattori dell'azione umana. I simboli possono isti-gare' a tale azione e, in combinazioni che variano in base alla situazione, possono aprirle la strada caricando i suoi mezzi e i suoi fini di valenze ajlettive e di desiderio. La simbologia comparata tenta appunto di preservare quéstà capacità ludica, di afferrare i simboli nel loro movimento, per cosi dire, e di 'giocare' con le loro possibilità di forma e di significato Essa perviene a questo riportando i sim-boli nel contesto storico concreto del loro impiego da parte di « uomini vivi » nel loro agire, reagire, 'transagire' e interagire socialmente. Anche quando la realtà simbolica è il capovolgimento di quella effettuale, rimane intimamente legata ad essa, la influenza e ne è influenzata, ne mette in rilievo i contomi positivi facendoli risaltare sul suo sfondo n^ativo, in tal modo delimitandoli entrambi e conquistan-do un nuovo territorio per Ìl 'cosmos'.

Più ristretta nell'ambito rispetto alla semiotica^ la sim-

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bologm comparata è più ampia àé!Cantropologia simbolica^ poiché si propone di coiisiderare non solo il materiale 'etnografico', ma anche i generi simbolici delle civiltà co-siddette 'avanzate', cioè delle società industriali complesse e di vaste dimensioni. Indubbiamente questa maggiore ampiezza di prospettiva la costringe a venire a patti con i metodi, le teorie e i risultati di specialisti ed esperti di molte discipline suHe quali la maggior parte degli antro-pologi è ben poco informata, come la storia, la letteratu-ra, la musicologia, la storia delirarte, la teologia, la storia delle religioni, la filosofia, ecc. Ma d'altra parte, compien-do questi tentativi di studiare l'attività simbolica nelle culture complesse, gli antropologi, che attualmente si li-mitano per lo più a studiare i simboli in miti, riti e ma-nifestazioni artistiche 'tribali' o di sempHci civiltà agrico-le, non farebbero che ritornare a ima venerabile tradizio-ne dei loto predecessori, quali Durkheim e la scuola del-l'«Année Sociologique», o Kroeber, Redfìeld e i loro successori come il professor Singei, die hanno esaminato i sottosistemi culturali n^li oikoumenes (letteralmente « mondi abitati », termine usato da BCroeber ® per indicare complessi di civÜtá come la cristianità, l'Islam, le civfltà indiana e cinese, ecc.) e nelle grandi tradizioni culturali.

Personalmente io sono stato indotto allo studio dei generi simbolici nelle società di vaste dimensioni da alcune implicazioni del lavoro di Arnold Van Gennep (che si ba-sava principalmente sui dati di società di piccole dimen-sioni) nel suo libro l^tes de Passagey pubblicato per la prima volta in Francia nel 1909 Bendhé lo stesso Van Gennep intendesse probabilmente la sua espressione « rito di passaggio » come applicabile sia ai rituali che accompa-gnano ü mutamento dello status sociale di un individuo o di un gruppo di individui, sia a quelli associati ai muta-menti stagionali che investono un'intera società, il suo libro si concentra sul primo tipo, e il termine ha finito per essere usato quasi esclusivamente in connessione con questi rituali che segnano i « momenti critici » della vita umana. Io ho cercato di ritornare all'accezione originaria di Van Gennep considerando pressodié tuííi ì tipi di ri-

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tuale come strutturati secondo la forma processuale del passaggio. Ma che cosa significa questo termine?

Van Gennep, come è noto, distingue tre fasi nel rito di passaggio: la separazione^ la transizione e Vincorpora-zione La prima fase, la separazione,^ delimita nettamente lo spazio e il tempo sacri da quelli profani o secolari (non è solo questione di entrare in un tempio: in più d deve essere im rito che cambi anche la qualità del tempo^ o co-struisca una sfera culturale che è definita come « fuori dal tempo », cioè fuori o al di là del tempo che misura i pro-cessi e la routine della vita secolare)- Questa fase implica un comportamento simbolico (in particolare simboli che rovesciano o invertono cose, relazioni e processi secolari) che rappresenta il distacco dei soggetti rituali (novizi, aspiranti, neofiti o 'iniziandi') dal loro precedente status sociale. Nel caso coiavolga tutti i membri di una società, essa comporta un trasferimento collettivo da una stagione agricola, con tutte le sue implicazioni socioculturali a una nuova svolta nel ddo delle stagioni, o da un pericolo di pace contrapposto a uno di guerra, da un'epidemia alla salute della comunità, da un precedente stato o condizione sodoculturale a uno stato o a una condizione nuova. Nel corso della fase intermedia di transizione, che Van Gennep chiama « margine » o « limen (che significa « soglia » in latino), i soggetti rituali attraversano im periodo e una zona di ambiguità, una sorta di limbo sodale che con gU status sociali e le condizioni culturali profani ad esso pre-cedenti o successivi, ha in comune pochissimi attributi, benché a volte di importanza cruciale. In seguito esami-neremo più da vicino questa fase liminale. La terza fase, che Van Gennep chiama « aggregazione » o « incorpora-zione », comprende fenomeni e azioni simbolid che rap-presentano il raggiungimento da parte dei soggetti della loro nuova posizione, relativamente stabile e ben definita, nel complesso della sodetà. Per coloro che si sottopongo-no a un rito l^ato al cido biologico individuale, essa con-siste di solito in imo status più devato, un passo avanti sulla strada culturalmente pretracdata della vita; per co-loro che prendono parte a un rito l^ato al calendario o

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alle stagioni, può non intervenire alcun mutamento di status, ma essi sono stati preparati ritualmente ad un'inte-ra serie di cambiamenti nella natura ddle attività culturali ed ecologiche da intraprendere e delle relazioni che in con-seguenza di ciò essi avranno con altre persone: e tutto questo vale per un settore specifico del ddo produttivo annuale. Molti riti di passaggio sono eventi irreversibili (per i soggetti individuai) che hanno luogo una volta sola, mentre quelli calendariali vengono ripetuti ogni anno da tutti, benché ovviamente una persona possa assistere ai riti di passaggio dei propri parenti o amici innumerevoli volte, fino a conoscerne la forma m^Ko de^ stessi ini-ziandi, come quelle vecchie signore che « non si perdono un matrimonio » in confronto alla coppia nervosa alle sue prime nozze. Ho sostenuto che i riti di passaggio legati all iniziazione tendono ad « abbassare » le persone, men-tre quelli stagionali tendono spesso a « innalzarle » vale a dire che le iniziazioni umiliano individui prima di elevarne permanentemente la condizione, mentre alcuni riti stagionali, i cui residui sono i carnevali e le festività, elevano transitoriamente la gente di basso rango per poi riportarla alla sua umile condizione abituale. Arnold Van Crennep sosteneva che le tre fasi del suo schema variavano in estensione e grado di elaborazione a seconda del genere di passaggio: ad esempio « i riti di separazione sono stati studiati maggiormente nelle cerimonie funebri, mentre i riti di aggregazione in quelle matrimoniali; quanto ai riti di margine, essi possono costituire una sezione importan-te, ad esempio, nella gravidanza, nel fidanzamento e nel-Tiniziazione » La situazione è complicata ulteriormente dalle differenze regionali ed etniche, che attraversano quel-le tipologiche. Nondimeno, è raro che in un rituale triba-le' o 'agrario* non si trovi alcuna traccia di qu^to schema tripartito.

H passaggio da uno status sociale all'altro è spesso accompagnato da un passaggio parallelo nello spazio, da uno spostamento geografico da un luogo all'altro. Qò può avvenire nella semplice forma dell'aprire una porta, o del

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varcare letteralmente ima so^a che separa due zone di-stinte, assodate Tuna con Io status prerituale o prelímina-le del soggetto, l'altra con il suo status postrituale o post-liminale (i due passi avanti che fanno i coscritti quando obbediscono al loro primo ordine militare possono valere come esempio moderno di uno spostamento ritualizzato nella liminalità). AU estremo opposto, il passaggio spazia-le può implicare un lungo e gravoso pellegrinaggio e Pat-traversamento di molti confini nazionali prima che Ü sog-getto raggiunga la sua meta, il santuario, dove lo schema tripartito può essere ripetuto su scala microcosmica nel-Tazione paraliturgica. Talvolta questo simbolismo spaziale può essere la anticipazione di un reale e permanente mu-tamento di residenza o di sfera geografica d'azione, come ad esempio, in Africa, quando una ragazza Nyakusa o Ndembu, dopo i riti della pubertà, lascia il suo villaggio natale per trasferirsi in quefio del marito, o come in certe società di cacciatori, dove i ragazzi abitano con le loro madri fino al momento del rito (fi iniziazione all'età adulta, dopo il quale vanno a vivere con gli altri cacciatori della tribù. Forse qualcosa di questa mentalità sopravvive anche ndla nostra società, quando, nelle grandi organizzazioni burocratiche a livello nazionale — come il governo fede-rale, un importante gruppo industriale, il sist^a univer-sitario, ecc — un avanzamento di status e di stipendio comporta normalmente il trasferimento da una città al-l'altra: un processo che William Watson chiama <c spira-lismo La fase « liminoide » fra il momento in cui si lascia un posto di lavoro e quello in cui se ne assume uno nuovo sarebbe meritevole di studio in termini di simbolo-gia comparata, sia per quanto riguarda il soggetto (i suoi sogni, le sue fantasie, le sue letture e i suoi svaghi prefe-riti), sia riguardo alle persone che egli lascia e quelle a cui sta per unirsi (i miti che essi si creano sul suo conto, il modo in cui lo trattano, ecc.). Ma su questo argomento e sulla distinzione fra « liminale e « liminoide tornere-mo più diflEusamente in seguito.

Secondo Van Gennep, una fase liminale di una certa durata nei riti di iniziazione delle società tribali è spesso

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caratterizzata dalla separazione fisica dei soggetti del rito dal resto della società Cosi in certe tribù australiane, melanesiane e africane un ragazzo sottoposto all'iniziazione deve vivere per un lungo periodo nella boscaglia, escluso dalle normali interazioni sociali all'interno del villano e della famiglia. Benché alcuni di essi rappresentino l'inver-sione della realtà abituale, i simboli rituali di questa fase rientrano essenzialmente in due categorie; quelli di oblite-razione e quelli di ambiguità o paradosso. Perdo in molte società gli iniziandi nella fase liminale sono considerati scuri, invisibili, come il sole o la luna durante le eclissi 0 la luna fra una fase e Paltra, nelle notti senza lima'; vengono privati del nome e dei vestiti e imbrattati di fango, in modo da renderli indistinguibili dagli animali. Vengono loro attribuiti simultaneamente entrambi i ter-mini di opposizioni di carattere generale come vita e morte, maschio e femmina, cibo ed escrementi, poiché essi stanno morendo o sono morti al loro status e alla loro vita pre-cedenti, e insieme stanno nascendo e crescendo in quelli nuovi. La separazione può essere caratterizzata da nette inversioni degli attributi sociali; la liminalità dal confon-dersi e dal mescolarsi delle distinzioni,

I soggetti di questi riti sono dunque sottoposti ad un processo di 'livellamento', nel quale vengono distrutti 1 segni dd loro status preliminale e vengono applicati quelli del loro non status liminale. Ho già menzionato dcuni dei segni indicativi della loro liminalità — come l'assenza di indumenti e di nomi — altri ancora sono il mangiare o l'astenersi da determinati cibi, l'incuria per il proprio aspetto esteriore, o l'indossare tutti un indumento uguale, talvolta senza distinzione fra i sessi. Nel mezzo della fase di transizione gli iniziandi sono spinti il più pos-sibile verso l'uniformità, l'invisibilità strutturale e l'ano-nimato.

In compenso essi acquistano una speciale libertà, il « potere sacro » dei miti, dei deboli e degli umili. Secondo l'esposizione di Van Gennep:

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Per tutta k durata del noviziato i legami consueti, economici 0 giuridici che siano, vengono modificati, talvolta persino troncad. 1 novizi sono al di fuori della società e la società nulla può su di essi e tantomeno può estendere i suoi poteri ^ r il fatto che essi sono costitutivamente [secondo le credenze indigene] sacri e santi, e pertanto intoccabili e pericolosi, proprio come lo sarebbero delle diirtnità. Ne consegue che se da un lato i tabú — in quanto riti negativi — innalzano una barriera tra i novizi e la società g^erale, dall'altro questa è priva di difesa nei confronti delle attività dei novizi- Cosi si spi^a nel più semplice dei modi un fatto che è stato riscontrato presso numerosissime popolazioni e che è risultato in-comprensibile agli osservatori: infatti, durante il noviziato i giovani possono rubare e depredare tutto ciò che loro aggrada o cibarsi e adornarsi a spese della comunità^.

In effetti i novizi sono temporaneamente degli esseri indefiniti, al di là delk struttura sodale normativa. Ciò li rende più deboli, perdié non hanno più diritti sugli altri, ma Ii libera anche dai loto obblighi strutturali, l i colloca in una stretta connessione con le potenze non so-ciali o asociali della vita e della morte, È per questo che i novizi vengono frequentemente paragonati da un lato ai fantasmi, agli dèi e agli antenati, e d^'altro agli animali o agli uccelli. Sono morti per il mondo sociale, ma vivi per quello asociale Molte società istituiscono una dicotomia, esplicita o implicita, fra sacro e profano, cosmos e caos, ordine e disordine. Nella liminalità, le relazioni sociali profane possono essere interrotte, i diritti e gli obblighi precedenti sono sospesi, e può sembrare che Tordine so-ciale sia stato sovvertito, ma a titolo di compensasaone i sistemi cosmologici (come oggetto di imo studio approfon-dito) possono acquistare im'importanza centrale per i no-vizi, che sono posti dagli anziatii, mediante il rito, il mito, il canto, ^apprendimento di un linguaio segreto, e vari generi simbolici non verbali quali la danza, la pittura, il modellare la creta, l'intagliare il legno, il masdierarsi, ecc., di fronte a schemi e strutture simboliche che equivalgono a insegnamenti sulla struttura del cosmos e sulla loro cul-tura intesa come parte e prodotto di esso, nella misura in cui entrambi sono definiti e compresi, implicitamente o esplicitamente. La lìmii?alità può comportare una comples-

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sa sequenza di episodi nello spazio-tempo sacro, e può com-portare andie eventi sovversivi e ludici (o giocosi). I fat-tori culturali vengono isolati, per quanto è possibile fare con simboli plurivoci (cioè con Taiuto di veicoli sìmbolid-forme sensorialmente percepibili), come alberi, immagini, dipinti, figure di danza, ecc., ciascuno dei quali può assu-mere non uno, ma diversi significati. Poi questi fattori o elementi culturali possono essere ricombinati in molti modi, spesso grotteschi perché disposti secondo combinazioni pos-sibili o immaginarie anziché secondo quelle dettate dal-l'esperienza; cosi un travestimento da mostro può unire tratti umani, animali e vegetali in un modo 'innaturale', mentre gji stessi tratti possono essere combinati in modo di-verso, ma sempre 'innaturalmente^ in un dipinto o descritti in un racconto. In altri termini, nella liminalità la gente 'gioca' con gli elementi della sfera familiare e li rende non familiari. La novità nasce da combinazioni senza preceden-ti, di elementi familiari.

Al conv^o dell'American Anthropological Associa-tion tenutosi a Toronto nel 1972, Brian Sutton-Smith mutuò da me un termine che avevo già in precedenza ap-plicato alla « liminalità » {e ad altri fenomeni ed even-ti sodali), cioè « antistruttura » " (con cui intendo la dissoluzione deUa struttura sociale normativa con i suoi insiemi di ruoli, status, diritti e doveri giuridici ecc.)> e Io collegò ad una serie di studi sperimentali che egli stava conducendo sui giochi dei bambini e di certi adulti sia nelle sodetà tribali che in quelle industriali. Molto di dò che dice può essere riportato, mutatis mutandis^ allo studio della liminalità nei riti trib^. Egli scrive:

La stnittura normativa rappresenta lo stato vigente di equ^hrio, r<t antistmttura » il sistema latente delle potenziali alternative^ da cui pottà nascere il nuovo quando le contingenze del sistema nor-mativo lo richiederanno. Sarebbe più corretto chiamare questo secondo il sistema proto-strutturale, [egli dice] poiché esso precorre nuove forme normative- È la fonte della nuova cultura^®.

Sutton-Smith, che di recente si è dedicato all'analisi dd continuum ordine-disordine nd giochi (ad esempio nd gio-

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chi dei bambini come il girotondo) y prosegue dicendo che paiamo essete disordinati nei giochi [e, a ^ u i ^ t e i io, nella 'liminalità' dei rituali o in fenomeni 'liminoidi' quali i charivari, le fiestas, le mascherate di Hafloween, i mummings, ecc.] o perdié possediamo una dose eccessiva di ordine e abbiamo bisogno di una valvola di sfogo [questa può essere definita la 'funàone conserva-trice' del disordine rituale, quale si presenta nei riti di inversione, saturnali e simili], oppure perché abbiamo qualcosa da imparare attraverso il disordine.

Ciò che più mi interessa nella fotmulazione di Sutton-Smith è che H concepisce le situarioni Hminali e liminoidi come i contesti in cui sorgono nuovi modelli, simboli, para-digmi, ecc., doè come il vero e proprio vivaio della creati-vità culturale. Questi nuovi simboli e costruzioni retroa^-scono poi sui settori e sui conflitti economici e politico-l^;ali 'centrali', fornendo loro mete, aspirazioni, incentivi, mo-delli strutturali e raisons d'etre.

Alcuni, in particolare i 'gallostrutturalisti' francesi, hanno sostenuto che la liminalità, e più specificamente fe-nomeni « Uminali » quali il mito e il rituale nelle società tribali, è caratterizzata soprattutto dallo stabilirsi di « re-gole sintattiche implicite », o da « strutture inteme di re-lazioni logiche di opposizione e mediazione fra elementi simbolici discreti » del mito o del rituale. Forse Claude Lévi-Strauss avrebbe condiviso questa opinione. Io invece sono del parere che l'essenza della liminalità, la liminalità par excellence, consista nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o 'ludica' dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione pos-sibñe, per quanto bizzarra. Tutto ciò emerge chiaramente dallo studio delle fasi liminali dei riti più importanti in epoche e in culture differenti. Quando cominciano a com-parire regole implicite che Kmitano le possibili combina-zioni dei fattori entro certi sdbemi, disegni o configura-zioni convenzionali, dò a cui stiamo assistendo è allora, secondo me, l'intrusione della struttura sodale normativa in quello che potenzialmente e in linea di principio è un settore della cultura libero e sperimentale, im settore in

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cui possono essere introdotti non solo nuovi elementi, ma anche nuove regole combinatorie, e in modo molto più rapido di quanto avvenga nei caso del linguaggio. Il pre-dominio di questa capacità di variazione e di sperimenta-zione risulta in modo più chiaro in quelle società in cui esiste una netta demarcazione fra il lavoro e lo svago, e specialmente in tutte le società plasmate dalla rivoluzione industriale. Mi sembra che diversi modelli di Lévi-Strauss, come quello che tratta delle relazioni logiche metaforiche e di oppc izione e della trasformazione antropogonica dalla natura alla cidtura, o come quel modello geometrico che a partire da due insiemi di opposizioni costruisce im « triangolo culinario » crudo/cotto: crudo/marcio, siano applicabili principalmente alle società tribali o alle società agricole più primitive, dove il lavoro e la vita sono ten-denzialmente governati da ritmi stagionali ed ecologici, e dove le regole che stanno alla base della produzione di schemi culturali tendono a sviluppare le forme binarie « Yin-Yang » suggerite da sempHci opposizioni 'naturali* quali caldo/freddo, umido/secco, coltivato/selvaggio, ma-schio/fenmiina, inverno/estate, scarsità/abbondanza, de-stra/sinistra, cielo/terra, sopra/sotto, e simili. Le princi-pali strutture socioculturali tendono a modellarsi su questi principi cosmologici e su altri affini, che determinano per-sino la pianta delle città e dei villaggi, la progettazione delle case, e la forma e la disposizione spaziale di diversi tipi di terreno coltivato. Di recente l'analisi del simbolismo spaziale in relazione ai modelli mitologici e cosmologici è diventata in verità una fiorente industria nelle mani dei gallostrutturalisti. Non c'è da stupirsi che neppure la limi-nalità riesca a sfuggire alla stretta di questi potenti prin-cipi strutturanti. Solo ad alcuni tipi di giodii wfantili è concesso un certo grado di libertà, perché sono considerati strutturalmente irrilevanti', trascurabili*. Ma quando i bambini vengono iniziati ai primi gradi dell'età adulta, la varietà e la disponibilità dei comportamenti sociali vengo-no drasticamente ridotte e sottoposte a controllo. I giochi infantili cessano di essere pediarchid e diventano pedago-gici. La legge, l'etica, il rito, e anche buona parte della

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vita economica, sono soggetti all'influenza strutturante dei principi cosmologici. Il cosmos diventa un complicato in-treccio di 'corrispondenze' binate sull'analogia, la metafora e la metonimia. Ad esempio i Dogon dell'Africa Occiden-tale, secondo Marcel Griaule, Genevieve Calarne Griaule e Germaine Dieterlen^, stabiliscono una corrispondenza fra i diversi tipi di minerali e gli organi del corpo, I vari tipi di terreno sono considerati come gli organi dell"inter-no dello stomaco', le rocce come le 'ossa' dellò scheletro e le diverse tonalità di argilla rossa sono assimilate al 'sangue*. Analogamente, nella Cina medioevale, modi dif-ferenti di dipingere alberi e nuvole erano collegati a dífíe-renti prìncipi cosmologici.

Perciò i simboli che troviamo nei rites de passage di queste società sono si soggetti a permutazioni e trasforma-zioni nei loro rapporti, ma soltanto all'interno di sistemi relativamente stabili, ciclici e ripetitivi. È a sistemi di que-sto genere che si applica propriamente il termine « limina-lità ». Nel caso di processi, fenomeni e persone che fanno parte di società complesse e di vaste dimensioni, esso deve essere usato per lo più in senso metaforico. Ossia, la parola « liminalità », che nel suo significato primario denota una fase della struttura processuale di un rite de passage y viene poi applicata anche ad altri aspetti della cultiura, in questo caso appartenenti a società la cui complessità e le cui pro-porzioni sono di gran lunga maggiori. Ciò mi conduce a stabilire una distinzione che costituisce Io spartiacque della simbologia comparata. La mancata distinzione tra i sistemi e i generi simbolici appartenenti a culture sviluppatesi ri-spettivamente prima e dopo la rivoluzione industriale può portare a una gran confusione sia nella trattazione teorica che nella metodologia operativa.

Voglio tentare di esporre questo punto il più chiara-mente possibile. Nonostante le enormi diversità all'interno di ciascun campo, rimane tuttavia una distinzione fonda-mentale a livello di cultura espressiva fra tutte le società anteriori e tutte le società posteriori alla rivoluzione indu-striale, comprese le società in via di industrializzazione del Terzo Mondo, le quali, benché prevalentemente agricole,

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rappresentano nondimeno i granai o i campi da gioco delle società industriali turbane.

Qui i concetti cardine sono lavoro, gioco e svago. Il diverso rilievo esplicativo attribuito a ciascuno di essi o a qualunque loro combinasdone può influenzare il nostro modo di considerare gli insiemi di manipolazione simbolica e i generi simbolici nelle società che esamineremo. Ciascu-no di questi concetti è plurivoco o polivalente, denota più cose diverse. Prendiamo ad esempio lavoro {work). Secon-do VOxford English Dictionary^ work significa: a) dispen-dio di energia, fatica, applicazione o sforzo diretto ad uno scopo (il che corrisponde assai bene a quello che il Webster dà come senso primario: « sforzo fisico o mentale eserci-tato per fare o produrre qualcosa; attività intenzionale; impresa; fatica»); b) compito dbe va eseguito, materiali che vanno usati per la sua esecuzione; c) cosa fatta, com-pimento, cosa prodotta, libri o composizioni letterarie o musicali [si noti questa applicazione del termine « lavoro » a generi che fanno parte dei settore svago], opere meri-torie in opposizione alla fede o alla grazia; d) impiego^ in special modo l'opportunità di guadagnare denaro mediante la fatica, occupazione laboriosa; e) ordinario, pratico (come in workaday) ecc, [qui il termine rimanda a secolare, pro-fano, pragmatico ecc.]. Ora, nelle società 'tribali\ 'pre-alfabete', 'semplici' e *di piccole proporzioni', il rito, e in una < rta misura anche il mito, sono considerati « lavoro » precisamente in questo senso, quelto che i Tibopia chia-mano « il lavoro degli dèi ». Anche Tantica sodetà Indù postula un <( lavoro divino ». Nel terzo capitolo del Bhaga-vad Gita (vv. 14-15), troviamo istituita ima connessione tra sacrificio e lavoro: « Invero dal dbo derivano tutti gli esseri contingenti, e il cibo deriva dalla pioggia; la pioggia deriva dal sacrificio e Ü sacrifido dal lavoro, E in Brahma è l'origine del lavoro ». Nikhilananda commenta questi versi affermando che qui il termine <c lavoro » si riferisce ai sacrifid prescritti nei Veda, che impongono ai 'capifa-miglia' il sacrifido o lavoro ('azione') Gli Ndembu chia-mano kuzata^ « lavoro », dò che fa un professionista del rituale, e lo stesso termine generale è applicato all'attività

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di un cacciatore, di un agricoltore, di un capotribù, e oggi anche di un operaio. Persino in società agricole abbastanza complesse legate alle città-stato o agli ordinamenti feudali, che rientrano pienamente nell'ambito di dò che è storica-mente documentato, troviamo termini come liturgia, che nella Greda precristiana venne ben presto istituito per designare il 'servizio pubblico agli dd% « Liturgia » deriva dal greco leos o laoSy « il popolo », e da «t ergon », « lavo-ro )> (imparentato con l'inglese antico weorc e con il tede-sco Werk, dalla radice indoeuropea werg-, « fare, agire ». n greco organo^, « arnese, strumento » deriva dalla stessa radice, e originariamente era worganon). Dunque il lavoro degli uomini è il lavoro degji dèi, una condusione die sa-rebbe piaciuta molto a Durkheim, anche se può essere in-terpretata come implicante una distinzione di fondo fra gli uomini e gli dèi, dato che gli uomini collaboravano il meglio possibile al rituale per entrare in una relazione re-ciproca di scambio con gli dd o con Dio: non era solo che 'la voce della congregazione fosse la voce di Dio'. Fra crea-tore e creatura veniva istituita ima distinzione. Qualxmque possa essere stata la situazione eflFettuale, dò che qui vedia-mo è im imiverso di lavoro, un universo-^^o;? o imiverso organicoy in cui la distinzione fondamentale è fra lavoro sacro e profano, e non fra lavoro e svago. Ad esempio Samuel Beai commenta come segue Tuso del termine « sdamano » da parte di Chi Fah-Hian: « La parola dnese sciamano corrisponde foneticamente ai sanscrito sramana ed al pali samana. H significato della parola cinese è "dili-gente'' o ""laborioso". La radice sanscrita è "'sram 'y "essere stanco"»^ (egli si riferiva alla popolazione di Shen-Shen, nel deserto di Makhai, parte della regione dd deserto di Go-bi) , È inoltre un universo di lavoro a cui una comunità par-tecipa nella sua totalità, per obbligo e non per scelta. L'f»-tera comunità percorre Vinfero ddo rituale, con una parte-cipazione ora effettiva ora soltanto simbolica. Cosi alcuni riti, come quelli della semina, dd primi frutti e del raccolto, pos-sono coinvolgere tutti, uomini, donne e bambini, mentre altri possono imperniarsi su gruppi, catarie, associaziom', ecc. di carattere specifico, ad esempio sugli uonaini oppure sulle

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donne, sugli anziani oppure sui giovani, su un dan o su un altro, su una associazione o società segreta oppure su un*altra. E tuttavia è come se tutta la comunità avesse partecipato effettivamente all'intero ciclo rituale. Presto o tardi, Ü dovere rituale tocca a tutti, nessuno escluso, cosi come a tutti, nessuno escluso, toccano i doveri economici, legali o politici. La partecipazione e gli obblighi comuni-tari, il passalo dell'intera società attraverso crisi, indivi-duali o collettive, direttamente o per procura, sono i carat-teri distìntivi del « lavoro degli dèi » e del lavoro sacro umano, senza i quali il lavoro umano profano sarebbe per la comunità impossibile da concepire, anche se indubbia-mente, come la storia ha crudelmente dimostrato alle po-polazioni conquistate dalle società industriali, con esso è possibile vivere o perlomeno sopravvivere.

Si può tuttavia sostenere che questo « lavoro » non sia lavoro come noi lo conosciamo nelle società industriali, ma contenga in entrambe le sue dimensioni, sacra e profa-na, una componente di « gioco ». In quanto la comunità e gli individui che ne fanno parte considerano se stessi come i padroni o i 'possessori del rituale e della liturgia, o come rappresentanti degli antenati e delle divinità che in ultima analisi li 'posseggono', essi hanno l'autorità per introdurre, di tanto in tanto, a certe condizioni cultural-mente determinate, degli elementi di novità nella riserva di pratiche rituali ereditate a livello sodale. La liminalità, il periodo di segregazione, è ima fase che contribuisce in modo particolare a quest'opera di invenzione ludica'. Forse sarebbe più corretto considerare la distinzione stessa fra « lavoro » e « gioco », o meglio tra « lavoro » e « svago » (il quale comprende il gioco sui generis ma non si riduce ad esso), come un prodotto della rivoluzione industriale, e concepire generi quali Ü mito e il rituale come lavoro e gioco contemporaneamente, o almeno come attività cultu-rali in cui lavoro e gioco stanno fra loro in un complesso rapporto di equilibrio. D'altra parte accade spesso che ciò che è storicamente successivo serva a gettar luce su ciò che è anteriore, soprattutto quando fra i due sussiste una connessione sociogenetica dimostrabile. Infatti vi sono

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degli aspetti incontestabilmente 'ludici' nelle culture 'tri-bali' ecc,, specie nei periodi liminali dei riti di iniziazione protratti nel tempo o in quelli basati sul calendario. Sotto questa rubrica si potrebbero classificare le relazioni scher-zose, i giochi sacri, come quelli con la palla degli antichi Maya e dei moderni Qierokee, gli indovinelli, le finte prove, le feste dei foUi, le pagUacdate, le storie di folletti che si raccontano nei luoghi e nei periodi liminali, dentro o fuori dal contesto rituale, e innumerevoli altre specie.

Ma il pimto è che questi aspetti di gioco o ludid del mito rituale delle società agrarie tribali sono, come dice Durkheim, de la vie sérieuse, doè sono intrinsecamente connessi al « lavoro » compiuto dalla collettività neU'ese-guire azioni simboliche e nel manipolare oggetti simbolid in modo da favorire e aumentare la fertilità di uomini, raccolti e animali domestici o selvatid, da curare le malat-tie, prevenire le epidemie, aver successo nelle scorrerie, trasformare i ragazzi in uomini e le ragazze in donne, i co-muni cittadini in capi e le persone comuni in sdamani e sciamane, 'raffreddare' le teste calde* per indurle ad abban-donare il sentiero di guerra, assicurare la regolarità della successione delle stagioni e delle reazioni umane ad esse nella cacda e nell'agricoltura, e cosi via. Dunque il gioco è una cosa seria, e deve mantenersi entro limiti ben pre-dsi. Ad esempio nel Wuhwang'u, il rituale dell'accoppia-mento degli Ndembu che ho descritto altrove^, c'è un episodio in cui le donne e gli uomini si insultano a vicen-da in un modo giocoso e carico di implicazioni sessuali. Nell'invettiva interviene molta creatività personale, benché ^sa sia anche in larga misura stilizzata. Nondimeno, que-sto comportamento ludico è diretto al servizio dello scopo ultimo del rituale: produrre una progenie sana, ma non troppa in una sola volta. L'abbondanza è un bene, ma un'^bondanza sconsiderata è uno scherzo stupido. Perdo le celie fra i due sessi devono da un lato garantire ima ragionevole fertilità, dall'altro evitare una fecondità irra-gionevole. Lo scherzo è divertimento, ma è anche una san-zione sociale, e deve anch'esso osservare queK'<c aurea via di niezzo » che costituisce un tratto etico distintivo delle

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« sodetà cicliche e ripetitive », non ancora sbilanciate da idee di innovazione e da cambiamenti tecnologici. Le inno-vazioni tecniche sono prodotti delle idee, prodotti che voglio chiamare il liminoide (P<(-oide» qui deriva dal greco -eidos^ forma, modello, e significa « rassomigliante a il « liminoide » assomiglia al liminale senza essere identico ad esso), dò che Marx assegnava a quello che definiva come il dominio del <( sovrastmtxmAe » ^ (io parlerd piut-tosto di « anti' », <c meta- » o « pro^ostrutturale »)• Per Marx la « sovrastruttura » è connotata come un riflesso deformato o addirittura come una falsificazione o mistifi-cazione ddla « struttura » o « infrastruttura », che è, nel suo linguaggio, Tinsieme delle relazioni produttive in coe-sione o in conflitto redproco. Al contrario considero il « liminoide » come una fonte autonoma e dotata di una potenzialità critica (come i 'lavori' liminoidi di Marx, scritti nello spazio di segregazione della bibliot«:a del Bri-tish Museum) e qui osserviamo come le azioni 'liminoidi' dei generi di svago nelle sodetà industriali possano riacqui-stare il carattere di 'lavoro', benché abbiano la loro origine in un 'tempo libero' separato arbitrariamente dall"orario lavorativo' dalla volontà manageriale; come il liminoide possa essere un campo indipendente di attività creativa, e non soltanto un riflesso dáormato, una maschera o una copertura per l'attività strutturale nd 'centri' o nelle 'linee fondamentali' del « lavoro sodale produttivo ». Definirle uno specchio deformante equivale a ridurre le produzioni liminoidi alla mera apologia dello status quo politico. Ma in realtà !'« antistruttura » può generare e immaga2^are ima molteplicità di modelli di vita alternativi, dalle utopie ai programmi, capad" di influenzare Ìl comportamento di coloro che svolgono ruoli sociali e politici di primo piano (in posizione di potere oppure subalterna, che controllano il sistema dominante oppure ribellandosi ad esso), in dire-zione di un cambiamento radicale, oltre che di servire da strumenti di controllo politico. In quanto sdmziati, il nostro compito consiste nd delimitare un campo di ricer-ca, non nel prendere partito per l'uno o l'altro dei gruppi o categorie che operano al suo intemo. La sdenza teore-

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tica e sperimentale è essa stessa « liminoide ha luogo in 'spazi neutrali' o zone privilegiate (studi e laboratori) die si collocano in disparte rispetto alla linea fondamentale degli eventi produttivi o politici- Le università, gli istituti, i college, ecc., sono contesti «Kminoidi» per ogni sotta di atteggiamento gnoseologico libero e sperimentale e anche per forme di azione simbolica che assomigliano ad alcune rinvenute in società tribali, come ad esempio le cerimonie del giuramento dei candidati alle confraternite e associazio-ni dei college americani. Ovviamente questo non vuol dire che le produzioni liminoidi non abbiano rflevanza politica: basti pensare alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo o al Manifesto del partito comunista^ oppure alla Repubblica di Platone, o al Leviatano di Hobbes.

Ma ora voglio esaminare più da vicino questo concetto del « liminoide », tentando di distinguerlo dal « liminale ». Per farlo correttamente dobbiamo analizzare il concetto di <( gioco » {play). L'etimologia non d dice gran che sul suo significato. Apprendiamo che la parola « play » deriva dal-l'inglese antico plegan, « esercitarsi, muoversi vivacemen-te », e che il medio olandese pleyen^ « danzare », è un ter-mine ad esso imparentato. Walter Skeat, nel suo Concise Etymological Dictionary of the English Language, ricorda che il termine anglosassone piega, « gioco, sport », signifi-ca anche (comunemente) « lotta, battaglia », e ritiene inol-tre che i termini anglosassoni siano mutuati dal latino plaga, « colpo ». Anche se l'idea di una « lotta trasposta nella danza o nel rituale » trapassa nelle denotazioni suc-cessive del termine « play », questo concetto dai molteplici significati ha un proprio destino storico particolare.

Secondo il Webster's Dictionary, « play » è: a) « azio-ne, movimento o attività, specie se liBSra, rapida o legge-ra » (ad esempio: il gioco dei muscoli) — qui, come spes-so accade, il « gioco » è concepito come 'leggero* in con-trapposizione alla 'pesantezza' del 'lavoro', come 'libero^ in contrapposizione al carattere 'necessario' o 'obbligato-rio' del lavoro, come 'rapido' in contrapposiirione alle mo-dalità caute e meditate die caratterizzano i processi lavo-rativi abituali; b) « libertà o spazio per il movimento o

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per Pasdone c) « attività intrapresa a scxjpo dì diverti-mento o di ricreazione » — qui di nuovo d avviciniamo al concetto di attività svincolate dalla necessità o dall'ob-bligo; d) « burla, scherzo (fare qualcosa per gioco) » — qui è sottolineato il carattere non serio di certi tipi di gioco moderno; e) i) <c il giocai^ una partita », ii) « il modo o la tecnica per giocare ima partita » — qui compare nuo-vamente Tidea che il gioco possa essere un lavoro, che possa essere serio pur nella non-serietà della dimensione in cui si colloca e sorge il problema di determinare le condizioni in cui lo 'scherzo' diventa 'tecnica' e governa-to da regole; /) /) <( ima manovra, mossa o azione in ima partita » (ad esempio la formazione d'attacco « a forcel-la » o « a T » nel calcio americano, o una particolare mossa brillante compiuta da una squadra o da un singolo gioca-tore), ii) « un turno di gioco » (ad esempio nell'espressio-ne « resta ancora un gioco nella partita g) «un atto di azzardo, una speculazione » (e qui possiamo pensare al carattere di « gioco d'szzardo » della divinazione nelle so-cietà tribali e persino in quelle feudali); inoltre, natural-mente, k parola stessa « gamble » (gioco d'azzardo) deriva dall'antico inglese gameniany « giocare », imparentato con il termine dialettale tedesco gammeln^ <c spassarsela, far baldoria »; h) <Lum coiiqìQSÌ2Ìo dram-matica; dramma », «the play's the thing7>, te è il dramma » — questo termine conserva palesemente qualcosa sia del suo significato originario di « lotta, bat-taglia », sia di queUi successivi di « ricreazione », « tecni-ca » e « turni di gioco » (doè atti, scene, ecc.); /) infine, play può significare « attività sessuale, amoreggiamento ». Anche qui possiamo osservare uno slittamento dal signifi-cato del sesso come 'lavoro' procreativo (un significato persistente, spesso sostenuto da una dottrina religiosa, nelle sodetà tribali e feudali) alla divisione dell'attività s^sua-le in 'gioco' o 'gioco preliminare' da una parte e nella faccenda 'seria' o 'lavoro' di mettere al mondo dei discen-denti dall'altra. Le tecniche di controllo delle nasdte delle sodetà post-industriali fanno si che questa divisione sia realizzabile praticamente, e istituiscono un esempio della

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divisione fra lavoro e gioco determinata dai moderni siste-mi di produzione e di pensiero, sia 'oggettivamente', nel campo della cultura, sia 'soggettivamente' nella coscienza e nella consapevolezza individuale. La distinzione fra 'og-gettivo' e 'soggettivo' è forse a sua volta un prodotto della scissione tra lavoro e gioco. Infatti ñ 'lavoro' è conside-rato come il regno dell'adeguamento razionale dei mezzi ai fini, dell"oggettività', mentre al 'gioco' si pensa come a una dimensione separata da questo regno essenzialmente 'oggettivo', e quindi, in quanto ne è l'opposto, come a qualcosa di 'soggettivo', libero da costrizioni esterne, come a un luogo dove si può 'giocare' con ogni e qualsiasi com-binazione di variabili. E infatti Jean Piaget, che ha dato il massimo contributo allo studio della psicologia evolu-tiva del gioco, lo considera come «una spede di libera assimilazione, senza adattamento a condizioni spaziali o al significato degli oggetti » ^ Nelle fasi e negli stati liminali delle culture tribali e

agricole (nel rituale, nel mito e nei processi giudiziari) è spesso difficile distinguere fra lavoro e gioco, G>si nel-l'India vedica, secondo Alain Danielou, « gli dèi [i sura e i deva, che sono oggetto di un rito sacrificale serio] gio-cano. n loro gioco è la creazione, la conservazione e la di-struzione del mondo » Il rituale è insieme serio e gio-coso. Come ha rilevato Milton Singer nel suo libro sul-l'India contemporanea , la «danza Krishna» in un pro-gramma urbano di bhajana (canto collettivo di inni) viene chiamata lila, « scherzo », e in essa le partecipanti 'gioca-no' ad essere le « Gopi » o mandriane che « scherzano » in vari modi con Krishna, Vlsnú incarnato, rivivendo in tal modo l'evento mitico. Ma il gioco erotico delle Gopi con Krishna ha implicazioni mistiche, come il Cantico dei cantici^ è insieme serio e giocoso, è ü 'trastullarsi' di Dio con un'anima umana.

Dobbiamo ora considerare la netta divisione tra lavoro e svago prodotta dall'industria moderna, e il modo in cui essa ha influito su tutti i generi simbolici, dal rito, ai gio-chi, alla letteratura. Joffre Dumazedier, del Centre d'Etu-des Sociologíques (Parigi), non è il solo studioso autore-

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vole a sostenere che lo svago « ha certi aspetti che sono caratteristici soltanto della civiltà nata dalla rivoluzione industriale » Ma egli espone la questione in modo molto eflScace e io devo molto ^ a sua argomentazione. Dumaze-dier rifiuta la tesi secondo la quale lo svago sarebbe esistito in tutte le società di tutti i tempi. Nelle società arcaiche e tribali, ^li ajfiFerma, «lavoro e gioco facevano parte a pari titolo del rituale mediante il quale gH uomini cerca-vano di stabilire una comunione con gli spiriti degli an-tenati. Le festività religiose comprendevano sia il lavoro che il gioco » Tuttavia gli spedati della religione come gli sciamani e gli stregoni non costituivano una « classe agiata » nel senso di Thorstein Veblen poiché svolge-vano funzioni magiche o religiose per l'intera comunità {e, come abbiamo visto, lo sciamanesimo è una professione 'diligente e laboriosa'). Analogamente, nelle società agri-cole delle quali possediamo ima documentazione storica,

Tanno lavorativo seguiva un orario tracciato dal passaggio stesso dei giorni e delle stagioni: quando c'era bel tempo si lavorava sodo, quando il tempo era brutto l'irapegno diminuiva. Un lavoro di questa specie aveva un proprio ritmo naturale, punt^giato da pause, canti, giochi e cerimonie; era sinonimo del giorno solare, e in certe zone cominciava all'alba per concludersi solo al calar del sole [ „ . ] anche U ciclo annuale era contrassegnato da intere serie di giorni sabatici e festivi. Il giorno sabatico apparteneva alla sfera religiosa; in ogm caso i giorni festivi erano spesso occasione di im grande dispendio di energie (per non parlare del cibo), e costitui-vano l'inverso o l'opposto della vita quotidiana [spesso caratteriz-zato dall'inversione simbolica e dal capovolgimento degli status]. Ma con bisogna sottovalutare l'aspetto cerimoniale [o rituale] di queste celebrazioni; esse derivavano dalla reli^one [intesa come lavoro sacro] e non dal tempo libero [come oggi lo concepiamo Erano imposte da esigenze religiose [... e] ndlle principali civiltà europee c'erano più di 150 giorni non lavorativi all'anno

Sebastian de Grazia ha sostenuto die le origini dello 'svago' possono essere ricondotte al modo di vita di certe classi aristocratiche nel corso della civiltà occidentale ^ Dumazedier non è d'accordo, e fa notare che la condizio-ne oziosa dei filosofi greci e della piccola nobiltà del sedi-cesimo secolo non può essere definita relazione d lavoro,

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poiché essa piuttosto sostituisce del tutto il lavoro, H la-voro è fatto cfaglt sdiiavi, dai contadini o dai servi. Ma il vero 'svago' esiste solo come complemento o come ri-compensa del lavoro. Con ciò non si vuol negare che molte delle finezze della cultura umana provengano proprio da questa oziosità aristocratica, Dumazedier ritiene significa-tivo il fatto che la parola greca per « non aver niente da fare » {scholé) volesse dire anche « scuola », « I corti-giani europei, dopo la fine del medioevo, inventarono e portarono alle stelle l'ideale dell'umanista e del genti-luomo »

Lo *svago' presuppone dunque il 'lavoro': è una fase di non lavoro, o addirittura di anti-Iavoro, nella vita di una persona che lavora. Se volessimo indulgere alla passio-ne per i neologismi potremmo definirlo anergico in oppo-sizione a ergico, H sorgere dello svago, dice Dumazedier, è legato a due condizioni. Innanzitutto, la società cessa di regolare le proprie attività mediante obblighi rituali comuni: alcune attività, compresi il lavoro e lo svago, di-vengono, almeno in teoria, soggette alla scelta individuale. In secondo luogo il lavoro con cui una persona si guada-gna da vivere è « separato dal resto delle sue attività: i suoi limiti non sono più 'naturali' ma arbitrari: esso è infatti organÌ!ffi:ato in un modo tanto preciso da poter esse-re facilmente distinto dal tempo libero della persona, sia in teoria dhe in pratica ». È solo nella vita sociale delle civiltà industriali e postindustriali che troviamo soddisfat-te queste condizioni necessarie. Altri sociologi, sia radicali che conservatori, hanno sottolineato che lo 'svago' è il pro-dotto di sistemi socioeconomici di grandi proporzioni, in-dustrializzati, razionalizzati e burocratizzati, nei quali k delimitazione fra lavoro' e 'tempo libero' non è più natu-rale ma arbitraria, ffl lavoro è ora organizzato dall'indu-stria in modo tale Ida essere separato dal 'tempo libero', che comprende, oltre allo svago, il soddisfacimento di bi-sogni personali come il mangiare, il dormire, la cura per la propria salute e il proprio aspetto, e andie l'adempi-mento dei doveri familiari, sodali, civici, politici e religio-si (che in una società tribale sarebbero rientrati nel domi-

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nio del continuum lavoro-gioco). Lo svago è prevalente-mente un fenomeno urbano, tanto die quando il concetto di svago comincia a penetrare nelle società rurali è perché il lavoro agricolo tende verso un modo di organizzazione industriale, verso una 'razionalizzazione', e perché la vita rurale comincia ad essere permeata dai valori urbani legati alla industrializzazione: questo vale sia per l'attuale Terzo Mondo, sia per le sacche rurali di società industriali di vecchia data.

H tempo di svago è assodato a due tipi di libertà, la « libertà da » e la « libertà di per rifarsi alla celebre distinzione di Isaiah Berlin^: a) esso rappresenta la liberià da un mucchio di obblighi istituzionali, imposti dalle forme fondamentali dell'organizzazione sodale, in particolare da queEa tecnologica e burocratica; b) per dascun individuo esso significa libertà dai ritmi forzati e cronologicamente regolati della fabbrica o dell'uffido, e la possibilità di re-cuperare e godere di nuovo dei ritmi naturali, biologia.

Ma lo svago è anche: a) libertà di accedere ai mondi simbolid del divertimento, degli sport, dei giodii e dei diversivi dt qualsiasi genere e addirittura di generarne di nuovi. Inoltre lo svago è b) libertà di trascendere le limi-tazioni imposte dalla struttura sociale, libertà di giocare [...] con idee, fantasie, parole (da Rabelais a Joyce e Samuel Beckett), con il colore (dagli impressionisti al-TAction painting e all'Art Nouveau), e con le relazioni sociali, nei rapporti di amicizia, negli esercizi di sensitività, negli psicodrammi e in altri modi. Qui il carattere ludico e sperimentale è molto più evidente che nei riti e nelle cerimonie delle sodetà tribali o agricole. Le sodetà com-plesse, organicamente solidali, offrono ovviamente una gamma di opzioni molto più ampia; i giochi basati sull'abi-lità, suILa forza o sulle probabilità possono servire da mo-delli per il comportamento futuro o essere modelli della esperienza lavorativa passata, considerati ora come una li-berazione dalle necessità del lavoro e come qualcosa che uno sceglie di fare spontaneamente. Sport come il caldo, giochi come gli scacchi, passatempi come l'alpinismo, sono forse duri, impegnativi e governati da regole e comporta-

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menti standard ancora più ferrei di quelli che regolano ñ lavoro, ma poiché sono facoltativi essi appartengono alla sfera della Èbertà dell'individuo, della sua educasione al-Tautodisciplina e persino all'autotrascendenza. Perciò essi infondono un piacere più completo che non quei molti tipi di lavoro industriale nei quali Tuomo è alienato dal frutto e dal risultato della propria fatica. Lo svago è potenzial-mente in grado di liberare le capacità creative individuali 0 collettive, per criticare -oppure per puntellare i valori della struttura sociale dominante.

È un fatto certo che nessuno è costretto dai bisogni materiali o da obblighi morali o legali a svolgere una atti-vità di svago vero e proprio come avviene invece nel caso di attività quali ü ricevere un'educazione, il guadagnarsi da vivere o il compiere cerimonie dvili o religiose. Andie quando è richiesta ima certa fatica, come nello sport ago-nistico, questa fatica — e la disciplina dell'allenamento — è scelta volontariamente, nell'aspettativa di un godimento che è disinteressato, non motivato dal guadagno e privo di intenti utilitari o ideologici.

V Ma se questo è lo spirito ideale dello svago, la sua realtà culturale è però ovviamente influenzata dalla sfera del lavoro, dalla quale esso è stato diviso dal cuneo del-Torganizzazione industriale. Lavoro e svago interagiscono, ogni singolo individuo partecipa a entrambi i domini, e 1 modi dell'organizzazione del lavoro influenzano le forme delle attività ricreativi Consideriamo il caso di quelle so-cietà, per Io più nordeuropee e nordamericane, il cui pro-cedo iniziale di industrializzazione fu accompagnato ed ispirato da quella die Max Weber ha chiamato « etica pro-testante » Questa atmosfera etica, o insieme di valori e di credenze, che secondo Weber fu una condizione pro-pizia per il sorgere del capitalismo moderno, razionale, ha avuto a mio parere conseguenze quasi altrettanto impor-tanti nel campo dello svago che in quello del lavoro. Come ormai tutti sanno, secondo Weber, Calvino e altri rifor-matori pensavano che la salvezza fo^e un puro dono di Dio, e non potesse essere guadagnata o meritata da un essere cosi completamente corrotto nella propria natura

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come è Tuomo dopo la Caduta di Adamo. Nella sua forma estrema — la dottrina della predestinazione — questa idea comporta che nessuno può avere la certezza di essere sal-vato, né di essere dannato. Qò costituiva una seria minac-cia per la morale individuale e fece si che a livello di cul-tura popolare, venisse sviluppata una via d'uscita, che pure non si riusd a tradurre in termini inattaccabili sul piano teologico. Essa consisteva nell'idea che colui che è nella grazia dì Dio e nella (invisibile) comunità degli eletti da Lui preordinata debba concretamente manifestare nel pro-prio comportamento un autocontrollo sistematico e l'ob-bedienza al volere divino. Da questi sj^ni esteriori egli può farsi riconoscere dagli altri, e rassicurare se stesso drca la propria appartenenza al novero degli eletti e il suo non essere destinato a patire le pene della dannazione etema insieme ai reprobi. Ma il calvinista non è mai asso-lutamente certo della propria salvezza, e si dedica quindi a ùn esame incessante delle condizioni della sua anima in-teriore e della sua vita esteriore alla ricerca di segni ine-quivocabili dell'azione salvifica della grazia. In un certo senso quello che nella storia culturale precedente era il « lavoro » sociale « degli dèi », il ddo liturgico legato al calendario, o meglio le sue penitenze e le sue prove, non Taspetto della festività, venne 'interiorizzato' nel 'lavoro' non ludico e sistematico della coscienza dell'individuo.

Un altro concetto su cui i calvinisti ponevano l'accento era quello deEa missione che si è chiamati a svolgere nella vita, della vocazione. Contrapponendosi al concetto catto-lico di 'vocazione' come chiamata alla vita religiosa, basata sui tradizionali voti di castità, obbedienza e povertà, ü calvinista sosteneva che proprio Toccup^one secolare di una persona andava considerata la sfera in cui essa era chiamata a servire Dio, attraverso la dedizione al proprio lavoro! Lavoro e svago si costituirono in due sfere separate, e il 'lavoro' divenne sacro, de facto, in quanto era l'arena in cui si poteva dimostrare oggettivamente la propria sal-vezza. Cosi il possidente doveva agire come un buon am-ministratore di beni terréni, come Giuseppe in Egitto. Non doveva utilizzarli per procurarsi lussi peccaminosi, ma per

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migliorare le condizioni morali proprie, della sua fami^a e dei suoi dipendenti. Dove il 'miglioramento' comportava autodisciplina, autoesame, lavoro duro, dedizione al pro-prio dovere e alla propria missione, e insistenza perché i sottoposti si comportassero nello stesso modo. In tutti i luoghi in cui Paspirazione calvinista alla teocrazia divenne influente, come a Ginevra o in Inghilterra nel breve pe-riodo in cui furono al potere i puritani, furono introdotte delle leggi che costringevano gli uomini a migliorare la loro condizione spirituale risparmiando e lavorando sodo, n puritanesimo inglese, ad esempio, non influenzò soltanto il culto religioso con i suoi attacchi contro il 'ritualismo', ma ridusse al minimo il 'cerimoniale' (doè il corrispettivo 'secolare' del rito) in molti altri settori di attività, com-preso il teatro, che i puritani stigmatizzarono in quanto 'pagliacciata'. Con la loro legge che dichiarava illegali le rappresentazioni sceniche essi sottrassero vent'anni buoni alla produzione teatrale di Ben Jonson. È signifkrativo che fra i bersagli di questo provvedimento vi fossero quei ge-neri di svago e di intrattenimento die si erano svñuppati nelle cerchie aristocratiche o mercantili del periodo proto-industriale, come le rappresentazioni teatrdül, i masques^ i quadri allegorici, le esecuzioni musicali e, naturalmente, i generi popolari del carnevale, della sagra, del charivari, ddla ballata e della sacra rappresentazione. Essi costitui-vano la componente 'ludica' del continuum lavoro-gioco dove precedentemente si raccoglieva la società intera in un unico processo che attraversava le fasi sacre e quelle profane, e le solexmità e le festività del cido stagionale. I calvinisti volevano abolire 'le torte e la birra', e altri cibi festivi che appartenevano al lavoro e al gioco degli dèi. Al posto di tutto dò, essi volevano invece la dedizione ascetica all'impresa economica prindpale, la sacralizzazione di dò che in precedenza era di solito considerato come pro-fano, o quanto meno come subordinato^ in posizione ancil-lare rispetto ai paradigmi cosmologid sacri. Weber sostie-ne che mentre le motivazioni religiose del calvinismo si smarrirono dopo poche generazioni di successo mondano, l'importanza centrale attribuita all'autoesame, all'autodi-

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sdplina e al lavoro duro nella propria missione a>ntinuò, anche secolarizzata, a promuovere la dedizione ascetica al perseguimento sistematico del profitto, al reinvestimento del guadagno e alla frugalità, che furono le caratteristiche distintive del nascente capitalismo.

Qualcosa di questo carattere sistematico^ di vocazione, dell'etica protestante, riusd a penetrare persino nei generi di trattenimento dell'industria dello svago. Volendo coniare un nuovo termine, anche lo svago divenne ergicOy 'della natura dd lavoro', anziché ludico, 'della natura del gioco'. Cosi abbiamo, nell'industria dello spettacolo, una seria di-visione del lavoro dove recitare, ballare, cantare, produr-re arte, scrivere, comporre ecc., diventarono 'vocazioni' professionali. Istituti educativi preparavano gli attori, i ballerini, i cantanti, i pittori e gli scrittori in vista della loro carriera'JA un livello più alto, alla fine del diciotte-simo secolo e specialmente nel diciannovesimo, si affermò una nuova nosdone delirarte* stessa, nelle sue varie moda-lità, intesa ora come una vocazione semireligiosa, con il suo proprio ascetismo e dedizione totale, da William Blake, attraverso Kierkegaard, Baudelaire, Lermontov e Rimbaud, fino a Cézanne, Proust, Rilke e Joyce, per non parlare di Beethoven, Mahler, Sibelius, e innumerevoli altri.

Questa influenza dell'etica protestante sullo svago si manifesta anche nella sfera stessa del gioco. G)me ha scrit-to Edward Norbeck:

I progenitori dell'America avevano una forte fede in ^ e l -rinsieme di valori conosciuto come etica protestante. La dedtziooe al lavoro era una virtù cristiana; e il gioco, il nemico del lavoro, era consentito con riluttanza e parsimonia soltanto ai bambini. Ancora oggi, nella nostra nazione, questi valori sono ben hingi dal-Tessersi estinti, e Tantica ammonizione che il gioo) è opera del diavolo sopravvive nel pensiero secolarizzato. Bendié il gioco si sìa ormai conquistato una certa rispettabilità, resta sempre qualcosa a cui 'si mddge* (come all'atto sessuale), ima forma di rilassatezza morale^.

Lo sport organizzato (gioco 'pedagogico') si concilia meglio con la tradizione puritana die non il gioco infantile

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non organizzato (gioco 'pediarchico') o il puro e semplice gingillarsi, che è nno spreco di tempo.

Tuttavia le moderne società industriali o postindustriali hanno abbandonato gran parte di questi atteggiamenti di ostilità verso lo svago. Lo sviluppo tecnologico, l'organiz-zazione politica e industriale dei lavoratori, Fattività di datori di lavoro progressisti, lo scoppio di rivoluzioni in molte parti del mondo, hanno avuto l'effetto complessivo di portare più svago nel 'tempo libero^ delle culture indu-striali. Nel quadro di questo aumento dello svago, sono proliferati generi símboíid sia istruttivi che di puro diver-timento. Nel mio libro II processo rituale ho descritto al-cuni di essi come fenomeni 'liminali'^. Ma alla luce di quanto ho appena detto, c'è da chiedersi se la liminalità sia davvero un titolo adeguato per questo insieme di atti-vità e forme simboliche. È evidente che per certi aspetti questi generi 'anergici' condividono le caratteristiche dei riti e dei miti 'ludergici' (questo termine nasce dal con-fronto fra lo stile rituale indù e quello giudaico) delle culture agricole primitive, arcaiche e tribali. Lo svago può essere considerato come una sfera intermedia, dbe non è né carne né pesce, fra due turni di lavoro oppure fra l'at-tività lavorativa e quella familiare e dvile. Svago, leisure^ l deriva etimologicamente dall'antico francese leisir, che de- í riva a sua volta dal latino licere^ « essere permesso », il quale, e questo è abbastanza interessante, risale alla radice indoeuropea Heiky <€ mettere in vendita, mercanteggiare », che si riferisce dunque alla sfera 'liminale' del mercato, con i concetti in essa impliciti di scelta, variazione, contratto: una sfera che nelle religioni arcaiche e tribali è connessa ai "bricconi divini' come Eshu-Elegba ed Ermete, Il com-mercio è più Viminale' della produzione. Esattamente quel-lo che fanno i membri di una tribù quando fabbricano ma-schere, si travestono da mostri, ammucchiano simboli ri-v tuali disparati, invertono o fanno la parodia della realtà ? profana nei miri e nelle leggende popolari, è ripetuto dai 1 generi di svago delle società industriali quali il teatro, la \ poesia, il romanzo, il balletto, il cinema. Io sport, la mu- ! sica classica e rodk, le arti figiirative, la pop art ecc.: essi \

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[giocano con i fattori della cultura, raccogliendoli in combi-pazioni solitamente di carattere sperimentale, talvolta ca-suali, grotteschi, improbabili, sorprendenti, sconvolgenti. Solo che essi fanno questo in un modo molto più compli-cato di quanto avvenga nella fase liminale dei riti tribali di iniziazione, poiché i generi spedalizzati di intratteni-mento artistico e popolare (cultura di massa, cultura pop, cultura folk, alta cultura, cultura alternativa, cultura di avanguardia ecc.) si moltiplicano, in contrasto con il nu-mero relativamente limitato dei generi simbolici in una società 'tribale', e ciascuno di essi al suo interno lascia ampio spazio a scrittori, poeti, drammatuxghi, pittori, scul-tori, compositori, musicisti, attori, comici, cantanti folk, musicisti rock, e in generale ai 'produttori' di cultura, per creare non soltanto forme strane, ma anche, e abbastanza di frequente, modelli, diretti o in forma di parabola o di favola esópica, che contengono una severa critica dello siatus quo y in tutto o in parte. Dato che la diversità è qui elevata a principio^ è naturale che molti artisti, in vari ge-neri, viceversa sostengano, raflEorzino, giustifichino o cer-chino in altro modo di legittimare i costumi sodali e cul-turali e l'ordinamento politico dominanti. Coloro die agi-scono in questo modo lo fanno con modalità che si avvi-cinano, più che aUe produzioni critichey ai miti e ai riti tribali paralleli: sono 'liminali', o meglio *pseudo-* o 'post-liminaK', più che 'liminoidi'. Ad esempio la satira è un genere conservatore perché è pseudo-liminde. La satira de-nuncia, attacca o deride quelli che considera come vizi, follie, stupidità o abusi, ma il criterio su cui si basa il suo giudÍ2áo è di solito l'impianto strutturale normativo dei valori uffidalmente promulgati. Per questo le opere sati-riche, come quelle di Swift, Castlereagh o Evelyn Waugh, hanno spesso la forma di un « rito di inversione », teso a dimostrare die il disordine non può alla lunga sostituire l'ordine. Uno specchio capovolge, ma al tempo stesso ri-flette l'oggetto. Non Io scompone nei suoi costituenti per poi riplasmarlo, né tantomeno lo annienta per sostituirlo con im altro. Ma spesso l'arte e la letteratura fanno esat-tamente queste due cose, sia pure solo nel regno dell'im-

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maginaíáone. Le fasi limindi di una società tribale inver-tono ma normalmente non sovvertono lo status quo, k forma strutturale, della società stessa; il capovol^mento rende evidente ai membri di una comunità che l'alternati-va al cosmos è il caos, e che quindi farebbero meglio a tenersi stretto il cosmos, cioè l'ordine tradizionale della cultura, anche se è loro consentito per brevi periodi diver-tirsi da matti a essere caotici, in qualche saturnale o luper-cale o charivari o orgia istituzionalizzata. Invece i cosid-detti generi 'di intrattenimento' della società industriale sono spesso sovversìviy cioè satireggiano, prendono in giro, mettono alla berlina o corrodono sottilmente i valori centra-li della sfera del lavoro su cui si fonda la società, o almeno di settori particolari di quest'ultima. Fra parentesi, la parol « intrattenere », entertaiity deriva dall'antico francese entre-^ tmif y « tenere separato », doè creare uno spazio lÌmìnale o liminoide nel quale le performance possano aver luogo. Alcuni di questi generi di intrattenimento, come il teatro "di prosa' o ^classico', si pongono storicamente su una linea di continuità rispetto al rituale, come nel caso della tra-gedia greca o del Nò giapponese, e conservano qualcosa della serietà sacra e persino della struttura da rites de pas-sage dei loro antecedenti. Nondimeno, diflEerenze cruciali separano la struttura, la funzione, lo stile, l'ambito e la simbologia del liminde nel rito e nel mito delle culture agricole e tribali da quelli che potremmo definire i generi 'liminoidi', o di svago, delle forme e azioni simboliche nelle società industriali complesse. Tornerò fra poco su alcune di queste diflEerenze.

Quanto al termine limetiy « soglia » in latino, scelto da Van Gennep per indicare la « transizione fra », esso appare connotato negativamente, poiché non è più la con-dizione positiva passata e non è ancora la condizione posi-tiva futura pienamente articolata. Esso sembra anche im-plicare una certa passività, dato che dipende dalle due con-dizioni positive e articolate fra cui costituisce Panello di congiunzione. Ma indagando meglio si scoprono nella limi-nalità anche qualità positive ed attive, specialmente quando la 'soglia' si protrae trasformandosi in un 'tunnel' e il 'limi-

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naie" diventa il 'cunicolare'; questo vale in particolar modo per i riti di iniziazione, con i loro lunghi periodi di se-gregazione e di educazione dei novizi, nei quali ha luogo un ricco spiegamento di forme simboliche e insegnamenti esoterici. In una cultura il 'significato' viene di solito ge-nerato nelle interfaces tra i sottosistemi culturali ricono-sciuti, anche se poi l'istituzionalizzazione e il consolida-mento dei significati avviene nella zona centrale di tali sistemi. La liminalità è una interface temporale, le cui pro-prietà costituiscono il parziale capovolgimento di quelle dell'ordinamento già consolidato su cui si fonda qudsi^i 'cosmos' culturale specifico. Può essere euristicamoite utile considerare, in relazione aUa liminalità nel rito o nel mito, il termine generale durkheimiano di <Ì solidarietà mecca-nica », con cui egli intendeva quel tipo di coesione, e inol-tre di cooperazione e di azione collettiva diretta al conse-guimento di finalità di gruppo, che trova la sua applicazio-ne migliore nelle società piorole e pre-alfabete con una di-visione del lavoro rudimentale e una tolleranza assai scarsa nei confronti dell'individualità. Secondo lui questo tipo di solidarietà è basato suìì'omogeneità dei valori e dei com-portamenti, su ima forte costrizione sociale e sulla fedeltà alla tradizione e ai legami di parentela. Le regole di con-vivenza sono note a tutti e da tutti condivise. Ora, la li-minalità nei riti di iniziazione delle società basate sulla solidarietà meccanica presenta spesso caratteristiche esat-tamente opposte: le prove, i miri, le mascherate, le panto-mime, la presentazione ai novizi delle immagini sacre, i linguaggi s^eti, i tabú alimentari e del comportamento, creano nella zona di segregazione un campo misterioso in cui le normali consuetudini dei rapporti di parentela, del-l'ambiente di residenza, delle l^gi e dei costumi della tribù vengono accantonati, dove il bizzarro diventa normale, e dove, mediante lo scioglimento delle connessioni fra ele-menti abitualmente legati Tuno all'altro in determinate combinazioni, e mediante il loro rimescolamento e la loro ricombinazione in forme mostruose, fantastiche e innatu-rali, i novizi sono indotti a riflettere, e a riflettere seria-mente, su esperienze culturali die fino ad ora avevano

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€ nit dì passaggio

date per scontate. Essi imparano che in realtà non sape-vano ciò che credevano di sapere. Al di sotto della struttu-ra superfidale delle convenzioni comunitarie, c'era una struttura profonda, le cui regole essi hanno dovuto appren-dere attraverso il paradosso e lo shock. In certi casi le co-strizioni sodali diventano più forti fino all'innaturale e all'irrazionale: ad esempio gli anziani, con ordini dispotici, impongono ai novizi compiti che a questi appaiono futili, e li punisa)no con severità se non ubbidiscono prontamen-te e, quel che è peggio, anche se portano a termine con successo il compito assegnato loro. Ma in altri casi, come in quello citato sopra da Rites de Passage di Van Gennep, ai novizi è anche concessa una serie di libertà senza prece-denti: compiono incursioni e razzie nei villaggi e nei giar-dini, rapiscono le donne, insultano le persone più anziane. Innumerevoli sono le forme di messa a soqquadro, parodia, abrogazione del sistema normativo, di esasperazione della regola fino alla caricatura o di satira della regola. I novizi vengono posti contemporaneamente all'esterno e all'interno della sfera di dò che era precedentemente conosduto. Ma una cosa bisogr^ tenere bene a mente: tutte queste azioni e questi simboli sono obbligatori. Persino Vinfrazione delle regole deve essere fatta durante l'iniziazione. Questo è uno d^h aspetti distintivi che separano il liminale dal liminoi-de. Al convegno di Toronto dell'American Anthropological Association, nel 1972, furono citati numerosi esempi (fra cui il carnevale di St. Vincent nelle Indie Ocddentali e quello delle isole di La Have, nella Nuova Scozia, dtati da Abrahams e Bauman) tratti da sodetà moderne situate ai margini delle dviltà industriali, che presentavano qual-che somiglianza con le inversioni limindi nelle sodetà tri-bali. Ma dò che mi colpi era che persino in queste r^oni 'periferiche' Tintero processo era dominato dalla libertà di scelta. Ad esempio quando i mimi mascherati di La Have, di solito ragazzi già grandi e giovani sposi, detti belsnicklers compaiono alla vigilia di Natale per divertire, stuzzicare e prendere in giro gli adulti e per spaventare i bambini, bus-sano alle porte e alle finestre delle case chiedendo il *per-messo' di entrare, E alcuni padroni di casa eflFettivamente

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glielo rifiutano. Ora, io non riesco neppure a immaginare una situazione in cui venga negato Taaresso ai dan^tori mascherati Ndembu, Luvale, Chokwe o Luchazi (tutti po-poli che ho conosciuto e osservato di persona), che sptmta-no fuori dopo lo svolgimento di un certo rituale die segna la fine di una metà del periodo di segregazione e Tinizio dell'altra nel rituale di circoncisione detto Mukanduy e si avvicinano ai villaggi per ballare e per minacciare donne e bambini. Essi non chiedono nemmeno il permesso di entrare, irrompono! I belsnicklers devono 'chiedere* ai pa-droni di casa di offrire loro un rinfresco. I makishi (uomi-ni mascherati) dei Ndembu o di altre popolazioni reclama-no cibo e doni come cose loro dovute. II fenomeno limi-noide è pervaso di volere, quello liminale di dovere. L'uno è fatto tutto di gioco e di scelta, è divertimento, Taltro è una faccenda terribilmente seria, addirittura minacciosa, è tassativo, obbligatorio, anche se in effetti la paura provoca un riso isterico nelle donne (le quali, sì cr¿le, se toccate dai makishi contraggono la lebbra, diventano sterili o im-pazziscono). Inoltre, sempre a St. Vincent solo certi tipi di personalità sono invogliati a partecipare al carnevale in veste di attori, quelli che Abraiiams descrive come « gli elementi più rozzi e burloni della comunità », che sono appunto « rozzi e burloni » ogni volta che ne hanno Pop-portunità, durante tutto Tanno, e perciò sono i più adatti ad impersonare nel carnevale il 'disordine' come opposto dell^ordine'. Anche qui domina evidentemente la libertà di scelta: infatti le persone non sono obbligate ad inverti-re il loro comportamento, come avviene nei riti tribali. Alcune persone, ma non tutte, scelgono di attuare questa inversione in occasione del carnevale. E il carnevale stesso si differenzia da un rito tribale per il fatto che si può par-teciparvi oppure evitarlo, prendervi parte come attori o come semplici spettatori, come si vuole. È un genere di svago, non un rituale obbligatorio, è il gioco separato dal lavoro e non la 'ludergia', gioco e lavoro insieme, come sistema binario dello sforzo comimitario 'serio' dell'uomo, Abrahams, nella sua relazione scritta in collaborazione con Bauman, presenta un altro argomento molto importan-

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te, che colloca senza ombra di dubbio il carnevale di St. Vincent fra i generi di svago moderni, quando sottolinea il fatto che sono prevalentemente uomini cattivi e sregolati » {i tipi macho) a scegliere di eseguire le inver-sioni dei carnevale, che denotano Ü disordine dell'universo e della società, dunque persone che sono disordinate per temperamento e per scelta anche in molte circostanze estranee al carnevale. Nel rito tribale al contrario, anche le persone abitualmente ordinate, mansuete e « rispettose della l ^ e » sarebbero costrette a comportarsi sregolata-mente nei riti fondamentali, a prescindere dal loro tempe-ramento e dal loro carattere. In queste società la sfera di dò che è oggetto di scelta è estremamente limitata. Persino nella liminalità, dove ha luogo quel comportamento biz-zarro cosi spesso fatto rilevare d^li antropologi, i sacra, le maschere ecc., si manifestano quantomeno sotto forma di « rappresentazioni collettive ». Se mai ci furono crea-tori e artisti individuali, essi sono stati repressi dall'accen-tuazione dell'aspetto anonimo e collettivo che costituisce xma caratteristica universale della 'liminalità', esattamente come lo sono stati i novizi e i loro maestri di noviziato. Ma nei generi Uminoidi delle società industriali, nell'arte, nella letteratura e persino nella scienza (che rappresenta Pautentico omologo del pensiero liminale delle società tri-bali, molto più che non Parte moderna), viene pubblica-mente enfatÌ22;ato il ruolo dell'individuo innovatore, del-l'essere eccezionale che osa e sceglie di creare. Per la man-canza di rilievo dell'individualità, la liminalità tribale può essere considerata non come l'inverso della normatività tri-bale, ma come la sua proiezione nei contesti rituali. Tut-tavia quando si osservano effettivamente, 'sul campo', riti di iniziazione, d si vede costretti ad abbandonare questo ptmto di vista. Ho scoperto presso gli Ndembu, che i no-vizi, pur venendo spogliati del nome, del rango profano e degli indumenti, emergevano dascuno come un individuo ben distinto e c'era un elemento di competitività perso-nale: i quattro tra tutti che, durante la fase di segregazio-ne avevano dato le prestazioni migliori (neUa caccia, nella resistenza alle prove, nell'abilità a risolvere gU enigmi,

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nella capacità di cooperare, ecc.) venivano insigniti di titoli nel corso dei riti che celebravano la loro ria^ega2done alla società profana. Per me significava che nella liminalità è racchiuso il germe del liminoide, basta che intervengano importanti cambiamenti nel contesto sodocviltm-ale perché esso si dispieghi nei 'candelabri' ramificati dei molteplici generi culturali liminoidi. Se si deve proprio, come Tom Thumb nella filastrocca inglese, cogliere la susina della dialettica da ogni tipo di formazione sociale, suggerirei a quei ricercatori che intendono studiare una di quelle so-cietà 'tribali' dbe stanno rapidamente scomparendo dalla faccia della terra, di esaminare le fa i liminali dei loro riti per situare con la massima precisione la contraddizio-ne incipiente fra modi anonimo-comunitari e modi priva-to-distintivi nel considerare i protagonisti della crescita socioculturale.

Ho usato il termine « antistruttura », per Io più ri-ferendomi a società tribali e agricole, per indicare sia la liminalità sia ciò che ho battezzato « communitas ». Con questo termine non intendevo una inversione strutturale, un'immagine speculare della struttura socioeconomica or-dinaria, 'profana', o un rifiuto illusorio di 'necessità' strut-turali, ma la liberazione delle potenzialità umane di cono-scenza, sentimento, volizione, creatività, ecc., dalle co-strizioni normative che impongono di occupare una serie di status sociali, di impersonare una molteplicità di ruoli, e di essere profondamente consapevoli della propria ap-partenenza a qualche entità collettiva come una famiglia, ima stirpe, tm dan, una tribù, una nazione, ecc., o a qualche categoria sodale che trascende le entità di quel genere, ossia a una dasse, a ima casta o a una suddivisio-ne basata sul sesso o sull'età. La spinta alla coerenza eser-dtata dai sistemi sodoculturali è tanto forte, che solo in rare circostanze nelle sodetà di piccole dimensioni, e non molto spesso in quelle di dimensioni più vaste, gli indivi-dui riescono a sottrarsi a questi vincoli normativi. Nondi-meno, le stesse esigenze di strutturazione, il procesé) gra-zie al quale il nuovo che emerge viene contenuto in dise-gni e schemi ordinatori, hanno il loro tallone d'Achille.

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Esso consiste nel fatto che quando persone, gruppi, in-siemi di idee ecc., si spostano da un livello o da una mo-dalità di organizzazione o regolamentazione dell'interdi-pendenza delle loro parti o elementi ad un altro livello, si crea necessariamente ima zona interfacciale o, per usare un'altra metafora, un intervallo, per quanto breve, di margine o limen, in cui il passato è temporaneamente ne-gato, sospeso o abolito, e il futuro non è ancora iniziato, un istante di pura potenzialità in cui ogni a)sa è come sospesa ad un filo (come il tremante giocatore di rugby che ha tutte le possibilità di scelta, ma nello stesso tempo un futuro assai concreto che avanza minacdoso verso di lui!)> Nelle società tribali, in virtù del generale predomi-nio dell'omogeneità dei valori, del comportamento e delle regole strutturali sociali, questo istante può essere abba-stanza facilmente contenuto o padron^giato dalla struttu-ra sociale, tenuto a freno per impedire un eccesso di in-novazione, 'circoscritto', per usare un'espressione cara agli antropologi, da tabu, « meccanismi di controllo e di com-pensazione » ecc. Perciò la liminalità tribale, per quanto stravagante essa possa apparire, non può mai essere molto più che un barlume di sovversione. Quasi nel momento stesso in cui compare, essa viene iK>sta al servizio della normatività. E tuttavia io la considero una sorta di capsu-la o di sacca istituzionale che contiene il germe de^ svi-luppi sociali successivi, del mutamento della società, in una misura a cui non potrebbero avvicinarsi neppure per approssimazione le tendenze centrali di un sistema sodàe, cioè quelle sfere in cui predominano la legge e il costume, insieme a quelle modalità di controllo socMe che svolgo-no rispetto ad essi una funzione ancillare. L'innovazione può anche aver luogo in sfere di questo genere, ma di solito essa nasce ndle zone interfacciali e liminali, per poi venire legittimata nei settori centrali. Secondo me pro-cessi sociali relativamente 'tardi', storicamente parlando, quali la 'rivoluzione', T'insurrezione', e perfino il roman-ticismo', in campo artístico, caratterizzato dalla libertà formale e spirituale, dall'importanza attribuita al senti-mento e all'originalità, costituiscono un'inversione del

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rapporto fra il normativo e il liminaie che sussiste nelle sodetà 'tribali* e in altre società essenzialmente conserva-trici. Infatti in questi processi e movimenti moderni, die sono i nuclei generatori della trasformazione culturale, lo scontento per la situazione culturale preesistente e la cri-tica sociale, che nel liminaie preindustriale sono sempre impliciti, hanno conquistato una posÌ2done centrale: essi non sono ima faccenda che riguarda Vinterface fra 'strut-ture fisse', ma investono l'evoluzione complessiva della totalità. Cosi le rivoluzioni, indipendentemente dalla loro riuscita, diventano i Umina, con tutti i sottintesi di inizia-zione che questa funzione <x>mporta, fra le principali forme strutturali o ordinamenti distintivi della sodetà.dPuò darsi die questo sia un utilizzo del termine « liminaie » in un senso 'metaforico', e non in quello 'primario' o letterale' sostenuto da Van Gennep, ma questo utilizzo è in grado di aiutard a formulare ipotesi circa la società umana glo-bale, nella quale potrebbero convergere tutte le forma-zioni sociali storicamente determinate. Le rivoluzioni, vio-lente o non violente, potrebbero essere le fasi liminali to-talizzanti rispetto alle quali i Itmina dei rites de passage tribali erano soltanto prefigurazioni o premonizioni.

Forse a questo punto dovremmo pa^re all'altra varia-bile fondamentale dell'« antistmtturale », la « commoni-tas » {esaminerò più avanti i pro e i contro dell'uso dei ter-mini 'antistruttura', 'metastruttura' e 'protostruttura'). Pro-babilmente nelle sodetà tribali la relazione tra communitas e ìiminalità è più stretta di quella fra communitas e strut-tura normativa, anche se quella modalità di rapporto red-proco fra gli uomini che è la communitas può 'giocare' fra un sistema strutturale e l'altro in un modo tale, die per il momento sarebbe troppo difficile per noi prevedere le sue mosse: credo che questa sia la base sperimentale del concetto cristiano di « grazia attuale ». In fabbrica, nel villaggio, in uffido, in biblioteca, a teatro, insomma quasi ovunque, la gente può dunque subire un capovolgimento che dalla sfera dei propri diritti e doveri la tràsporta di colpo in un'atmosfera Á communitas. Ma che cos'è, in so-stanza, la communitas? Ha davvero qualche fondamento di

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realtà, o è soltanto una persistente fantasia del genere umano, una sorta di ritomo collettivo nell'utero materno? Ho definito questo modo in cui le persone guardano, com-prendono e agiscono Tuna nei confronti dell'altra essen-zialmente come « un rapporto tra individui concreti, sto-rici, particolari » Questo concetto non coincide con quel-lo di « comunione che Georges Gurvitch adopera per designare quella situazione « in cui le menti si aprono il più ampiamente possibile, e le estreme profondità acces-sibili delirio' sono integrate in questa fusione {che pre-suppone stati di estasi collettiva) » Per me la commu-nìtas non cancella le particolarità individuali: essa non è né un regresso all'infanzia, né un fatto emotivo, né uno 'sprofondare' nella fantasia. Nelle loro relazioni sodali strutturali le persone, mediante vari processi di astrazione, vengono investite di significati sovraindividuali e classifi-cate in base ai diversi ruoli, status, classi, connotazioni culturali legate al sesso, età stabilite convenzionalmente, appartenenza a un gruppo etnico ecc. In situazioni sociali di tipo diverso, esse sono state condizionate a svolgere ruoli sociali specifici. Non ba importanza cbe lo facciano bene o male, fintanto che si comportano 'come se' obbe-dissero all'insieme di norme che controlla i differenti set-tori di quel modello complesso noto come la 'struttura sodale*. Finora questo è stato praticamente il tema esdu-sivo delle scienze sodali: le persone che svolgono ruoli e conservano o conquistano uno status sociale. Non si può negare che esse impieghino effettivamente in queste atti-vità una grandissima parte del tempo di cui dispongono, sia nel lavoro che nello svago. E in una certa misura, anche qui entra in gioco l'essenza autentica dell'uomo, poiché ogni definizione di un ruolo tiene conto di qualche attri-buto o capadtà umana fondamentale e, volenti o nolenti, gli esseri lunani ^giocano* umanamente i loro ruoli. Ma la piena capadtà dell'uomo non è ammessa in quésti ambien-ti angusti e soffocanti. E questo anche se quando didamo che una persona gioca bene il proprio ruolo intendiamo dire spesso che lo gioca con elastidtà e immaginazione. Il concetto di Martin Buber della relazione Io e tu, e quel-

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lo del Noi essenziale che gli individui formano nel loro tendere verso una meta comune liberamente scelta, sono visioni intuitive di un ordine o qualità di relazione uma-na che non ha il carattere dì una transazione, nel senso che le persone nell'inttaprendere azioni rivolte agli altri non sono necessariamente mosse dall'aspettativa di una reazione die soddisfi i loro interessi. Gli antropologi, con-sapevolmente o meno, hanno scantonato di fronte a molti di questi 'rimandi', perché si occupano dell'<c uomo vivo », concreto, con i suoi sforzi tanto altruistici quanto egoistici nei microprocessi della vita. Certi sociologi invece si trin-cerano dietro questionari concepiti etnocentricamente, che per la loro stessa natura allontanano l'osservatore dall'in-formatore, e rendono inautentica la loro interazione di conseguenza circospetta. Nelle società tribali e in altre for-mazioni sociali preindustriali, la liminalità fornisce un con-testo favorevole allo sviluppo di questi confronti diretti, immediati e totali fra identità umane digerenti. Nelle so-cietà industriali è nell'ambito dello svago, e talvolta con l'aiuto delle proiezioni dell'arte, die questo modo di fare esperienza di propri compagni può essere rappresentato, compreso e in qualche caso anche realizzato. Naturalmen-te la liminalità è una situazione ambigua dato che la strut-tura sodale, se inibisce il pieno soddisfacimento dei biso-gni sodali, offre però la sicurezza all'individuo ponendo delimitazioni ben predse; per alcuni la liminaÌità può esse-re l'apice dell'insicurezza, l'irruzione dd caos nd cosmos, del disordine nell'ordine, anziché il luogo in cui il biso-gno creativo trova soddisfazione e compimento in termini interumani e transumani. La liminalità può essere il luogo della malattia, della disperazione, della morte, dd suid-dio, il luogo dove Ì ben definiti legami e vincoli sodali normativi crollano, senza che nulla venga a sostituirli. Può essere anomia, alienazione, Angsi: le tre 'alfa' fatali di molti miti moderni, Ndle società tribali, ecc., può esse-re l'interregno in cui dominano la stregoneria domestica, i morti ostili e gli spiriti vendicativi dei forestieri; nei ge-neri di svago delle società complesse può essere rappre-sentata da quelle situazioni estreme' tanto care agli scrit-

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tori esistenzialisti: la tortura, Tassassinio, la guerra. Tesse-re sull'orlo del suicidio, le tragedie d'ospedale, il momen-to dell'esecuzione ecc. La Iiminalità è insieme più creativa e più distruttiva della nonna strutturale. In entrambi i casi essa solleva problemi che sono fondamentali per Puomo della struttura sociale, e lo stimola alla riflessione e alla critica. Ma quando è socialmente positiva, la liminalità presenta, direttamente o implicitamente, un modello di società umana che è una commainitas omogenea non strut-turata, i cui confini coincidono idealmente con quelli della specie umana. Quando andhe solo due persone credono cÈ sperimentare fra loro una simile unità, esse sentono, anche solo per un attimo, tutti gli uomini come una cosa sola. A quanto pare, le generalizzazioni del sentimento sono più rapide di quelle del pensiero! La grande difficol-tà sta nel mantenere viva questa intuizione: il che non si ottiene con Tuso regolare dì droghe, né con ripetuti rap-porti sessuali, né con la costante immersione nella grande letteratura, e neppure con la segregazione iniziatica, che presto o tardi deve pur finire. Ci imbattiamo cosi nel pa-radosso che Vesperienza della communitas diventa la me-moria della communitas, col risultato che questa, nel suo sforzo di replicare se stessa, sviluppa storicamente una struttura sociale, in cui gli iniziali rapporti liberi e inno-vativi fra individui si trasformano in rapporti regolati da norme fra penonae sociali. So benissimo die sto enuncian-do un altro paradosso: quanto più spontaneamente ^ uomini diventano 'uguaK', tanto più essi si distinguono e diventano 'se stessi'; più diventano la stessa cosa sul piano sociale, meno si considerano tali su quello indivi-duale. Tuttavia quando questa communitas o comitas viene istituzionalizzata, i tratti idiosincratid appena scoperti ven-gono legalizzati in un ulteriore insieme di ruoli e status universalistici, i cui titolari devono subordinare a una re-gola la loro individualità.

Come ho sostenuto ne 11 processo rituale:

raramente la spontaneità e Tiimnediatezza della communitas — con-trapposta al carattere giuridico-politico della struttura [sodale] —

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possono maateoersi DK>lto a lungo. È la communitas stessa che sviluppa ben presto una struttura [sodale protettiva], nella q ^ e i rapporti Kbari tra individui si trasfonnano in rapporti diretti da norme tra persone sociali

Può darsi che la cosiddetta ^normalità' sia molto più un gioo) in cui ci si traveste con masdtiere {personae) e si segue un copione, di quanto non lo siano certi modi di comportamento 'senza maschera', definiti culturalmente ^anormali', 'aberranti', 'eccentrici* o 'fuori dal mondo'. Ma la communitas non comporta dhe le norme strutturali ven-gano cancellate dalla coscienza di coloro die ad essa parte-cipano: anzi, si può dire che la sua stessa forma, in una data comunità, dipende dal modo in cui essa esprime sim-bolicamente l'abrogazione, la negazione o l'inversione della struttura normativa nella quale i suoi partecipanti sono quotidianamente coinvolti. In realtà, la sua prontezza a trasformarsi a sua volta in una struttura normativa è un indizio della vulnerabilità della communitas all'ambiente strutturale.

Esaminando il destino storico della communitas ho identificato tre forme distinte di essa, non necessariamen-te in sequenza, e le ho chiamate spontanea, ideologica e normativa. Qascuna di esse ha delle relazioni parti<x)lari con i fenomeni liminaB e liminoidi.

d) La communitas spontanea è « un confronto diretto, immediato e totale fra identità umane differenti », un ge-nere più profondo che intenso di interazione fra individui. « Ha in sé qualcosa di 'magico'. Soggettivamente si prova in essa la sensazione di un potere infinito » Credo che non ci sia nessuno che non abbia mai vissuto uno di que-sti momenti, quando persone che vanno d'accordo (amici, individui affini) raggiungono un istante di lucida compren-sione reciproca a liveUo esistenziale, quando hanno la sen-sazione che non solo i loro, ma tutti i problemi, riguar-dino essi la sfera emotiva o quella conoscitiva, potrebbe-ro essere risolti, se soltanto il gruppo che essi avvertono in prima persona come un « noi essenziale )> potesse con-servare il proprio stato attuale di illuminazione intersog-

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gettìva. Questa illuminazione può soccombere alla luce spietata della separazione dell'indomani, o all'applicazione arbitraria della ragione individuale alla 'gloria' della com-prensione comunitaria. Ma finché siamo dominati dallo stato d'animo, dallo stile o dal 'pallino' della communitas spon-tanea, attribuiamo un grande valore all'onestà e alla fran-chezza personali e alla mancanza di pretese o pretenziosità. Sentiamo che è importante stabilire una relazione diretta con un'altra persona come essa si presenta néì!hìc et nunc y comprenderla in modo simpatetico (e non empatetico, che impUca sempre un certo n^arsi, un non darsi completa-mente del sé), liberi dai gravami del suo ruolo, status, re-putazione, dasse, casta, sesso, o altri incasellamenti strut-turali definiti culturalmente. Gli individui che interagisco-no nella modalità della communitas spontanea vengono to-talmente assorbiti in un unico evento fluido sincronico. La loro comprensione 'viscerale' deUa sincronizzazione in queste situazioni li apre alla comprensione di forme cul-turali (oggi ricavate soprattutto dalla trasmissione scritta della cultura di tutto il mondo, nell'originale o in tradu-zione) quali l'eucarestia e l'I Ching, che mettono in evi-denza la comune partecipazione mistica (per citare Lévy-Bruhl) di tutti gli eventi contemporanei, se soltanto aves-simo uno strumento per esplicitare il 'significato' impli-cito nella loro 'coincidenza'.

h) Quella che ho definito communitas ideologica è un insieme di concetti teoretici che tentano di descrivere le interazioni che hanno luogo nella communitas sponta-nea. Qui lo sguardo retrospettivo, la 'memoria', ha già creato una distanza fra il soggetto individuale e l'esperien-za comunitaria o diadica. Qui colui che esperisce si è già rivolto al linguaggio e alla cultura per mediare le prece-denti immediatezze, un esempio del fenomeno che M. Csikszentmihalyi e J. MacAloon hanno battezzato « rottura del flusso cioè un'interruzione di quell'esperienza di fu-sione fra azione e coscienza (e di concentrazione dell'at-tenzione) che caratterizzano il 'momento cruciale' nel ri-tuale, nell'arte, nello sport, nelle partite e persino nel gioco d'azzardo. H 'flusso' può produrre la communitas e vice-

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versa, ma certi 'flussi' sono isolati, e certe forme di com-munitasy in particolare quelle religiose, separano k coscien-za dafl'azione. Qui dò che è essenziale non è il lavoro d'equipe nel flusso, ma Vessere insieme: la parola chiave è 'essere*, non 'fare'. Il soggetto ha incominciato a rovi-stare nel passato culturale ereditato in cerca di modelli o elementi culturali ricavati dalle rovine di modelli passati con i quali egli può costruirne uno nuovo che, sia pure in modo incerto, riprodurrà in parole la sua esperienza concreta della communitas spontanea. Alcuni di questi in-siemi di concetti teoretici possono essere estesi e concre-tizzati in un modello 'utopistico' di società, in cui tutte le attività umane si espKdberebbero sul terreno della com-munitas spontanea. Mi affretto ad aggiungere che non tutti, e neppure la maggior parte dei modelli 'utopistici' sono modelli di « communitas ideologica » Utopia in greco significa « in nessun luogo »: la fabbricazione di utopie è una ben funzionante attività 'ludica' dello svago nel mondo roodemo, e come la fabbricazione industriale tende a porre fra i suoi desiderata primari strutture politico-amministra-tive ideali (spesso anche fortemente gerarchizzate) anzi-ché la prospettiva di dò che sarebbe il mondo, o il paese, o l'isola, se tutti si sforzassero di vivere in communitas con i propri vidnì. Ci sono molte utopie gerarchidie, con-servatrid o fasciste. Tuttavia T'utopia' della communitas compare in varie forme come ingrediente centrale, legato al concetto di 'salvezza', in molte delle religioni storiche del mondo, delle quali d restano testimonianze scritte, « Venga il tuo Regno » {die in quanto caritas, agape, * amore', è un anti-regno, una communitas).

c) I n f i n e la communitas normativa è, una volta di più, un « sistema sodale permanente », una subcultura o un gruppo che tenta di promuovere e conservare le relazioni della communitas spontanea su una base più o meno sta-bile. Per far questo essa deve snaturarsi, poiché la com-munitas spontanea è, per usare un linguaggio teologico, ima questione di 'grazia' più che di *legge'. Il suo spirito 'soffia dove vuole', non può essere sottoposto a leggi o normalizzato, perché è Veccezione, non la regola^ il mira-

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coloy non la norma^ la libertà primordiale e non ananke^ la catena causale della necessità. Ma dò nonostante, l'origine di un gruppo basato sulla commumias, sia pure su quella normativa, presenta un carattere che k distingue da quei gruppi che sorgono sul fondamento di qualche 'necessità', 'naturale' o tecnica, reale o immaginaria, come ad esem-pio un sistema di rapporti di produzione o un gruppo di persone che si ritengono unite da un l^ame biologico, quale la famiglia, la parentela o la stirpe. Un certo carat-tere di 'libertà', di 'liberazione' o di amore' (per usare termini che sono comuni al vocabolario teologico e a quel-lo politico-filosofico dell'Occidente) pertiene alla commu-nitas normativa, anche se abbastanza spesso i regimi più rigidi si discostano da quelle che sono evidentemente le esperienze più spontanee della communitas. Questo irrigi-dimento deriva dal fatto che inizialmente i gruppi della communitas si sentono totalmente vulnerabili dai gruppi istituzionalizzati che li circondano. Perciò essi sviluppano una cora^ difensiva istituzionale, la quale si rafforza in misura direttamente proporzionale all'aumento delle pres-sioni per cancellare l'autonomia del gruppo primario. Essi « diventano dò che vedono ». D'altra parte, se non 've-dessero' i loro nemid, soccomberebbero ad essi. Presumi-bilmente questo dilemma non può essere risolto da una specie caratterizzata dallo sviluppo, dal cambiamento e dall'innovazione, una specie che nel corso del tempo in-venta nuovi strumenti di pensiero oltre che di produzio-ne, ed esplora nuovi stati emotivi. Può darsi cl¿ la resi-stenza del vecchio sia tanto importante per il cangiamen-to quanto la novità del nuovo, in quanto insieme questi due aspetti costituiscono xm problema.

I gruppi basati sulla communitas normativa sorgono di solito durante un periodo di risveglio religioso. Nei casi in cui la communitas normativa è dimostrabilmente la mo-dalità di assodazione predominante in xm gruppo, si può sempre attestare Ü processo di trasformazione di un mo-mento carismatico e personale in un sistema sodale in atto, relativamente ripetitivo. Ma le contraddizioni intrinseche fra la communitas spontanea e un sistema fortemente strut-

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turato sono cosi grandi che ogni impresa che tenti di con-ciliare queste modaMtà sarà costantemente minacciata dallo sfaldamento della struttura o dal sofiEocamento della com-munitas. La forma tipica di compromesso (e per esempi storici che illustrano questo punto rimando il lettore a Il processo rituale) è di solito in questi casi la scissione dei membri del gruppo in due fazioni contrapposte, ma questa soluzione regge solo fintantoché il potere di cia-scuna è controbilanciato da quello dell'altra. Normalmente il gruppo che si organizza per primo, e che poi si struttura in modo più metodico, finisce per prevalere in termini po-litici o parapolitici, anche se i valori chiave della commu-niias, condivisi da entrambi i gruppi ma fatti cadere in disuso da quello politicamente vittorioso possono in se-guito risorgere nell'altro. Cosi i francescani conventuali riuscirono a ottenere la condanna degli spirituali per il loro usus pauper y cioè per la loro visione estremistica della regola della povertà, ma la riforma dei cappuccini, inizia-tasi circa tre secoli dopo, nel 1525, riportò in auge molti degli originari ideali di povertà e semplicità francescana, quali venivano praticati prima della divisione dell'ordine in conventuali e spirituali avvenuta nel tredicesimo secolo. Nel linguaggio della simbologia è necessario distinguere fra i simboli dei sistemi politico-giuridid e quelli che co-stituiscono i sistemi religiosi. Uusus pauper era un simbolo politico che evidenziava la spaccatura in fazioni fra le due ali del movimento francescano, mentre « Madonna Pover-tà » (a sua volta forse una variazione francescana su temi quali « Nostra Signora Maria » o « Nostra Santa Madre Chiesa ») era un simbolo culturale che trascendeva le di-visioni strutturali di marca politica. La communitas tende a generare metafore e simboli che successivamente danno luogo a insiemi e raggruppamenti di valori culturali; è nel campo delle basi materiali della esistenza (economia) e del controllo sociale (diritto, politica) che i simboli acquisi-scono il loro carattere 'socio-strutturale'. Ma ovviamente la sfera socio-strutturale e quella culturale si compenetra-no e si sovrappongono l'una all'altra, in quanto gli indivi-dui concreti perseguono i loro interessi, cercano di realiz-

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zare i loro ideali, si amano, si odiano, si assoggettano e si obbediscono a vicenda nel flusso della storia. Per il mo-mento non avanzerò la tesi che il 'metodo induttivo*, di cui il dramma sodale è una delle tecniche, offre un utile strumento per lo studio dei simboli e dei loro significati considerati come eventi all'interno del flusso complessivo degli eventi sociali, dato che non ho ancora finito di trat-tare la questione delle relazioni fra i simboli, il liminale, il liminoide, la communitas e la struttum sociale.

Fra la communitas e la struttura sociale vige xma sorta di relazione figura-sfondo'. I confini di ciascuna delle due, in quanto esse costituiscono modelli impliciti o espliciti dell'interazione umana, sono determinati dal contatto o dal confronto con l'altra, esattamente come la fase liminale di un rito di iniziazione è determinata dagli status sociali fra cui si inserisce (molti dei quali essa elimina, inverte o invalida), o come il 'sacro' è determinato dalle sue rela-zioni con il 'profano': in questo caso si tratta di determi-nazioni relative persino all'interno di una singola cultura, poiché se ^ è 'sacro' rispetto a B, può però essere 'profa-no' rispetto a C e 'meno sacro' di D. Qui, come in molti altri aspetti del processo sodoculturale, predomina la se-lezione situazionale. Si può dire dunque che la communi-taSy nel contesto del suo uso attuale, sta più in contrasto che in opposizione attiva alla struttura sociale, rappresen-ta un modo di esistere socialmente come uomo che si pone come modo alternativo e più « liberato un modo che consente di assumere una posizione di distacco dalla strut-tura sociale (e di conseguenza, potenzialmente o periodi-camente, di valutarne il funzionamento), e che unisce mag-giormente le persone 'distaccate' o 'emarginate' ad dire persone non integrate, rendendo talvolta possibile una va-lutazione comune del funzionamento storico di una data struttura sodale. Qui possiamo avere un connubio fra la formulazione, struttur^mente condannata, di un giudizio suUa struttura normativa e la creazione di modelli alterna-tivi di struttura.

Tuttavia, poiché i confini del modello astrutturale di interconnessione imiana delineato dalla communitas ideo-

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logica <c coinddono idealmente con quelli della specie uma-na » (e a volte li trascendono estendendosi ad un generico « rispetto per la vita »), coloro che stanno sperimentando o hanno sperimentato di recente la communitas tentano spesso di trasformare im'interazione appartenente alla strut-tura sociale, o un insieme di tali interazioni {che impli-cano il primato del comportamento istituzionalizzato in base allo status e al ruolo sul comportamento 'liberamen-te scelto') in un conjfronto diretto, immediato e totale fra identità umane differenti, cioè in una communitas spon-tanea. La communitas tende a comprendere tutti (è 'gene-rosa', direbbero alcuni), mentre la struttura sodale tende ad essere esdusiva, addirittura snobistica, e prova gusto nello stabilire distinzioni quali noi/loro, dentro il grup-po/fuori dal gruppo, superiore/inferiore, patrizi/plebd. La tendenza a comprendere tutti induce la communitas al proselitismo. Si vuole fare in modo che gli Altri diven-tino Noi. Nella tradizione ocddentale è celebre il caso della Pentecoste, quando persone appartenenti a gruppi linguistid ed etnid differenti asserirono, sotto l'ispirazio-ne dello Spirito Santo, di comprendersi a vicenda in un modo che passava completamente al di sopra o al di sotto della sfera linguistica. Dopo di che i partedpanti alla Pen-tecoste partirono per catechizzare il mondo. La glossolalia di certi pentecostali moderni appare collegata all'idea che mentre Ü linguaggio articolato divide le persone di gruppi linguistid diversi, e rende più facile il 'peccato' persino fra i membri di ima medesima comunità linguistica, il lin-guaggio privo di senso (arcaico) favorisce l'amore redpro-co e la virtù. Tuttavia questi tentativi di conversione at-tuati dagli individui della communitas possono essere inte-si non solo dalle élites al potere della struttura sodale, ma anche dalla massa di coloro che appagano nell'obbedien-za alla norma il loro bisogno di sicurezza, come una mi-naccia diretta alla loro personale autorità o sicurezza, e forse soprattutto alla loro identità sociale fondata sulle istituzioni. G)si le tendenze espansive della communitas possono scatenare una campagna repressiva da parte di quei membri della sodetà che si trincerano dietro la strut-

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tura, il che a sua volta conduce ad una opposizione più attiva, addirittura militante, degli uomini ddila communi-tas (si pensi a questo proposito al processo storico avvia-to da molti movimenti millenari tici o di rinascita religio-sa); e cosi via, in ima lotta a spirale fra le forze della struttura e quelle della communìtaSy che assomiglia abba-stanza a quello che Frye e Erdman, ricorrendo ai simboli di Bkke, hanno chiamato il ddo Orc-Urizen (in questo caso rOrc rappresenta Penergia rivoluzionaria e TUrizen la <( coscienza legislatrice e vendicatrice )> per usare le pa-role di S Foster Damon), a sua volta una parziale anti-cipazione della teoria di Pareto della <c drcolazione delle élites », dove alle éUtes « leonine » dd rivoluzionari suc-cedono quelle « volpine » degli strateghi e dd tattici della conservazione dd potere.

Nonostante questo conflitto, e anzi in larga misura proprio a causa di esso, la communitas assolve a importan-ti funzioni per la più vasta cerchia delk sodetà struttura-ta e centralistica. Ne II processo rituale osservavo che la liminafità, la marginalità e Tinferiotità stmtturale sono condi-zioni nelle quali si producono spesso miti, simboli^ rituali, sistemi filosofia ed opere d'arte. Queste forme colturali forniscono agli uomini un insieme di schemi o modelli che costituiscono, a un determinato liveUo, ridassificazioni periodicbe della realtà [o al-meno dell'espetknza sodale] e d d rapporto tra l'uomo e la sodetà, la natura e ÌSÌ cultura. Tuttavia sono qualcosa dì piti che dassi&ca-¡áoni [meramente gnoseologiche], poiché spingono gli uomini al-l'azione oltre che alla riflessione^.

Quando scrivevo tutto questo, non ero ancora giunto alla distinzione fra la limtnklità rituale ergico-ludica e i generi liiìiinoidi anergico-Iudid di attività o di letteratura. Nelle sodetà tribali la liminalità è spesso funzionale, nd senso che è uno spedale dovere o prestazione richiesta nd corso del lavoro o dell'attività; gH stessi rovesciamen-ti e inversioni che essa attua servono di solito a compen-sare le rigidità o le ingiustizie ddla struttura normativa. Ma nella sodetà industriale la forma dd rite de passage, inserita nel calendario e/o modellata sui processi organid di maturazione e declino, non è più suffidente per la so-

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detà nel suo insieme. Lo sva^o office Topportimità di svi-luppare una molteplicità di generi facoltativi, Kminoidi, di letteratura, di teatro e di sport, che non vengono affatto considerati come « antistruttura » di contro alla struttura nonnativa, dove Tantistruttura sarebbe « una fiicsione au-siliaria della struttura più ampia » Essi vanno piuttosto considerati secondo la prospettiva in cui Sutton-Smith con-cepisce il « gioco cioè come una « sperimentazione con repertori variabili », che costituisce il corrispettivo adegua-to della molteplice variazione resa possibile dallo sviluppo tecnologico e da uno stadio avanzato della divisione del lavoro. Parafrasando Sutton-Smith (che qui si stava rife-rendo all'« antistruttura », mutuando questo termine da me, ma sostenendo che io lo avevo usato esclusivamente per indicare ima funzione di conservazione del sistema), i generi liminoidi non si limitano a rendere tolleràbile il sistema cosi com'è, ma man-tengono i suoi membri ia uno stato di maggiore elasticità nei con-fronti del sistema stesso e, quindi, delle possibili modifiche» Ogni sistema [continua Sutton-Smith] possiede funzioni di adattamento strutturali ed antistrutturali. La struttura normativa rappresenta lo stato vig^te di equilibrio, !*<( antistruttura » il sistema latente delle potenziali alternative, da cui potrà nascere il nuovo quando le con-tingenze del sistema normativo lo richiederanno. Sarebbe più cor-retto chiamare questo secondo il sistema protostrutturale^ pdcbé esso precorre nuove forme normative. È la fonte della nuova cultura.

Nella cosiddetta 'alta cultura' delle società complesse, il liminoide non è solo staccato dal contesto del rite de passage y noa è anche individualizzato'» L'artista isolato crea i fenomeni liminoidi, la collettività esperisce i sim-boli liminali collettivi. Qò non vuol dire <ìke quella del produttore di simboli, idee, immagini, ecc. liminoidi sia una creazione ex nihilo; vuol dire soltanto che gli è con-cesso il privilegio di prendersi nei confronti dell'eredità socialmente tramandata delle libertà del tutto impensabili per i membri di culture in cui il liminale coincide in larga misura con il sacro e inviolabile.

Quindi quando confrontiamo i processi e i fenomeni liminali con quelli liminoidi, non troviamo solo somiglian-

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ze, ma anche difíerenze cruciali. Cercherò di espome alcu-ne, Esse forniscono una prima, grossolana delimitazione del campo d'indagine della simíx)logía comparata.

a) I fenomeni liminoli prevalgono di solito nefle so-cietà tribali e agricole primitive che possiedono quella che Durkheim ha diiamato « solidarietà meccanica » e sono dominate da dò che Henry Maine ha definito lo « sta-tus ^ I fenomeni liminoidi fioriscono in società dotate di 'solidarietà organica', collegate Tona all'altra da rela-zioni "contrattuali", prodotte dalla rivoluzione industriale e ad essa successive, anche se forse essi fanno la loro prima apparizione nelle dttà-stato che stanno per trasformarsi in imperi (quelle di tipo greco-romano) e nelle sodetà feu-dali (non solo le sottospede europee che si sono sviluppa-te fra il decimo e il quattordicesimo secolo in Franda, in Inghilterra, in Germania e nelle Fiandre, ma anche i tipi di feudalesimo o semi-feudalesimo assai meno 'pluralisti-d ' del Giappone, della (2na e della Russia). Ma il loro sviluppo esplidto incominda solo nelle nascenti sodetà capiteKstiche dell'Europa ocddentale, con gli inizi del-Pindustrializzazione e della meccanizzazione, con la trasfor-mazione del lavoro in merce e la comparsa di vere e pro-prie dassi sodali. L'apogèo di questo tipo di sodetà indu-striale nascente si ebbe nd secoli diciassettesimo e didot-tesimo, culminanti nell'« età dei Lumi », benché avesse già fatto la sua prima apparinone nella seconda metà del se-dicesimo secolo, spede in Inghilterra, dove poco tempo dopo, nel 1620, Francesco Bacone pubblicò il suo Novum Organum, un'opera che stabiliva definitivamente Ü legame fra la conoscenza sdentifica e quella tecnica. I fenomeni liminotdi continuano a caratterÌ22iare le sodetà liberal-de-mocratiche dbe dominano l'Europa e l'America nel didan-novesimo secolo e all'inizio del ventesimo, sodetà in cui vigono il suffragio universale, la preminenza del potere legislativo sull'esecutivo, il parlamentarismo, la pluralità dd partiti politid, la libertà di organizzazione dei lavora-tori e dei datori di lavoro, la libertà di formare sodetà per azioni, trust e cartelli, e la separazione fra chiesa e stato. I fenomeni liminoidi sono ancora molto evidenti nelle so-

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detà manageriali del capitalismo organizzato sviluppatesi dopo la seconda guerra mondiale, degli Stati Uniti, Ger-mania Federale, Francia, Gran Bretagna Italia^ Giappone, ed altre nazioni del blo<xo occidentale. Qui Tecx nomia non è più affidata, neppure a parole, alla 'libera concor-renza^ ma è pianificata sia dallo stato stesso (di solito nell'interesse dell'alta borgjiesia industriale e finanziaria), sia da trust e dai cartelli privati (nazionali e multinazio-ndi), spesso appoggiati daUo stato, che mette al loro ser-vizio il suo considerevole apparato burocratico e ammini-strativo. Né mancano fenomeni liminoidi nei sistemi col-lettivistici basati sul centralismo statale, come la Russia e la Cina post-rivoluzionarie e le ^democrazie popolari' dell'Europa orientale (eccettuata la Jugoslavia, che si è orientata verso un collettivismo non centralistico). Qui la nuova cultura tenta, nei limiti del possibile, di operare una sintesi fra umanesimo e tecnologia (un compito non dei più fadli}, sostituendo ai ritmi naturali la logica dei processi tecnologici e cercando contemporaneamente di spogliare questi ultimi del loro carattere di sfruttamento sociale e proponendoli come generati e alimentati dal 'genio del popolo'. Ma tutto dò, unito al collettivismo, tende a ridurre la libertà potenzialmente illimitata dd ge-neri liminoidi alla produzione di forme adatte agli scopi dell'umanesimo integrale (doè di un pimto di vista mo-derno, non tdstico e razionalistico, secondo il quale l'uomo è in grado di conseguire la sua piena realizzazione, di agire in modo eticamente positivo, ecc., senza bisogno di ricor-rere al sovrannaturale) e agli scopi della tecnologia,

b) I fenomeni limindi sono di solito collettivi, legati a ritmi stagionali, biologia o sodostrutturali oppure a crisi dei processi sodali, siano esse prodotte da assesta-menti interni, da adattamenti a situanoni esteme o da mi-sure intese a porre rimedio a eventi negativi. In breve, i fenomeni liminali appaiono in quelle che possiamo chia-mare « fratture natursJi interruzioni naturali del flusso dei processi naturali e sodali. Essi sono dxrnque imposti da una 'necessità' sodoculturale, e tuttavia contengono in nuce la 'libertà' e la potenziaÙtà per la formazione di

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nuove idee, simboli, modelli, credenze, I fenomeni limi-noidì possono anche essere fenomeni collettivi (e in tal caso derivano spesso in linea diretta da antecedenti limi-nali), ma il loro carattere più tipico è di essere prodimoni individuali, anche se di frequente il loro effetto è collet-tivo o di massa'. La loro creazione non è ciclica, ma con-tinua benché avvenga in luoghi e tempi separati dai con-testi del lavoro e destinati alle attività di *svago\

c) I fenomeni limindi sono integrati nel processo so-ciale complessivo e vi occupano una posÍ2áone centrale, formando insieme a tutti i suoi rimanenti aspetti una to-talità unitaria, e rappresentandone l'aspetto necessario di negatività e 'congiuntività'. I fenomeni liminoidi si svi-luppano separatamente dai processi economici e politici che occupano la posizione centine, ai margini, nelle interfaces e negli interstizi delle istituzioni centrali e di servizi: han-no un carattere pluralistico, frammentario e sperimentale,

d) I fenomeni liminoli tendono a presentarsi ai ricer-catori in modo simile alle « rappresentazioni collettive » di Durkheim, cioè come simboli che hanno un identico significato intellettuale ed emotivo per tutti i membri del gruppo. Essi rispecchiano, se li si esamina a fondo, la storia del gruppo, la sua esperienza collettiva attraverso il tempo. E differiscono dalle rappresentazioni collettive pre-liminali o post-Iiminali in quanto sono spesso i rovesciamenti, le inversioni, i travestimenti, le negazioni o le antitesi delle rappresentazioni collettive quotidiane, 'positive' o 'profa-ne'. Tuttavia ne condividono il carattere collettivo, di massa.

I fenomeni liminoidi tendono ad essere più idiosin-cratid, più originali, e ad essere prodotti da individui spe-cializzati e, all'interno di gruppi particolari, come le 'scuo-le', le cerchie e le consorterie culturali, devono contender-si il riconoscimento generale. Inoltre essi sono considera-ti innanzitutto come offerte ludiche messe in vendita sul 'libero' mercato. Tutto dò vale almeno per i fenomeni li-minoidi nelle nascenti società capitalistiche liberal-demo-cratiche. Tipologicamente i loro simboli si avvicinano di

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più al polo personale-psicologico che a quello 'oggettivo-sodale*.

e) I fenomeni liminali, anche quando sembrano 'inver-tire* il normale andamento della struttura sociale, tendono in ultima analisi ad assolvere ad una funzione positiva, a consentirle di fun2donare senza troppo attrito. Invece i fe-nomeni liminoidi sono spesso collegati a critiche sociali o addirittura a proclami rivoluzionari: libri, commedie, qua-dri, film ecc., che denunciano le ingiustÌ2de, le inefficienze e i lati immorali delle strutture e organízzaaáorá economi-che e politiche dominanti.

Ndle società moderne, complesse, i due generi coesi-stono in una sorta di pluralismo cultiirale. Ma il liminale, che sopravvive nell'attività delle chiese, delle sette e dei movimenti, nei riti inÌ2Ìatici dei dub, delle confraternite, delle logge massoniche e di altre società segrete ecc., non ha più una portata universale. Altrettanto ne sono privi i fenomeni liminoidi, che di solito sono generi di svago quali l'arte, lo sport, i passatempi, i giochi ecc., praticati da o rivolti a particolari gruppi, categorie, sottoclassi e settori delle società industriali <& ogni tipo. Tuttavia molte persone sentono ancora il liminoide come più lìbero del liminale, una questione di scelta e non di obbligo, H limi-noide assomigita a una merce — e in realtà spesso è una merce, che si sceglie e per la quale si paga — più del limi-naie, che suscita sentimenti di fedeltà ed è collegato al-Tappartenema, o all'aspirazione all'appartenenza, dell'in-dividuo a qualche gruppo dotato di una forte coesione in-terna. Si lavora al liminale, si gioca con il liminoide. Ci si può sentire moralmente tenuti ad andare in chiesa o alla sinagoga, mentre si fa la coda al botteghino per vedere un dramma di Beckett, uno show di Mort Sahl, una par-tita di calcio, un concerto sinfonico o una mostra d'arte. E se uno gioca a golf, va in barca o scala montagne, di solito deve acquistare un costoso equipaggiamento o paga-re riscrizione a un dub. Naturalmente d sono anche gene-ri 'gratuiti di intrattenimento o di performance liminoide: il carnevale, il charivari^ varie spede di intrattenimento domestico. Ma essi recano già in qualche modo il marchio

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della liminalità, assai spesso sono i resti cuIturaK di qual-che rito liminale dimenticato. Vi sono anche spazi e con-testi 'liminoidi' permanenti: i har, i pub, certi caffé, i cir-coli sociali ecc. Ma quando i circoli diventano esclusivi, tendono a produrre dei riti di passaggio, sicché il Itminde diventa la condizione di accesso al regno del liminoide.

Francamente, adesso sono ancora in una fase di esplo-razione. Spero di rendere più precise le mappe grossolane, quasi medioevali, die sono venuto svolgaido, di quelle oscure regioni liminali e liminoidi che circondano il nostro tranquillo villaggio di dò che è sodologicamente noto, dimostrato, sperimentato ed esaminato. Sia il liminale' che il 'liminoide* impongono di studiare i simboli neü'agire sociale, nella prassi, senza potersi sempre mantenere a una distanza di sicurezza dalla piena condizione imiana. Ciò significa che bisogna studiare tutti i settori della cultura espressiva, e non limitarsi all'alta cultura oppure alla cul-tura popolare, a quella alfabeta o all'analfabeta, alla Gran-de o alk Piccola tradizione, alla cultura urbana o a quella rurale. La simbologia comparata deve imparare ad 'abbrac-dare le moltitudini', e a generare da questo abbracdo una vigorosa progenie intellettuale. Deve studiare i fenomeni sodali totali.

Vorrei concludere esaminando alcune delle relazioni die sussistono fra la communìtas^ 2 flusso, il liminale e il liminoide. Cercherò di spiegare brevemente dò che Csi-kszentmihalyi e MacAloon intendono per 'flusso'.

Il termine ^flusso' denota la sensazione olistíca presente quando agiamo in uno stato di coinvolgimento totale [ed è ] una oandimone in cui im^a2iane segue all'altra secondo una logica interna che sem-bra procedere sen2a bisogno di interventi consapevoli da parte nostra [...]. Ciò che esperiamo è un flusso unitario da un momento a quello successivo, in cui d sentiamo padroni delle nostre adoni, e in cui si attenua la distin2áone fra il s c a t t o e il suo ambiente, fra stimolo e risposta, o fra preseme, passato e futuro®.

Alcune recenti ricerche di Caillois, Unsworth, Abrahams, Murphy ^ (e degli stessi MacAloon e Csikszentmihalyi) si sono concentrate su varie forme di gioco e di sport (me-

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tageneri liminoidi delk nostra società) quali ralpinismo, 10 scalare pareti rocciose, il caldo, l'hockey, gli scacchi, 11 nuoto su lunghe distanze, la palla a mano «re., forme in cui è possibile esperire la situazione di flusso. Csikszen-tmihalyi estende il concetto di 'flusso' dal gioco all'« espe-rienza creativa » nell'arte e nella letteratura e añe esperien-ze religiose, basandosi su numerose fonti scientifiche e let-terarie. Egli individua sei <f elementi », o <« qualità », o « tratti distintivi » della « esperienza di flusso », Essi sono:

a) Vesperienza della fusione fra azione e coscienza: nel flusso' non c'è dualismo; un attore può essere consdo di ciò che sta facendo, ma non può essere conscio di esse-re consdo: se questo accade, si crea una frattura nel ritmo del comportamento o in quello della conoscenza. La auto-cosdenza lo fa incespicare. Se Io si guarda dall"estemo', il 'flusso' si trasforma in non 'flusso' o in anti-'flusso', il piacere cede il posto ai problemi, alle preoccupazioni, al-l'ansietà.

b) Questa fusione di azione e cosdenza è resa possi-bile da un concentrarsi dell'attenzione su un campo di sti-moli limitato. La cosdenza deve essere ristretta, intensifi-cata, orientata su un centro d'attenzione limitato. <c Al jassato e al futuro si può anche rinundare »; soltanto Vora la importanza. Ma come si può ottenere tutto questo? Qui bisogna che le condizioni che normalmente prevalgono siano 'semplificate' da qualche determinazione attinente al contesto. Ciò che è irrilevante rispetto a quest'ultimo deve venire esduso. Mezzi fisiologia per raggiungere questa con-dizione sono l'alcol e le droghe,, che più che 'espandere' la cosdenza delimitano e intensificano la consapevolezza. L intensificazione' è la chiave di tutto. Nd giodii orga-nizzati essa è prodotta da regole formali e da motivazioni come la competitività. Le regole di un gioco rimuovono come irrilevante la maggior parte del 'rumore di fondo' che costituisce la realtà sod^e, la molteplidtà di stimoli che invade la nostra cosdenza. Dobbiamo attenerd a un insieme limitato di norme. Inoltre la struttura intrinseca del gioco d fornisce una motivazione a fare bene^ spesso a fare meglio di altri che accettano le stesse regole. La

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e riti di passaggio

nostra mente e la nostra volontà sono in tal modo sgom-brate da tutti gK elementi irrilevanti e nettamente focaliz-zate in certe direzioni prestabilite. Questa messa a fuoco è completata dai premi die ricompensano h buona cono-scenza del gioco e la volontà indomabile, se messe al ser-vizio di un'abilità tecnica e tattica. Ma per i nostri autori « la cosa importante è il flusso », non le regole, le moti-vazioni o i premi. Esso mette in gioco anche « risorse in-teriori la « volontà di partecipare» (che come tutti i fenomeni liminoidi risale ^ a libertà del volere; si sceglie di partecipare), la capacità di barcamenarsi fra le compo-nenti strutturali del gioco oppure di rinnovarle servendosi delle regole per ottenere prestazioni senza precedenti. Tut-tavia è la limitazione data dalle regole e dalle motivazioni, la concentrazione dell'attenzione, a rendere possibile Tespe-rienza del flusso.

c) Un'altra caratteristica del 'flusso' è la perdita dei-rio. n 'sé', che normalmente è T'intermediano' fra le azioni di un individuo e quelle di un altro, diventa del tutto irrilevante: l'attore è immerso nel 'flusso', accetta come vincolanti le regole che sono tali anche per gli altri attori, perciò non ha bisogno di '<x)ntrattare' con il sé dò che si deve o non si deve fare. Le regole assicurano la ri-duzione della devianza e deU'eccentridtà in gran parte del comportamento manifesto. La realtà — come aflerma Csi-kszentmihalyi — tende ad essere « semplificata fino a di-ventare comprensibile, definibile e manipolabile » e tutto questo vale per « il rito religioso, la performance artistica e i giochi ». Qui l'oblìo di sé non va inteso come una perdita di autocosdenza. In realtà la cosdenza cinestetica e intellettuale è accresduta, non ridotta; ma, come abbia-mo visto, essa non giunge a dispiegare completamente i suoi effetti: la particolare spede di coscienza riflessiva ad essa intrinseca va perduta. Tuttavia quest'esperienza non ha niente a che fare con il solipsismo, c'è solo mero auti-smo. n flusso si protende verso la natura e gli altri uomi-ni, in quella die Csikszentmibalyi definisce ima « intuizio-ne dell'unità, della soKdarietà, della pienezza e dell'accet-tazione ». Nell' perienza del flusso il soggetto sente che

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tutti g)i uomini, e addirittura tutte le cose, costituiscono immunità: e Fautore esibisce molti dati a sostegno di que-sta tesi. Vengono citate tanto la « partedpation mystique » di Lévy-BruM e la « esperiaiza non dualistica Zen » di Suzuki, quanto le dichiarazioni di atleti e sportivi.

d) Una persona che è 'nel flusso' si sente « padrona deUe proprie azioni e delVambiente ». Magari non se ne a<xorge finché è nel 'flusso^ ma riflettendoci sopra può rendersi conto che le sue capacità erano all'altezza defle ri-chieste fattali dal rito, dall'arte o dallo sport. Questo lo aiuta a costruirsi « un concetto positivo di se stesso », continuando a citare Csikszentmihalyi, Fuori dal 'flusso^ questo senso soggettivo di padronanza è dijBSdle da conse-guire, data la molteplicità de^ stimoli e dei compiti cul-turali: particolarmente, direi, nelle società industriali, con la loro complessa divisione sociale e tecnica del lavoro. Ma all'interno dei limiti ritualmente stabiliti delle regole di un gioco o della composizione poetica, una persona ha la possibilità di farcela^ piirché affronti la situazione con abilità e accortezza. L'autocontrollo scaccia la preoccupa-zione e la paura. Persino quando il pericolo è r^e, come nelle scalate alpinistiche, quando inizia il momento del flusso' e l'attività è avviata, i ^piaceri' del flusso superano

abbondantemente le sensazioni di pericolo e di difficoltà. e) Il 'flusso' contiene di solito esigenze d'azione non

contraddittorie y coerenti, e offre alle azioni di un indivi-duo un feedback chiaro e univoco. Questa è una conseguen-za della limitazione della coscienza ad im campo ristretto di possibilità. La cultura convoglia le potenzialità del flus-so entro canali ben definiti: ^ scacchi, il polo, il gioco d'azzardo, l'azione liturgica, il dipingere miniature, un esercizio yoga ecc. Ci si può Ijuttare' nello schema cultu-rale del gioco o dell'arte, e giunti alla fine del cido di azioni culturalmente predeterminate si saprà se si è agito bene oppure no: nel caso estremo, il segno di una presta-zione adeguata è la sopravvivenza. In altri casi, il pubbli-co o la critica hanno un'importante voce in capitolo, ma, per il vero 'professionista', il verdetto fiaiale è quello die ^li stesso formula retrospettivamente. Il flusso si differen-

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zia dalk quotìdiamtà in quanto contiene regole esplicite « che rendono non problematiche l'azione e la valutazione dell'azione ». Perciò la malafede interrompe ü flusso: biso-gna essere dei credenti, anche se questo significa solo una temporanea e « volontaria sospensione dell'incredulità », ossia scegliere (in modo Hminoide) di credere che le regole siano 'vere\

/) Infine, il 'flusso' è « autotelico », cioè non sembra aver bisogno di finalità o ricompense esteme. Stare nel flusso è godere della massima felicità possibile per un essere umano: non importa quali siano le regole o gli sti-moli particolari che lo hanno fatto scattare, è indifferente che si tratti di una partita a scacchi oppure di una riunione religiosa. Se questo è vero, è un fatto importante per qual-siasi studio del comportamento umano, perché su^erisce l'ipotesi che la gente continuerà a fabbricare culturalmen-te situazioni in grado di suscitare il flusso, o lo cercherà a livello individuale al di fuori delle situazioni prescritte nella sua vita, nel caso che queste siano « resistenti al flusso

Csikszentmihalyi prosegue collegando la sua « teorìa del flusso (Xin la teoria dell'informazione e con quella della competenza, ma queste speculazioni non mi convin-cono. Credo die egli abbia splendidamente individuato e caratterizzato questa esperienza, che deve essere affrontata innanzitutto a livello fenomenologico (anche se poi è forse possibile ottenere xma maggiore 'oggettività' ricorrendo a tracciati di elettroencefalogranmii, ad alterazioni del ritmo metabolico eo:.)*

Vorrei poter dire semplicemente che ciò che io chiamo communitas possiede in parte le proprietà di un 'flusso', ma essa se ne differenzia in quanto può sorgere, e spesso sorge effettivamente, in modo spontaneo e imprevisto: non ha bisogno di regole che la facdano scattare. Per dirla in termini teologici, essa è talvolta una questione di 'grazia' più che di ' l^e ' . Inoltre l'esperienza del 'flusso' è indivi-duale, mentre la communitas ha evidentemente la sua ori-gine nel rapporto fra due o più individui: è ciò che tutti noi crediamo di condividere con gli altri, e le sue poten-zialità emergono dal dialogo, che instauriamo fra di noi

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servendoci sia delle paiole che di me:^ di comunicazione non verbali come sorrisi di intesa, cenni del capo ecc. Se-concb me il flusso' rientra già nell'ambito di quella che ho definito la « struttura », mentre la communitas è sem-pre prestrutturale, anche se coloro che vi partedpano, come tutti gli esseri umani, sono stati rimpinzati di struttura fin da quando erano piccoli. Tuttavia il 'flusso' mi appare come imo dei modi in cui la « struttura » può essere di nuovo trasformata o 'liquefatta' (come il sangue del cele-bre martire) nella communitas. È una delle tecniche di cui la gente si serve nella sua ricerca del 'regno' o 'anti-regno' peKluto della diretta e immediata comunione reciproca, anche se lo sdbema entro il quale tale comunione può essere suscitata (lo schema « mantrico », potremmo dire) è una severa sottomissione a delle r^ole.

Nelle società anteriori alla rivoluzione industriale il ri-tuale poteva sempre assumere un carattere di « flusso » per le comunità totali (tribù, 'metà', clan, stirpi, famplíe ecc.); nelle società postindustriali, dove il rito fu soppiantato dal-l'individualismo e dal razionalismo, l'esperienza del flusso si trasferì principalmente nei generi di svago: arte, sport, giochi, passatempi ecc. Essendo il lavoro complesso e di-versificato, anche il suo equivalente, surrogato o rimedio piacevole e facoltativo, cioè la sfera dei generi di svago, divenne complesso e diversificato. D'altra parte questa era spesso l'inverso della sfera del lavoro, nella forma se non nella funzione, dato che spesso la funzione dei giochi è di rafforzare i paradigmi mentali che tutti noi d portiamo dietro, e che ci inducono ad adoperarci con energia per l'esecuzione di quei compiti che la nostra cultura definisce come facenti parte della sfera del 'lavoro'.

H punto è che nelle società arcaiche, teocratico-cari-smatiche, patriarcali e feudali {e in parte anche nelle città stato sul punto di trasformarsi in imperi), era il rito (com-presa la sua fase liminale), insieme a certe istituzioni ausi-liarie quali il dramma sacro, a fornire i principali schemi e meccanismi culturali che producevano l'esperienza del flusso. Ma in quelle età in cui la sfera del rituale religioso ha subito una contrazione {come sostiene Durkheim), la

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funzione di generare il fliisso all'interno della cultura è stata assunta in gran parte da una molteplicità di generi 'frivoli', 'non seri* (almeno in teoria), come l'arte e Io sport (dhie però in realtà sono forse assai più seri di come li considerava Tetica protestante). Il caso della communifas è diverso, poiché essa non lia bisogno di essere suscitata attraverso delle regole; può avvenire ovunque, spesso a dispetto delle regole. È un po' come il « Testimone » nel pensiero Indù, che può solo guardare e amare, ma non può agire (doè non può fluire' entro le condizioni stipulate da un gioco) senza mutare la sua natura.

Ancora un'osservazione per concludere: nella trattazio-ne sia della communitas che del 'flusso' ho trascurato un elemento essenziale, doè il contenuto dell'esperienza. £ qui che iDCominda Panalisi dei simboli: i simboli degli scacchi, dell'arte impressionista, della meditazione buddi-sta, del pell^rìnaggio mariano, della ricerca sdentifica, della logica formale, hanno significati diversi, contenuti semantid diversi. Indubbiamente i processi della commu-nitas e del flusso sono permeati dei significati dei simboli che essi generano o da cui sono attraversati. Che i flussi' siano tutti uguali, e che i simboli indichino diverse spede e gradi di profondità del flusso?

Note

^ H concetto di 'liminalità' è uno dei punti fondamentali ddla teoria di Turner. Mutuato da Van Gennep, dal fondamentale testo Í riti di passaggio di cui si dirà più avanti, la zona liminale è la zona del pas-sag^o, k soglia che sta fra due sistemi culturali definiti. In questa zom, in fuesto spazio intermedio situato tra átuazioni assegnate e definite dalla l e ^ , dal costume e dalle convendoni, trovano espressione una ricca varietà di simboli. Questa zona die non è contrassegnata da alcuna forma determinante di potere permette Fespressione ddle forze della mutazione e dd cambiamento. In questo punto di passaggio si situano le elaborazioni e le definizioni dei riti propri delle fasi transitorie sociali e culturali. Di Turner si veda; La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Brescia, Morcelliana, 1976 p. 123 ss.; The Rittial Process. Structure and Anti-Structure^ Qiicago, Aldine Pubfishing Gimpany, 1969; trad. it. B processo rituale. Struttura e anti-struttura, Brescia, Morcelliana, 1972; Simboli e momenti della comunità, Brescia, Morcelliana, 1975.

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Dramma e riti di passaggio

2 Cfc, Ferdinand de Saussure, Cours de Ung^tique Générde, Paris, Edition Payot, 1922; ttad. it. Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 196?.

3 Cff. Roland Barthes, Elements de sémiolope, Paris, Editions du Seuil, 1964, trad it Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966«

^ Barthes, op, dt,; trad, it. dt,, pp. 14-15-5 Bartbes, op. cit.; trad. it. dt., p. 86. ^ Turner, La foresta dei simhdiy dt., p. 44, ^ C£r. Turner, Schism and Contimàty in an African Society. A Study

of Ndembu Village Ufe, Mandiester, Mandiester University Press, 1957, » Alfred Lewis Kroeber (1876-1960), antropologo statunitense, insegnò

all'università di Berkley fino al 1946. Dedicò la sua ricerca etnok^ca aUo studio delle popolakoni indigene dd nord-America. Kioeber sosttene il principio deü assoluta autonomia della cultura (distinguendo tre ordini di fenomeni: l'inorganico, Torsanico e il superoi pnìco o sodoculturale). A dò si accompagna la teorizzazione del culturale: la storia è prodotto di «r^olarità culturali» e Fazione dell'indivi<^ è subordi-nata ad esse. C£r. Antropologia dei modelli culturali, Bologna, Il Mulino, 1976; La natura della cultura, Bolog^, Il Mulino, 1974, Antropolo^. Eazza, lingua, cultura, psicologia, preistoria, Milano, Fdtrinelli, 1983.

^ Arnold Van Gennep, Les rites de passage^ Paris, Émile Nourry, 1909; trad. it. í riti di passaggio, Torino, Boringhieri, 1981.

** Turner usa i termini di separation, transition, incorporation diversi da quelli originari di Van Gennep (« separatone », « margine », « aggt^ gazione», op, cit.; trad, it. dt., p. 10), a cui si omolo^ierà solo più avanti.

" Gir. Turner, Il processo rituale, dt., p, 181 ss. ^ Van Gennep, J riti di passaggio, dt , p. 10. ^ William Watson, Social Mobility and Social Class in Industriai

Communities, in Max Glukman {a cura di), Gosed Systems and Open Minds, The Limits of Nmvety in Social Anthropology, Edinburgh e London, Oliver & Boyd, 1964. Cosi Watson: «La progressiva ascesa di spedalisri di diverse capadtà attraverso serie di pod^oni più alte in una o pió strutture geratcfaiche e la concomitante mobilità resideoziale [...] forma una caratteristica combinazione di mobilità sodale e spaziale die può essere definita 'spiralismo\ Questa mobilità in carriera e in resi-denza, OMnune a molti professionisti ha cons^uenze sociali significative in quanto intacca sia le organizzadoni per cui essi lavorano, sia le comii-nità in cui vivono », ibidem^ p, 147.

^ CÉr. Van Gennep, I riti di passaggio, dt., p. 70. ^ Ibidem, p. 98, tó Ibidem, p. 70.

II concetto di 'antistruttura' sarà trattato andie più avanti, ma ritorna in quasi tutti gH studi di Turner e, in particolare, ne II processo rituale, dt. Per maggiori approfondimenti sul concetto di 'struttura* rimandiamo a Roger Bastide {a cura di). Usi e significati dd termine struttura, Milano, Bompiani, 1966.

^ n titolo della relazione di Sutton^mith raccolta n ^ atti dd

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Thamma e nú ài passaggio

simposio di Toimto dedicato al tema «Forms of Symbolic Inversion» è Games of Order and Disorder.

^ Etnolo^ £rancesi del novecento. Maicel Gnaule {1898-1956) ha effettuato studi nell'Africa subsahatiana analizzando in particolare, la società dei Dogon. Griaule sostiene che al di là delle espressioni più divulgate della conoscenza esoterica africana, esistono liviSli accessibili solo agli iniziati, la cui comprensione saretèe fondamentale per lo studio della struttura sociale. Germaine Dieterlen, allieva di Gria^e, ha com-pletato e pubblicato le sue opere principalL

2® Swami Nikhilananda, The Bhagavad Gita, New York, Ramakdshna-Vivekananda Center, 1969,

» Samuel Beai, Travels of Fah-Hian and SungYun. Buddhist Fil&rim from China to India (600 d.C. e 518 d,C.), London, Susil Gupta, 1964, p. 4 ss. La prima edÍ2áone risale al 1869-

22 Turner, Il processo rituale, dt., p. 69 ss, 23 Ricordiamo, in questi anni di scarsa frequentazione del marxismo,

il passo più noto, succinto e indicativo, in cui Marx espone il concetto di «sovrastruttura»: «nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determitiati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione dhe corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze i^oduttive materiali. Linsieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttm:a economica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e i^litica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale », Carlo Marx, Per la critica dell'economia politica in II capitale, Torino, Einaudi, 1975, libro primo, voi. II, p. 957.

Jean Piaget, Flay^ Dream and Imitation, New York, Norton, 1962. 25 Alain Danieiou, Le Politheisme Hindou, Paris, Budiet-Oiastd»

1960, p. 222: « Les dieux jouent. La creation, le maintien et la destruction du monde est leur jeu»,

26 Milton Singer, When a Great Tradition Modernizes, New York, Praeger, 1972, p. 160.

27 Ji^re Dumazedier, Leisure, in International Encydopedia of the Sodai Science, 1968, pp. 248-253. Si veda anche Le Loisir et la Ville, Paris, Editions du Seuil, 1962. In italiano, soprattutto, Sociologia del tempo libero. Critica e controcritica Ma aviltà indastride avanzata, Milano, Angeli, 1978.

Duma^dier, op, cit., p. 248. Thorstein Vebien, La teoria della classe agiata^ Torino, Einaudi,

1971. Dumazedia:, op. cit,, p. 249.

3t Sebastian de Grazia, Of Time, Work and Leisure, New York, Twentieth Century Fund, 1962.

^ Dumazedier, op. cit., p. 249. ^ GEr. Isaiah Berlin, Due concetti di libertà in Alessandro Passerin

dTEntréves (a cura di), La libertà pditica, MUano, Edizioni Comunità, 1974, pp. 10M61.

^ Max Weber, L'etica protestante e lo spirito dèi capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965.

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Dramma e riti di passagg¡ío

^ Edward Nórbecfc, Man ai Play, in ^Play. A mtatal History Maga2áne Suplemento, dicembre 1971, pp. 48-53,

^ Turner, Il processo ritude, dt., p. I l i ss, ^ Al succitato simposio di Toronto del 1972 la rela2áone, raccolta

negli atti del conv^o, di Rog^ Abrahams e Richard Bauman aveva il seguente titdo Rangers of festival Behavior,

Turner, Il processo ritude^ dt., p. 147. ^ Georges Gurvitch, Mass, Community, Communion, in « Journal o£

Hiilosophy» agosto 1941, p. 489. ® Aiartin Buber, Between man and man, London e Glasgow, Fontana

Library, 1961- Il rapporto Io e tu nasce neDa q)erimeQta^one dell'essere dell'altro: « Solo qoiando ho a che fare in modo essente con un altro, doè in modo tale che egli non è più un foiomeno dd mio Jó, ma è il mk) Tu, sperimento realmente la realtà dd discorso con un altro — ndla irrefutabile genuinità della reciprocità» {ibidem, p. 72). Per Noi essen-zide Buber intende «una comunità di più persone indipendenti, che hanno un sé e un'autoresponsabilità Il Noi indude il TÌI. Soltanto uomini capad di dirsi veramente Tu Tuno all^àitxo possono dirsi vera-mente Noi l'uno con Taltro Nessuna spede particcdare di formazione di gruppo in quanto tale può essere addotta come esempio àù Noi essen-ziale, ma in molte di esse è possibile vedere con suffidente chiarezza la varietà £a\'orevole alla comparsa dd Noi £ sufficiente, per impedire la comparsa o il perdurare dd Noi, die da accettato un uomo che sia avido di potere e usi gli altri come mezzo per il proprio fine, o che abbia uno straordinario desiderio di importanza e facda spettacolo dì sé » {ibidem, pp. 213-214).

^ Turner, Il processo rituale, dt., p. 148. ^ Turner, Il processo rituale, dt., p. 147 ss. « Turner, Il processo ritude, dt., p. 148. Più avanti definisce k

«communitas ideologica» come un*<(etidietta die si può Éi>plicare ad una varietà di modelli utopistid di sodetà fondate suHa commumtas esistenziale. La commumtas ideologica è d tempo stesso un tentativo di descrivere gli effetti estemi e visibili — si potrebbe dire la forma esteriore — di un'esp^enza interiore di communitas esistenziale e di spedficare le condizioni sociali ottimali nelle quali si potrebbe prevedere un fiorire e un moltiplicarsi di tali esperienze. Sia la communitas norma-tiva che quella ideologica rientrano già nd campo della strattura ed è il destino di tutte le communitates spontanee della storia di subire quello che molti oHtsiderano un 'declino o caduta' nella struttura e nella l^ge ».

^ Turner, Il processo ritude, dt., p. 147 ss., cap. IV. ^ «Ore» è uno dd simboli fondamentali nd primi Libri Prctfetid

di William Blake e sta ad indicare la volontà di emaiwápazione morale che, espressa, si realizza immediatamente. Secondo Sloss-Wallis il simbolo «CÌrc»^ si modifica n ^ ultimi Libri Frofetid per designa lo ^irito dell uomo asservito alle «catene della gdosia» che aj paiono amie la scMnma delle condizioni della vita morale. « Urizen » rappresenta la con-cezione ortodossa della Di\^tà o^ntro cui Blake protestava. Il mito del Ubro di Urizen è un tentativo di spiegarsi la concezione popolare di Dio dandone una valutazione e mostrando peidié l'Essere maligno fosse venerato come Dio da imUmanità ingannata e inddxJita. Cfr. WilHam

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Dramma e riti di passagg¡ío

Blake, Visioni, Milano, Mondadori, 1965 è da questa edizione, con tradu-zione di Giuscjipe Ungartó, cbe più avanti sarà dtato Blake. Riman-diamo anche ai menzionati Northrop Fiye, Fearfid Symmetry. A Study of William Blake, Princeton, Princeton University Press, 1947 e David V. Etdman, Blake: Prophet against Empire, A Poetas interpretatiofi of history of bis own time, Princeton^ Princeton University Press, 1954,

^ Vilfredo Pareto è il più conosciuto e controverso degli elitisti del XES secolo (cér. Trattato di soàdogjìa generale, Milano, Comunità, 1965)-A suo ^udido ciò che separa VéHte dadla massa è la superiorità naturale, psicolt^ca dell'una sull dtra, una diEetetoHi di «temperamento» fra i deboli e i forti. Su questo argomento segjialiama anche altre o p ^ al-trettanto fondamentali: Bottomore, Elite e società^ Milano, Il Sa^iatore, 1967; Galbraith, Il nuovo stato industriale, Torino, Einaudi, 1970; Riesman^ La folla solitaria, Bolc^na, Il Mulino, 1956; Wright Mills, Uélite del potere, Milano, FeltrineOi, 1973.

^ Turner, Il processo ritude, dt., p. 144. ^ Brian Sutton-Smith, Games of Order and Disorder, rdaaone te-

nuta al simposio di Toronto del 1972 e raccolta negli atti rdativi. ^ Henury Maine, Ddlo status» al contratto, in U diritto privato

ndla sodetà moderna, Boli^na, H Mulino, 1973. ^ Turner dta dal manoscritto dell'opera di Csikszentmihalyi e Mac-

Aloon, Play and Intrinsic Rewards. ^ Rimandiamo al 'classico' testo di Jdian Huizinga, Homo ludens,

Torino, Einau^ 1949, dtato più avanti da Turner, e, tra i menzionati, a Roger CaiUois, Í giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Milano, Bompiani, 1981.

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Capitolo secondo

Drammi sociali e nartazioiii su di essi

Gli antropologi fanno tutti i calcoli e le rilevazioni dbe possono per stabilire i caratteri generali degli ambiti socio-culturali che sono oggetto del loro studio. Benché queste attività abbiano dei lati sgradevoli, nel complesso io tro-vavo particolarmente confortante, durante i miei due anni e me22;o di lavoro sul campo fra gli Ndembu dello Zambia nord-occidentale, una popolazione che parlava la lingua bantu centro-occidentale, sedere nei villaggi davanti a una pipa di miglio o a ima birra al miele e raccogliere dati nu-merici sulla composizione dd vill^gio, sulla frequenza dei divorzi, sxiQe doti nuziali, sulle percentuali di migrazione di mano d'opera, sul reddito individuale, sui tassi delle nascite e de^ omicidi, e più attivamente misurare Tarea dei giardini e le dimensioni dei recinti rituali. In un certo senso questi dati, se non mi raccontavano una storia, mi dicevano per lo meno dove dovevo andare per trovare delle storie. Infatti dalle statistiche basate sui censi e sulle ge-nealogie di una settantina di villaggi fui in grado di de-durre che queste imita residenziali erano composte da nuclei di stretta parentela matrilineare fra maschi, dalle loro mogli e dai loro figli, e da sorelle che in conseguenza dei frequenti divorzi erano tornate al loro vills^o natale portando con sé i loro figli più piccoli. Questa ovviamente fu solo la piccola palla di neve destinata a formare un'enor-me valanga. Ben presto scoprii che ^ Ndembu si sposava-no virilocdmente^ il che significa che dopo il matrimonio una donna va ad abitare nel villaggio del marito. Di con-seguenza, a lungo andare, la continuità di un villaggio di-pende dalla discontinuità coniugale, poiché il diritto di una persona a risiedere in un dato villaggio è determinato in primo luogo dalla sua affiliazione matrilineare, benché essa possa anche trascorrere la propria vita nel villaggio pater-

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Drammi sociali e narrazioni su di essi

no. Chiaramente in queste disposizioni normative è insito un certo disordine strutturale. Infatti un villaggio può sopravvivere solo recuperando le vedove e le divorziate insieme ai loro %li. Ne deriva che gli uomini che vivono nel proprio villaggio matrilineare tendono a convincere le loro sorelle a lasciare i mariti portandosi via i figli che « in realtà appartengono a quel ^aggio^ Anche in questa so-cietà matrilineare Tautorità politica, i ruoli di capo e capo-tribù, sono in mano ^li uomini: però un uomo non può trasmettere k sua carica al figlio, ma solo al fratello per parte di madre o al %lio della sorella. Perciò la trasmissio-ne del potere richiede che presto o tardi i figli della sorella di un capotribù lascino il loro villaggio paterno per trasfe-rirsi in quello dello zio materno. Questo avviene più facil-mente se il giovane abita con un patrigno e non con il padre 'che lo generò'. Cosi il divorzio serve in vari modi a riaffermare la fondamentale preminenza del lignaggio ma-terno contro il tentativo masdiile di appropriarsi del pre-sente con il matrimonio virilocale. Lungi da me l'intenzio-ne di insistere sui misteri della terminologia antropologi-ca, con la stridente cacofonia dei suoi neologismi (non più stridenti, si potrebbe però obiettare, di quelli di altre tribù accademiche), ma è pertinente alla mia esposizione delle diverse valenze della narrativa il mostrare come certi caratteri profondi della struttura sodale di una data socie-tà influenzino sia il modo di comportarsi negli eventi so-dali osservabili, sia gli schemi dei suoi generi di perfor-mance culturale, dal rituale al Marchen. Per completare questo quadro semplificato della struttura sodale Ndembu, dovrd però menzionare il fatto che in diversi libri ho tentato di esplidtare come le tensioni fra la successione matrilineare, e altri prindpi, e i processi che esse fanno sorgere, abbiano influenzato vari fenomeni, processi e isti-tuzioni, sia mondani che rituali, della sodetà Ndembu, fra i quali le dimensioni, la composizione, la mobilità e la statidtà dd villaggi, la stabilità dd matrimoni, le relazioni fra generazioni genealogicamente connesse e al loro inter-no, Ü molo delle assodazioni culturali a cui si ricorre in certe circostanze per rimediare alle scissioni nei villaggi

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Drammi sociali e narrazioni su di essi

nelle stirpi e nelle famiglie, il forte rilievo dato da parte maschile a complicati riti di caccia e di circoncisione in un sistema che in definitiva si basa sulle attività agricole e di lavorazione del dbo svolte dalle donne, e la formulatone di accuse di stregoneria, che spesso sono rivolte contro rivali matrilineari nel conseguimento di una carica o di un'auto-rità.

Immagino che se mi fossi limitato all'analisi dei dati numerici, guidáto dalla ranoscenza dei prìncipi più impor-tanti delle relazioni di parentela e dei contesti politici, giu-ridici ed economici, avrei prodotto una letteratura antro-pologica informata da quelli che Hayden White avrebbe definito « presupposti meccanidstid ^ Efíettivamente questa era la prassi abituale nella scuola inglese di antro-pologia struttural-funzionalista in cui fui educato fra la fine degli anni Quaranta e Vìmdo dei Qnquanta. Una delle sue aspirazioni principali era di mostrare le leggi struttu-rali e processuali che, in una data società prealfabeta, de-terminano le configurazioni specifiche delle relazioni e delle istituzioni rilevabili da un osservatore esperto. L intento ultimo di questa scuola era, secondo la formulazione di RadcliflEe-Brown di servirsi del metodo comparativo per scoprire per approssimazione successiva delle leggi univer-sali. Ogni etnografia specifica cercava i principi generali che si manifestavano nello studio di ima singola società. In altre parole, i procedimenti idiografici, le descrizioni dettagliate di dò che io ho osservato di persona o appreso dagli informatori, erano costretti al servizio dello sì^up-po di un insieme di leggi. E le ipotesi che emergevano dalla ricerca idiografica venivano valutate nomoteticamen-te, doè allo scopo di formulare leggi sodol(^che uni-versali.

Questo modo di procedere ha naturalmente molti me-riti. I miei dati mi davano effettivamente una misura del-l'importanza relativa dei principii su cui si fonda la sode-tà dei villaggi Ndembu. Indicavano tendenze predse nella direzione della mobilità spaziale individuale e collettiva. Mostravano come in certe aree particolarmente influenza-te dalia moderna economia monetaria un tipo più piccolo

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Drammi s o c i a l i e narrazioni su di essi

di tmità residenziale basatx) sulla fanugUa poligimca, detto « fattoria », stesse sostituendo il tradirionale villaggio cir-colale il cui Gudeo era un gruppo unito da una parentela matrilineare. H metodo da me usato fu adottato anche dai coH^hi che lavoravano per il Rhodes-Livingstone Institu-te e favori il confronto su basi sdentifidie delle strutture dd villaggi appartenenti a tipi diversi di società centro-africane, Le differenze delle ¿dazioni di parentela e delle strutture locali furono messe a confronto con le differenze che concernevano variabfli quali la percentuale dei divorzi, l'ammontare delle doti, il modo di guadagnarsi da vivere, e cosi via.

E tuttavia questo modo di procedere ha i suoi limiti. Come ha sostenuto George Spindler « il carattere idiogra-fico deE'etnografia può essere distorto dall'orientamento nomotetico dell'etnografo » In altri termini, la teoria ge-nerale in base alla quale si affronta il lavoro sul campo conduce a selezionare certi dati come più rilevanti, ma rende dechi di fronte ad altri magari ancora più importan-ti per la comprensione della popolazione studiata. Quando giunsi a conoscere bene gli Ndembu, sia nei momenti di tensione che in quelli poveri di eventi, come « uomini e donne vivi » (parafrasando DJH. Lawrence), si acuì sem-pre più in me la consapevolezza di questi limiti. Non avevo ancora letto neanche una parola di Wilhehn Dilthey, ma già condividevo la sua idea che le « strutture d'espe-rienza » ^ siano le unità fondamentali nello studio dell'atti-vità umana. Tali strutture presentano una inscindibile tri-plidtà, essendo contemporaneamente conosdtive, volitive e affettive. Naturalmente dascuno di questi aggettivi non è a sua volta che im'abbreviazione stenografica per una molteplidtà di processi e di facoltà. Può darsi che questo mio modo di vedere sia stato influenzato dal celebre sag-gio di Edward Sapir in cui egli scriveva:

Ncmostante la spesso asserita impersonalità della cultura la semplice verità rimane quella secondo cui le vaste possibilità della cultura, l u i ^ dall'avere come « portatoti », in qualsiasi senso reale, una comunità o un gruppo in quanto tali, sono scopribili soltanto come la particolare proprietà (H certi indnddui, che non possono

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Drammi soádi e tutrrazfom su di essi

fate a meno di dare a questi beni culturali Kmpronta della propria personalità

Non solo, ma le persone desiderano e sentono oltre che pensare, e i loro desideri e sentimenti impr^nano i loro pensieri e influenzano le loro intenzioni, Sapir attaccò Tul-tradeterminismo culturale come la reificazione di una co-struzione gnc^eologica degli antropologi, la cui cultura « spersonalizzata » è poco più di « un complesso o di una massa di sistemi di idee e di azioni che si sovrappongono disordinatamente, e a cui, attraverso l'uso verbale si può fare assumere Papparenza di un chiuso sistema di com-portamento »

Questa posizione corrisponde in una certa misura al paradigma organidstico di Hayden White, die godeva pres-so gli antropologi americani dello stesso prestigio che Ìl funzionalismo aveva presso i loro contemporanei inglesi. Mi divenne chiaro che una 'antropologia dell'esperienza' avrebbe dovuto tener conto delle proprietà psicologiche degli individui e non solo della cultura che, come sottoli-nea Sapir, non è « qualcosa di dato » ' al singolo indivì-duo ma piuttosto « scoperta a tastoni » e, aggiungerei, in alcune sue parti a età abbastanza inoltrata. Non finiamo mai di apprendere la nostra stessa cultura, per non parlare di quelle altrui, e la nostra cultura si trasforma continua-mente. Altrettanto chiaro divenne che fra i diversi com-piti dell'antropologo c'è quello non solo di analizzare strut-turalmente e funzionalmente i dati statistici e testuali (i censi e i miti), ma anche di cogliere le strutture dell'espe-rienza nei processi concreti della vita sociale. Qui il mio metodo, come quello di molti altri antropologi, corrispon-de in parte al modello contestualistico dì White, die, usan-do il linguaggio di Pepper, vede nel contestualismo l'isola-mento di alcuni elementi dall'ambito della storia (o, nel caso dell'antropologia, da quello sodoculturale) come og-getto di studio,

sia che rdemento sia considerevole come la Rivoluzione francese, o modesto come una giornata nella vita di una spedfica persona. Egli [Ü ricercatore] passa a scovare i « fili » che legano gli eventi

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da spiegare a aree del contesto, I fili sono identificati e rintracciati sia à á fuori, njello spazio culturale e sodale circostante in cui accade Fevento, sia indietro nel tempo, per determinare le « origa-ni » dell'evento, sia avanti nel tempo, per determinare il suo « im-patto » e h sua « influenza » sugli eventi suss^iuenti. Questa opera-zione di rintracciamento termina nel punto in cui i « fili » o spari-scono nel contesto di qualche altro « evento ^ o « convergono » a causare il manifestarsi di qualche nuovo <c evento », L'impulso non è di int^are tutti gli eventi e le tendenze che si potrebbero iden-tificare nell'intero campo storico, ma piuttosto di unirli in una catena di caratterizzazioni provvisorie e ristrette di limitate aree di accadimento manifestamente « significative » ^

Qui è interessante sofíermarsi un attimo a confrontare Fuso della metafora del « filo » da parte di Sapir e di White. Infatti il primo sottolinea che « le configurazioni si presentano dapprima secondo uno schema puramente formalizzato e logicamente sviluppato )> che chiamiamo etnografie e queste non spiegano il comportamento finché non si scopre « che le numerose 0a [corsivo mio] di si-stemi o di implicazioni simboliche coUegano le configura-zioni esaminate, o partí di esse, con altre configurazioni che presentano un aspetto formale totalmente differen-te ^ Per Sapir que&ti « fili » sono intemi allo spazio socioculturale studiato, e si ricoU^ano alla personalità e al carattere degli individui, mentre per White e Pepper i « fili » indicano la natura defle coimessioni tra un 'ele-mento' o 'evento' e il campo socioculturale significativo che lo circonda^ considerato, secondo White, da un punto di vista « sincronico » o « stmtturalistico » Trovo affa-scinante Tidea di Sapir che le sue « fila » siano <{ simboli-che » e « implicatone infatti i simboli, i discendenti di quei tropi che sorgono nell'interazione tra persone vive, quali le metafore, le sineddoche, le metonimie che nelle crisi vengono per cosi dire coniate di zecca, giungono ef-fettivamente a rivestire il ruolo di connettivi semiotici fra i livelli e le parti di un sistema di attività e fra tale siste-ma e il suo ambiente significativo. Abbiamo trascurato la funzione dei simboli nello stabilire connessioni fra i di-versi livelli di una struttura narrativa.

Ma sto anticipando ttoppo. Richiamerò brevemente

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Tattenzione su un genere o specie di « elemento del cam-po storico » o evento », per usare la terminologia di White, che è isolabiie transculturalmente e che rivela, se gli si consente di svilupparsi pienamente, una caratteristi-ca struttura processuale, una struttura che mantiene la sua validità sia che si consideri un evento macrostorico sia un evento microstorico di questo tipo. Prima di trattare di questa unità, che considero il fondamento sociale di molti tipi di 'narrazione' e che ho chiamato 'draa^ devo innanzitutto menzionare, a vantaggio cìei miei lettori non antropologi, un'altra utile distinzione attuata in sede antropologica, quella fra prospettive emiche" ed 'etiche', termini che derivano dalla distinzione introdotta dai lin-guisti fra fonematica e fonetica^ dove la prima è lo studio dei suoni riconosciuti come distinti dVinterno di uno spe-cifico linguaggio, mentre la seconda è lo studio translingui-stico delle unità sonore distinguibili prodotte dall'uomo. Ma lasciamo che a formulare questa antitesi sia Kenneth Pike, che è stato il primo a proporla:

Le descriziom o analisi condotte dal punto di vista etico sono 'straniere*, i loro criteri sono estemi al sistema. Le descrizioni emicbe forniscono una visione intema (o « visioiìe dal di dentro », nd linguaggio di a^ckett), i cui criteri derivano dal sistema stesso. Esse rappresentano per noi la prospettiva di una persona che ha familiari^ con quel sistema e sa come deve operare al suo in-temo^.

Da questo punto di vista tutte quattro le stratte di spiegazione che White ha proposto rifacendosi a Stephen Pepper (formalismo, organicismo, meccanicismo e conte-stualismo) metterebbero capo a descrizioni 'eriche' se ap-plicate allo studio di società esteme alla tradizione cultu-rale occidentale generata dal triangolo Gerusalemme-Atene-Roma e continuata dalle tradizioni filosofiche, letterarie e di scienza sociale dell'Europa, del Nordamerica e dei loro sateUiri culturali. In efifetri certi membri di queste società (il cosiddetto 'terzo mondo') hanno lamentato (fra gli altri l'antropologo etíope Asmarom Legesse) ^ che i tentativi occidentali di 'spiegare' le loro culture non sono

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altro che espressioni di un « etoocentrismo gnoseologico », e sminuiscono il loro contributo alla riflessione su se st^-sa dell'umanità nel suo insieme che i moderni messi di comunicazione e di informazione rendono oggi, se non fa-die, almeno possibile. In altri termini, ciò che noi occiden-tali consideriamo 'etico', doè 'nomotetico', 'non condizio-nato culturalmente', 'sdentifico\ 'obiettivo', loro stanno giungendo a giudicarlo 'emico', il prodotto spirituale di una porzione della cultura mondiale i cui portatori fino a poco tempo fa potevano dire, con un certo compiacimento, con Thomas Hardy ma senza un'ombra della sua intenzio-ne ironica, che « Noi abbiamo il fucile Gatling, e loro no »,

Ci sono dunque sia modi etid, sia modi emid di con-siderare la narrazione. Un antropologo, immerso nella vita di una cultura di primo acchito totalmente estranea, e se-parato dalla propria fuordié nella memoria, deve venire a patti con dò che lo aggredisce e lo invade. È una situa-zione piuttosto strana. Egli si trova gettato nel corso della vita cÉ un gruppo di persone che non solo parlano una lingua diversa, ma dassificano anche quella che potremmo chiamare la 'realtà sodale' in modi sulle prime ^a i ina-spettati. È costretto a imparare, bene o male, i criteri che rendono possibile la 'visione dal di dentro'.

Sono al corrente della « teoria del lavoro storico » di Hayden W h i t e e non mi sfuggono le sue importanti connessioni con il modo di scrivere opere di etnografia oltre che di storia, ma sono anche consapevole del fatto che qualsiasi discussione sul ruolo della narrazione nelle altre culture presuppone una sua descrizione emica. Infatti il lavoro dell'antropologo è profondamente condizionato da dò che noi intendiamo per 'racconti', 'storie', 'storie popolari', 'narrazioni storidie', 'pettegolezzi', 'resoconti degH informatori', generi di narrazione per i quali d po-trebbero essere molti nomi indigeni, non necessariamente coinddenti con i nostri. In effetti Max Gluckman ha richia-mato l'attenzione sul fatto che lo stesso termine <c antro-pologo » in greco significa « uno che parla degli uomini », vale a dire un « pettegolo » Nella nostra cultura abbia-mo molti modi di parlare degli uomini: descrittivo e ana-

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Ktico, formale e informale, tradÍ2áonale e aperto. Poiché la nostra è una cultura alfabeta, caratterizzata da una com-plessa divisione del lavoro culturale, abbiamo escogitato una pluralità di generi specializzati per mezzo dei quali possiamo esplorare, descrivere e interpretare il nostro com-portamento reciproco. Ma Timpulso a parlare Tuno del-l'altro in modi diversi, a seconda delle diverse qualità e livelli di coscienza intersoggettiva, precede l'uso ddla scrit-tura in tutte le comunità umane* Tutte le azioni e istitu-zioni dell'uomo si sviluppano, come direbbe CMord Geertz, fra le maglie del tessuto interpretativo delle pa-role. E naturalmente abbiamo anche tessuti di simboli interpretativi non verbali, come quando balliamo o mi-miamo. E giochiamo a recitare la parte degli altri, comin-ciando da bambini e continuando per tutta la vita a impa-rare nuovi ruoli e a imparare le subculture degli status più elevati a cui aspiriamo, in parte sul serio e in parte con ironia.

Gli Ndembu fanno una distinzione affine a quella di White ^ fra « cronaca » e « narrazione » come livelli di concettualizzazione nella cultura occidentale, la distinzio-ne fra Nsan^'u Lo N^ng^pm riferirsi, ad esempio, a una pretesa testimonilaj^iettí^ sulla mi-grazione dei capi LunEa e dSi loro seguito dalla regione di Katanga, nello Zaire, sul fiume Nkalanyi, sul loro incon-tro con le popolazioni autoctone Mbwela o Lukolwe nel distretto di Mwinilunga, sulle battaglie e sui matrimoni tra i Lunda e gli Mbwela, sullo stabilirsi di sovranità Ndembu-Lunda e sulla successione dei loro principali de-tentori fino al tempo presente (anche i nomi e i canti di lode per i capi equivalgono infatti a una sorta dì cronaca), sulle scorrerie dei Luvale e dei Tchokwe nel diciannovesi-mo secolo, molto tempo dopo l'abolizione ufficiale della schiavitù, per procurare manodopera vincolata ai portoghe-si di San Tome, sull'arrivo dei missionari, seguiti dalla Compagnia inglese del Sudafrica, e infine sul dominio co-loniale britannico. Il termine ì^sqng'u può atiche denotare un resoconto autobiografico, una reminiscenza personale, o la descrizione di un evento interessante appena trascorso

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da parte di im testmone-oc^^ Nsang% qyme la « jofousS » dispone — per citare White — « gli eventi da iffaitàrc ne ^ cronolo^co del loro^accad E propSÒ come una cronaca diventa, nella terminologia di ''S^te, una ^narrazione' in virtù del riordinamento d^K eventi come elementi di uno 'spet-tacolo' o di un happening die si ritiene abbia un inizio, un centro e una fine dhiaramente ickntificabili [.,.3 in termini di motivi inaugurali [ . , .] transizionali [. . .] e terminali^

allo stesso mqdo Jo Nsang'u ^ ^ narrazione. Questo termine copre una ganima di racconti che i nòstri studiosi del foMore dubbio sotto tipi 'etici' diJBferenti: imto racco ^ te, Marchen, l^enda^ ballata, epopea popolare, e simili.

\n loro carattere distintivo è di essere in parte raccontati ^ in parte cantati. Nei punti chiave della narrazione fl pu& |blico fa coro con un ritomdlo cantato, interrompendo la sequenza parlata. Che un dato insieme di eventi sia cons^ derato come Nsangrú oppure come Kaheka dipende dal con-testo in cui si colloca e dal modo in cui è strutturato. Pren-diamo ad esempio le serie di racconti sull'antico capo dei Lunda Yak Mwaku, sua figlia Lweji Ankonde, l'amante di lei Qdbinda Hxing'a, principe cacciatore dei Luban, e i fratelli della ragazza, Ching'uli e Chinyama (uso questi nomi secondo la pronimcia dei Lunda del sud), sui loro amori ed odii, conflitti e riconciliazioni, che condussero da un lato al costituirsi della nazione Lunda, e dall'altro alla secessione e alla diaspora di gruppi Lunda dissidenti, che in tal modo diffusero su un vasto territorio la cono-scenza dell'organizzazione politica centralizzata. Questa se-quenza di eventi può essere raccontata da un capo di sup-posta origine Lunda a persone poHticamente influenti che visitano la sua corte come uno Nsang'u, una 'cronaca', magari per giustificare i suoi diritti ad occupare quella carica. Ma episodi di questa cronaca possono essere tra-sformati in Tuheka (plurale di Kaheka), in 'narrazioni', e raccontati da donne anziane a gruppi di bambini radunati intomo al fuoco della cucina nelk stagione fredda. Uno

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degli episodi prediletti — analizzato di recente dall'insi-gne strutturalista belga Lue de Heusch — narra di come il re Yala Mwaku, ubriaco, fu deriso e percosso dai suoi figli, ma poi curato amorevolmente dalla figlia Lweji An-konde, che egli ricompensò lasciandole, in punto di morte, il braccialetto reale, il lukanu (fatto di genitali umani per la conservazione magica della fertilità di uomini, animali e raccolti nel regno intero), facendo in tal modo di lei ñ sovrano legittimo dei Lunda. Un altro narra di come le sue ancelle riferiscano alla giovane regina che un giovane cac-ciatore di bell'aspetto, dopo aver ucciso im'antìlope, si era accampato con i suoi compagni suUa riva opposta del fiiune Nkalanye. Ella lo convoca alla sua presenza e i due giovani si innamorano a prima vista Tuno dell'altra e trascorrono insieme molte ore a parlare in un boschetto {dove oggi arde permanentemente un fuoco sacro, meta di molti pd-legrinaggi)» Ella viene a sapere che lui è il figlio minore di un grande capo Luba, ma che preferisce alla vita di corte quella libera del cacciatore nella foresta. Ciò nono-stante, l'amore lo induce a sposare Lweji e, dopo qualche tempo, lei gli affida il lukanu (deve stare segregata durante le mestruazioni e dà il braccialetto a Chibinda per evitare che si contamini), facendo di lui il sovrano della nazione liUnda, L'etimologia popolare dei Lunda del sud fa addi-rittura derivare il termine Lunda dal sostantivo Wtdunday « amore » o « stretta amicizia ». I turbolenti fratelli di Lweji si rifiutano di riconoscerlo, e se ne vanno con la loro gente per fondare nuovi regni autonomi e di conseguenza diffondono presso società prive di stato il modello della centralizzazione polìtica. Jan Vansina, il celebre etnologo belga, ha studiato Ü rapporto fra questo racconto tradizio-nale e le strutture politiche delle molte società centroafri-cane che sostengono di « discendere da Mwantiyanvwa », il nome assunto in seguito dalla nuova dinastia^. Egli ri-tiene che questo corpus narrativo sia più che un semplice mito, bendié come tale sia stato trattato in modo illumi-nante da de Heusch; Vansina scopre tracce di affinità sto-riche fra le diverse società che affermano la loro origine Lunda; indicazioni confermate da testimonianze di altro

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genere, linguistiche, archeologiche e cultiirali. Come in altre culture, gli stessi eventi possono essere strutturati come Nsang'u o come Kaheka, come cronaca o come nar-razione, spesso a seconda della loro collocazione nodale nel processo vitale del gruppo o della comunità che li rac-conta. Tutto dipende da dove, quando e da chi vengono narrati. Cosi, per certi scopi i racconti tradizionali di Yala Mwaku e di Lweji sono trattati come cronaca, ad esempio per avanzare pretese poKtiche, per la *lundanità', come lan Cuimison ha battezzato la loro afíermazione di discen-dere da prestigiosi migratori. A scopo di intrattenimento, nei ritrovi serali degli uomini del villaggio o nelle cucine delle donne, gli stessi racconti sono definiti 'narrazioni\ con molte pennellate e svolazzi retorici e con Tinserimen-to di canzoni come abbellimento evocativo. Certi episodi x)ssono addirittura essere citati nelle cause giudiziarie per egittimare o sostenere le rivendicazioni di un querelante in

una disputa sui confini o sulla successione ad una carica. ^ Ma per l'antropologo, che studia Tattività e i processi ""sociali, non sono tanto questi generi formali del raccontare e del produrre una storia a richiamare soprattutto l'atten-zione quanto, piuttosto, come abbiamo visto, quello che potremmo chiamare « pettegolezzo Ì», le chiacchiere e le voci sulle faccende private degli altri, cioè quello che gli Nbembu e i loro vicini Luvale chiamano kudiyongola^ le-gato al verbo Kuyong'ay « affollarsi », poiché il pettegolez-zo ha luogo soprattutto nei ritrovi centrali e non murati dei villaggi tradizionali, dove i maschi drconcisi, e quindi socialmente 'maturi', si radunano per discutere le faccen-de della comunità e per sentire le 'notizie' {Nsang'u) sulle altre comunità riferite dai via^atori di passaggio. Una volta il critico Frank Kermode ha detto che il romanzo è costituito da due componenti: lo scandalo e il mito , E certamente il pettegolezzo (che include lo scandalo) è una deUe fonti perenni dei generi culturali. Fra gli Ndembu Ü pettegolezzo non avviene nel vuoto: è quasi sempre 'inserito' nell'unità di quel processo sociale àie ho breve-mente descritto nell'introduzione: il dramma sociale.

Anche se si potrebbe sostenere che il dramma sociale

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è una 'narrarione' neH'aocezione di Hayden White®, in quanto in esso possono essere individuati motivi inaugu-raK, transizionaH e terminali, doè contrassegni culturali che indicano che esso ha un inizio, un centro e una fine, le mie osservazioni mi persuadono che esso è in realtà un'unità spontanea del processo sociale e un fatto di cui tutti hanno esperienza, in ogni società umana. La mia ipo-tesi, basata sulk ripetuta osservazione et tali unità pro-cessuali in una vasta gamma di sistemi socioculturali, e sulle mie letture etno^afidie e storiche, è che i drammi sodali, i « drammi del vivere come li chiama Kenneth Burke possono essere adeguatamente studiati partendo da ima loro scomposizione in quattro fasi, die io diiamo: rottura, crisi, compensazione e infine reintegrazione oppu-re riconoscimento della spaccatura. I drammi sociali acca-dono all'interno di gruppi di persone che condividono va-lori e interessi e sono legati da ima storia comxme, reale o supposta. I loro protagonisti sono persone per le quali il gruppo che costituisce il campo dell'azione drammatica ha un valore altamente prioritario. La maggior parte di noi ha quello che mi piacerebbe chiamare il proprio grup-po 'star', o gruppi ai quali dobbiamo la più profonda fe-deltà e la cui sorte d coinvolge personalmente al più alto gradoT^Tutti apparteniamo a molti gruppi diversi, formali e informali, dalla famiglia aUa nazione o a qualdie istitu-zione religiosa o politica intemazionale. E ciascuno fa la propria valutazione soggettiva del loro valore relativo: alcuni ci sono *cari altri abbiamo 'il dovere di difender-li', e cosi via. Certe situazioni tragiche nascono dal con-flitto fra le fedeltà a diversi gruppi 'star'. Un gruppo è un gruppo 'star' quando una persona si identifica con esso nel modo più profondo e vi trova l'adempimento dei suoi più importanti sfora e desideri personali e sodali. Nes-suna cultura possiede un ordine gerardiico oggettivo per questi gruppi. Ho conosduto colleghi xmiversitari il cui gruppo 'star' supremo, d crediate o no, era im particola-re comitato amministrativo del corpo accademico, mentre le loro famiglie e gruppi ricreativi occupavano una posi-zione di gran lunga inferiore, altri che riversavano il loro

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amore e la loro fedeltà sulla Sodetà filatelica locale. In tutte le culture si è obbligati ad appartenere a certi grup-pi, di solito quelli istituTáonalizzati: famiglia, fascia d'età, scuola, ditta, associa2done professionale, e simili. Ma que-sti gruppi non sono necessariamente i gruppi *star' predi-letti di una persona, È nel proprio gruppo 'star' che si cercano per lo più l'amore, il riconoscimento, il prestigio, le cariche, e altri benefici e ricompense, materiali o imma-teriali. In esso k persona consegue il rispetto di se stessa e un senso di appartenenza nei confronti delle altre per-sone per le quali nutre del rispetto. Ora, ogni gruppo og-gettivo è composto da individui che vedono in esso il proprio gruppo 'star' e da altri che lo considerano con indifferenza, o addirittura con fastidio. Le relazioni fra i ""membri 'star' del gruppo", se vogliamo definire cosi la prima categoria, sono spesso fortemente ambivalenti, e assomigliano a quelle fra i componenti di una famiglia ele-mentare della quale forse il gruppo 'star' è un sostituto adulto. Essi riconoscono l'uno all'altro il comune attacca-mento al gruppo, ma sono gelosi l'uno dell'altro per la intensità relativa di questo attaccamento o per la conside-razione in cui un altro membro è tenuto dal gruppo nel suo complesso. Possono contendersi un'alta carica vacante nel gruppo, non semplicemente per brama di potere, ma in base alla convinzione che essi, ed essi soltanto, com-prendono veramente la natura e il valore del gruppo, e possono promuovere i suoi interessi con spirito altruisti-co. In altre parole, fra i "'membri "star' di un gruppo" troviamo gli equivalenti simbolici della rivalità fra fratelli e della rampetitività genitore-figlio.

In diversi libri ho trattato con una certa ampiezza dei drammi sodali^, sia nelle sodetà di piccole dimensioni, come gli Ndembu, a livello dì villaggio, sia nelle società complesse, ad esempio la lotta per ü potere fra Enrico II d'Inghilterra e Tardvescovo Thomas Becket^, o la rivol-ta degli Hidalgos avvenuta in Messico all'inizio del dician-novesimo secolo. Che si tratti di ima questione importante come il caso Dreyfus o il Watergate, oppure di una lotta per la sovranità in un villaggio tribale, un dramma sociale

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SÌ manifesta innanzitutto come rottura di una norma, come infrazione di una regola della morale, della legge, del co-stume o dell'etichetta in qualche circostanza pubblica. Questa rottura può essere deliberatamente, addirittura cal-colatamente premeditata da una persona o da una iasione che vuole mettere in questione o sfidare l'autorità costi-tuita (ad esempio il Boston Tea Party) o può emergere da uno sfondo di sentimenti appassionati. Una volta ap-parsa, può ctìflBcilmente essere cancellata. In ogni caso, essa produce una crisi crescente, una frattura o svolta im-portante nelle relazioni fra i membri di un campo sodale, in cui la pace apparente si tramuta in aperto conflitto e gli antagonfemi latenti si fanno visibili. Si prende partito, si formano fazioni, e a meno che il conflitto non possa essere rapidamente confinato ia una zona limitata dell'in-terazione sociale, la rottura ha la tendenza ad espandersi e a diffondersi fino a coincidere con qualche divisione fon-damentale nel più vasto insieme delle relazioni sociali ri-levanti, cui appartengono le fazioni in conflitto. Abbiamo visto all'opera questo processo nella crisi iraniana che è seguita alla rottura accelerata dall'occupazione dell'amba-sciata americana a Teheran. La fase di crisi mette a nudo lo schema deUa lotta in corso fra fazioni all'interno del gruppo sodale in questione fino all'apparato formale le-gale e giuridico, e, per risolvere certi tipi di crisi, all'ese-cuzione di un rituale pubblico. Un rituale del genere com-porta un 'sacrifido', letterale o simbolico, una vittima che serva da capro espiatorio per il 'peccato' di violenza com-pensatrice del gruppo.

La fase finale consiste o nella reintegrazione del grup-po sociale turbato dalla crisi (anche se, con ogni probabi-lità, la portata e l'ambito del suo campo relazionde risul-teranno modificati, il numero delle sue parti sarà diverso e la loro dimensione e influenza subiranno dd cambiamen-ti), oppure nel riconosdmento sociale dell'irreparabilità della rottura fra le parti in conflitto, il che talvolta con-duce alla loro separazione geografica. Questa può assu-mere le proporzioni dd molti Esodi di cui la storia d dà notizia, o ridursi ad un trasferimento dei membri scon-

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tenti del villaggio in qualdie luogo a poche miglia di distanza Anche questa fase può essere segnata da una cerimonia o da un rito pubblico, che indichi la riconcilia-zione o la scissione dejSnitiva fra le fazioni coinvolte.

Sono ben consapevole del fatto che il dramma sociale è im modello agonistico tratto da una situazione agonisti-ca rioDrrente, e non pretendo affatto che esso sia il solo tipo di unità processuale. Ad esempio GulKver, studiando un'altra società centroafricana, quella degli Ndendeuli in Tanzania, rivolge la sua attenzione all effetto cumulativo di una serie interminabile di incidenti, casi ed eventi se-condari, che potrebbero influenzare e modificare le rela-zioni sodali in modo altrettanto significativo che gli scon-tri più apertamente drammatici Raymond Hrth studia le unità processuali « armoniche », che io dhiamo « im-prese sociali » e che sono anch'esse strutturate in base a fasi distinguibili. Esse sottolineano <c il processo di ordina-mento dell'attività e delle relazioni in riferimento a deter-minatí fini sodali », e spesso sono di tipo economico. Ma assai spesso queste 'imprese' (come nel caso del rinnova-mento urbano in America) diventano drammi sodali, se alle aspirazioni dei loro promotori viene opposta resisten-za. Coloro che resistono vedono nell'avvento dell'impresa ima 'rottura' anziché un 'progresso'. E non è detto che il dramma sociale debba sempre 'scorrere lisdo', come il Vero amore'. Le procedure di compensazione possono fal-lire, e la crisi riacutizzarsi. Il tradizionale meccanismo di condliazione o di coercizione può dimostrarsi inadeguato per fronteggiare controversie e problemi di nuovo gene-re, e nuovi ruoli e status. E naturalmente può accadere die la riconciliazione raggiunta nella fase quattix) sia sol-tanto apparente, in quanto masdiera ma non risolve i con-flitti r¿li. Inoltre in certe congiunture storiche delle so-detà complesse di grandi dimensioni, la compensazione può avvenire attraverso la rivolta, o addirittura la rivolu-zione, se il consenso sui valori fondamentali della sodetà è venuto meno e sono emersi nuovi ruoli, relazioni e da^i privi di precedenti.

Ma nonostante tutto questo io insisterd a sostenere

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che il dramma sociale è una forma processuale pressoché universale, e rappresenta una sfida perpetua a tutte le aspirazioni alla pariEezione dell'oi anizzazione sociale e po-litica. In certe culture il suo profilo è nettamente definito e il suo stile corrosivo: in altre l'azione agonistica (conte-statrice) può essere messa in sordina o stornata da elabo-rati codici di comportamento. In altre ancora il conflitto può avvenire bassa voce' (per dtare l'espressione usata da Richard Antoun a proposito della politica dei villaggi arabi in Giordania), in uno stile che rifugge dal confron-to e dallo scontro diretti» I drammi sodali sono in larga misura processi politid, doè comportano la competizione per obiettivi il cui raggiungimento è possibile solo da parte di un numero limitato di persone (ü potere, la dignità, il prestigio, l'onore, la purezza) mediante mezzi particolari e mediante l'utilizzo di risorse che sono date a loro volta in quantità limitata (beni, territorio, denaro, materiale umano). Obiettivi, mezzi e risorse vengono coinvolti in un processo di feedback interdipendente. Certi tipi di ri-sorse, ad esempio la terra e il denaro, possono essere con-vertiti in altri, come l'onore e il prestigio (che sono al tempo stesso i beni ricercati). Oppure possono essere uti-lizzati per stigmatÌ22are gli avversari e negare loro l'accesso a tali obiettivi. Secondo le mie osservazioni, l'aspetto poli-tico dei drammi sociali è dominato da quelli che ho chia-mato « membri 'star' di un gruppo ». Essi sono i princi-pali protagonisti, i leader ddle fazioni, i difensori della fede, le avanguardie rivoluzionarie, i riformatori per ec-cellenza. Sono loro che trasformano in arte la retorica della persuasione e della suggestione, che sanno come e quando eserdtare pressioni o adoperare la forza, che sono più sen-sibili ai fattori della legittimità. Nella fase tre, quella della compensazione, sono i « membri 'star' del gruppo » a manipolai il meccanismo di compensazione, i tribuna-li, le procedure divinatorie e rituali, e a imporre sanzioni a coloro a cui viene attribuita la responsabilità di aver scatenato la crisi, proprio come sono spesso «membri 'star' del gruppo » insoddisfatti o dissidenti a guidare le rivolte e a provocare la rottura iniziale.

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f. n fatto che un dramma sociale, secondo la mia ana-ilisi della sua forma, corrisponda esattamente alla descri-; zione della tragedia greca die Aristotele fa nella Poetica, 1 nel senso che è « imitazione di a2done di carattere elevato i e completa di una certa estensione » ^ e che ha un inizio, j un centro e una fine, non è dovuto, lo ripeto, ad un mio Í tentativo illegittimo di imporre un modello 'etico' occi-dentale dell'azione scenica al comportamento sodale di un villg^o africano, ma al fatto che esiste un rapporto di interdipendenza, forse un rapporto dialettico, fra i dram-mi sociali e i generi di performance culturale, probabilmen-te in tutte le società. Dopo tutto la vita è un'imitazione ¿eU'arte, quanto l'inverso. Quelli che, come i bambini nella società Ndembu, hanno ascoltato innumerevoli narrazioni su Yala Mwaku e Luweji Ankonde, sanno tutto sui 'mo-tivi inaugurali' {« quando il re età ubriaco e indifeso, i suoi figli lo picchiarono e lo insultarono »), sui motivi 'tran-sizionali' (« sua figlia lo trovò più morto che vivo, e lo consolò e lo curò ») e su quelli 'terminali' (« il re diede il lukanu alla figlia e escluse i suoi figli maschi dalla suc-cessione al trono »). Quando questi stessi Ndembu, di-ventati adulti, vogliono provocare una rottura o accusare qualche fazione di avere gravemente turbato il pacifico andamento dell'ordine sociale, hanno a disposizione una struttura per 'inaugurare' il dramma sodale, con un reper-torio di motivi 'transizionali' e 'terminali' per continuare il processo di strutturazione e incanalare gli sviluppi ago-nistid successivi. Proprio come la narrazione stessa for-nisce ancora indicazioni importanti sulle relazioni fami-liari e sulle tensioni fra i ruoli legati al sesso e all'età, e appare come una generalizzazione emica, rivestita di ima metafora e contenente la proiezione di innumerevoli dram-mi sociali particolari generati da queste tensioni struttu-rali, allo stesso modo essa retroagisce sul processo sociale, fornendogli una struttura retorica, una modalità di utiliz-zo e un significato. Alcuni generi, in particolare l'epica, servono da paradigmi che informano l'azione di impor-tanti leader politìd (membri 'star' di gruppi omnicom-prensivi come la chiesa e Io stato), fornendo loro lo stile,

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la direzione, e a volte costringendoli subliminalmente a compiere una determinata serie d'azioni in una importante crisi collettiva, in tal modo segnando le loro vite. Altro-ve ho cercato di mostrare come Thomas Becket, dopo il suo confronto antagonistico con Enrico II da un lato e con l'assise dei vescovi al concilio di Northampton dal-l'altro, sembrò essere quasi 'controllato', ^posseduto' dal paradigma di azione offerto dalla Via Crucis nella fede e nel rito cristiani, suggellando il suo rapporto di amore-odio con Enrico nella doppia immagine del carnefice e del martire, e dando cosí origine a una successiva fioritu-ra di narrazioni e drammi poetici^. Pet paradigma non intendo un insieme di concetti univoci, ordinari logicamen-te. Non intendo neppure un insieme stereotipo di linee guide per l'azione etica, estetica o convenzionale. Un pa-radigma di questo genere trascende la sfera conoscitiva, e persino quella morale, per investire la sfera esistenziale; e cosi facendo viene rivestito di allusività, di implicazio-ni, di metafore: infatti nella tensione dell'agire i saldi con-fini delle definizioni sono appannati dallo scontro di volon-tà emotivamente sature. Paradigmi di questo tipo, para-digmi culturali radicali, per cosi dire, toccano gli atteggia-menti vitali irriducibili degli individui, passandb sotto alla comprensione cosciente per giungere a un controllo fidu-ciario di quelli che essi avvertono come valori assioma-tici, questioni di vita o di morte nel senso letterale della

' espressione. Richard Schechner nel 1977 ha cercato di ' esprimere questa relazione fra il dramma sodale e il dram-

Dramma sodale Dramma scenico

sociale ss

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ma comc realizzazione letteraria o scenica con un disegno a ionna di otto messo in posinone orizzontale e bisecato in entrambi gli anelli^.

L'anello di sinistra rappresenta il dramma sociale; sopra la linea c'è il dramma esplicito, sotto la struttura retorica implicita; Fanello di destra rappresenta il dramma scenico; sopra la linea c'è la performance visibile e sotto il processo sociale implicito, con le sue contraddizioni strutturali. Le frecce die vanno da sinistra a destra rap-presentano il corso dell'azione. Esse seguono le fasi del dramma sodale al di sopra della linea nell'anello di sini-stra, scendendo per passare nella metà inferiore dell'anello di destra, dove rappresentano le infrastrutture sociali na-scoste. Poi le frecce salgono e, spostandosi adesso da de-stra a sinistra, attraversano le fasi successive di un gene-rico dramma scenico» Nel punto di intersezione fra i due anelli scendono di nuovo per formare il modello estetico nascosto che, per cosi dire, sorregge il dramma sociale ma-nifesto. Questo modello è efficace, ma per il mio gusto im po' tirato per i capelli nelle sue implicazioni, e sugge-risce un movimento ciclico anziché lineare. Tuttavia esso ha il merito di mettere in evidenza la relazione dinamica fra il dramma sociale e i generi espressivi culturali. Il dramma sociale del Watergate fu pieno di ^controscene* in ogni sua fase, dal dima di congiura alla Guy Fawkes nell'episodio di 'rottura', messo in evidenza dalla scoperta del nastro incriminante della porta, attraverso la brutale artificiosità dell'operazione di insabbiamento e di tutto dò che accadde nella fase di 'crisi' delle indagini, con le sue rivelazioni genere Gola profonda e le sue combinazio-ni di nobili prindpi e di volgare opportunismo politico. La fase di compensazione non fu meno implidtamente sceneggiata in base a modelli teatrali e narrativi. Non c'è bisogno che io descriva le udienze e il 'massacro del saba-to sera'. Adesso abbiamo commedie, film e romanzi sul Watergate e le sue dramatis personae naturdeSy che sono plasmate, per usare il linguaggio asettico della sodologia, in conformità alla struttura e alle proprietà del campo so-dale che circonda e compenetra i loro autori durante la

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scrittura, AI Kvello più profondo possiamo prevedere uno slittamento interpretativo verso un adattamento dei testi più accettabili a qualdie paradigma profondamente radi-cato dell"americanità\ Il 'mito' americano, come ha soste-nuto Sacvan Bercovitch produce periodicamente delle 'geremiadi' (omelie polemiche in vari generi culturali) contro la tendenza decadente verso modi di vita che puz-zano dello statico, corrotto e gerarchizzato Vecchio Mon-do, e che ostacolano il cammino verso una terra promessa che si allontana sempre più ma dbe alla lunga è ra^un-gibile, da ritagliare da qualche landa incontaminata, dove una deroocrazia prospera e ideale possa fiorire 'sotto la benedizione di Dio'. H Watergate è uno stupendo bersa-glio per la geremiade americana. Paradossalmente, molti dei suoi personaggi sono diventati ddle celebrità: ma dopo tutto questo non è tanto sorprendente. Ponzio Pilato è stato canonÌ2zato dalla chiesa etiopica, e anche se proba-bilmente Dean e Ehrlichman non saranno mai conside-rati dei santi, la loro semplice partecipazione ad un dram-ma che ha attivato un importante paradigma culturale ha conferito loro una ambigua preminenza che forse altrimen-ti non avrebbero mai raggiunto. I vincitori dei drammi sociali richiedono concretamente performance culturali per continuare a l^ttimare il proprio successo. E questi dram-mi generano i loro « tipi simbolici » traditori, rinnega-ti, cattivi, martiri, eroi, fedeli, infedeli, imbroglioni, capri espiatori. Essere nel cast di una narrazione drammatica de-stinata ad essere assunta come esemplare o paradigmatica oflEre già una certa garanzia di immortalità sociale.

È la terza fase di un dramma sociale, la compensazio-ne, quella che ha più a die fare con la genesi e il mante-nimento dei generi culturali, sia ^colti' che 'popolari', sia orali che scritti.

Ho sostenuto che nella società Ndembu, quando sor-ge un conflitto fra gli interessi e le pretese contrapposti di protagonisti che agiscono a partire da un medesimo principio sociale, ad esempio la discendenza da ima ante-nata comune, per far fronte alla crisi si può ricorrere a istituzioni giuridiche, poiché è possibile tentare di giun-

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gere ad u0a conciliazione per via razionale fra pretese che hanno una base simile. Ma quando esse sono avanzate in nome di principi sociali difiEerenti, che sono incoerenti Ttino rispetto aU'altro addirittura al punto di contraddirsi reciprocamente, non ci può essere alcun accomodamento razionale. In questo caso gli Ndembu ricorrono alla divi-nazione della stregoneria o della collera degli antenati per spiegare la disgrazia, la malattia o la morte avvenuta prima o durante il draioma sociale. Come ultima risorsa possono essere celebrati dei riti di riconciliazione, che con il loro simbolismo verbale e non verbale, riaffermano e rivitaliz-zano valori supremi che tutti gli Ndembu condividono, malgrado Ì conflitti fondamentali di norme e di interessi.

Che contro il dilagare della crisi si faccia appello a processi giuridici oppure rituali, il risultato è un incre-mento di quella che potremmo definire la rifiessivitá so-ciale o coflettiva, gli strumenti con i quali un gruppo cerca di esaminarsi, di rappresentarsi, di comprendersi e quindi di agire su se stesso. Barbara Myerhoff ha scritto die le performance culturali sono riflettenti nel senso che mostrano noi stessi a noi stessi. Sono anche in grado di e ^ r e rifiessivey risvegliando in noi la coscienza di come vediamo noi stessi. Come gli eroi dei nostri drammi, diventiamo consapevoli di noi stessi, coscienti deUa nostra coscienza. Attori e pubbHco insieme, possiamo allora ra^ungpre la pienezza delle capa-cità umane, e forse del desiderio umano di auto-osservazione e di provate il piacere che proevira il sapere di sapere^.

Io tendo a considerare il dramma sociale nel suo pieno sviluppo formale, nella piena struttura delle sue fasi, come un processo che trasforma valori e fini particolari, distri-buiti fra im gran numero di attori, in un sistema (sempre temporaneo e provvisorio) dal significato condiviso o con-sensuale. Non ha ancora raggiunto Io stadio del piacere di sapere che conosciamo noi stessi di cui parla la Myerhoff, ma è ima tappa in quella direrione. Sono propenso a con-dividere l'opinione di Wilhelm Dilthey che il significato {Bedeutung) sorge nella memoria, nella conoscenza del passato y e riguarda il modo per pervenire a un coU^amen-

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to fra passato e presente, mentte il valore i^eri) inerisce al godimento aflFettivo dú presente, e le categorie di scopo {Zweck) o di bene {Gut) derivano dalla volizione, cioè dal potere o facoltà di usare la volontà, che si riferisce al futiera. La fase di compensazione, in ciii il feedback sulla crisi è sempre fornito dai dispositivi di analisi della legge (rituale secolare) e del rituale religioso, è un periodo ìimi-naie, separato dal corso della vita quotidiana, in cui viene sviluppata una interpretazione {Bedeutung) per dare un aspetto di senso e di ordine agli eventi che conducono alla crisi e la costituiscono. Solo la categoria del significato, ci dice Dilthey, ci consente dì concepire una affinità in-trinseca fra gli eventi successivi della vita, o, si potrebbe aggiungere, di un dramma sociale. Nella fase di compensa-zione il significato della vita sociale informa la percezio-ne di sé, mentte l'oggetto da percepire penetra nel sog-getto perdpiente e lo riplasma. H mero funzionalismo an-tropologico, il cui intento è di stabilire le condizioni del-Tequilibrio fra le componenti di un sistema sociale in un determinato periodo, non è in grado di trattare il signifi-cato, poiché questo implica sempre il riferimento retro-spettivo e la riflessività, cioè impUca un passato, ima sto-ria. H significato è la sola categoria che coglie pienamen-te la reladone fra le parti e il tutto della vita, dato che il valore, essendo prevalentemente emotivo, appartiene es-senzialmente a un'esperienza in un presente di coscienza. Tali presenti di coscienza, considerati puramente come mo-menti presenti, coinvolgono totalmente il soggetto, addi-rittura al punto da non avere fra loro alcuna connessione intrinseca, almeno di tipo sistematico, gnoseologico. Stan-no Tuno dietro Taltro in una sequenza temporale, e se possono essere confrontati come « valori », cioè come do-tati dello stesso status epistemologico, non possono però formare qualcosa come una totalità coerente, perché sono essenzialmente momentanei, transeunti, nella misura in cui sono soltanto valori; se sono interconnessi, i legami che li collegano appartengono a un'altra categoria, quella del significato, della raggiunta riflessività. In un dramma sce-nico, i valori possono essere la sfera degli attori, il signifi-

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cato qadk dfel r^ista. I valori si situano in quello che Gsiks:^tmihalyi chiamerebbe Io stato di «flusso». La riflessività tende a bloccare il flusso, perdhé artia)la Tespe-rienza. Dilthey descrive con eloquenza il carattere non artieokto dei valori:

La vita appare, dal punto di vista del valore, come pienezza infinita di v^ori esistenziali positivi e negativi, una pienezza di valori propri. Essa è un caos di armonie e dissonanze, in cui le dissonanze non si risolvono in armonie. Nessun smnoy che riempia un momento presente, ha un rapporto musicale con un altro ante-riore o successivo^ [corsivo mioL

La riflessività liminale della fase di compensazione è necessaria per stabilire una simile relazione musicale, se si vuole che la crisi assuma un significato. Le crisi sono « come un caos di armonie e di dissonanze Credo che certe modalità della musica moderna tentino di riprodur-re questo caos, lasciandolo cosi com'è, poiché i legami di significato ereditati dal passato non riescono più ad attua-re una connessione. E qui dobbianto tornare alla narra-rione.

Infatti sia le procedure legali che quelle rituali gene-rano forme narrative dai fattì bruti, dalla mera coesisten-za empirica delle esperienze, e tentano di afferrare i fat-tori die favoriscono l'integrazione in una situazione data. Il significato viene colto passando in rassegna nel ricordo un processo temporale: viene generato ndia 'narratone' elaborata dagli avvocati e dai giudici nel processo di con-fronto delle testimonianze, o dagli indovini che mediante le loro particolari tecniche ermeneutiche strutturano le loro intuizioni in responsi per i loro clienti. Il significato di ciascuna parte del processo è stabilito in base al suo contributo al risultato globale.

Si noterà che il mio dramma sociale fondamentale è agonistico, ricco di problematicità e di conflittualità, e que-sto non semplicemente perché si basa sul presupposto che i sistemi socioculturali non siano mai sistemi logid o ar-moniose Gestdten, ma siano gravidi di contraddizioni strutturali e di conflitti fra norme. La vera opposizione

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non dovrebbe essere definita in questi termini 'o^ettiva-ti\ È quella fra Tindetemiinatezza e tutte le modalità di determinazioGe. L'indeterminatesasa è, per cosi dire, *nel modo congiuntivo", poiché è ciò che non è ancora siste-mato, concluso e conosciuto. Essa è tutto ciò che può, che potrebbe, e forse addirittura dovrebbe esistere. È dò che terrorizza nelle fasi di rottura e di crisi di un dramma sociale. Sally Falk Moore si spinge fino a suggerire che « si dovrebbe considerare l'assoluta indeterminatezza teo-retica come la qualità implicita fondamentale della vita so-dale » La realtà sodale è « fluida e indetenmnata », anche se per lei i <c processi di normalizzazione » e di <c adattamento situazionale » rappresentano l'aspirazione dell'uomo a trasformare continuamente tale realtà in for-me organizzate o sistematiche. Ma persino quando le nor-me e i costumi ordinatori sono sandti da forti ratifiche, « all'interno dell'universo degli elementi relativamente de-terminati può essere prodotta Tindeterminatezza e Tambi-guità ». Una tale manipolazione caratterista la rottura e la crisi. Può anche essere utile per risolvere la crisi. La terza fase, la compensazione, rivela che la « determina-zione » e la « fissazione » sono in realtà dd processi, e non degli stati o delle datità permanenti. Essi si svolgono mediante l'attribuzione di significati a eventi e relarfoni all'interno di forme narrative riflessive. L'indeterminatez-za non dovrebbe essere considerata come assenza dell'esse-re sodale: essa non è negazione, vuoto, privazione. È piut-tosto potenzialità, possibiKtà di divenire. Da questo punto di vista l'essere sodale è finitezza, limitazione, costrizione. In realtà esso 'esiste' soltanto come un insieme di modelli gnoseologid nelle menti de^ attori, o come un insieme più o meno coerente di dottrine e protocolli 'oggettivati'. Le procedure rituali e legali costituiscono la mediazione tra la forma e Tindeíerminatezza. Gjme sostiene la Moore, « il rito è una dichiarasaone di guerra della forma contro l'indeterminatezza, perciò Tindeterminatezza è sempre pre-sente sullo sfondo di qualsiasi analisi del rito ». Nel 1979 ho assistito a diverse riunioni dei fedeli della religione TJmbanda in un luogo di culto {terreiro) a Rio de Janeiro,

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e ho scoperto che VOrixa dbe possiede i medium, o una entità nota come Exu, la cui origine risale agli Yomba del-l'Africa occidentale, presso i quali essa è la divinità im-brogliona dei crocevia, personifica sotto molti aspetti que-sta indeterminatezza « meonica » (per usare un termine di Mkolaj Berdjaev) A volte essa è raffigurata sugli altari umbanisti come un essere (Entìtade) a due teste, di cui una ha il volto di Cristo e Taltra quello di Satana. UExu, i cui colori rituali sono il nero e il rosso, è il Signore del Limen e dei Caos, l'assoluta ambiguità del 'nodo con-giuntivo' della cultura, e rappresenta l'indeterminatezza che è in agguato nelle fenditure e nelle crepe di tutte le 'costruzioni della realtà' socioculturali, colui che va tenuto a bada se si vuole che l'ordine formale strutturato dei pro-cedimenti rituali possa continuare secondo il protocollo. Egli è l'abisso della possibilità: di qui le due teste, poiché è potenáalmente sia salvatore che tentatore. È andhe di-struttore, dato che in una delle sue forme è il Signore del Cimitero. Come Siva, creatore e distruttore, brandisce un tridente. Si possono vedere la sua immagine e il suo segno a New York e a Montreal, se si esaminano attentamente i costumi (detti ''fantasie") dei Mar di Gras dei carnevali caraibici: infatti oltre che nelle brasiliane Candomble e Umbanda egli è venerato nella religione Santería di Cuba e Porto Rico, In tutti i più importanti processi cuI-\ turali, dal rito al teatro e al romanzo, per quanto comples-so sia il loro significato, d sono, per citare di nuovo Ker-mode, sia la « s<^en2aj> che i « segreti »: i « segreti » i sono quei lampi non sequenziali di indeterminatezza crea- j tiva, die penetrano e sembrano contaminare tutti i proto- \ coUi, i copioni e i testi coerenti, indizi per quanto deboli i dell'abisso della congiimtività, che irrompe ed erompe come Exu minacciando il movimento verso il climax regolato in termini culturali.

Considero dunque il dramma sociale come la matrice empirica da cui derivano i principali generi di performance culturale, a cominciare dalle procedure rituali e giuridiche di compensazione, per giungere fino alla narrazione orale e scritta. La rottura, la crisi e gli esiti di reintegrazione o

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idi divisione forniscono a questi generi più tardivi il con-J tenuto, le procedure e la forma. Man maao che la società / si fa complessa, e la divisione del lavoro produce modalità di azione socioculturale sempre più specialisate e profes-sionalizzate, anche i modi per attribuire significato ai dram-mi sociali si moltiplicano, ma il dramma stesso rimane fino all'ultimo semplice e inestirpabile, un fatto presente nell'esperienza sociale di tutti e un nodo significativo nel ciclo cÈ sviluppo di ogni gruppo che aspiri sdla continuità. Il dramma sociale resta U problema spinoso dell'umanità, il suo tarlo immortale, il suo tallone d'Achille: per uno schema di sequenzialità còsi ovvio e familiare è inevitabile usare espressioni stereotipe. Al tempo stesso esso è il nostro modo naturale di automanifestard e di proclamare dove stiano il potere e il significato e come siano distri-buiti.

Ne II processo rituale e in questa sede, ho parlato della forma processuale del rite de passage scoperta da Van Gen-nep, e vi accennerò di nuovo brevemente. I riti di passag-gio, come i drammi sociali, comportano processi tempora-li e relazioni agonistiche: i novizi o iniziandi vengono strappati (a volte con l'uso della forza, reale o simbolica) a una condizione o status sociale precedente, costretti a rimanere segregati durante la fase liminale, sottoposti a prove da persone più anziane già iniziate, e reinseriti nella vita sodade quotidiana in modi simbolici i quali spesso rendono evidente che i legami prerituali sono stati irrime-diabilmente spezzati, mentre sono diventati obbligatori nuovi sistemi di relazioni. Ma come altri tipi di rituale, quelli che segnano i momenti critici della vita (il tipo di rito di passag^o più trasformatore) rivelano già un note-vole livello di generalizzazione: sono infatti un prodotto abbastanza tardo della riflessività sociale. Essi ccmferisco-no agli attori, con mezzi sia verbali che non verbali, la conoscenza empirica del fatto che la vita sociale è una serie di movimenti nello spazio e nel tempo, ima serie di mutamenti di attività, una serie di passaggi di status per gli individui. Imprimono anche nelle loro menti la consa-pevolezza del fatto che questi movimenti, mutamenti e pas-

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saggi non sono soltanto s^ati, ma anche prodotti dal rituale. Le procedure giuridiche e rituali rappresentano ì nudd generatori del dramma sociale, da cui derivano a mio avviso molte modalità di performance e di narrazione delle culture complesse. Le performance culturali possono essere considerate i 'partner dialettici' nel 'ballo' dell'eter-no dramma sociale {per usare la metafora di Ronald Gri-mes), al quale danno un si^iificato appropriato aDe spe-cificità di tempo, luogo e cditura. Hanno tuttavia la loro autonomia e la loro forza propulsiva; un genere può ge-nerarne un altro; in certe traàmom culturali esistono te-stimonianze sufficienti a ricostruire una genealogia ragio-nevolmente attendibile dei generi (uso scientemente que-sti termini, derivati dalla radice indoeuropea gan « gene-rare o produrre », come metafora pet la loro t^ida ripto-duttività culturale). Oppure può accadere che un genere ne soppianti o ne sostituisca un altro come forma storica-mente o situazionalmente dominante di « metacommento sociale » (per usare Tespressione illuminante di Geertz). Le nuove tecniche di comunicazione e i media possono rendere possibili generi di performance culturali assoluta-mente privi di precedenti, Ì quali a loro volta rendono possibili nuovi modi di autocomprensione. Una volta che un genere è diventato preminente, è tuttavia probabile che esso sopravviva o venga riesumato a qualche Hvello del sistema socioculturale, passando magari dalla cultura elitaria a quella popolare e acquistando e perdendo in que-sto processo seguito e sostegno. Nondimeno, tutti i generi devono, per cosi dire, girare in orbita intorno alla terra del dramma sociale, e alcuni, come i satelliti, possono ^er-citare effetti di marea suUa sua struttura intema. Poiché nelle società cosiddette 'più semplici' il rituale è cosi com-plesso e stratificato, può non essere improprio considerar-lo una 'fonte' importante di generi di performance più specializzati e (in termini di evoluzione culturale) più tardi. Spesso, quando il rituale si spegne come genere do-minante, muore multiparo, dando vita a una progenie ri-tualizzata che comprende le molte arti della performance.

In pubblicaiioni precedenti 1K> definito il rituale come

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formale e prescritto per cdrcastanze non consegnate aUa routine tecnologica, e facente riferi-ménto a credenze io entità o poteri mistici considerati le

^ ^ cH tutti ^etti » ^ (definizione che deve molto a quelle di Auguste Comte, di Godfrey e Monica Wilson e di Ruth Benedict), Trovo ancora que-sta formulazione operativamente utile, a dispetto di Sir Edmund Leach e di altri antropologi del suo stampo, i quali vorrebbero eliminare la componente religiosa e con-siderare il rituale un <f comportamento stereotipato che è potente in sé nei termini delle convenzioni culturali degli attori, ma non in im senso tecnico-razionale », e che serve a trasmettere informazioni sui valori prediletti di una cul-tura. La trovo utile perché mi piac« ransiderare^ soprattutto cpm^ pei^ormance, rappresentjm e non come insieme di regole o rubriche. Le regole incornicia-no'" il processo rituale, ma il processo rituale trascende la sua cornice. Un fiume ha bisogno di argini per evitare pericolose inondazioni, ma gli argioi senza un fiume sono l'immagine stessa dell'aridità. Il termine 'performance' de-riva ovviamente dall'aoticQ francese parfoumir, che signifi-ca letteralmente « fornire completamente o esaurientemra-te ». To perform significa quindi produrre qualcosa por-, taire a compimento qualcosa, o eseguire un dramma, im ordine o un progetto. Ma secondo me nel corso della "ese-cu2ione' si può generare qualcosa di nuovo. La peiiorman-

trasforma se stessa. Certo, come dicevo, le regole pos-sono 'iñcomidaria', ma il 'flusso' dell'azione e dell'intera-zione entro questa cornice può portare a intuizioni senza precedenti e anche generare simboli e significati nuovi, incorporabili in performance successive. È possibile che le comid tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo. È in questo contesto che mi sembra ticokrmente appropriato il concetto di orientamento verso esseri e potenze sovrannaturali e invisi Esiste in&tti,

ì in un rituale ben eseguito, che implica l'irruzione di una ? potenza nella situazione iniziale, un'innegabile capacità di trasformazione; e la buona esecuzione' implica il coinvol-gimento della maggioranza degli esecutori in un flusso auto-

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trascendente di eventi rituali. La potenza può essere attin-ta dalle persone che partecipano al dramma, ma dalle loro profondità umane più che dalla loro padronanza conosci-tiva, 'indicativa', delle tecniche culturali. Anche dove esi-ste un testo rubricale che prescrive l'ordine e le caratteri-stiche dell'esecuzione dei riti, esso andrebbe considerato

^ come una fonte di indicazioni più che di dettami. L'espe-rienza del flusso soggettivo e intersoggettivo nella perfor-mance rituale, quali che siano i suoi fenomeni concomi-tanti sociobiologid o 'personalogici', convince spesso gli esecutori che la situazione rituale è effettivamente compe-netrata da potenze sia trascendenti che immanenti. Inol-tre quasi tutte le definisioni antropologiche del rituale, compresi i miei tentativi precedenti, non hanno tenuto conto della scoperta di Van Gennep che i rituali, quasi sempre, « accompagnano il passaggio da una situazione a un'altra e da un mondo cosmico o sociale a un altro » Come è noto egli divide questi rituali in riti di separa-zione, riti di margine e riti di riaggregazione, che defini-sce anche preliminali, liminali, postliminali. L'ordine in cui gli eventi rituali si susseguono e devono essere ese-guiti, fa notare Van Gennep, è un elemento religioso di importanza essenziale. Perché un rituale possa esistere, scrive Nicole Belmont riferendosi alla concezione di Van Gennep, esso « deve essere prima di tutto e soprattutto inscritto nel tempo e nello spazio, o meglio reinscritto » ^^ se segue il modello preesistente dato nel mito. Li altre parole l'ordine sequenziale dell'esecuzione è intrinseco, e bisognerebbe tenerne conto in qualsiasi definizione del ri-tuale, Su questo punto io contesterei la tesi implicita degli strutturalisti formali, secondo cui la sequenza è un'illusio-ne e ogni cosa non è altro che una permutazione e una combinazione di regole e vocabolari già deposti nelle strut-ture profonde della mente e del cervello. Esiste infatti una differenza qualitativa tra le fasi successive dei dram-mi sociali e dei riti di passaggio, che li rende irreversibili: la loro sequenza non è una illusione; il movimento unidi-rezionale è trasformativo. Mi sono occupato a lungo della fase di « margine » o liminale del rito, e ho trovato pro-

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ficuo estendere il concetto di liminalità, come metafora, a sfere dell'attività culturale espressiva diverse dal rito. Ma bisogna tener conto della liminalità in qualsiasi defi-nizione seria del rituale come performance, perché è in connessione con questa fase die le caratterizzazioni popo-lari 'emiche' del rituale mettono maggiormente in rilievo l'azione trasfonnatrice di « esseri o potenze invisibili o sovrannaturali considerati le cause prime e finali di tutti gli effetti », Se si trascura la liminalità, diventa impossi-bile distinguere il rituale dalla 'cerimonia', dalle attività formalizzate, o da quello che Barbara Myerboff e Sally Moore, chiamano appunto « rituale secolare » La fase litninale è la componente essenziale, ^«ri-secolare del rito in quanto tale, lo si definisca 'religioso' o 'magico'. La cerimonia indicdy il rituale trasformay e la trasformazione avviene nel modo più netto nel 'bo2zolo' rituale della se-gregazione liminale, almeno nei rituali che segnano i mo-menti critici della vita. La liminalità collettiva delle grandi feste stagionali esibisce le sue fantasie e le 'trasforma* (qui in un'accezione simile a quella linguistica di 'trasfor-mazione', doè: a) un membro di un insieme di regole per produrre trasformazioni sintattiche di ima proposizione atomica; b) una proposizione prodotta mediante l'impiego di una regola del genere) sotto gli occhi di tutti: come del resto fa il teatro postmoderno, ma questa è materia per un altro saggio.

Ho anche sostenuto che il rituale, nella pienezza della sua es^uzione nelle culture trij^, e in molte di quelle post-tribali, è una matrice da cui sono derivati imiti ^^ g^en di performance cukuxdc^ J^mpJ^ parte di quelli che tendiamo a considerare 'estetici', È xm tardo mito ocddentale moderno, alimentato forse dagli psicologi del profondo e ultimamente anche dagli etnologi, che il rituale abbia la rigida predsione caratteristica del compor-tamento 'ritualizzato' del nevrotico ossessivo o di un mam-mifero o di im uccello che segna il proprio territorio, e alimentato anche da un precedente mito puritano moder-no secondo cui il rituale è « una mera forma vuota senza un vero contenuto religioso ». È vero che i riti possono

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diventare, in certi frangenti storici, sempKci gusci vuoti, ma questa situazione attiene alla senescenza o alla pato-

I logia del processo rituale, non al suo 'normale funziona-I menix)'. Il rituale vivente può essere assimilato all'opera Í d'arte piti che alla nevrosi. Nelle sue più tipiche espressio-ni trans-culturali, e^o è una sincronizzazione di molti ge-neri di performance, ed è spesso ordinato in base a una struttura drammatica, un intreccio, comprendente spesso un'azione sacrificale o autosacrificale, che infonde una ca-rica energetica ed emotiva ai codici di comunicazione in-terdipendenti i quali esprimono in modi molteplici Ìl si-gnificato insito nel Leitmotiv drammatico. Nella misura in cui è 'drammatico', il rituale contiene una duplicazione distanziata e generalizzata del processo agonistico del dram-ma sodale. Il rituale dunque è un tessuto non 'liso', ma .'riccamente lavorato', grazie al vario intrecciarsi delle pro-duzioni della mente e dei sensi. I partecipanti ai riti prin-cipali ddle religioni ancora vive, siano esse tribali o post-tribali, possono essere di volta in volta attivi e passivi rispetto al movimento rituale che, come hanno dimostrato Van Gennep e più recentemente Roland Delattre, trova in ritmi biologici, climatici ed ecologici, oltre die sociali, i modelli delle forme processuali che utilizza in sequenza nella sua struttura episodica. Possono entrare in gioco tutti i sensi dei partecipanti e degli esecutori; essi odono la musica e le preghiere, vedono i simboli visivi, assaporano i cibi consacrati, annusano l'incenso, e toccano le persone e gli oggetti sacri. Perché la performance approdi a un rapporto significativo, essi hanno inoltre a disposizione le forme anestetiche della danza e del gesto, e forse anche repertori culturali di espressioni facciali, A questo propo-sito menzionerei l'utile libro di Judith Lynne Hanna in cui tenta di costruire una teoria socioculturale della danza. Nel canto i partecipanti si uniscono (e si distaccano) in altri modi ordinati e simbolici. Inoltre sono pochi i riti cosi completamente stereotipati che in essi ogni parola, ogni gesto e ogni scena siano autoritariamente prescritti. H più delle volte alle fasi e agli episodi invarianti sono interpolati passaggi variabili, a livello sia verbale che non

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verbale, nei quali rimprowisazione può essere non sol-tanto consentita, ma ¿Idirittura ridiiesta» Come 1 tasti bianchi e quelli neri su un pianoforte, come l'interazione dello Yin e dello Yang nella cosmologia religiosa cinese e nel rituale taoista, la costanza e la mutevolezza costitui-scono, nella loro opposizione, uno strumento completo per esprimete il significato umano, gioioso e doloroso in-sieme, « tessuto con ogni cura » per usare le parole di William Blake Il rituale, in effetti, lungi dall'essere me-ramente formale o convenzionale, è una sinfonia dbe usa anche altri mezzi oltre alla musica. Può essere, e spesso è, una sinfonia o un insieme sinestetico di generi espres-sivi culturali, o una sinergia di svariate operazioni sim-boliche, un'opera che diversamente dall'Opera lirica (che è anch'essa costituita da una molteplicità di generi, come Wagner sottolineò ripetutamente) si sottrae alla dimensio-, ne teatrale dell'opera (non però all'invincibile dramma sociale della vita) in virtù ddla serietà dei suoi intenti ultimi. La visione 'piatta' del rituale deve cedere il campo, e cosi la concezione, cara fino a poco tempo fa agli antro-pologi funzionalisti, secondo cui il rituale poteva essere compreso nel modo migliore come un insieme di mecca-nismi per promuovere una rudimentale solidarietà di grup-po, doè di fatto come « una sorta di colla sociale buona a tutti gii usi », per citare la definizione che Robin Horton diede di questa posizione, e secondo cui i suoi simboli non erano che « riflessi o espressioni delle componenti della struttura sociale». Il rituale, nel pieno flusso della sua esecuzione, non solo è stratificato, laminato', ma è anche in grado, in condizioni di mutamento della società, di ope-rare una modifica creativa su alcuni o su tutti i suoi livelli. Poiché Io si considera tacitamente come dò che comunica i valori più profondi del gruppo che lo celebra regolar-mente, esso ha una funzione paradigmaficay in entrambi i sensi che Qifford Geertz ' assegna a questo termine. In quanto modello per, il rituale può antidpare o addirittura generale il mutamento; come modello di può inscrivere un ordine nelle menti, nei cuori e nelle volontà di coloro che vi partedpano.

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In altre parole, il rituale non è solo complesso e stra-tificato, ma ha in se un abisso, e in realtà è uno sforzo per attribuire un significato alla rdazione dialettica fra quei due elementi che il mistico slesiano Jakob Boehme, se-dendo Meister Eckhart, chiamò « Grund » e « Ungrund », « bisso » e « abisso » [ = il greco a-hussos, à^wcroc,^ da a-y « senza », e dalla variante ionica dell'attico buthos, PÚ&CK;, che significa « fondo », o meglio « profondità » (finita), in particolare quella « del mare ». Quindi il « bis-so » è profondo, ma V« abisso » trascende ogni profondi-tà] Molte definizioni del rituale contengono il concetto di profondità^ ma poche quello di una profondità infinita. Nella terminologia che preferisco, tali definizioni hanno a che fare con la profondità strutturale finita, non con la infinita profondità 'antistrutturale'. Per usare un'analogia più familiare, tratta dalla linguistica, si potrebbe dire che la forma di passaggio del rituale, come è stata ricavata da Van Gennep, postula un movimento imidirezionale dal modo indicativo del processo culturale, attraverso il modo congiuntivo della cultura, per tornare infine al modo indi-cativo^ anche se questo modo ritrovato è stato ora tem-prato, o persino trasformato, dall'immersione nella con-giuntività; questo processo corrisponde grosso modo alle sue fasi preliminale, liminale e postliminale. Nei riti pre-liminali di separazione l'iniziando viene trasferito dalla struttura sociale quotidiana, indicativa, ali'antistruttura congiuntiva del processo liminale, e poi, trasformato dalle esperienze liminali, viene riportato mediante i riti di riag-gregazione alla partecipazione al modo indicativo della struttura sodale. H congiuntivo, secondo il Webster's Dic-tionary, esprime sempre « un'aspirazione, un desiderio, una possibilità o un'ipotesi »; è un mondo del « come se », die si estende dall'ipotesi scientifica alla fantasia fe-stosa, È un « se fosse cosi », non un « è cosi ». L'indica-tivo prevale nel mondo di quella che noi occidentali chia-miamo la « realtà di fatto », benché questa definizione possa coprire tanto un'indagine strettamente scientifica sul modo in cui una situazione, un evento o un agente produce un determinato effetto o risultato, quanto, al-

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restremo opposto, ciò che un profano considera come sem-plice buon senso o solido giudÍ2áo pratico. Nella loro in-troduzione a Secular Rilud, Sally Moore e Barbara Mye-rhoff non usarono questa coppia di termini, 'congiuntivo' e 'indicativo', ma videro invece nel processo sociale un movimento « fra il formato e rindeterminato » Tutta-via esse si occupano per lo più della « cerimonia » o del « rito secolare » e non del rituale pur sang. Io sono d'ac-cordo con loro, come ho già detto, sul fatto che « tutte le cerimonie collettive possono essere interpretate come giu-dizi culturali suli'orcBne culturale come contrapposto a xm vuoto culturale » ^ e che la cerimonia è una dichiarazione di guerra contro rindetennina-tezza. Attraverso la forma e il formalismo essa celebra il signifi-cato come prodotto dell'uomo, il culturalmente determinato, il rego-lato, il nominato e lo spiegato. Essa bandisce dalla sua considera-ndone le questioni fondamentali sollevate dal carattere di prodotto della cultura, dalla sua malleabilità e sostituibilità ogni ceri-monia] cerca di stabilire che il cosmos e il mondo sociale, o qualche piccola parte specifica di essi, sono ordinati, spirabili e per il mo-mento fissati. Una cerimonia può alludere a giudizi del genere e al tempo stesso fornirne la dimostrazione [ ,»] , Il rito IsiCy in realtà la « cerimonia »3 è ima dichiarazione di guerra della forma contro [corsivo di Moore e Myerboff] Tindeterminatezza, perciò l'inde-terminatezza è sempre presente sullo sfondo di qu^siasi analisi del rito^.

Roy Rappaport adotta im punto di vista analogo quan-do scrive:

Gli ordinamenti liturgici [la cui « dimensione sequenziale )>> egli dice, è il rituale] coñegano entità e processi disparati, ed è proprio questo coligare, più che ciò che è coUegato, a costituire il loro carattere p e l a r e . Gli ordinamenti liturgici sono meta-ordinamenti, o ordinamenti di ordinamenti Ricuciono insieme di continuo mondi che tendono sempre a spaccarsi sotto i colpi della consuetudine e le drastiche distináoni del linguaggio^.

Gjnsidero questi come giudizi mirabilmente luddi sulla cerimonia, die secondo me costituisce una solenne performance istitu2ÌonalÌ2zata della realtà sodale indicati-va, normativamente strutturata, ed è anche sia un model-

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lo di die un modello per condizioni e status sodali, ma non credo che siJSfette formulasdoni possano essere appli-cate al rituale in modo altrettanto persuasivo. Infatti, come ho già detto, il rituale non riproduce una lotta dua-listica, quasi manidiea, fra ordine e vuoto, cosmos e caos, formato e indeterminato, dove il primo finisce sempre per trionfare. Esso è piuttosto un'autoimmolazione trarforma-trice dell'ordine cosi come esso è attualmente costituito, a volte persino un volontario sparagmos, un autosmembra-mento dell'ordine nelle profondità congiuntive della limi-nalità. Vengono in mente gli studi di Eliade sul « viaggio dello sciamano » in cui Tinisiando viene fatto a pezzi e poi ricomposto in un nuovo essere che media fra il mon-do visibile e quello invisibile. Solo in questo modo, attra-verso la distruzione e la ricostruzione, cioè la trasforma-zione, può avvenire un autentico riordinamento. La realtà compie una immersione sacrificale nella possibilità e ne emerge come un diverso genere di realtà. Qui non siamo di fronte a due forze simili ma contrapposte come nel mito manicheo; c'è invece una incongruenza qualitativa fra i contrari coinvolti, anche se l'audace meteora jun-ghiana delle nozze incestuose fra Tio conscio e l'inconscio considerato come una madre archetipica pone questa rela-zione in termini di parentela e affinità paradossali. È esat-to dire che la congiuntività è la madre dell'indicatività, dato che qualsiasi realizzazione non è che una fra una mi-riade di possibilità ontologiche, alcune delle quali possono essere attualizzate in qudche altro punto o ÌQ qualche altro momento dello spazio-tempo. « dura sentenza » ; <c a meno che non diventiate come i fanciulli » assume un nuovo significato. A meno che i processi di fissazione e ordinamento della sfera adulta, sociostrutturdey non siano liminalmente abbandonati, e Tiniziando non si assoggetti ad una scomposizione che Io riduca a una generica prifna materia^ a un pugno di argilla umana, egli non può essere trasformato e riplasmato in modo da far fronte a nuove esperienze.

La fase liminale del rito si avvicina dunque al ''modo congiuntivo'' dell'azione socioculturale. È, nella sua quin-

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tessenza, un luogo e un tempo situai» in mezzo a tutti i luoghi e i tempi definiti e governati, in un qualunque « ecosistema bioculturale » specifico (A, Vayda, J. Bennet e altri), dalle regole dei diritto, della politica e della reli-gione, e dalla necessità economica. Qui gli schemi conosci-tivi che danno senso e ordine alla vita quotidiana non valgono più, ma sono, per cosi dire, sospesi, e nel simbo-lismo rituale forse addirittura mostrati come distrutti o dissolti. Gli dei e le dee della distruzione sono adorati sopra a tutti gli altri, poiché personificano una fase essen-zide di un processo di trasformazione irreversibile. Ogni sviluppo ulteriore esige il sacrificio di dò che era fonda-mentóle per una tappa precedente, « ajEndié il mondo non debba andare in rovina in nome di una buona con-suetudine CHaramente il 'bcsssolo' spaziptemporale li-minale creato dall'azione rituale, o oggi da certi tipi di teatro ifflessivam^te ritualizzali, è potermalmaa te pericxh loso. Infatti, per impiegare il goffo gergo delle scienze sociali, esso può dare spazio a energie della costituzione biofisica dell'uomo che normalmente vengono incanalate dalla socializzazione in attività basate sullo status e sul ruolo. E tuttavia, pur ammettendo la pericolosità della fase liminale e tenendola sotto controllo con uno sbarra-mento di interdizioni e tabu rituali, molte culture la con-siderano anche rigenerativa, come ho già accennato sopra. Infatti nella liminalità dò che nella dimensione profana è legato in forme sodostruttmrali può essere slegato e legato diversamente. Ovviamente se la sussistenza di una sodetà è sospesa al filo di \m equilibrio precario con l'ambiente, è improbabile che nelle sue zone Itminali si trovi un gran che in fatto di sperimentazione: qui uno non si mette a giocare con ciò che è collaudato e sperimen-tato. Ma quando un « ecosistema bioculturale per usare l'espressione di Vayda, produce delle eccedenze significa-tive, anche se esse sono semplicemente i doni stagionali di im ambiente naturale ben dotato, la liminalità dei suoi riti prindpali può a sua volta generare eccedenze cultu-rali. Si pensi a ^ Kwakiutl e ad altre popolazioni amerin-de nordocddentali, con le loro iconografie complesse e le

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risorse un tempo ricche della caccia e della raccolta. Pos-sono essere introdotti nuovi significati e simboli, o nuovi modi di riprodurre o di abbellire vecchi modelli di vita, rinnovando in tal modo l'interesse nei loro confronti. Perdo k liminalità rituale contiene tanto la potenzialità dell'innovazione culturale, quanto i mezzi per effettuare trasformazioni strutturali all'interno di un sistema socio-culturale relativamente stabile. Infatti molte trasforma-zioni avvengono ovviamente entro i limiti della struttura sociale, e riguardano il suo assestamento intemo e il suo adattamento esterno ai mutamenti dell'ambiente. Lo strut-turalismo cognitivistico se la cava nel modo migliore con queste società relativamente cicliche e ripetitive.

Nelle società tribali ed agricole, anche in quelle rela-tivamente complesse, sembra che il potenziale innovativo della liminalità rituale sia stato circoscritto, addirittura disattivato, o costretto al servizio della conservazione del-l'ordine sociale esistente. Ma anche cosi, lo sj^io per il 'gìoco\ H ludico di Huizinga , abbonda in molti generi á riti tribali, compresi quelli funebri. C'è un gioco di

I veicoli simbolici, che conduce alla fabbricazione di ms che-Í re e costumi bizzarri a partire da elementi della vita pro-I fana, ora uniti in combinazioni fantastiche. C è un gioco [ di significati, che implica il capovolgimento degli ordina-menti gerarchici dei valori e degli status sociali. C'è un

: gioco con le parole che si risolve sia nella produzione di linguaggi segreti iniziatici, sia nei giochi di parole seri o scherzosi. Persino gli scenari drammatici che danno a molti riti la loro struttura processuale possono essere pre-sentati in chiave comica anziché seria o tragica. Scherzi e indovinelli possono trovar spazio anche nella segr^azione liminale degli alloggi iniziatici. Recenti studi sui down rituali Pueblo ci richiamano alla mente l'enorme diffusio-ne del ruolo del clown nella cultura religiosa tribale ed arcaica. La liminalità è peculiarmente una causa del gioco, il quale non si riduce alle partite e agli sdherzi, ma si estende all'introduzione di nuove forme di azione simbo-lica, come i giochi di parole o la produzione di maschere originali.

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Ma che ne è stato della liminalità quando le società, (in particolare quelle industriali dell Occidente, sono ere-

in grandezza e complessità? Sembra che la delimi-ione abbia causato la scomparsa della potente com-

del gioco. Anche altre religioni del Libro hanno s|?iluppato regolarmente la tendenza ad accentuare il so-lènne a scapito del festoso. Fiere, fiestas e carnevali legati ^la religione continuano naturalmente ad esistere, ma non ^me parti intrinseche dei sistemi liturgici. Le grandi reli-gioni orientali. Induismo, Taoismo, Buddismo tantrico e Scintoismo, riconoscono tuttavia ancora, in molte petfor-inance pubbliche, che il rituale umano può essere sia serio, fsza giocoso. Eros può scherzare con Thanatos, non nel / senso di una sinistra Danse Macabre^ ma per simboleggia-re una realtà umana completa e una natura piena di stra-

¡ nezze. ^ Sembrerebbe che con l'industrializzazione, l'urbanizza-

zione, la diffusione dell'alfabetismo, la migrazione della manodopera, la specializzazione, la professionalizzazione,

Í la burocrazia, la divisione della sfera dello svago da quella j del lavoro provocata dall'orario di fabbrica, la preceden-

te integrità della ben orchestrata Gestdt religiosa che un tempo costituiva il rituale sia esplosa violentemente, e che dalla morte di questo potente opus àeorum hominumque sia nata una molteplicità di generi di performance sped^-zati. Questi generi di svago industriale comprenderebbero il teatro, il balletto, l'opera, il cinema, il romanzo, la poe-sia stampata, le mostre d'arte, la musica classica e rock, i carnevali, le processioni, il teatro popolare, gli avveni-menti sportivi più importanti e dozzine di altri generi. La disintegrazione è stata accompagnata dalla secolarizza-zione. Le religioni tradizionali, i loro riti spogliati di gran parte della loro ricchezza e dei loro significati simbolici precedenti, e dunque della loro capacità trasformatrice, sopravvivono nella sfera dello svago, ma non sono riusciti ad adattarsi bene alla modernità. La modernità significa l'apoteosi del modo indicativo: ma in quelk che Iha Hassan ha d^nito la « svolta postmoderna » stiamo forse assistendo a un ritorno alla congiuntività e a una riscoper-

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t^ di culturali trasfotmatrici, paiticola^^te in c ^ e iorme di-teatio. ^I^ scomposizione può essere un preludio della ri-composizione. La ri-composizione noñ è kjem restauratone di un passato che lo lascia intatto, ma un porre questo passato in una relazione vitale con il presente.

Tut^ ci sono indizi che quelle nazioni e culture che sono giunte in ritardo a sedere al tavolo dei paesi in-Idustriali, come il Giappone, Tlndia, gli stati dd Medio Oriente e buona parte dell'America Latina, siano riusdte, almeno in parte, ad evitare lo smembramento di importanti forme rituali, e abbiano incorporato nelle loro performance rituali molte delle questioni e dei problemi della vita urba-na moderna, riuscendo ad attribuire loro un significato re-ligioso. Quando gran parte del Terzo Mondo fa raggiunta d^o sviluppo industriale, esso dovette aflErontare struttu-re potentemente consolidate di generi di performance ri-tuali. NeirOcddente le istituzioni corrispondenti erano state gradualmente corrose dall'interno, dalla Rinascita delle lettere alla rivoluzione industriale. Qui il modo indi-cativo trionfò, e la congiuntività fa relegata in un domi-nio limitato, in cui per ammissione generale si manife-stava più brillantemente nelle varie arti che non nella religione.

La religione, come Tarte, vive solo nella misura in cui viene tradotta in performance, doè nella misura in cui i suoi riti « hanno un buon mercato ». Se si vuole rendere sterile o castrare una religione, la prima cosa da fare è abolire i suoi rituali, i suoi processi di generazione e di rigenerazione. Infatti la religione non è esclusivamente un sistema gnoseologico, un insieme di dogmi, ma è anche un esperienza si^iificativa e un significato esperito. Nel rito vengono vìssuti fino in fondo gli eventi, o Talchimia déle loro strutturazioni e simbolizzarioni, e vengono rivis-suti gli eventi semiogenetid, le parole e le gesta dei pro-feti e dei santi o, se questi mancano, i miti e le epopee religiose.

Se dunque consideriamo la narrazione come un genere o meta-genere *emico' della cultura espressiva ocddentale,

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Drammi socidi e narrazioni su di essi

dobbiamo vedere in essa UTÌO dei nipoti o dei pronipoti culturali del rito 'tribale' o del processo giudiziario. Ma se consideriamo la narrazione eticamente" come Io stru-mento supremo per collegare i « valori » e gli « scopi », nell'accezione diltheyana di questi termini, che forniscono motivazioni al comportamento umano, in particolare quan-do gli individui diventano attori di un dramma sociale, a strutture situazionali di « significato », allora bisogna am-mettere che essa è un'attività culturale universale, pianta-ta nel centro stesso del dramma sociale, die è a sua volta un'altra unità transculturale e traastemporale del processo sodale. « Narrare deriva dal latino narrare y « racconta-re », che è imparentato con il latino gnarus, « colui che sa, che è a conoscenza di, che è esperto di »: entrambi risalgono alla radice indoeuropea gna, « conoscere », da cui deriva la vasta famiglia delle parole che discendono dal latino cognoscere, comprese « conoscenza », « noun » [sostantivo], « pronoun » [pronome], il greco gignóskein, da cui gnósisy e il participio passato dell'antico inglese geknawan, da cui Tínglese moderno « know » [sapere, conoscere], « Narrazione » sembrerebbe un termine assai appropriato per designare un'attività riflessiva che tenta di 'conoscere' (e persino, nel suo aspetto rituale, di rag-giungere una gnosis di) eventi precedenti, e il significato di questi eventi. La stessa parola dramma deriva ovvia-mente dal greco dran^ « fare, agire », quindi la narrazione è ima conoscenza (e/o gnosis) che sorge dall'azione, doè una conoscenza sperimentale. La fase di compensazione di un dramma sociale struttura un tentativo di riarticolare un gruppo sociale lacerato da interessi settoriali o egoisti-d; analogamente, la componente narrativa dell'azione ri-tuale e giudiziaria si sforza di riarticolare i valori e i fini contrapposti in una struttura significante, il oii intrecdo sia culturalmaite dotato di senso. Quando la vita storica stessa non ha più un senso culturale nei termini preceden-temente tenuti per validi, la narrazione e il dramma cul-turale possono assumersi il compito della poiesis, doè di produrre un nuovo senso culturale, anche quando sembra che essi si limitino a demolire antichi edifid di sigtiificato,

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Drammi socidi e narrazioni su di essi

die non sono più in grado di compensare i nostri moder-ni <€ drammi esistenzi^ » (le cui dimensioni si fanno ora s^pre più globali e minacciano l'intera specie).

Note

^ C£r, i già citati volumi di Turner, Schism md Continmty in an African Society, A Study of Ndembu Village Life, Mandiester, Man-chester University Press, 1957; La foresta dei simboli. Aspetti del ritude Ndembu, Brescia, Morcelliana, 1976; Tbe Drums of Aflictin, A Study of l^jsUgious Processes among the Ndembu of Zambia, Oxford, The Ckrendon Press 1968; II processo ritude. Struttura e antistruttura, Brescia MorceHiana, 1972.

^ Hayden White, Metahistory^ The Historicd Immagination in Nine-tbeentb-Century Europe, Baltimore, Jdbos Hopkins University. Press, 1973, p. 16; trad. it. Retorica e storia, Napdi, Guida, 1978, p. 27. White, seguendo Tanalisi di Stephen C P ^ i ^ , dMerenzia quattro paradigmi della forma che una spiegazione storica, considerata come arg(Xn^to deduttivo, può assumere: £ormaiisti(x>, organidstico, meocanicistico, con-testualistìco. «La teoria di spiegazione meccanicistica dipende dalla ricerca delle l^gi causali che determina i risultati e i processi scoperti nel campo storico. Gli oggetti che si pensa occupino Ü campo storico sono spiegati come esistenti nelle modalità di rapporto partei^rte le cui specifiche conjSgiirazioni sono determinate dalle leggi che si presume governino le loro interazioni» ,

3 Alfred R. Radclifíe-Brown (188M955) antropologo inglese fonda-tore della scuola dello strutturalismo fumáonalista, rimandi^no ai suoi Struttura e futmone della società primitiva^ Milano, Jaca Book, 1972 (prima edizione 1952), Metodo nell'antropologia sociale, Roma, QÈdna, 1974 (prima edizione 1958).

* Introdurione aE'antologia curata da George Spindler, The Making of Psicbologícd Anthropology, Berkeley, University of California Press, 1978, p. 51.

^ Si veda la nota 14 óéìì*Introduzione. ^ Edward Sapir, Emergence of a Concept of Persondity in a study

of Culture, in «Journal of Social Psychology», 1934, n. 5, pp. 410-416; trad, it. La formazione del concetto di personalità nello studio delle adittre, in Cultura, linguaggio e persondità, a cura di David G, Man-delbaum, Torino, Einaudi, 1972, pp. 154-165.

^ Sapir, op. dt., trad. it. dt., p. 162. 8 Ibidem, p. 161. 9 Ibidem, p, 164. ® Ibidem.

White, Retorica e storia, cit., pp. 29-30. S^ir, op. dt., trad. it. dt., pp. 160-161.

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Drammi socidi e narrazioni su di essi

White, Retorica e storia, dt., p. 30. « Ma effettivaniente, le stratte esplicative contenutistiche propendono più verso rappre^taziooi sincro-niche di segmenti o sezioni dei processo, di t ^ fatti, per cosí dite, ndlla grana del tempo. Questa toadenza varso il modo di rappresenta-zione strutturalistico o sincronico è inerente a un'ipotesi universale contestuaHstíca ».

Sapir, op. cit,, trad. it. dt., p. 161. Kennet Pike, Language in Relation to a Unified Theory of the

Structure of Human Behavior, Glendale, Summer Institute <Á Linguistics, 1954, p. 8 (seconda edizione riveduta Mouton & Co., Patis, The Hague, 1967).

^ Asmarom Legesse, Gada. Three Approaches to the Study of African Society, New York, Free Press, 1973, p. 283.

White, Retorica e storia^ dt., cfr. in particolare la prefazione. Max Gluckman in Qosed Systems and open Minds. The Limits

of Naivety in Social Anthropology, Bdinbur^ e London, Oliver & Boyd, 1964.

^ White, Retorica e storia, dt., cfr. il paragrafo La teoria deU'opera storica delia Prefazione.

^ C£r. Turner, La foresta dei simboli, dt. ^ White, Retorica e storiay dt., p. 14.

Cfr. Lue de Heuscb, Le roi ivre ou l'origine de l^Etat^ Paris, Gallimard, 1972.

Jan Vansina, The Kingdoms of the Savana, Madison, University <à Wisconsin, 1966.

^ Cfr. Frank Kermode, The sense of an Ending. Studies in the Theory of Finction, Lcmdon-Oxford-New York, Oxford University Press, 1967; trad. it. 11 senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Rizzoli, Milano, 1972 e il successivo The genesis of secrecy. On the interpre-tation of Narrative, Cambridge-Lonám, Harvard University Press, 1980,

^ White, Retorica e storia, dt., p. 15: «le ^'narr^cmi" storidie tracciano le sequenze di eventi che conducono da fasi ineguali a fasi condusive di processi sodali e culturali come le "cronache'* non sono tenute a fare».

^ Rimandiamo agli studi di Kenneth Burke, A retoric of motives^ New York, Prentice-Hall, 1950 e Counter-Statement, Los Altos, Hermes, 1953.

Rimandiamo alla nota 7 ò^lntroduùone. ^ Thomas Becket, ardvescovo di Canterbury, cancelliere e amico di

Enrico II, che difese con intransigen2a il potere della chiesa dalle inge-renze della corona. Fu assassinato nella cattedrale di Canterbury forse su mandato dd re. A lui si ispirarono i testi teatrali di Thomas S, Eliot e Jean Anouilh.

Philip Hugh GuHiver tiene conto dell'effetto comulativo di tanti piccoli 'inddenti', in numerose ricerche. Rimandiamo a due di esse The Family Hards. A Study of two Pastoral Tribes in East Africa. The ite and Turkana, London, Routledge & Kegan Paul, 1955 e Sodai control in an African Society. A Study of the Arusha: Ag^iculturae Masai of Northern Tanganyka, London, Roudedge & Kegan Paul, 1963.

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Drammi soddí e ^tííTtísáoHí su di essi

R. Raymond Firth, cfir. Economia primitiva polinesiana^ Milano, AngeH, 1977; Noi, Tkopia. Economia e società ndla Polinesia primitiva, Bari, Latena, 1976; I Simboli e le mode, Bari, Laterza, 1977.

Aristotele, Ln poetica, cap, VI, 1449 b, 20. ^ C£r. Dramas, Fields and Metaphors, Symbolic Action in Human

Society, Ithaca, Comeli Univeisity Press, 1974. » Ridiard Schecfaner, Essays on Performance Theory (1970-1976),

New York, Drama Book Speciaiist, 1977. ^ Sacvaa Beixxmtch, The American Jeremiad, A idison, Umversity

of Wisconsin Press, 1978. ^ Turner rimanda a due studi in particdare: R. GrathoflE, The

Structure of Social Inconsistencies. A Contribution to a TJnifed Theory of Play, Game and Social Action, The Hague, Martinus Nijhoff, 1970; Doa Handelmaa, Zi Noven LadiCy appara nel n. 1 dd 1979 della rivista australiana, pubblicata a Adelaide, « Sodai Analysis

^ Or . Schism and Continuity, dt . ^ Barbara MyerbofE, Life History among the Elderly, Performance,

Visibility and Remembering, New York, sxL, p. QEr. HA. Hodges, The Philosophy of Wilhelm DUthey, London,

Roudedge and Kegan Paul, 1952, pp. 272-273. ^ Wilhelm Dilthey, Critica della rag^ne storica^ Torino, Einaudi,

1982, p. 342. * Sally Falk Moore, Law as Process, London, Rouüedge and Kegan

Paul, 1978, p. 48. Nikolaj Berdjaev, ÍÍ senso della storia^ Miaño, Jaca Book, 1971,

Cristianesimo e vita sociale, Bari, Laterza, 1936, La concezione di Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1977.

C£r. Turner, La foresta dei simboli, Aspetú del rituale Ndembu, Brescia, Morcelliana, 1976, p. 43.

^ Ronald Edmund Leach, antropologo incese che ha evidenziato l'importanza della dimensione storica per la ricerca antropologica. C£r. Cultura e comunicatone. La logica della connessione simì^ica^ Milano, AngeU, 1981.

^ Arnold Van Gennep, Í riti di passaggiOy Torino, Boringjiieri, p. 10. Nicole Belmont, Arnold Van Gennep, The Creator of French

Ethnography, Chia^, Chicago University Press, 1979, p. 64. ^ Cfr. VIntroduzione all'antologia curata da B. MyerhofiE e S. Falk

Moore, Secular Ritualy Amsterdam, Royal van Goccum, 1977. Judith Lynne Hanna, To Dance is Human. A theory of Nonverbal

Communication, Austin, University of T^as Press, 1979. « William Blake, Visioni, Milano, Mondadori, 1965, p. 285. ^ Di Qifford Geertz c£r. The Sodd History of an Indonesian town,

Cambridge, Massac^usets Institute of Tecnok^y, 1965; Ideology as a Cultural Systemf raccolto nel volume antologie» curato <k David E. ^ter , ideology and Discontent, New York-Lcmdoii, The Free Press of Glence-CoUier Macmillan, 1964; Modernization in a Muslin Society: the Indo-nesian Case, in Religion and Progress in Modem Asia, a cura di Robert N. Bellah, New York-London, The Free Ptess-Collier Macmillan, 1965;

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Drammi socudi e narrmoni su di essi

in italiano Islam, Analisi strutturale della religiosità in Marocco e in Indonesia^ Bresda, Morcelliana, 1973.

Jakoib Bodime (1575-1624) mistico tedesco e pensatore non ccnifor-mista die lottò per una maggiore libertà di pensiero alllntemo della chiesa luterana qoando il lateranesinu) p a ^ aQa fase istituaonale. Si rimanda all*antol<^ Scritti di reU^ne, Torino, I travia, 1924 e in parti-colare ai testi Sex puncta theosophica ossia l'Alto e profondo fondamento dei sei punti teosofici. Una ta apet^ a tutti i misteri della vita in cui sono conosciute le cause di tutti ¿i esseri^ Afilano, Bocca, 1942 e alla traduzione francese di Misterium magnum^ Paris, AoSxs:, 1945 introdotto da due studi di Nikolaj Berdjaev, di od si veda in particolaie il primo: L'<(JJng^und» et la liberté, pp. 5-28*

Myerhoff e Falk Moore (a cura di). Scodar Bdtudy dt,, p, 17. ìbidem, p. 16.

53 Ibidem, pp. 16-17. 54 Roy Rapport, Ecology. Meaning and 'Religion, EUdimond, Norà

American Books, 1979, p. 206. In italiaiK>, Uiáéi per antenati. Il ñtude neWecdogia di un popolo della Nuova Guinea, Milano, Angeli, 1980.

55 Cfr. Miicea Eliade, Lo sciamanesimo e le tecnicbe ddl'estasi, Roma, Edizioni Mediterranee, 1974.

5 Johan Hnizinga, Homo ludens^ Torino, Einaudi, 1949.

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Capitolo terzo

Rituale drammatico/dramma rituale. Antropologia della performance

e della riflessione

Ho pensato per molto tempo che Tinsegnamento e Io studio dell'antropologia dovrebbero essere più divertenti di quanto spesso non siano. Forse non dovremmo limitar-ci a leggere e commentare i materiali etnografici, ma rap-presentarli. Studenti alienati passano molte ore noiose nelle sale di lettura delle biblioteche dibattendosi fra re-soconti di modi di vita estranei e teorie antropologiche ancora più estranee sull'ordinamento di questi modi di vita. Mentre Tantropologia dovrebbe riguardare, per usare l'espressione di DJH. Lawrence, l'uomo e la donna « vivi », questo carattere vitale emerge rarissimamente dalla nostra pedagogia, forse perché, per citare ancora Lawrence, anche nel nostro caso « l'analisi presuppone un cadavere ».

Si comincia a riconoscere sempre di più die anche la monografia antropologica è un genere letterario piuttosto rigido, che si sviluppò in base all'idea die nelle scienze umane i resoconti devono modellarsi abbastanza pedisse-quamente su quelli delle scienze naturali. Ma un tale ge-nere non gode affatto di una posizione privilegiata, spe-dalmente oggi che d accorgiamo di come nella vita sockle gli elementi conosdtìvi, affettivi e volitivi siano legati gli uni agli altri, e siano ugualmente primari, raramente dati nella loro forma pura, spesso in forme ibride, e siano com-prensibili al ricercatore solo come esperienza vissuta, sua tanto quanto loro, e sua in relazione alla loro.

Anche i migliori film etnografia non riescono a comu-nicare se non in minima parte che cosa significhi essere un membro della sodetà filmata. Una serie selezionata, spesso tendenziosa, di immagini visive è indirizzata ad un pubblico passivo. Poi la discussione in aula si concentra su quei dati che l'autore del film ha scelto come partico-larmente degni di attenzione. Anche se un buon insegnan-

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Rituale drammatico ¡dramma ritude

te presumibilmente collegherà il filmato ai contesti etno-grafici desunti dalla letteratura, buona parte della com-plessità socioculturale e psicologica di tali contesti resta esclusa da questo coll^amento. Le monografie e i filmati antropologici possono descrivere o presentare ^ incentivi all'azione caratteristici di un dato gruppo, ma solo di rado questi generi riusciranno a coinvolgere pienamente i loro lettori o spettatori nell'intreccio motivazionale della cultura studiata.

Ma come si può, allora, ottenere questo ooinvolgimen-to? Una possibiÈtà è quella di trasformare in copioni tea-trali le parti più interessanti dei dati etnografici, poi di recitarli in dasse e infine di volgersi nuovamente a questi dati armati della comprensione che deriva dal « mettersi nei panni » di membri di altre culture, an2dché limitarsi ad « assumere il ruolo dell altro » restando nella propria cultura. Questo processo apparentemente semplice genera un intero insieme di nuovi problemi. Infatti ciascuno dei suoi tre stadi (dall'etnografia al copione, dal copione alla performance, dalla performance aUa meta-etnografia) ri-vela molte delle debolezze dell'antropologia, questa disci-plina tradizionale essenzialmente occidentale. E il proces-so ci costringe a guardare al di là dei resoconti puramente antropologici, verso la letteratura, la storia, la bic^rafia, le avventure di viaggio, alla ricerca di dati che possano contribuire a copioni convincenti. Quando i drammi so-dali trovano veramente i loro « doppi » culturali (per usare, invertendone il senso, un termine di Antonin Artaud) ^ nei drammi estetid e in altri generi di perfor-mance culturali, è possibÜe, come ha sostenuto IWcbard Schechner, che si sviluppi fra essi una convei enza, in modo die da un lato nd drammi estetid sia implidta la forma processuale dei drammi sociali (anche se soltanto per inversione o negazione), e dall'altro la retorica dei drammi sodali, e dunque la forma dell'argomentazione, sia tratta dalle performance culturali. Nel Watergate c'era molto Perry Mason!

Il 'reatare' il materiale etnografico è un'impresa au-tenticamente interdisdplinare, poidié se vogliamo ottene-

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Ruttale drammatico/dramma rituale

re un copione e una rappresentazione di esso suflSdente-mente affidabili, dovremo consultare diverse fonti non antropologiche. I professionisti dd teatro nella nostra cul-tura (sceneggiatori, reg^ti, attori, e persino macchinisti) possono basarsi, nel rappresentare un dramma, su secoli di esperienza professionale. In teoria noi dovremmo con-sultare, o meglio ancora inserire nel cast, membri della cultura die stiamo mettendo in scena. A volte possiamo essere abbastanza fortunati da ottenere Taiuto di profes-sionisti dd teatro o della cultura popolare della sodetà che stiamo studiando. Ma in ogni caso, coloro che cono-scono la faccenda dall'interno possono essere di enorme aiuto.

Un'opportunità di verificare nella pratica queste spe-culazioni mi fu data quando Richard Schedmer mi invitò, insieme ai cx)lleghi sodologi Alexander Alland e Erving Gofiman, a partedpare a quello che veniva definito « un laboratorio intensivo » per « esplorare Vmterface fra il rituale e il teatro [...], fra il dramma sodale e quello estetico », e altri Umina fra le sdenze sodali e le arti della performance. Avevo riflettuto spesso sulla rdazione fra le forme processuali del conflitto sodale in molte sodetà, descritte dagli antropologi, e i generi ddla performance culturale. Diversi anni prima, amid comuni mi avevano informato che Schechner si interessava allo stesso proble-ma dal punto di vista del teatro. La collaborazione fra Colin Tumbull e Peter Brook, die tradusse le ricerche di ìufiM^^^s^^ dell'Uganda in una serie di episodi dram-matid, mi indusse a considerare la possibilità di trasforma-re dati etnografid adatti in copioni teatrali , Qudl'espe-rimento mi convinse del fatto die la cooperazione fra gli antropologi e la gente di teatro non soltanto era possibile, ma poteva anche diventare un importantissimo strumento didattico per entrambe le categorie in un mondo in cui mol-ti dei suoi componenti comindano a desiderare una cono-scenza redproca. Se è vero che impariamo qualcosa su noi stessi mettendod nd panni degli altri, gli antropologi, que-sti mediatori culturali par excellence^ potrdbbero raccc^ere

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Eítíude drammatico J dramma rituale

la sfick a fare di dò un'impresa interculturale, e non sol-tanto intraculturale,

I termini performance e dramma^ bendhé facciano ag- ! grottare la fronte a molti sociologi, sembrano avere im'im-portanza centrale. Performance^ come abbiamo visto, deri-va dal medio inglese parfourneny poi parfourmen, che a sua volta viene dall'antico francese parfournir, composto | da par {« completamente ») e da foumir (« fornire »): quindi la parola performance non rimanda necessariamen- ; te alla connotazione strutturalista del manifestare una for- j ma, ma piuttosto al senso processuale di « portare a com-pimento » o « completare ». To perform è dimque porta- ^ re a termine un processo più o meno intricato, più che eseguire una singola azione o un singolo atto. To perform del materiale etnografico, quindi, significa procurare a noi stessi la comprensione dei dati nella loro intere2S2a, nella piene22a del loro significato di azione. Il riduzionismo co-gnitivistico mi ha sempre dato l'impressione di ima sorta di disidratazione della vita sociale. Certo, si possono rica-vare degli schemi, ma i desideri e le emozioni, i fini e le strategie individuali e collettivi, e anche le vulnerabilità, la stanchezza e gli errori legati a determinate situazioni, vanno perduti nel tentativo di reificare e di produrre una teoria asettica del comportamento umano che si modella essenzialmente sugli assiomi 'scientifici' settecenteschi espri-menti la fede nella causalità meccanica. Sentimenti e desi-deri non sono una contaminazione della pura essenza co-noscitiva, ma elementi intrinseci alla nostra natura di uo-mini; se l'antropologia vuole diventare una vera scienza dell'agire umano, deve prenderli sul serio esattamente come le strutture che talvolta forse rappresentano i gusd esau-riti di un'azione dissanguata delle sue motivazioni.

II termine dramma è stato criticato (ad esempio da Max Gluckman e da Raymond Firth) come l'imposizione ai dati osservati di uno sdiema ricavato da generi culturali y e quindi 'truccato' e non abbastanza 'neutiàe' per im uso scientifico. Sono costretto a dissentire, perché i miei tac-cuìni sono pieni di descrizioni di eventi quotidiani che, sommari, possiedono innegabilmente ima forma dramma-

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Rituale drammatico I dramma rituale

tica, poiché rappresentano il corso di un'azione. Tenterò di spiegare che cosa intendo per dramma, e in particolare per dramma socìde^.

Io sostengo che la forma del dramma sociale ricorre a tutti i livelli dell'organizzazione sociale, dallo stato alla famiglia. Un dramma sociale ha inizio quando l'andamen-to pacifico della vita sociale regolare, governata da norme, è interrotto dalla rottura di una regola che controlla una delle sue relazioni salienti. Ciò conduce, rapidamente o lentamente, a uno stato di crisi che, se non vi viene posto prontamente riparo, può spaccare la comimità in fazioni e coalizioni contrapposte. Per prevenire questo, vengono adottati dei mezzi di compensazione da parte di coloro che si considerano o sono considerati i rappresentanti più le-gittimi o più autorevoli della comunità in questione. La compensazione comporta di solito una azione ritualizzata, sia essa giuridica {in tribimali ufficiali o non ufficiali), re-ligiosa (liasata su credenze nell'azione retributiva di po-tenti entità sovrannaturali, e implicante spesso im atto sacrificale), o militare (ad esempio la faida, la caccia di teste, una guerra organizzata). Se la situazione non regredi-sce nuovamente nella crisi (che può rimanere endemica fin-ché non venga intrapresa qualdie radicale ristrutturazione, a volte con mesi rivoluzionari dei rapporti sodali), entra in gioco la fase successiva del dramma sociale, che com-porta soluzioni alternative del problema. La prima è la riconciliazione delle parti in conflitto secondo processi giu-ridici, rituali o militari; la seconda, il riconoscimento con-sensuale deWirrimediabilità della rottura^ seguito di solito dalla separazione spaziale delle iasioni. Poiché i drammi sociali sospendono il normale e quotidiano esercizio dei ruoli, essi interrompono il flusso della vita sociale e co-stringono un gruppo a prendere coscienza del proprio com-portamento in rdazione ai propri valori, e talvolta persino a mettere in questione il valore di questi valori. In altre parole, il dramma induce e contiene dei processi di rifles-sione, e genera delle strutture culturali in cui la riflessi-vità può trovare un posto legittimo.

Con questa forma processuale come guida approssima-

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Eítíude drammatico J dramma rituale

tiva per il nostro kvoro al seminario estivo di Schedbner, ceróu di coinvolgere gli studenti di antropologia e quelli di teatro nel compito comune di scrivere copioni per le etnografie e di rappresentarli. Sembrò die la cosa miglio-re fosse scegliere quelle partì dell'etnografia classica che si prestavano a un trattamento drammatico, come Crime and Custom di Malinowski con il giovane die minacda di ucddersi buttandosi dalla dma di un albero quando i parenti matrilineari di suo padre, alla morte di quest'ulti-mo, gli ingiungono di lasdare il loro villaggio. Ma dato che il tempo era scarso (avevamo solo due settimane), do-vetti ripi^are sui miei studi etnografid personali, sia per-ché li conoscevo meglio, sia perché avevo già scritto, fino a un certo punto, un copione che dava ad una considere-vole quantità dei dati raccolti sul campo la forma die ho chiamato dramma sociale. Mia moglie Edie ed io tentam-mo di spiegare a im gruppo di drca una dozziná fira stu-denti e insegnanti, quasi equamente ripartiti fra l'antro-pologia e il teatro, quali presupposti culturali si celavano dietro al primo dei die drammi sodali che avevo descritto nel mio libro Schism and Continuity in an African So-ciety^. Non era suffidente fornire loro qualdie modello gnoseologico o prindpio strutturale. Dovevamo cercare di creare l'illusione di dò die significa vivere la vita di un villaggio Ndembu, E questo poteva forse essere otte-nuto con qualche tratto dedso, con un paio di gesti? Ov-viamente no, ma può darsi che ci siano dei modi per coin-volgere non solo la mente, ma anche il corpo delle per-sone in un'altra cultura non fisicamente presente.

Tutto dò aveva luogo in una stanza al piano supe-riore del Performing Garage, un teatro di Soho dove la compagnia di Schediner, il Performance Group, ha rap-presentato alcuni spettacoli assai notevoli, fra cui Diony-sus in 69, Macbeth, Madre Coraggio, e più recentemente The Tooth of Crime e Rumstick Road (con la r^ia di Elisabeth LeCompte). Sapevo che Schediner attribuiva una grande importanza a dò che egli chiama il « proces-so di prova», che consiate essenàalmente nell'istituire una relazione dinamica, senza limiti di tempo, fra il co-

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Rituale àrammaHco}dramma rituale

pione, il r^sta^ gli attori, la scena e il materiale scenico, senza nessxjn preconcetto iniziale drca la madore impor-tanza di uno qualsiasi di questi elementi. Spesso le sedute non avevano limiti di tempo; in alcune, esercizi di vario genere, compresi gli esercizi di respirazione per far rilas-sare gli attori, potevano andare avanti per un'ora circa; in altre gli attori potevano scegliersi le loro parti arudché farsele assegnare dal regista. In questo complicato proces-so, Schechner considera l'attore, nel suo assumere il ruolo di un altro, fornito dal copione, come in movimento, sotto rocchio iatuitivo ed esperto dd regista/produttore, dal non-io (la parte progettata) al non-non-io (la parte realizzata), e considera il movimento stesso come una sorta di fase liminale in cui tutti i tipi di esperimenti esperien-ziali sono possibili, anzi obbligatori. Questo stile di reci-tazione è diverso da quello che fa assegnamento su ima superba tecnica profe^ionale per rappresentare con vero-simiglianza quasi tutte le parti del teatro occidentale. Sche-chner aspira alla poiesis, non alla mimesis: alla produzio-ne, non alla imitazione. La parte cresce gradualmente insieme all'attore, è veramente 'creata' attraverso il pro-cesso di prova, che a volte può comportare momenti an-gosciosi di autorivelazione. Un metodo simile è particolare mente adatto all'insegnamento antropologico, perché il metodo 'mimetico' può funzionare solo su materiale fami-liare (modelli di comportamento occidentali), mentre quel-lo *poietico', ricreando il comportamento dall'interno, può trattare anche un materiale non familiare.

In una seduta sperimentale indetta da Schedmer per provare Casa di bambola di Ibsen, ad esempio, finimmo con quattro Nore diverse, ima delle quali faceva realmen-te una scelta contraria a quella indicata da Ibsen. Si dava il caso che Tattrice, nella sua vita privata, si fosse trovata ad aflBcontare personalmente un dilemma simile a quello di Nora: doveva separarsi dal marito, lasdargli i suoi due bambini (lui voleva cosi) e imbarcarsi in una carriera io-dipendente? Nel rivivere il suo problema personale inter-pretando la parte di Nora, cominciò a torcersi le mani in un modo particolarmente espressivo, lento e complesso.

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Eítíude drammatico J dramma rituale

Aík fine, anziché sbattere rumorosamente la famosa porta che secondo alcuni critici ha segnato l'inizio del teatro moderno, tornò in fretta in mezzo al gruppo e annunciò che non era disposta, o almeno non ancora, a rinunciare ai suoi bambini, gettando cosi ima luce inaspettata sul ri-gore morale della Nora di Ibsen. Sdiechner disse dbie il gesto di torcere le mani era il « frammento di realtà » dhie avrebbe conservato da quella particolare prova e inserito nella parte di Nora nelle prove successive. Nel susseguirsi di queste ultime, un bricolage di simili gesti, incìdenti, traduzioni del non-io nel non-non-io, sarebbe stato messo insieme e modellato artisticamente in im'unità processuale. In questo modo la profondità, la riflessività e un'ossessiva ambiguità possono essere infuse in una serie di perfor-mance, ciascuna delle quali è un evento unico.

Soprattutto a causa della mia scarsa abilità o esperien-za nelk regia, il compito di comunicare a ^ attori il con-testo e l'atmosfera della vita quotidiana in una cultura molto diversa si dimostrò piuttosto arduo. All'interno della propria società un attore tenta di dare realtà ad un <( personaggio individuale », ma dà in parte per scontati i ruoli culturalmente definiti die si suppone che questo per-sonaggio giochi: padre, uomo d'affari, amico, amante, fi-danzato, leader sindacale, contadino, poeta, e cosi via. Questi ruoli sono costituiti da rappresentazioni collettive condivise dagli attori e dal pubblico, che di solito sono membri della stessa cultura. Al contrario, un attore che mette in scena del materiale etnografico deve imparare le regole culturali che staimo dietro ai ruoli giocati dal per-sonaggio da lui impersonato, G>me può riuscirci? Non, io credo, ledendo monografie die non hanno alcun l^ame con la performance, e poi redtando la sua parte. Q deve essere un rapporto dialettico fra la performance e l'appren-dimento. Si impara rappresentando, e poi si rappresenta-no le conoscenze cosí ottenute.

Dedsi, fante de mieuXy òì dare io stesso una perfor-mance l^endo i primi due drammi sodali, e inserendo commenti esplicativi ogni volta che mi sembrava necessa-rio. n gruppo aveva già Ietto le pagine pertinenti di Schism

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Rituale drammatico (dramma rituale

and Continuity ^. I dratami concernevano generalmente la politica di villaggio degli Ndembu, la competizione per il ruolo di capotiá>ú, l'ambizione, la gelosia, la stregoneria, la creazione di fazioni e la stigmatizzazione dei rivali, par-ticolarmente nel loro operare all'interno di un gruppo lo-cale legato da parentela matrilineare, e alcune dette loro relazioni di matrimonio e di vicinato. Avevo raccolto un buon numero di resoconti di questi drammi da coloro che vi avevano partecipato. La mia famigKa ed io avevamo vissuto nel fagg io che era il 'palcoscenico' o l"arena^ di questi drammi per almeno quindici mesi, e avemmo modo di conoscerlo bene durante Tintero periodo del mio lavoro sul campo: circa due anni e mezzo.

Quando ebbi finito di leggere i resoconti del dramma, gli attori del laboratorio mi dissero subito che avevano bisogno di essere « messi nello stato d'animo giusto », di <c sentire le vibrazioni » della vita di un villaggio Ndembu, Uno di loro aveva portato alcune registrazioni di musica Yoruba, e benché essa abbia un linguaggio musicale di-verso da quello della musica centroafricana, io feci dispor-re gli attori in cerchio e al meglio delle mie capacità limi-tate e compromesse dall'artrite mostrai loro alcune delle figure di danza degli Ndembu. Era divertente, ma non c'entrava. Allora d venne in mente die avremmo potuto ricreare, con il materiale scenico limitato che avevamo a disposizione nel teatro, il rito chiave di compensazione che veniva celebrato nel secondo dramma sociale, e la cui forma conoscevamo molto bene per avervi preso parte in diverse occasioni. Questo rituale, « l'eredità del nome » {Kuswanika ijina), era un avvenimento emozionante, per-ché segnava la fine temporanea di una lotta per il potere fra il candidato respinto alla carica di capotribù, Sandom-bu, e il candidato vittorioso, Mukanza, e i suoi parenti stretti matrilineari. Su insistenza della collettività, San-dombu era stato allontanato dal villaggio per un anno, poiché era accusato di aver ucciso, servendosi della stre-goneria, Nyamuwaha, una sua lontana parente da parte materna, che chiamava « madre », una vecchia signo-ra molto amata, sorella di Mukanza. Sandombu aveva ver-

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Ritude átamm£^co¡drmma ritude

sato lacrime nell'udire Tacam (questo lo ammettevano persino i suoi ex-nemici), ma per un aimo era rimasto in esiliò. Con Pandare del tempo alcuni membri del villag-gio ricordarono come, quando era capomastro, egli li aves-se aiutati a trovare lavoro retribuito nella squadra dei costruttori di strade per il dipartimento dei lavori pubbli-ci, e di come fosse sempre stato generoso nell'offrire agji ospiti dbo e birra. L'occasione per invitarlo a ritornare si presentò quando nel villaggio scoppiò una epidemia di un male non grave, mentre neDo stesso periodo molte p^sone sognavano spesso di Nyamuwaha. Attraverso la divinazio-ne si scopri che la sua ombra era turbata dai disordini del villaggio. Per placarla, bisognava piantare per lei un arbo-scello di muyomhuy una specie che serviva a commemorare i morti della stirpe. E invitarono Sandombu a eseguire il rito del piantare Palbero. Egli pagò anche al villaggio una capra come risarcimento per il suo comportamento irasci-bile dell'anno precedente. H rituale segnò la sua reintegra-zione nel villaggio, anche se ufficialmente concerneva la trasmissione ereditaria del nome di Nyamuwaha alla sua figlia maggiore Manyosa (che in seguito divenne la miglio-re amica di mia moglie nel villaggio).

Eccitato dalla danza e dal suono registrato dei tam-buri, fui indotto a tentare di ricreare a Soho il rito di ere-dità del nome. Come sostituto dell'albero muyomhu trovai il manico di ima scopa, e come libagione, al posto della birra 'bianca' rituale, una tazza d'acqua sarebbe andata bene Non c'era argilla bianca con cui spalmare gli attori, ma trovai un po' di sale bianco e dbiaro, e lo inumidii. E per sbucciare la cima del manico di scopa, come gli alberi sacri de^ Ndembu vengono sbucciati perché mostrino ü legno bianco sotto la corteccia (un'operazione coU^ata simbolicamente alla purificazione rappresentata dalla cir-concisione) trovai un affilato coltello da cucina. In seguito una donna del gruppo mi raccontò eie aveva il terrore che io facessi qualcosa di 'orribile' con quel coltello! Ma è pur vero che nell'atmosfera di un rituale vivo c'è spesso qualche elemento di rischio o di pericolo. E c'è anche qualcosa di numinoso.

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Ritíide drammatico ¡dramma rituale

Per tradurre questo rito Ndembu molto peculiare in termini americani moderni, assunsi il ruolo del nuovo capo del villaggio, e con Taiuto di mia moglie preparai con il coltello e col sale il surrogato dell'albero sacro muyombu^ e lo 'piantai' in una fessura del pavimento. La mossa suc-cessiva fu di convincere qualcuno a recitare la parte di Manyosa in questa situazione. Una doiina che chi¿neremo Becty, regista teatrale professionista, si oflEri volontaria.

Chiesi a Becky di dirmi il nome di una sua parente stretta di ima generatone più anziana che fosse scomparsa di recente e che avesse contato molto nella sua vita. Note-volmente commossa, lei menzionò la sorella di sua madre, Ruth. Allora io levai una preghiera in Qiilunda agli 'ante-nati del villaggio', Becky sedette accanto a me davanti al-r« albero sacro », con le gambe stese di fronte a lei e il capo chino nella posizione Ndembu di modestia rituale. Poi io spalmai sull'albero sacro la improvvisata mpemha, argilla bianca, simbolo dell'unità fra gli antenati e la co-munità dei vivi, e con essa tracciai tre linee sul pavimen-to, dall'albero sacro fino al punto dove mi trovavo. Poi spalmai Becky nelle occhiaie, sulla fronte e sopra all'om-belico, La proclamai Nswana-Ruth, «il successore di Ruth », che in quanto tale si identificava con Ruth per certi aspetti, e per altri la soppiantava, benché non total-mente, nel suo ruolo strutturde. Ripetei il procedimento con altri membri del gruppo, senza chiamarÈ con i nomi di parenti scomparsi, ma coinvolgendoli nella unità sim-bolica della nostra comunità recentemente costituita di in-segnanti e studenti. Poi Edie ed io legammo a tutti intor-no alla fronte una strisda di stoffa bianca, e io versai un'altra libagione di birra bianca alla base dell'albero sacro. Chiaramente qui c'era un duplice simbolismo, perché stavo usando materiali occidentali per rappresentare oggetti Ndembu che a loro volta avevano un valore simbolico nel rituale, facendo dì essi, per cosi dire, degli indici situazio-nali di simboli culturali. Ma con tutte queste trasposizio-ni, l'intera performance non doveva risultare estremamen-te artifeiosa, inautentica? È abbastanza strano, ma secondo gli studenti non risultava affatto cosi.

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I^de drammatico/dramma ritude

In svilito il gruppo di laboratorio riferì di essere andato avanti per varie ore a discutere su quanto era av-venuto. Concordavano sul fatto che la rappresentazione del rituale Ndembu era la svolta decisiva die li aveva avvi-cinati da un Iato alla struttura affettiva del dramma so-dale e alla tensione fra spirito di discordia e spirito di espiazione, e dall altro al senso profondo della <c comune appartenenza » al villaggio. Essa mostrò loro inoltfó come la comprensione collettiva e individuale di una situazione di conflitto possa essere incrementata dalla pmedpazione ad ima performance rituale con i suoi codici sia ciuesio-logid che conosdtivi.

Nei giorni successivi il gruppo incomindò a lavorare alla messinscena vera e propria dei drammi rituali- Fu sug-gerito un approcdo dualistico; alcuni eventi (ad esempio quando Sandombu, l'ambizioso pretendente, dopo aver ucciso un'antilope diede solo una piccola porzione di carne al capotribù^ fratello di sua madre), sarebbero stati trat-tati in modo realistico, naturalistico; ma il mondo delle credenze culturali, spede quelle legate alla stregoneria e al culto degli antenati, sarebbe stato trattato in uno stile simbolico. Ad esempio era opinione diffusa, non solo fra i suoi avversari all'interno del villaggio, ma in tutta la sodetà Ndembu, che Sandombu avesse ucdso il capotribù pagando un potente stregone perché evocasse da un tor-rente uno spirito familiare in forma di serpente con il volto umano, che era proprietà (e anche possessore) del capo-tribù, e gli sparasse con il suo « fucile notturno », un mo-schetto ricavato da una tibia umana e caricato con terra di cimitero. Si crede che questi spiriti familiari in forma di serpente, o malomha, abbiano i volti dei loro possesso-ri, e che dì notte striscino invisibili per il villano, inter-cettando come delle spie le osservazioni denigratorie fatte dai rivali sui loro padmni. Si nutrono ddle ombre, o prin-dpl vitali, dei nemid dei loro padroni, che di solito ne sono anche i parenti. La loro fimzione è simile a quella dell*"anima estema" di cui parla Frazer, ma quando ven-gono distrutti con mezzi magia, come il fucile notturno, anche i loro possessori sono distrutti. I capi e i capotribù

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Ritmle àramìiustkoldramma rHude

hanno dei « mdomba forti », e d vuole una forte strego-neria per ucciderli.

Il gruppo dei nostri studenti suggerì di presentare lo spirito familiare ilomba di Sandombu (doè il suo Es qua-si-paranoide) come una spede di coro del dramma. Essendo al corrente delle trame politiche che caratterÌ2zavano la situazione, Vüomba poteva raccontare al pubblico (come il Riccardo III di Shakespeare) cosa stava accadendo nel vil-laggio sotto la superfide delle relazioni governate dalle regole della parentela. Fu anche superito di girare un film, da proiettare sullo sfondo, in cui un Uomba rivdasse con cinismo la struttura 'reale' delle relazioni di potere politico, come gli erano note, mentre Ì personaggi del dramma sodale, in primo piano sulla sc^a, dovevano com-portarsi Fimo nd confronti dell'altro con distacco forma-le, lasdando esplodere solo occasionalmente un sentimento autentico di ostilità.

Nel corso della discussione uno studente laureato in antropologia diede agli studenti di teatro del gruppo qual-che valida informazione suUa natura dei sistemi e dei pro-blemi di parentela matrilineare, e poi sul sistema Ndetobu che combinava la discendenza matrilineare con il matrimo-nio virilocale (residenza nd villaggio del marito), e san-dva che neUa successione ad una carica i fratelli dovevano avere la meglio sul figlio della sorella: una delle cause di conflitto nel villaggio Mukanza, dove i nostri drammi si svolgevano. Questo ricorso a modelK gnoseologìd si rivdò utile, ma solo in quanto i non antropologi erano già stati stimolati a volerli conoscere dalla rappresentazione di qualche rituale Ndembu e dalla testimotiianza della narra-zione drammatica sulla lotta politica in un contesto sociale matrilineare.

Per dare un'idea più personale dei valori assodati dagli Ndembu alla discendenza matrilineare, mia moglie lesse aUe donne dell'intera, classe una pièce che aveva scritto sul rituale di pubertà deUe ragazze Ndonbu. Io avevo descrit-to questo rituale in modo abbastanza asdutto, nello stile antropologico tradizionale Ma il resoconto di mia moglie sorgeva dalla partedpazione a un mondo intersoggettivo di

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Ritíkde àrmntmHcofàfmnma rifuse

dome coinvolte ta questa complessa sequenza rituale, e comunicava in modo vivido i sentimenti e i desideri prova-ti dalle donne in questo rite de passage di ima società ma-trilineare. Cercando di cogliere la dimensione emotiva che quella lettura rivelava, le donne della sezione teatrale del laboratorio sperimentarono una nuova tecnica di rappre-sentazione. Cominciarono una prova con un balletto, in cui creavano con i loro coq>i una sorta di cornice, disponendo-si in modo da formare un cerchio, in cui la successiva azione politica dei maschi poteva avere luogo. La loro idea era di mostrare che l'azione si svolgeva all'interno di uno spazio socioculturale matrilineare.

Ma in questa soluzione c era qualcosa che non funzio-nava: c'era una sfumatura implicita di attualità politica che snaturava il processo socioailturale Ndembu. Questo modo femminista di mettere in scena il materiale etiK)-grafico presupponeva e rappresentava concezioni ideologi-che moderne in una situazione in cui queste idee sono semplicemente non pertinenti. Le lotte fra gli Ndembu erano dominate da scontri di volontà individuali e da rea-zioni emotive, collettive e personali, rispetto a 'rotture' dell'ordine legittimo, presupposte o dicliarate. L aspetto predominante non erano le strutture generali matrilineari dell'eredità, della successione e della posizione sociale in seno alle varie stirpi, ma piuttosto la volontà, l'ambizione e i fini politici. Le strutture matrilineari influenzavano le tattiche usate dai contendenti, soggiogati dalla loro volon-tà di conquistare il potere temporale, ma la politica era principalmente in mano ai maschi. Perciò un copione, per restare fedele ai dati etnografici, dovrebbe incentrarsi suHe lotte per il potere e non sui presupposti matrilineari. Ma forse sono i dati etnografici stessi a dover essere messi in questione? Questo era il pxmto di vista sostenuto da alcuni membri femmine della nostra classe. E in realtà una que-stione dei genere diventa legittima quando si apre il ma-teriale etnografico al processo della performance. Un etno-grafo maschio, come me, può davvero comprendere o te-nere nel giusto conto nelle sue analisi la natura della strut-tura matrilineare e il suo concretarsi, non solo nelle donne,

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FJlüde drammatico I dramma rìtude

ma anche negli uomini, come fattore rilevante in tutte le loro azioni, politidie, giuridiche, di parentela, rituali ed economiche?

Nondimeno, restava il fatto che le cariche politiche, anche in questa sodetà matrilineare, erano in larga misu-ra una faccenda maschile, se non un monopolio maschile. Perciò il tentativo di porre in primo piano la struttura femminile della società Ndembu distoglieva Tattenzione dal fatto die questi particolari drammi erano lotte politi-che essenzialmente maschili, anche se combattute nel qua-dro della discendenza matrilineare. La vera tragedia di San-dombu non era di essere inserito in una struttura matrili-neare (e se fosse stata patrilineare o bilaterale il discorso sarebbe lo stesso) che sminuiva le doti politiche individua-li e magnificava invece i vantaggi derivati da posizioni assegnate per nascita. Nell'America capitalistica, o nella Russia o nella Cina socialiste, un animale politico come Sandombu sarebbe forse prosperato. Invece nella politica di un villaggio Ndembu una persona ambiziosa ma procrea-tivamente sterile e con pochi parenti matrilineari era quasi in partenza im uomo condannato.

Purtroppo il tempo a nostra disposizione fini prima che il gruppo avesse Topportunità di rappresentare la si-tuazione (È Sandombu. Ma tutti noi, antropologi e teatran-ti, avevamo ora un problema su cui riflettere. Come pote-vamo tradurre il materiale etnografico in tin copione, poi recitare quel copione, poi rifletterci sopra, poi ritornare ad un materiale etnografico piti ricco, poi fare un nuovo co-pione, poi di nuovo recitarlo? Questa circolazione inter-pretativa fra i dati, la prassi, la teoria e i dati ulteriori (una sorta di girandola ermeneutica, se vogliamo} forni-sce ima critica spietata dell'etnografia. Non c'è come reci-tare la parte di un membro dì un'altra cultura in una si-tuazione di crisi caratteristica di quella cultura per render-si conto dell'inautenticità dei resoconti fatti solitamente dagli occidentali e per sollevare problemi non affrontati o non risolti nella letteratura etnografica. Ma questa stessa insufficienza può avere un'utilità pedagogica, in quanto dà

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allo studente-attore una motivazione per estendere le sue letture su quella cultura.

Inoltre è difficile separare i problemi estetici e quelli teatrali dalle interpretazioni antropologiche, Andie le sto-rie esemplati riferite più incisivamente o più chiaramente nella letteratura etnografica, devono essere ulteriormente distillate e abbreviate ai fini della performance. Per far questo in modo efficace ed espressivo, bisogna combinare una solida conoscenza dei contesti sodo-culturali pertinen-ti con la capacità rappresentativa per produrre un valido copione teatrale, che ritragga efficacemente sia la psicolo-gia individuale, sia il processo sociale articolato in base ai modelli fomiti da una particolare cultura. Uno dei van-taggi di questo modo di sceneggiare il materiale etnografi-co sta nel fatto che esso attira l'attenzione sui sottosistemi culturali, come quello costituito da stregoneria/divinazio-ne/esecuzione del rituale di compensazione, da un punto di vista drammatico. H suggerimento del gruppo di labo-ratorio di inserire sullo sfondo del dramma naturalistico un film o un balletto che rappresentasse Vüomba e altre creature magiche (si potevano utilizzare maschere e trave-stimenti), poteva essere un espediente efficace per rivelare i livelli nascosti, forse addirittura inconsci, dell'azione. Avrebbe anche funzionato come un vivido insieme di note a pié di pagina sui presupposti culturali delle dramatis personae Ndembu.

La nostra esperienza del laboratorio teatrale suggerì un certo numero di idee guida su come si potesse intra-prendere la collaborazione fra antropologi e professionisti del teatro e della danza, a qualsiasi livello di preparazione. Innanzitutto, gli antropologi potrebbero presentare ai loro colleghi teatranti una serie di testi etnografici selezionati in base al loro potenziale drammatico. Poi il testo etno-grafico esaminato potrebbe essere trasformato in un copio-ne preliminare utilizzabile. Qui il know-how della gente di teatro (il loro senso del dialogo; la conoscenza della messa in scena e dei materiali; l'orecchio per le espressio-ni efficaci, rivelatrici) potrebbe combinarsi con la conoscen-za degli antropologi circa i significati culturali, la retorica

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indigena e la cultura materiale. Ovviamente il copione sa-rebbe oggetto di continue modifiche durante il processo di prova, che metterebbe capo a una rappresentazione vera e propria. In questa fase avremmo bisogno di un regista esperto, preferibilmente uno che abbia familiarità con Pan-tropologia e con il teatro non occidentale (come Scbechner 0 Peter Brook) e in ogni caso con la struttura sodale e con le regole e i temi che stanno alla base delle strutture superficiali della cultura da rappresentare. Ci sarebbe un costante andirivieni dall'analisi antropologica dei dati et-nografici, che forniscono i particolari per la messa in sce-na, all'attività di sintesi e di integrazione costituita dalla composizione drammatica, che comporterebbe il mettere le scene in sequenza, il collegare le parole e le azioni dei personaggi a eventi precedenti e successivi, e il tradurre le azioni in realizzazioni sceniche appropriate. In questo tipo di dramma etnografico non hanno infatti importanza drammatica soltanto i personaggi individuali, ma andhe 1 processi profondi della vita sociale. Dal punto di vista antropologico, c'è effettivamente del dramma nello svi-luppo e nel confronto reciproco di processi socioculturali. A volte gli attori sulla scena sembrano addirittura delle marionette tirate dai fili del processo.

Gli studenti di antropologia potrebbero aiutare quelli di teatro anche durante le prove, se non con la partecipa-zione diretta almeno svolgendo funzione di Dramaturgo ruolo fondato da Lessing^ nella Germania del diciottesi-mo secolo e definita da Richard Homby come « un sem-plice consulente letterario del regista [teatrale] » Homy e Schechner vedono nel Dramaturg ima sorta di critico let-terario strutturalista che sviluppa la sua ricerca attraverso una produzione teatrale e non meramente a tavolino Ma il Dramaturg o Ethnodramaturg antropologico non si occupa tanto della struttura del arpione (a sua volta un preciso spostamento dall'etnografia alla letteratura), quan-to della fedeltà di quel copione sia ai fatti descritti che all'analisi antropologica delle strutture e dei processi del gruppo. Fra parentesi, non è che io stia chiedendo una tas-sativa esclusione degli antropologi dal ruolo dell'attore. Al

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Ritude àtammi^co!dramma ritude

«rntrario, penso che la partecipazione a questo ruolo accre-scerebbe in misura significativa la comprensione 'scientifi-ca' da parte dell'antropologo della cultura studiata in que-sto modo dinamico, poiché, come abbiamo detto, le scien-ze umane si occupano dell' 'uomo vivo". Ma sono consa-pevole dell'evasività e del voyeurismo della mia specie, che razionalizziamo come 'obiettività'. Forse avremmo bi-sogno di un po' più di quell'abbandono disciplinato che il teatro esige. GDmunque, come soluzione di ripiego, pos-siamo accontentarci del ruolo di Bthnodramaturg.

n movimento dall'etnografia alla performance è un processo di riflessività pragmatica. Non la riflessività di un narcisistico e isolato aggirarsi fra i propri ricordi e i propri sogni, ma il tentativo, da parte di rappresentanti di una modalità generica dell'esistenza umana, l'esperien-za storica occidentale, di comprendere « sentendo il polso », per usare la metafora di Keats, modalità diverse die finora erano loro precluse dallo sciovinismo gnoseolc^co o dallo snobbismo culturale.

Storicamente, Tetnodrammaturgia sta sorgendo proprio con l'aumentare della conoscenza di altre culture, ¿(tre visioni del mondo, altri modi di vivere; quando gli occiden-tali, tentando di intrappolare filosofie, drammaturgie e poe>-tiche non occidentali nei recinti delle proprie costruzioni gnoseologiche, scoprono di avere acchiappato dei mostri sublimi, dei draghi orientali che sono i signori del caos fecondo, e la cui saggezza fa apparire la nostra sapienza basata sulla conoscenza razionale in qualche modo logora, avvizzita, e inadeguata alla nostra nuova percezione della condizione umana.

n dualismo cartesiano ha insistito nel separare il sog-getto dall'oggetto, noi da loro. Ha in realtà trasformato gli uomini dell'occidente in voyeurs, aumentando fino al-l'esagerazione le capacità visive con l'uso di macro- e micro-strumentazioni, per conoscere nel modo migEore le strut-ture del mondo con un 'ocdháo' al suo sfruttamento. I profondi legami fra il corpo e la sfera mentale, fra il pen-siero inconscio e quello conscio, fra la specie e l'io, sono stati, disprezzati come irrilevanti ai fini dell'analisi. ^ ^

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La riflessività della performance dissolve questi l^ami e in tal modo produce una democratizzazione creativa: man mano che sulla terra noi uomini diventiamo una sin-gola noosfera, la distinzione platonica fra un'aristocraàa dello spirito e gli <c ordini inferiori o stranieri » sì fa in-sostenibile, Essere riflessivi significa essere insieme il sog-getto e il proprio oggetto diretto. Il poeta, che Platone bandi dalla sua Repubblica^ soggettivista l'oggetto, o me-glio, fa dell'intersoggettività la caratteristica modalità post-moderna dell'esistenza umana.

Forse è perfettamente naturale che un'antropologia della performance debba muovere incontro ai professioni-sti ddla performance drammatica che cercano nell'antro-pologia alcuni dei loro supporti teorid. Con il rinnovato accento siJla società come processo pimteggiato da perfor-mance di vario tipo, si è s^uppata l'idea die generi quali il rituale, la cerimonia, il carnevale, la festa, la partita, lo spettacolo, la parata e gli eventi sportivi possano costitui-re, su vari livelli e in vari codid verbali e non verbali, un insieme di metalinguaggi che si intersecano a vicenda. Il gruppo o la comunità non si limita, in queste perfor-mance, a 'fluire' all'unisono, ma cerca, più attivamente, di comprendere se stesso per trasformarsi. Questa dialettica tra 'flusso' e riflessività caratterizza i generi della perfor-mance: una performance riuscita di qualsiasi genere tra-scende l'opposizione fra schemi di azione spontanei e au-tocosdenti.

Se mai gli antropologi prenderanno sul serio Tetno-drammaturgia, la nostra disdplina diventerà qualcosa di più di un gioco conoscitivo giocato nelle nostre teste e trascritto su qualche rivista noiosa (diciamocelo). Dovre-mo diventare noi stessi attori, e portare al loro compimen-to umano, esistenziale, quelli che finora sono stati soltanto irotocolli intellettualistid. Dobbiamo cercare di superare i imiti delle strutture sia politiche che conosdtive con l'em-patia e la simpatia drammaturgiche, che si trasformano in amicizia e addirittura in amore man mano die acquisiamo una conoscenza strutturale sempre più profonda, in redpro-cità con i sempre più autocosdenti ethnoiy barbaroi^ goyìm^

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pagani ed emarginati, nel perseguimento di compiti comu-ni e nei rari momenti in cui questi compiti vengono tra-scesi dail immaginazione.

Note

1 Cfr. Antordn Artaud, lì teatro e il suo doppio. Tonno, Einaudi, 1968, p. 107.

2 Lo spettacolo Les Iks è del 1975, nato da un viaggio di Brook in Africa e dall'influenza del libro di Colin TumbuU del 1972, The Mountain People, ed era incentrato su una tribù africana in via di estinzione. Rimandiamo a Les Iks, con un intervento di Denis Camion e una conclusione di Jean Qaude Carrière, Paris, Centre Intemationai de Creation Théatral, 1975 e a Franco Quadri (a cura di), Feter Brook o il teatro necessario, Ediàoni ddla Biennale di Venezia, 1976.

3 Cfr, Max Gkickman, On Drama and Games and Aihletic Contests, in Secular Ritual a cura di Barbara MyerhofiE e Sally Falk Moore, Amsterdam, Royal van Gorum, 1977, pp. 227-243; Raymond FirtL, Society and its Symbols, in « Times Literary Supplenaent », 1974, n. 13, pp. 1-2.

* Per una esposizione più completa del concetto di « dramma sodale » rimandiamo alla nota 7 òeH'ìntroduzione,

5 BriMiisIaw Malinowsld, Crime and Custom in Savage Society (1926), Paterson, Lottlefield, sxl.; ttad. it. Diritto e costume nella società primi-tiva, Roóaa, Newton Compton, 1976.

6 Mandiester, Mandiester University Press, 1957, pp. 95-116. 7 Ibidem, 8 Cfr. Victor TUMET, The Drums of Afflictin. A study of BJSU^OUS

Processes among the Ndembu of Zambia, Oxford, The Clarendon Press, 1968, capitdi VD e VIII.

9 Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) raccoJse una serie di ctítidie scritte in qualità di Dramaturg al Deutsdies National Theater di Ámburp tra il 1767 e il 1769 presentate con il titolo Hamburgtsche Dramaturgia, trad. it. Drammaturgia d'Amburgo, Bari, Laterza, 1956, H Dramaturg è Tautore che fa consulente artistico sia per le scelte letterarie sk per la traduzione o riscrittara dei testi da mettere in scena. In questi ultimi anni a seguito degli esempi soprattutto tedeschi (dove autori famosi, come Botibo Strauss, sono stati Dramaturg di registi altrettanto famosi, come Peter Stdn) andie da noi si sono avuti molti casi di Dramaturg, sceneggiatori, consulenti letterari.

Richard Hornby, Script into Performance, Austin-London, Univer-sity of Texas Press, 1977, p. 63.

" Ibidem, pp, 197-199.

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Capitolo quarto

La redtazioiie nella vita quotidiana e la vita quotidiana nella recitazione

Actìng, come tutte le parole 'semplici' anglosassoni, è una parok ambigua: può significare fare delle cose nella vita quotidiana, oppure eseguire ima performance sulla scena o in un .tempio« Può aver luogo in circostanze ordi-narie o straordinarie. Può essere un modo di operare o di muoversi, come Inazione' di un corpo o di una maccliina; oppure può essere l'arte o professione di recitare nei dram-mi. Può essere il massimo della sincerità (Paffidarsi defllo a una linea d'azione per motivazioni etiche, magari per rag-giungere la propria Verità personale"), o il massimo della finzione, quando si 'recita una parte* per nascondere qual-cosa o per dissimulare. Il primo caso è l'ideale del « teatro povero » di Jerzy Grotowsld il secondo capita tutti i giorni 'sul lavoro'. Una spia, un truffatore, un ageni pro-vocateur, sono tutti abili nel 'recitare'. Lo stesso individuo, in situazioni diflEerenti, può nello stesso giorno 'inscenare' un'azione [actì o 'recitare [to acti divinamente'. E tutta-via nel nostro linguaggio corrente questi opposti coincido-no; parliamo di 'giocare un ruolo* riferendoci a qualche attività seria della sfera civica, come ü ruolo consultivo di un presidente. E d'altra parte parliamo di una 'grande interpretazione* sul palcoscenico come della fonte di alcune delle nostre cognizioni più profonde e più 'vere' della con-dizione umana. Perciò acting è insieme lavoro e gioco, so-lenne e ludico, finzione e verità, il nostro traffico e com-mercio mondano e ciò che facciamo o a cui assistiamo nel rituale o a teatro. La stessa parola 'ambiguità' deriva dal latino agere^ equivalente a to act y poiché viene dal verbo ambigerey « vagare », composto da ambi-^ « intorno, attor-no », e dñ agerCy « fare », che insieme producono il senso di avere due o più possibili significati, di <c spostarsi da un lato all'altro », e di « avere una dubbia natura ». In entram-

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bi i suoi significati fondamentali, di compiere azioni e di eseguire performance, Vacting è indispensabile per la sa-lute mentale; come dice William Blake, « Obi desidera ma non agisce [acts'\ alleva pestilenza il «proverbio infernale » che corrisponde a: « Aspettati veleno dall'ac-qua ferma y> Nelle lingue occidentali Tazione ha anche un sapore di contestazione. L'azione è « agonistica ». AttOy agone y agonia, agiiare^ derivano tutti dalla stessa radice indoeuropea ^ag-, « spingere », da cui ebbero origine il latino agere, <£ fare », e il greco àgein («r^tv), « condur-re ». Ndia oiltura occidentale (euro-americana) sia il lavo-ro che il gioco hanno questo carattere di spinta, di con-flitto, che precede di molto la famosa etica protestante di Max Weber. In quei generi di performance cuUurde che anticiparono il teatro greco (ad esempio la recitazione di miti, il rituale, l'epica o la saga orali e la narrazione o la recitazione di ballate e di Marchen), guerre e contese fra gruppi di divinità o fra dan e stirpi guidati da eroi ben armati, cosi come competizioni per assicurarsi una posi-zione sodale, il potere, o le scarse risorse disponibili, con-flitti fra gli uomini per le donne, e divisioni fra parenti stretti erano vividamente rappresentati e riprodotti nella mimica.

Phyllis HartnoU^ tratta dello sviluppo della tragedia greca dal ditirambo (o inno corale) cantato intomo allWtare di Dioniso durante certe feste religiose. H ditirambo, un canto di lode a Dioniso, originariamente in forma lirica, venne a trattare la sua vita e il suo mito attraverso un processo analogo a quello con cui i primi drammi liturgici dell'Europa medioevale die trattavano la nasata, la vita e la resurrezione di Cristo, narrazioni cariche di conflitti, si svilupparono dalla sezione lirica della messa pasquale. Naturalmente la messa, Teucarestia, era essa stessa un dramma con xm copione scritturale molto prima di dare origine alle sacre rappresentazioni. H ditirambo greco si estese fino ad indudere non solo le leggende dionisiache, ma andie quelle degli dei, semidei ed eroi alcuni dei quali erano considerati come i primi progenitori d ^ Elleni e dei loro vicini mediterranei.

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Le gesta di questi eroi, buoni o cattivi — scrive la Hartnoll — le loro guerre, lotte, matrimoni, adulteri, e le sorti dei loro figli, die tanto spesso sofírivano per le colpe dei genitori, sono una fonte di tensione drammatica, e danno origine a un elemento essenziale di conflitto; fra uomo e dio, bene e male, figlio e genitore, dovere e indinaaone. Questo può condurre alla comprensione reciproca e alla riconciliazione fra le parti in conflitto (poiché una tragedia greca non finisce necessariamente male) oppure all'incomprensione e al caos. Le trame di tutte le tragedie greche erano già perfetta-mente note agli spettatori. Facevano parte del loro retaggio reli-gioso e culturale, poiché in molti casi risalivano all età omerica* Quindi Tinteresse per il pubblico non stava nella novità della storia, ma nel vedere come il poeta tr^co avesse scelto di trattarla, e, indubbiamente, nel valutare la qualità della recitazione e le pre-stazioni del coro, sia nel canto die nella danza, circa le quali disgra-ziatamente sappiamo molto poco^.

Nei suoi limiti, il riassunto della Hartnoll è corretto. Però non menziona il fatto importante che le opere tea-trali, tanto le commedie di Aristofane quanto le tragedie di Eschilo e di Sofocle, sono, per usare i termini di Geertz, « metacommenti sociali )> sulla società greca contempora-nea, doè, qualunque sia la natura delle loro trame, deri-vino esse dal mito o da presimtì resoconti storici, sono in-tensamente 'riflessive'. Se erano « specchi messi di fronte alla natura » (o meglio alla società e alla cultura), erano specchi aUivi (di nuovo questa parola propulsiva!), spec-chi che vagliavano e anaHzzavano gli assiomi e i presuppo-sti della struttura sociale, isolavano i mattoni della cul-tura e talvolta li usavano per costruire nuovi edifici. Nubi-cuculie o corti persiane che non sono mai esistite sulla faccia della terra, ma che tuttavia erano possibili varianti basate sulle regole fondamentali delle strutture della vita socioculturale familiare o della realtà sociale empiricamen-te data.

II teatro è forse il genere più vigoroso, o se preferite più attivo, di performance culturale, ma ve ne sono molti altri, alcuni dei quali ho ^ menzionato. Nessuna società è priva di qualche forma di meta-commento, espressione illuminante di Geertz per indicare « ima storia che un gruppo racconta a se stesso su se stesso » o, nel caso del teatro, un dranama che una società rappresenta su se stes-

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sa: non solo una lettura della propria esperienza, ma una nuova rappresentazione inteq)retativa delia medesima. Nel-le società più semplici, preindustriali, vi sono spesso com-plessi sistemi di rituali (iniziatori, stagionali, terapeutici e divinatori) che agiscono, per cosi dire, non solo quali mez-zi per « ravvivare sentimenti di solidarietà sociale », come li avrebbe considerati una generazione precedente di an-tropologi, ma anche come strumenti di esplorazione me-diante i quali le diflScoItà e i conflitti del presente vengo-no articolati e fomiti di significato attraverso l'inserimen-to nel contesto di uno schema cosmologico fisso. L'ira degli dei o degli antenati può essere proposta come spiegazione dell'attuale sventura, un'ira suscitata da qualche vistosa o permanente trasgressione di usanze tramandate da tempi remoti e garantite da venerandi miti dell'origine. NeUe grandi società complesse, dove la sfera dello svago è netta-mente separata da quella del lavoro, innumerevoli generi di performance culturale sorgono in base al principio della divisione del lavoro. Essi possono essere etichettati come arte, spettacolo, sport, gioco, partite, ricreazione, teatro, letture serie o amene, e molti ¿tri. Possono essere collet-tivi o privati, appannaggio di dilettanti o di professionisti, leggeri o seri. Non tutti hanno il carattere riflessivo di molte opere teatrali greche. Non tutti hanno portata uni-versale: molti si rivolgono a interlocutori specifici (uomi-ni, donne, bambini, ricchi, poveri, intellettuali, persone di gusto medio, e cosi via). Ma in questa sovrabbondanza di generi, il cui campo è ora ampliato dai media elettronici, alcuni appaiono più efficaci di altri nel dar vita ad opere autoregolative o autocritiche, che catturano l'attenzione o accendono la fantasia di un'intera società o addirittura di un'intera epoca, trascendendo le frontiere nazionali. In una cultura complessa sarebbe possibile considerare l'in-sieme dei generi della performance e della narrazione come modalità attive ed agenti iactive and acting] della cultu-ra espressiva, come una sala degli specchi, o meglio degli specchi magici (piani, convessi, concavi, a cilindro conves-so, a sella o a matrice, per prendere a prestito le nostre metafore dalla scienza delle superfid riflettenti) in cui i

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problemi, le questioni e le crisi sociali {dalle causes célèbres ai mutamenti delle relazioni categorici macrosociali fra i sessi e le fasce d'età) vengono riflessi sotto forma di im-magini molteplici, trasformati, valutati o diagnosticati in opere tipiche di ciascun genere, poi trasferiti in un altro genere in grado di indagarne m^lio certi aspetti, findié molte sfaccettature del problema non siano state illumi-nate e rese accessibili a una consapevole azione risolutrice. In questa sala degli specchi i riflessi sono molteplici, alcu-ni ingrandiscono, altri rimpiccioliscono, altri ancora de-formano i volti die si specchiano, ma sempre in modo da provocare nella mente di chi li guarda, non soltanto pen-sieri, ma anche potenti emozioni e la volontà di modifica-re l'andamento delle faccende quotidiane. Infatti a nessu-no piace vedersi brutto, sgraziato o nano. Le deformazio-ni nello specchio provocano la riflessività. In un afEasd-nante articolo David Emil Thomas illustra come l'imma-gine allo specchio non sia sempre un riflesso fedele; può essere capovolta, avere la destra al posto della sinistra, o essere deformata in altri modi. Thomas analizza le tra-sformazioni servendosi di alcuni elementari specchi curvi, a partire dai quali vengono costruiti complicati specchi a matrice: « introducendo diverse curvature nelle superfid riflettenti, è possibile creare specchi che mutano la forma, la grandezza, Torientamento e la disposizione destra-sini-stra degli oggetti riflessi in modi teatrali e che generano turbamento »

n teatro è forse più vicino alla vita della maggior parte dei generi della performance, in quanto, nonostante le sue convenzioni e i limiti spaziali delle sue possibilità fisiche, esso è, come scrisse Marjorie Boulton ^ letteratu-ra che cammina e che parla davanti ai nostri occhi, con-cepita per essere rappresentata, potremmo dire 'recitata' lacled}, e non vista come serie di segni sulla carta e di immagini, suoni ed azione nelle nostre teste » Richard Schechner, in Performer e spettatore trasportati e tra-sformati^, d ricorda che

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La recitazione mila vita qmUdiana

il compommeato sulla scena non è libero e immediato; scaturisce invece dallo studio e dalla pratica « è recuperato )> ^ attraverso le prove o per averlo conosciuto in precedenza o perché Io si è appreso spontaneamente fin dalla prima infanzia^ o perché viene fuori durante la performance con l'aiuto di maestri, guide, guru o anziani, o perché obbedisce a regole che determinano Tesito come nella improvvisazione o n e ^ sport.

La performance, dunque, è sempre dupKce, di quella duplicità déi acíifíg di cui Ubiamo già parlato: non può sfuggire alla riflessione e alla riflessività, II fatto che il tea-tro sia cosi vicino alla vita, pur rimanendo distante da essa quel tanto che basta per farle da specchio, fa di esso la forma pió adatta per il commento o « metacommento » di un coietto, poidié la vita è conflitto, e la contestazione non è che una specie particolare di conflitto. « Senza i contrari non c'è progresso », come dice Bkke non fos-s'altro che nel senso che vita e morte, eros e dianatos, Yin e Yang, sono, per citare Freud, « etemi antagonisti »: fra parentesi, un altro termine della famiglia agere, agein, agòn. Anche quando, in certi tipi di teatro presenti in cJture differenti, sembra che Ü conflitto venga mutato o deviato o ridotto ad una lotta gaia o giocosa, non è diffi-cile scoprire i fili die collegano gli elementi della rappre-sentazione alle fonti di conflitto nei milieux socioculturali. Il fatto stesso che in certe tradizioni teatrali e naturali le scene di discordia vengano attenuate o evitate segnala in modo eloquente la loro reale presenza nella società, e può forse essere inteso come un meccanismo culturale di difesa contro il conflitto anziché come un metacommento di esso.

Si potrebbe sostenere che io abbia un interesse intellet-tuale preminente per il conflitto e per il dranama in quanto conflitto, dato che ho trattato il conflitto sociale come « dramma sociale » in diverse pubblicazioni. In effetti, mi sono trovato a dovermi difendere da critici acuti rome i miei ex-insegnanti Sir Raymond Fith e il defunto Max Gluckman, che mi haimo accusato di introdurre arbitra-riamente un modello tratto dalla letteratura (non dicevano « letteratura occidentde ma chiaramente pensavano al modello arktotelico della tragedia) per gettare luce su pro-

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cessi sociali spontaaei c±ie non sono inventati o inseriti in conven2áoni, ma sorgono da scontri di interessi o dall'in-compatibilità fra principi sodostrutturali negli scambi della vita quotidiana in un gruppo sociale. Recentemente sono stato rincuorato dalla lettura di un articolo di Geertz dove non solo sostiene « che le analogie tratte dagli studi umanistici stanno avviandosi ad assumere nella conoscen-za sociologica quel ruolo che le analogie tratte dalle arti manuali e dalla tecnologia haimo a lungo svolto nella co-noscenza fisica » ma dà anche la sua qualificata appro-vazione aUa « analogia tra dramma e vita sociale » Geertz mi aimovera fra i « fautori della teoria rituale del dram-ma », contrapposta alla « tesi àéì^azione simbolica » che sottolinea « le affinità fra il teatro e la retorica: il dramma come persuasione, il palcoscenico come tribuna legata al nome di Kenneth Burke. La sua efficace formulazione della mia posizione mi esime dal ripetere la mia. Egli scrive:

Per Turner i drammi sodali hanno luogo « a tutti i livelli dd-Forganizzazione sodale, dallo stato alla famiglk ». Essi s o r ^ o da situazioni di conflitto (un villaggio si divide in fazioni, un marito picdiia la moglie^ ima regione si solleva contro lo stato) e proce-dono verso il proprio dénouement attraverso un oomportamento con-venzionalizzato rappresentato pubblicamente. Quando il conflitto si dilata fino alla crisi, e provoca la fluidità di emozioni intensificate, nella quale le persone si sentono al tempo stesso più completamente assorbite in uno stato d'animo comune e liberate dalle loro remore sociali, per contenere e mettere ordine in questa situazione si ricorre a forme ritualizzate di autorità: processo giuridico, faida^ sacrifido, prefiera. Se esse hanno successo, la rottura è sanata e viene restau-rato lo status quo, o qualcosa die ^H assomiglia; se invece falliscono, la rottura viene accettata come irrimediabile e le cose si sfaldano in finali tragid di vario genere: migrazioni, divorzi, o assasstnii neUa cattedrale. Con diversi gradi di rigore e di aderenza ai particolari^ Turner e i suoi seguad hanno applicato questo schema ai riti di pas-saggio tribali, alle cerimonie di guarigione e ai processi giudiziari; alle insurrezioni messicane, alle saghe islandesi e ai contrasti di Thomas Becket a)n Enrico II; al romanzo picaresco, ai movimenti millenaristid, ai carnevali caraibid e alla cacda degli indiani ecdtati dal peyote; e al sommovimento polìtico d ^ armi Sessanta. Una forma per tutte le stagioni.

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il comportamento sulla scena non è libero e immediato; scaturisce invece dallo studio e dalla piaúca. « è recuperato » attraverso le prove o per averlo conosciuto in precedenza o perché lo si è appreso spontaneamente fin dalla prima infanzia, o perché viene fuori durante la performance con l'aiuto di maestri, guide, guru o anziani, o perdié obbedisce a regole che cfeterminano l'esito come nella improvvisazione o n e ^ sport.

La performance, dunque, è sempre duplice, di quelk duplicità à^acting di cui abbiamo già parlato: non può sfuggire alla riflessione e alla riflessività. Il fatto che il tea-tro sia cosi vicino alla vita, pur rimanendo distante da essa quel tanto che basta per farle da specchio, fa di esso la forma più adatta per Ü commento o « metacommento » di un conflitto, poiché la vita è conflitto, e la contestatone non è che ima specie particolare di conflitto. « Senza i contrari non c'è progresso », come dice Blake non fos-scaltro che nel senso che vita e morte, eros e thanatos, Yin e Yang, sono, per citare Freud, <( eterni antagonisti »: fra parentesi, un altro termine della famiglia agere, agein, agòn. Anche quando, in certi tipi di teatro presenti in culture differenti, sembra che 2 conflitto venga mutato o deviato o ridotto ad una lotta gaia o giocosa, non è diffi-cile scoprire i fili die collegano gli elementi della rappre-sentazione alle fonti di conflitto nei milieux socioculturali. Il fatto stesso che in certe tradizioni teatrali e naturali le scene di discordia vengano attenuate o evitate segnala in modo eloquente la loro reale presenza nella sodetà, e può forse essere inteso come un meccanismo culturale di difesa contro il conflitto atiziché come un metacommento di esso.

Si potrebbe sostenere che io abbia un interesse intellet-tuale preminente per il conflitto e per il dramma in quanto conflitto, dato che ho trattato il conflitto sociale come « dramma sociale in diverse pubblicazioni. In effetti, mi sono trovato a dovermi difendere da critici acuti come i miei ex-insegnanti Sir Raymond Fith e il defunto Max Gluckman, che mi hanno accusato di introdurre arbitra-riamente un modello tratto dalla letteratura (non dicevano <f letteratura occidentale », ma chiaramente pensavano al modello aristotelico della tragedia) per gettare luce su pro-

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cessi sodali spontanei che non sono inventati o inseriti in convenzioni, ma sorgono da scontri di interessi o dall in-compatibiKtà fra principi sociostrutturali negli scambi della vita quotidiana in un gruppo sodale. Recentemente sono stato rincuorato dalla lettura di un articolo di Geertz^, dove non solo sostiene « che le analogie tratte dagli studi umanistid stanno avviandosi ad assumere nella conoscen-za sodologica quel ruolo che le analogie tratte dalle arti manuali e dalla tecnologia hanno a lungo svolto nella co-noscenza fisica » ma dà anche la sua qualificata appro-vazione alla « analogia tra dramma e vita sociale Geertz mi aimovera fra i <( fautori della teoria rituale del dram-ma )>, contrapposta alla « tesi d¿ÍVazione simbolica » che sottolinea « le affinità fra il teatro e la retorica: il dramma come persuasione, il palcoscenico come tribuna » legata al nome di Kenneth Burke. La sua efficace formulazione delia mia posizione mi esime dal ripetere la mia. Egli scrive:

Per Timier 1 drammi sociali hanno luogp « a tutti i livelli del-rotganizzaáone sociale, dallo stata alla famiglia » . Essi sorgono da situazioni di confiitto (un villaggio si divide in fazioni, un marito picchia la moglie, una regione si solleva contro lo stato) e proce-dono verso il proprio denouement attraverso un comportamento conr venzionalizzato rappresentato pubblicamente. Quando il conflitto ú dilata fino aUa crisi, e provoca la fluidità di emozioni intensificate, nella qiiale le persone si sentono al tempo stesso piti completamente assorbite in uno stato d'animo comune e liberate dalle loro remore sociali, per contenere e mettere ordine in questa situazione si ricorre a forme ritualizzate di autorità: processo giuridico» faida, sacrificio, preghiera. Se esse hanno successo, la rottura è sanata e viene restau-rato Io status quo, o qualcosa c h e ^ assomiglia; se invece falliscono, la rottura viene accettata come irrimediabile e le cose si sfaldano in finali tragici di vario genere: migrazioni, divorzi, o assassinii nella cattedrale. Con diversi gradi di ripre e di aderenza ai p^colari . Turner e i suoi s^uad hanno applicato questo schema ai riti di pas-saggio tribali, alle cerimanie di guarigione e ai processi giudiziari; alle insurrezioni messicane, alle saghe islandesi e ai contrasti di Thomas Becket con Enrico II ; al romanzo picaresco, ai movimenti millenaristid, ai carnevali caraibici e alla caccia degli indiani ecdtati dal peyote; e al sommovimento politico degli anni Sessanta. Una forma per tutte le stagioni.

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Questa freccia del Parto deriva dall'insistenza di Geertz, in diversi dei suoi scritti, sul fatto che Tapproccio del dramma sociale restringe troppo la sua attenzione al « mo-vimento generale delle cose (corsivo mio) e trascura i multiformi contenuti culturali, í sistemi simbolici che esprimono Tethos e Teidos, i sentimenti e i valori delle culture specifiche. Egli suggerisce di ovviare a questo in-conveniente con la « analogia testuale cioè sostiene che l'analisi testuale si occupa di come si determina Vinscrizione dell'azione, quali sono i suoi veicoli e come funzionano^ e che cosa implica per l'interpretazione socio-logica la fissazione del significato astratto dal fiiisso degli eventi (la storia da d ò che è accaduto, ñ pensiero dal pensare, la cultura dal comportamento). Vedere le istituzioni, i costumi e i mutamenti sodali come in qualche modo 'leggibili' significa cambiare total-mente il nostro senso di dò die è una tale interpretazione indiriz-zandola verso modi di pensiero assai più familiari al traduttore, al l 'esita o all^iconografo che non all'esaminatore, all'analizzatore dei fattori sodali o a chi compie un sondaggio

La mia risposta a Geertz consiste semplicanente nel ribadire certi caratteri dell'approccio del dramma sociale. Egli menziona « forme ritualizzate di autorità: processo giuridico, faida, sacrificio, preghiera », che vengono usate « per contenere e per mettere ordine in questa situazio-ne » di crisi. Queste forme possono cristalHzzare Vnnicità di una data cultura, non sono forme per tutte le stagioni. E in realtà per parte mia io ho trattato spesso i sistemi simbolici rituali e giuridici degli Ndembu dello Zambia considerandoli come analoghi testudi. Però ho cercato di inserire questi testi nel contesto della performance^ anzi-ché tradurli in sistemi astratti e prevalentemente gnoseo-logici. Comunque, lo stesso Geertz ammette di fatto che oggi molti antropologi, lui compreso, usano sìa Tapproccio testuale sia quello drammatico, a seconda del problema e del contesto. Alcuni di questi fraintendimenti e apparenti contraddizioni possono essere eliminati se esaminiamo la relazione fra le due modalità òéS!acting (nella « vita vera » e « sulla sc&m ») intese come componenti di un sistema dinamico di interdipendenza fra dranmii sociali e perfor-

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mance culturali. Sia le analogie drammaturgiche che quelle testuali cadono allora a proposito.

Richard Schechner raffigurò questa relazione con l'im-magine riprodotta nel secondo capitolo di un otto coricato tagliato in due da una linea. I due semicerchi sopra la linea divisoria orizzontale rappresentano la sfera pubblica visi-bile, manifesta, quelli sotto la sfera latente, nascosta, forse addirittura inconscia. L'anello o occhiello sinistro rappre-senta il dramma sociale, suddiviso nelle sue quattro fasi principali: rottura, crisi, compensazione, denouement po-sitivo o negativo. L'anello destro rappresenta un genere di performance culturale: per i nostri scopi attuali, un dramma scenico o letterario. Si noti die il dramma sodale manifesto agisce suUa sfera latente del dramma scenico; la sua forma caratteristica in una data cultura, in un dato contesto spaziotemporale, influenza inconsciamente, o forse preconsciamente, non solo la forma ma anche il contenuto del dramma scenico di cui è lo specchio attivo o 'magico'. Il dramma scenico, quando si propone qualcosa di più che di divertire (benché il divertimento resti sempre uno dei suoi scopi vitali) è un metacommento, esplicito o implicito, consapevole o inconsapevole, dei principali drammi sociali del suo contesto sociale {guerre, rivoluzioni, scandali, mu-tamenti istituzionali). Non solo, ma Ü suo messaggio e la sua retorica retroagiscono suUa struttura processuale laten-te del dramma sociale e in parte ne spiegano l'immediata ritualÌ22azione, Adesso la vita stessa <Uventa uno specchio posto di fronte all'arte, e i viventi fanno adesso delle loro vite una performance y poiché i protagonisti di un dramma sodale, di un 'dramma esistenziale', sono stati rifomiti dal dramma letterario di alcune delle loro opinioni, fantasie, tropi e prospettive ideologiche più rilevanti. Nessuno di questi due rispecchiamenti redprod, della vita da parte dell'arte e dell'arte da parte delk vita, è esattamente fede-le, perché entrambi non sono specchi piani ma specchi a matrice; ad ogni scambio si aggiimge qualcosa di nuovo, e qualcosa di vecchio viene perduto o scartato. Gli esseri umani imparano attraverso l'esperienza, anche se reprimo-no fin troppo spesso l'esperienza dolorosa, e forse l'espe-

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rienza più profonda è quella die avviene attraverso il dram-ma; non attraverso il dramma sociale o il dramma scaiico (o i suoi equivalenti) presi separatamente^ ma nel processo circolatorio o oscillatorio della loro modfficazione recipro-ca e incessante.

Se si dovessero fare ipotesi circa le origini, k mia con-gettura sarebbe die tutti i generi di performance culturale, dai riti tribali agli spedai televisivi, sono potenzialmente racchiusi nella terza fase del dramma sodale generico (che è come la condizione generale di mammifero che ancora conserviamo attraverso tutto il processo di irradiamento sul globo terrestre di forme sprafiche di mammiferi, adatte alla sopravvivenza in particolari nicchie ambientali): la fase del processo di compensazione. In \m dramma sodale, la prima fase ha luogo quando una o più norme sociali con-siderate come vincolanti e come supporto delle relazioni chiave tra individui o sotto-gruppi in una comunità più o meno imita, vengono infrante o troppo scopertamente igno-rate. Spesso c'è un'azione simbolica che attira l'attenzione collettiva sulla rottura. C'è un atto di disobbedienza d-vile; un Tea Party di Boston; un cacciatore africano che offende e sfida il capo del suo villaggio rifiutandogli la por-zione di carne che gli spetterebbe per diritto ereditario; e altre cose del genere. Una volta accaduto questo, nessun membro del gruppo può chiudere gli occhi di fronte alle sue implicazioni. Nefla fase successiva, la crisi, la gente prende posizione, appoggiando o colui che ha violato la regola o il bersaglio della sua azione. Si formano fazioni, coalizioni, cricche, d si scambiano parole di fuoco, e a volte si giunge alla violenza vera e propria. Precedenti alleati possono contrapporsi, precedenti nemid unirsi. Di solito il conflitto è contagioso: riemergono antiche ruggini, antiche ferite si riaprono, ricordi sepolti di vittoria o scon-fitta in contese precedenti vengono disseppelliti. Infatti nessun dramma sociale si conclude mai definitivamente: le condizioni della sua cessazione sono spesso le stesse sotto cui ne sorge uno nuovo. L'unità e la continuità della co-munità possono essere minacdate. Tutto questo può avve-nire 'a bassa voce' oppure 'a voce alta': le armi possono

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essere sguardi, g^ti, parole, cazzotti, lance o armi da fuoco. Quando Tintegrità della comunità è in tal modo minaoia-ta, coloro che sono ritenuti responsabili della sua continui-tà e della forma strutturale di tale continuità, in parole povere dell'ordinamento politico, muovono al contrattacco per frenare il contagio della rottura dilagante, e tentano prima di contenere e poi di eliminare la crisi. Questi agen-ti della compemaúone possono essere capi, anziani, avvo-cati, giudici, militari, preti, sciamani, indovini, padri, madri, giurati, panchayat di uii villaggio: spesso essi sono i depositari e i rappresentanti della l^ttimità e defla con-formità a regole, modelli o principi stabiliti.

Ma a volte accade che gli agenti della compensazione e gli strumenti dì cui dispongono (tribunali, parlamenti, assemblee, conciÜi, eserciti, polizia, tavoli delle trattative, apparati divinatori, oracoli, facoltà di maledire e di bene-dire) abbiano perduto o stiano perdendo la loro autorità, l^tttmità o dSGícacia agli occhi dei membri del gruppo. La risposta alla crisi può allora venire da im gruppo che mira a una modificazione o a una ristrutturazione in qual-che maniera decisiva dellbrdine sodale, dalle riforme alla rivoluzione. Un tale scontro fra partiti conservatori e ri-formatori può creare una nuova crisi quando i rappresen-tanti Aél^ancien e quelli del nouveau regime si fronteggia-no. La compensazione in questo caso può assumere la forma di una guerra civile, di im'insurrezione o di una rivoluzione. Molto dipende dalla grandezza e dalle dimeti-sioni del gruppo e dk grado di sviluppo raggiunto daUa divisione sociale ed economica del lavoro. Questi fattori determinano le modalità di compensazione che vengono applicate o ideate. Nelle società statali con strutture so-ciali gerarchiche, ü fallimento dei tentativi di risolvere k crisi a liveflo locale o regionale può sfociare in un'azione di compensazione condotta dalle autorità politiche o giu-ridiche centrali, che operano attraverso i loro tribunali e la polizia. Nelle società più semplici, prealfabete e senza stato, il meccanismo di compensazione è spesso di due specie, giudiziario o rituale. L'azione giudiziaria può con-sistere nell'arbitrato ufficiale o ufficioso da parte degli an-

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La redtmone ndla vita quotidiana

ziani nella convocasáone di un tribunale del capo con tanto di consideri e assessori, o nel ricorso alla vendetta ^ di sangue o aUa faida. Ma quella che qui d interessa par-1 ticolarmente è l'azione ritude. In molte società di piccole | dimensioni quelli che nella tradizione culturale ocddenta-l le distinguiamo come ordine sociale, ordine morale e ordini ne natu¿le, sono considerati come un unico ordine com-f posto dà elementi visibili ed invisibili. Il termine sovrani naturale y come anche lo stesso termine naturay è tm con-| cetto teologico-filosofico occidentale. C!osi una malattia of una disgrazia nella comunità, personali oppure epidemiche/ possono essere concepite come il risultato dell'azione di spiriti ancestrali invisibili, offesi da attività malvage occul-te o palesi (stregoneria o alterchi) fra i membri della co-munità che da essi discendono. Oppure possono essere attribuite alla segreta malvÉ tà di streghe o stregoni vi-venti. Se l'esplodere della malattia o di una serie di eventi sfortunati (pestilenze, invasioni di locuste, uragani, care-stia, siccità, scorrerie inattese di stranieri, scomparsa degli animali di una certa specie) coincide con le rotture di re-gole e relazioni all'interno della comunità, e non sembra esserci alcuna soluzione razionale del conflitto nel quadro della legge tradizionale, si può ricorrere alla divinazione o agli oracoli, procedure per indagare le cause invisibili del conjflitto e per prescrivere il tipo appropriato di rituale die propizi o esorcizzi lo spirito nefasto o lo spirito fami-liare della strega. Rituali del genere, che nel contesto cen-troafricano ho chiamato « rituali di afl3[izÌone » si tro-vano in molte società, e spesso sviluppano un daborato simbolismo. A volte sono assodati a miti cosmogonia o cosmologid che spiegano come la morte e i malanni di varia spede sono giunti nel mondo degli uomini. In que-ste società il rituale è raramente qud tipo di importa-mento rigido, ossessivo, a cui siamo abituati a pensare dopo Freud. È piuttosto un'orchestrazione di azioni e og-getti simbolid in tutti i codia sensoriali (visivo, auditivo, cinestetico, olfattivo, gustativo), pieno dì musica e di danza e con interludi di gioco e di divertimento. Può compren-dere la pittura, inclusa quella del cx>rpo, la scultura, Tinta-

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gliare il legno, la musica strumentale e corale, un tratta-mento me<Èco sistematico (ai pazienti sono somministrati pozioni e bagni di erbe, inalazione di vapore, eccetera, come parte del processo rituale), un intreccio drammatio) (gli officianti del rito spesso recitano la parte de^ dei, degli eroi culturali, degii antenati o dd demoni quali sono de-scritti nei miti), cudna festiva (certi generi di cibo e di bevande sono riservati ai riti in onore di divinità o di spi-riti particolari), prediche e omelie (poiché i rituali di que-sto tipo consentono una grande libertà di comportamento verbale innovativo, spesso considerato come serie di mes-saggi trasmessi dagli spiriti attraverso medium o sciamani da essi posseduti), analisi psicologica (gli indovini cercano dì scoprire le tensioni e i rancori nascosti in seno alla co-munità, che sono ritenuti responsabili della calamità), dramma danzato e coreografia basati su r^ole prestabiKte', e molte altre modalità estetiche e conoscitive che più tardi si specializzeranno sotto forma di professioni pararituali, semi-secolari e infine pienamente secolari nelle società più complesse.

Non solo i rituali di afflizione, ma anche quelli che se-gnano i momenti critid della vita individi¿le (nasata, pubertà, matrimonio, funerale e cose del genere) e i riti stagionali (rito dei primi frutti, del raccolto, del solstizio, eccetera) hanno un rapporto con il conflitto. Mentre i ri-tuali di afflizione sono spesso una r^ione diretta alla disgrazia considerata come un sintomo manifesto di un conflitto nascosto, gli altri tipi fondamentali possono esse-re intesi come misure profilattiche contro il conflitto, die lo prevengono e lo evitano dimostrando vividamente i vantai della cooperazione. Nel mio libro La foresta dei simboli ho mostrato ad esempio che sia il rituale di drcon-dsione dei ragazzi {Mukanda)^ sia il rito di pubertà delle ragazze {Nkang'a) presso la popolazione Ndembu dello Zambia rappresentano in forma drammatica le divisioni e opposizioni fra uomini e donne che caratterizzano questa sodetà matrilineare, divisioni generate dalle usanze stesse, in base alle quali la collocazione in un gruppo, Peredità e la successione sono trasme^e dal Iato materno, mentre il

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La recitazione neUa vita quoHdiima

potete e rautorità, le cariche di capotribù e di capo di im villano, sono detenute dsgli uomini e dalle donne che dopo il matrimonio lasciano le proprie madri e i propri familiari per andare a vivere nel villaggio dei loro mariti. Questo conflitto strutturale fra la continuità strutturale femminile e Tautorità attuale maschile è il « tarlo immor-tale » della cultura Ndembu, anche se proliferano rituali, miti e simboli volti a mascherarlo, nasconderlo, stornarlo o giustificarlo

In breve, sto dicendo che i generi di performance delleA società complesse, industriali, cosi come molte delle loro | istiturioni forensi e giudiziarie, il palcoscenico e il tribu- i naie, affondano le loro radici nel permanente dramma so-1 dale dell'umanità, in particolare nella sua fase di compen- sazione, dramma che ha la sua origine diretta nel conflittc sociale strutturale, ma dietro al quale c è forse un'endemi ca irrequietezza evolutiva; poiché a quanto pare siamo unà specie a cui vengono rapidWente a noia ^che i più van-taggiosi fra i suoi meccanismi culturali di adattamento, LTJomo del Sottosuolo di Dostoevskij disprezzava l'uto-pia in nome della sua libertà di scegliere dò che non era perfetto, o che era addirittura definibile come crimine o peccato. E non diceva forse Goethe, a proposito di Faust apparentemente dannato: <(Noi possiamo redimere chi, sempre tendendo, si affatica » Da questo punto di vista il dramma sodale d mantiene vivi, d dà dd problemi da risolvere, allontana Vemui, garantisce quantomeno la cir-colazione della nostra adrenaÌba, e d stimola a nuove, in-gegnose formulazioni culturali della nostra condizione di uomini, e ogni tanto a tentativi per renderla migliore o addirittura bella.

Tuttavia nelle sodetà più semplid, preindustriali, può spesso fare il suo corso Finterà sequenza delle scene, rottu-ra, crisi, compensazione, restaurazione della pace attraverso la riconciliazione o la comune accettazione dello scisma, poiché la compensazione, sia essa giudiziaria o rituale, si fonda su di un ampio o addirittura generale consenso po-polare sui valori e sul significato, Ndle sodetà complesse, pluralistiche, divise in dassi, razze, fasce d'età e sessi, che

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danno rilievo alla competizione, al mutamento, all'indivi-dualismo, alla creatività e all'innovazione, è meno proba-bile che si riesca a ottenere l'accordo generale su scala na-zionale o ndla società nd suo amplesso. Nondimeno, per le stesse ragioni, è altamente probabile die venga prodotta xmst moltitudine di modelli cÜ ordine sodale, utopistid o di altro genere, e una molteplidtà di sistemi religiosi, po-litid e filosofia per attribuire significato agli eventi tipid dell'epoca, modelli e sistemi che operano attraverso una ampia varietà di forme retoriche e di altri mezzi di persua-sione, E poiché non la persona sodale {il fasdo di status e di ruoli che costituisce la personalità sociale), ma l'indi-viduale-nell'-universale è il produttore e in ultima analisi anche il pubblico di questi modelli raccontati, drammatiz-zati, o codificati esteticamente in altro modo (la corte d'ap-pello finale, per cosi dire), non è affatto sicuro che in qua-lunque crisi importante si riesca a raggiungere un pieno accordo circa le condizioni sotto le quali la pace e l'ordine potranno alla fine essere restaurati. Di qui il paradosso del-Tetà contemporanea, per cui in un mondo che tiene in ono-re TapprencHmento, ralfabetizzazáone, le argomentazioni, i negoziati, la persuasione e la legalità, molti dd prindpali drammi sociali vengono risolti con la forza delle armi, 'ta-gliando il nodo gordiano", la semplice e rapida soluzione per problemi di qualsiasi complessità o più difficili della media. Ecco perctó tante nazioni vivono oggi sotto regimi militari. Dove domina il dissenso quanto al significato, il consenso può essere sostituito dalla forza. Naturalmente coloro che con la forza si sono impadroniti dd potere e hanno risolto le questioni tentano poi di educare soda-mente i giovani nei termini di un sistema di credenze unico e semplificato, che definisce la legittimità in modo tale che i drammi sodali possano di nuovo avere un mec-canismo di compensazione accettato da tutti, pesantemen-te saturo di rituale secolare. In queste sodetà i generi di performance culturale che hanno in gran parte sostituito i rituali e i processi giudiziari delle sodetà tribali e feudali, nel corso della trasformazione di queste in sodetà più com-plesse basate su ordinamenti industrializzati e urbanizzati e

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SU sistemi di commercio intemazionale, sono spesso sogget-ti a pesanti attacchi poiitid. Le moc^tà industrializzate

. di ritribalizzazione su scala nazionale di cui abbiane avuto esperienza in questo secolo, dbe la loro ideologia politica fosse di sinistra, di destra oppure di centro, doè i sistemi totalitari o organídstici, sono accomunati dall'opposizione alla diversità nel pensiero e nel modo di vivere, poiché la diversità conduce alla soluaone lenta dà drammi sociali, qualunque sia il livello o il luogo in cui essi si manifestano nel proceso sociale o nel contesto nazionale, e questo dif-ferimento della soluzione della crisi può portare ad una critica delle premesse fondamentali dell'ordinamento po-litico stesso. Si può sostenere die la ritribalizzazione, a livello degli enormi sistemi politid industrializzati, sia in realtà in acuta contraddizione dialettica con il modo di produzione moderno, la cui diversificazione e capadtà di essere cx)n^uamente all'altezza di nuove tecnologie (ad esempio computer, la miniaturizzazione, la robotizzazione dell'industria, e simili), richiede una uguale diversificazio-ne nella sfera della cultura, e spedalmente in quegli aspet-ti di essa che hanno a che fare, direttamente o indiretta-mente, con la compensazione dd drammi sodali che erom-pono costantemente dalle nuove relazioni produttive e dan-no luogo a nuovi generi di conflitto sociale. Paradossalmen-te la ritribalizzazione, « una sola Legge per il Leone e per il Bue », come forse l'avrebbe definita Blake ^ (il che « è oppressione »), viene condotta sotto l'egida della evolu-zione verso uno stadio più alto' della sodetà. La ritriba-lizzazione, che si definisca fascista', 'sodaKsta', 'comuni-sta', o come qualsiasi altra forma di controllo autoritario o totalitario, deve cercare di controllare le crisi di ogni tipo non solo con la forza, ma anche con la reritualizzazio-ne della terza fase di ogni dramma sociale, quella della compensazione: per questo dà una complicata forma ritua-le ai processi agli eretid e ai rinnegati, come quello recen-tissimo alla Banda dd Quattro in Cina. Quindi, quando Tinventività umana individuale e le tradizioni collettive del know-how tecnico penetrano nell'infrastruttura econo-mica, sorge una contraddizione fra la molteplidtà e la di-

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versità delle forze e dei mezzi di prcwluzione e le strutture statali monolitiche il cui controllo dei mezzi di produzione reprime la creatività a livello di forze e relazioni produttive.

Í II rituale, diversamente dal teatro, non fa distinzione ¿fra attori e spettatori. C'è invece una congregazione i cui Ueader possono essere preti, funzionari di partito, o altri } specialisti del rituale religioso o secolare, ma tutti condivi-Icfono, sia nella forma che nella sostanza, uno stesso insie-fme ài credenze e accettano Io stesso sistema di pratiche, gli stessi insiemi di azioni rituali o litui^che. Una congre-gazione ha la funzione di ajffermare Pordine teologico o cosmologico, esplicito o implicito, sostenuto dall'intera co-munità, e di attualizzarlo periodicamente per se stessa e inculcarne i dogmi fondamentali nei suoi membri più gio-vani, spesso in una serie graduata di rituali che segnano i momenti critici della vita, doè i passaggi dalla nascita alla morte attraverso la pubertà, il matrimonio, Tiniziazio-ne a prestigiose società segrete, il progresso ordinato attra-verso \m sistema di educazione che comporta l'indottrina-mento cumulativo, e cosi via. H teatro, dal greco theasthaì che significa « vedere, guardare », è assai diverso. Sche-chner ha sostenuto che

n teatro nasce quando avviene una separaziofte fica spettatoti e attori. La situatone paaradigmatica del teatro è quella di un gnippo di attori che sollecitano un pubblico il quale può reagire venendo ad assistere allo spettacolo oppure no. Il pubblico è libero di venire ad assistere o di restare a casa, e se resta a casa è il teatro che ne sofEre non il suo pubblico potenziale. Nel rituale, restarsene a casa significa rifiutare la congregazione, o essere rifiutati da essa, come ndla scomunica, ndl'ostracismo o nell'esilio^.

Si potrebbe aggiungere che non è un peccato mortale non andare ad assistere a un dramma di Ibsen, di Cechov, di Brecht o di lonesco, ma che ima volta era peccato morta-le non andare ad assistere alla messa della domenica: in que-sto caso ci si chiede se la chiesa cattolica non si stia avvian-do a considerare se stessa come una forma di teatro, andhe se per ironia esige una maggiore partecipazione congrega-zionale da parte dì coloro die effettivamente assistono ai

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suoi riti. Negli stati totalitari si giunse a considerare pec-cato il non partecipare ad un comÍ2áo locale di figure poli-tiche di rilievo nazionale: chi non partecipava era virtual-w^tc un dissidente.

E ora tomo alla mia tesi originaria per cui la vita quo-tidiana è intrinsecamente connessa alla recitazione e vice-versa. Mi sembra che sia il tribalismo sia la pretesa ritri-balizzazione pongano l'accento sulla struttura sodde^ e con essa sui ruoli, gli status e le posizioni che ne costituiscono le componenti gerarchiche (e che insieme compongono la persona strutturale) a scapito di quello che molti pensatori sociali, da Durkheim a Kenelm Burridge, hanno chiamato <c l'individuo ». La « persona — sostiene Burridge — si accontenta delle cose come sono, Tindividuo pone un in-sieme alternativo di discriminanti morali »

« L'individuo », o Pindividuale-nell'-universale, è un concetto che sorge piuttosto tardi nelle culture umane più complesse. Burridge collega le sue prime forme a quello che io, seguendo Van Gennep, hovdiiamato il periodo limi-nole nei riti di passaggio da uno status o condizione so-ciale a un altro, alla nascita, nel momento della pubertà, del matrimonio, della morte, e cosi via. Il periodo liminale è quel luogo spaziotemporale situato in una posizione inter-media fra due contesti di significato e di azione, È quando l'iniziando non è più quello che era e non è ancora quello che sarà. Questo periodo è caratterizzato dalla comparsa di vistose ambiguità e incoerenze di significato, e dafl emer-gere di figure liminali demoniache e mostruose che rappre-sentano nella loro struttura intema tali ambiguità e incoe-renze. In quanto ambigue, queste figure istituiscono ima mediazione fra contesti alternativi o opposti, e perciò svol-gono un ruolo importante nel determinare la loro trasfor-mazione. Nella nostra società possiamo considerare come Viminale' il Teatro dell'Assurdo di lonesco, di Arrabal e di Beckett, andie se io preferirei il termine 'liminoà/<?', per quanto sia uno stridente n«)logismo, che indica qual-cosa che è insieme simile al liminale dei rituali tribali e feudali, e forse derivato da esso, e diverso dal liminale in

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quanto è più spesso il prodotto ài un'ispirazione individua-le che non di quella collettiva, ed è critico anádbé perse-guire i fini dell'ordine sociale esistente. Nelle società pre-alfabete il concetto incipiente di individuo compare, ma spesso in forme velate o limitate. Burridge espone alcune teorie interessanti su questo proio- o Ur- individuo. Egli considera quello die chiama « il sé » non come un'mtità statica, ma come un movimento, una energia dhie oscilla tra la persona strutturale e l'individuo potenzialmente an-tistrutturale. Questo gli consente di scrivere:

n periodo liminale diventa uft'inttoduáone e un esame per resistenza morale. Riproducendo in termini universali la trasfor-mazioDe dalla natura alla cultura, i riti di pubertà riuniscono le omiponenti dell'esistenza e costringono le facoltà culturali ad afron-tare le opposizioni e le corrispondenze tra le sfere di esistenza animale, morale e spirituale* Per usare un'altra terminologia, al-riniziando si cMòle di valutare la commucitas e Tantisttuttura (dove gli essed umani, spogliati dei lom ruoli, status, relazioni di appartenenza e codici m o i ^ , sono in comunione come soggetti umani) confrontandole con le opposte esigenze dell'organizzazione e della stmttura. In questa situazione [continua Burridge] la maggior parte degli iniziandi, non riuscendo a sottrarsi al condi-zionamento subito in passato da parte del parentado e dei confor-misti, si attengono all'aspetto più ovvio od esplicito del rituale. Alcuni, comprendendo intuitivamente die i simboli e le attività simboliche contengono \m mysterium (una latenza, una nota ^ promessa, un invito a penetrare ciò che si nasconde dietro ai-Towio e all'esplicito), possono percepire e dare ordine a una verità che, non essendo in grado di opporsi alle pressioni del conformismo, serberanno in segato per tutta la vita. Altri si perdono nel caos, incapaci di trasformarlo in ordine. Pochi perseverano e vengono introdotti in zone che ü latx» manifesto dei simboli culturali tiene celate ai più. Ma mentre Taffermazione di una verità scoperta richiede una sosta, una negazione ne genera un'altra e la scoperta diventa un v i a ^ o continuo. Il centro deUa verità sembra farsi sempre più lontano ad ogni assalto sferrato dalle sue estreme zone periferiche. Ciascun traguardo, per trasformarsi in un nuovo punto di partenza, ridiiede una scelta morale, e ciascuna partenza implica una ulteriore trasformazione del sé in relazione all'altro da sé^.

L'uomo cresce attraverso Tantistruttura e conserva at-traverso la struttura. Altrove, e pensando evidentemente all'<c individuale nell'universale » che Durkheim attribuisce

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La recHazkme nella vita quotidiana

all'età successiva al Rinascimento, Burridge scrive dhe l'in-dividuo è il crítico della morale che aspira ad un altro genere di ordine sodale o morale, la scintilla creativa che resta sospesa e pronta a cambiare la tradizione. Tuttavia, se alcuni sono completamente individui ed altri persone, la comune osservazione mostra che la m a ^ o r parte della gente è per certi aspetti e il più di frequente persona, maitre sotto altri aspetti e in altre circostanze si può rivelare come indi-viduo. E questa visibile oscillazione fra persona e individuo (non importa se in un caso particolare il movimento sia unidirezionale o di andata e ritomo) può essere identificata con Vindividudità, Detto altrimenti, il termine « individualità » si riferisce alla possi-bilità e capacità di muoversi dalla persona all^individuo e/o vice-versa 25

Probabilmente Burridge intende dire che in una socie-tà già caratterizzata dalla possibilità di fare mote scelte, un individuo biologico può decidere di essere persona al máximo grado, un 'colonnello sudista', 'una vera signora', 'un grande attore', 'un senatore del nord', 'un caro vecchio maestro di scuola', un 'temperamento materno', o anche un 'eccentrico', oppure può decidere di essere un individuo che sfugge a qualsiasi identificazione con le personae sociali disponibili.

Nella società occidentale liberal-capitalistica, il teatro è un processo liminoide che si svolge nel tempo liminoide dello svago fra i tempi del 'lavoro' nei quali si gioca im ruolo. È, in un certo senso, 'gioco' Iplayl o 'intratteni-mento' [entertainment^, (che etimologicamente significa « tenuto nel mezzo », cioè è un fenomeno liminale o limi-noide). Ho ipotizzato che esso in origine sia uno dei generi derivati per astrazione dal primitivo 'rituale' che coinvol-geva l'intera società e faceva parte sia del 'lavoro' che del 'gioco', prima che la divisione del lavoro e la sp^ializza-zione frantumassero questo grande ensemble o Gestdt in professioni e attività specificale. In origine il teatro aveva, fra le altre cose, il compito di risolvere le cmi che afflig-gevano tutti e di attribuire un significato alla sequenza di eventi apparentemente arbitrari e spesso di aspetto crudSe che seguiva i conflitti personali o sociali.

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La reciUmofte nella mia quotidiana

La semplice tesi che sto cercando di dimostrare (e per darle il necessario sostegno di prove c'è bisogno di un lungo lavoro di ricerca) è che nelle più semplici società preindu-striali, recitare un ruolo sodale e esemplificare uno status facevano a tal punto parte della vita quotidiana, dhe la reci-tazione rituale di un molo, fosse pure diverso da quello giocato nella vita profana, era della stessa spede di quella che ciascuno svolgeva come figlio, figlia, capotribù, scia-mano, madre, capo. La diEEerenza fra la vita ordinaria e quella rituale (o straordinaria), era più che altro una que-stione strutturale e quantitativa, non qualitativa. Nel ri-tuale, i ruoli erano separati dal flusso in atto della vita sociale in cui normalmente erano inseriti, e scelti come oggetto di una particolare attenzione, oppure erano visti come punti di entrata o di uscita in im processo continuo (da ragazzo a uomo, da ragazza a donna, da comime citta-dino a capo, da abitante del villaggio a membro di una comunità religiosa di cacciatori, da fantasma ad antenato, e cosi via) con qualche interessante simbolismo transisio-nale, e a volte l'oscuro apparire dei tratti dell"individuo' antistrutturale. Ma in queste società recitare significava principalmente giocare un ruolo; il criterio predominante dell'individiialità, dell'identità, era la persona. Perciò il vero protagonista, sia della vita che del rituale, era il gran-de collettivo che articolava le personae in strutture gerar-chiche o segmentate.

Contrapposta a questa simmetria tra la vita quotidiana e il suo doppio liminale, il rituale, troviamo l'asimmetria della 'vita' vis-a-vis e la 'recitazione' nelle società occiden-tali postrinasdmentali e pretotalitarie. Ma qui scopriamo im contrasto interessante, addirittura un paradosso. Infat-ti il teatro occidentale, come l'arte occidentale in genere, ha spesso postulato un contrasto fra la vita quotidiana, cioè il lavoro e quella parte del non lavoro dedicata a incombenze istituzionalizzate, come la famiglia, i circoli sportivi, le organizzazioni di beneficenza, i sindacati, le società segrete (Aid, Massoni, Cavalieri di Colombo, ecc.) e la vita veramente antistrutturale (religione privata, par-tedpazione a un'attività artistica in veste di creatore o di

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La recitazione, nella vita quotidiana

spettatore, e simili). La persona 'lavora', Vindividuo 'gio-ca'; la prima è dominata dalla necessità economica, Ü se-condo è 'intrattenuto'; la prima vive nel modo indicativo della cultura, il secondo in quello congiuntivo o ottativo, nei modi dd sentimento e del desiderio, contrapposti a quegli att^giamenti conoscitivi die mettono in rilievo la scelta razionale, la piena (benché riluttante) accettazione del rapporto causa-effetto, il ripudio della partecipazione mistica o delle affinità magiche, Ü calcolo dd risultati pro-babili dell'azione, e la consapevolezza realistica dei limiti di quest'ultima. Ma il teatro, pur avendo abbandonato la sua precíente forma rituale, pretende ancora di essere un mezzo per comunicare con potenze invisibili e con la realtà ultima, e può ancora sostenere, specie dopo la nascita della psicologia del profondo, di rappresentare k realtà che si cela dietro la maschera dei ruoli, e che persino le sue maschere sono, per cosi dire, 'negazioni della negazione'. Esse pre-sentano la faccia fasulla per poter rappresentare la pos9Ì-bUità di una faccia autentica. H grande teatro porta in scena addirittura l'incesto e il parricidio che si nascondono dietro le masdbere dei rapporti di parentela.

In effetti il teatro è diventato il dominio dell'individua-le-nell'-universale, di ciò che gli uomini postrinasdmentali chiamerebbero <c il vero soggetto », o William Blake « l'In-dividuo »y con la sua « Identità Definita e Determinata Nel teatro moderno i ruoli teatrali hanno di fatto scardi-nato i ruoli della vita quotidiana, dichiarandoli ''inauten-tici". Da questo punto di vista ciò che è falso e illusorio è il mondo profanoy la dimora della personay e ciò che è reale è il teatro, il mondo àéìHndividuOy e la sua stessa ^istenza rappresenta una critica permanente all'ipocrisia di ogni struttura sociale che plasmi gli esseri umani, spesso attravei^ mutilazioni psichiche e andie fisiche (piedi le-gati, busti, cibi indigeribili), nell'immagine di un comples-so di status e ruoli sociali astratti. Naturalmente ñ teatro, come tutte le forme culturali, ima volta riconosciuto come genere di performance può essere manipolato a sostegno di posizioni sociali e politiche sia conservatrici sia sovver-sive. Io sto sostenendo puramente che il sorgere del teatro

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La T&xtasàone nella vita quotidiana '

moderno e postmoderno contiene al suo interno i germi di lina critica fondamentale di tutte le strutture sociali co-nosciute finora. Il centro deìTazione si potrebbe sostenere, si è spostato dalle arene economiche e politiche della 'vita reale' nel *modo indicativo' a quello die finora era stato considerato il mondo del gioco, della fantasia, dell'illusio-ne, dell'intrattenimento, e conosciuto sotto il nome di 'teatro'. Qò è avvenuto in special modo quando il rituale religioso è stato spogliato delle sue componenti ludiche, flessibili, dei suoi clown sacri, folletti mascherati, racconti a indovinello, per far spazio ad una rigorosa solennità, al discorso serio e ufficiale sui significati o signifiés {per usare il termine di Saussure) privilegiati o trascendenti. Vacting congiuntivo, la recitazione, è ora ciò che è reale' ed 'au-tentico'; Vacting indicativo, l'agire nel cosiddetto 'mondo reale', è visto come 'ipocrita', 'inautentico', 'borghese', 'degradante' (benché gli eventi sociali più recenti sembrino segnare un'inversione di tendenza).

I Alcune forme di 'teatro sperimentale' si sono dedicate I recentemente al problema di rappresentare l'intero mondo I dei ruoli della società moderna profana con la 'recitazione' ^ come sua alternativa creativa, e la scena come il luogo dove

emerge l'individuo, che è alienato da se stesso in un mondo che insiste perché gli uomini e le donne si mascherino in una serie tremolante di personae evanescenti. Esse non

^ sono le grandiose personae^elle culture tribali o feudali, ; dove la creazione della propria 'personalità pubblica' era ! un'opera d'arte, poiché comportava, come dimostra Richard ; Sennet^, un grande stile nel vestire, nei modi e nelle

azioni, ma le personae insignificanti dei tirapiedi dell'uffi-do, della fabbrica o dell'aula scolastica, con solo più qual-che vestigio delle personae familiari rimasto per trafficare a casa con gli avanzi di una giornata faticosa. Qui Vacting profano, nel modo indicativo, appare come il dominio dd fittizio, dd falso, del rifiuto della 'identità definita e de-terminata'. A questa spede di 'agire' \_acting'\ che maestri dd teatro sperimentale (che considerano il teatro come il contraccolpo che annienta la falsità anche quando la 'mette in scena') come Grotowski, Brook, Schedbner, SuzuM ed

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La reátaúone neüa vHa quotìdiam

altri che hanno dei precursori in StanislavsMj, Dekarte, Mejmiiord e persino in Artaud, hanno 're-agito' ire-acted'] o 'contro-agito' icounter-acted]. Prendiamo, per esempio, alcune idee recenti di Grotowski: il passo dtato proviene da un'intervista die egli ha rilasciato a « Trybuna Ludu »

L'azione nella sfera della cultura attiva, quella doè che dà la sensazione di portate a compimento la propria vita, ampliare il proprio campo d^azione, è di fatto il bisogno di molti, ma continua ad essete il dominio di pochissimi. La cultura attiva è coltivata, ad esempio, da uno scrittxjre quando scrive un libro. Noi la colti-vavamo quando stavamo preparando delle performance. La cultura passiva (che è ricca e importante sotto aspetti di cui non è facile discutere proprio in questa occasione) è una rdazione con dò che è un prodotto della cultura attiva, vale a dire leggere, assistere a una performance o ad un film, ascoltare la musica. In certe dimen-sioni che possiamo chiamare di laboratorio, noi stiamo lavorando sui mezzi per estendere la sfera della cultura attiva. Quello die è 3 privilegio dd podii, può anche diventare il patrimonio di altri. Non sto parlando di una produzione di massa di opere d'arte, ma di una sotta di esperienza creativa personale, che ha un'influenza non indifferente sidla vita privata di un individuo o sulla sua vita con altri. [Poi Grotowski afiEerma esplicitamente il punto di vista secondo cui redtare è essere, e non rappresentare]. Lavorando nd campo dd teatro e preparando spettacoli per molti anni, d siamo avvicinati passo passo a una tale concezione dell'uomo/attore attivo, dove l'importante non era redtare la parte di qualcun altro, ma essere se stessi, essere con qualcuno, o essere in relazione, come diceva una volta Stanislavskij.

Negli ultimi anni Grotowski sembra avere abbandona-to del tutto il teatro per dedicarsi a quelle die definisce <c ricerche di cultura », o « esperimenti parateatrali », come il pellegrinaggio dell'estate 1977 alla Montagna dd Fuoco vicino a Wrodaw in Polonia, e il Villaggio transculturale, <c una sorta di università della ricerca » sparpagliata in di-versi paesi, « centri creativi che lavorano fianco a fianco con vari centri culturali e di ricerca di questi paesi » II carattere distintivo di questi progetti era la scx)mparsa del pubblico, e lo sviluppo di esperienze ritualÌ22sate che, al mio ocdiio di antropologo, colpiscono per la loro rasso-miglianza con gli insegnamenti e i cimenti tipid delle fasi

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La T&xtasàone nella vita quotidiana '

successive dei riti della pubertà maschili e femtnmili nel-TAfrica centrale. Qterò i titoli di alcuni di questi 'esperi-menti', che possono suggerire a qualche lettore dei paralle-li antropologici: Ve^ia notturna, La Via, La zona della paura. Il circolo del ritmo, Il circolo dell'oscurità e della voce, Il taglio (che non è, apprendiatno con sollievo, un equivalente esatto deU'opera2done di circoncisione, ma una danza « violenta benché precisa ». Il 'taglio' rappresenta un taglio di vegetali, « un seme di incontro », doè un in-contro diretto fra persone)

Uso con intenzione la parola 'persone', perché mi sem-bra che Grotowski, che è decisamente persona grata occhi del partito comunista polacco abbia abbandonato la tradizione del teatro per creare nuove forme di inizia-zione rituale che incorporano le personae desiderabili nella prima materia umana, doè formano gli uomini e le donne secondo un'immagine umanistica che si propone di sostituire forme più vecchie, in particolare quelle svilup-pate dalle grandi tradizioni religiose^. La tradizione del teatro ocddentale teneva conto del pubblico e ne rispet-tava l'esistenza indipendente in quanto giuria die doveva deridere delle ragioni e dei torti nel caso presentato dal drammaturgo, dal regista e dagli attori. Qui vorrei ripetere quanto scrissi in un recente articolo:

Mi vanno a genio la separazione dd pubblico dag i attori e la liberazione dei copioni dalla cosmologia, dall'ideok^a j e dalla teologia. Il concetto di individualità è stata una conquista difficile, e rinunciare ad esso in nome di un nuovo processo totalizzante dì riliminalizzazione è nn'idea deprimente [avevo distinto il 'limi-naie' dal 'linünoide' assodacocfo il primo alla partecipatone al rituale tribale e obbligatoria e considerando il secondo come carat-teristico di forme artistiche o religiose liberamente prodotte, di solito con il riconoscimento dell incUvidualità dell'autore e spesso con un'intenzione sovversiva nd confronti delle strutture domi-nanti]. In quanto membro di usi pubblico posso amsiderare il tema e il messaggio ddla rappresentazione come una fra un certo numero di possibilità 'congiuntive^ un modello alternativo di pensiero o dì azione che può essere accettato o respinto dopo una attenta considerazione. iPub andie darsi che pagando ü biglietto abbiamo ^comprato' la produzione dell'autore e del teatro come se fosse una 'merce', ma non per questo siamo stati costretti a 'com-

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La rmtmone ndla vita quottdiana

prate* anche le sue idee o la sua visione del moodoj Andie come pubblico la g^te può farsi 'commuovere' da una rappresentazione, ma non ha biseco di farsi 'trascinare' da essa nell'utopia, o neUa « sacralità laica », per usare l'espressione di Grotowski, di un'altra persona, H teatro liminoide dovrebbe limitarsi a presentate delle alternative: non dovrebbe essere ima tecnica di l^aggio del cer-vetto s.

Per completare la frase di William Bkke che prima ho citato solo a metà, « Una sola L^ge per il Leone e per il Bue è Oppressione ».

È vero dfie uno degli scopi della Veglia notturna nel teatro-laboratorio di GrotowsM era di consentire alle per-sone di incontrarsi « al di fuori dei loro ruoli Ma quando si leggono i resoconti di come le *giride' della Veglia not-turna 'conducevano' le persone ad intraprendere certe azioni fisiche (danzare, toccare) o a raggiungere certi stati psicologici, in modo tale, per citare le parole di ima disce-pola psicologa, Janina Dowlasz « che le emozioni umane sane potessero nuovamente liberarsi » la cosa fa pensa-re sgradevolmente non solo ai riti di drcondsione cen-troafricani, ma anche al Trionfo della volontà. H soletto spogliato dei suoi ruoli viene riplasmato da quelle che Grotowski chiama le 'guide' i n c h e cosa?

Qui vorrei tornare di nuovo per un momento all'ai^o-mentazione di Burridge, prima di trattare nuovamente del teatro postmoderno. Dopo aver attuato la distinzione fra persone e individuo, egli passava a considerare Tindivi-dualità, che è la

visibile osdilazione o movimento fra persona e individuo {poiché la maggior parte della gente è entrambe le cose), non importa se in un caso particolare il movimento sìa unidirezionale o di andata e ritomo. Detto altrimenti, il termine 'individualità' si può riferire alla possibilità e c^acità di muoversi dalla persona ^'individuo e/o viceversa^.

Ho cercato di considerare la diniensione sodale dell'in-dividuo come communìtaSy cioè essenzialmente come un modo di relazione liminoide, volontaristico, una scelta re-ciproca attuata da esseri umani totali e integrali da cui de-

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La reátmone neUa vita quotidiana

riva una limpidezza di cosdenza e di sentimenti, e a volte la generazione spontanea di nuovi modi di vedere o di essere. La dimensione sociale della persona è invece la struttura sodale organizzata, la sfera pubblica delle rela-zioni governate dafia norma o dal costume. Ma natural-mente le cose non stanno in modo cosi semplice. Persino Agostino dovette ammettere che nella storia reale la Qttà di Dio e la Città terrena erano irrimediabilmente mesco-late, e che, perché la vita familiare e la politica dttadina potessero in qualdie modo funzionare, bisognava die i fu-turi abitanti áéíUrbs CoelesHs scendessero a continui compromessi. Pare che l'individualità sia una cosa che va conquistata: e un aspetto di questa conquista, direbbe Burridge, consiste in « una valutazione dd proprio essere in relazione a catarie tradizionali o alternative » Bur-ridge considera i riti di iniziazione come mezzi sintetid per porre il dilemma persona-individuo, spede nelle loro fasi liminali, nd quadro dell esperienza e della riflessione su se stessa di una determinata cultura.

La mia opinione è che lo sperimentalismo di Schechner vada nd senso della realizzazione, attraverso il teatro, dd-l'individualità (più o meno ndl'aorezione di Burridge) più die in quello ddla produzione di un nuovo tipo umano senza classe, o 'non alienato' alla maniera fanatica di Gro-towski. Sdiechner considera se stesso, in linguaggio kier-kegaardiano, come una 'levatrice* più che come un Pigma-lione. Ci fu un periodo, riferisce, in cui tentò anch'egli di plasmare gli attori del suo Performance Group in dire-zioni che considerava <c personalmente liberatorie ». Ma nelle file scoppiò una ribellione, e Sdiechner si rese conto di essere diventato ima spede di dittatore, o in ogm caso più che un regista. Sia GrotowsH che Sdiechner (come del resto tutti i registi dd teatro sperimentale postmoder-no) rivendicano l'importanza capitale dd « processo di prova », che implica molto di più che non la realizzazione effettuale di un copione teatrde e l'apprendimento delle parti. Implica innumerevoli sedute di laboratorio, che in certi casi durano ore, in altri intere nottate, e di cui fanno parte esercizi di respirazione, e di emissione vocale, giochi

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ingegnosi, psicodrammi, danze, aspetti della tecnica yoga, e, almeno nel parateatìx» di Grotowski, i salti nelle poz-zanghere nei boschi. Tutte queste tribolazioni e prove ini-ziatiche sono volte a generare all'interno del gruppo la communifas o qualcosa di analogo. Andre Gregory, che diresse un laboratorio a Wrodaw, sottolineò che questo processo significa anche raggiungere i più intimi recessi dell'attore e risalire nei suo pas-sato [.. .] un tentativo di rá^imgqrlo, in qixanto essere umano, nel suo sottosuolo e nelle sue radici L'importante non è che si crei dell'arte e che la si dia alla gente, ma che gli uomini, esseri non indifferenti l'uno all'altro nella vita e nel lavoro, siano coinvolti nel processo creativo J . Io avevo bisogno del teatro di Grotowski non come persona che si occupava di teatro, e neppure come spet-tatore: ne avevo bisogno come essere umano

Vorrei di nuovo sottolineare che il linguaggio predi-letto da Grotowski si è allontanato da quello della rappre-sentazione teatrale per accostarsi a quello della scoperta di se stessi e del contatto e della comprensione reciproci immediati. La retorica è religiosa, andie se i discepoli di Grotowski rifiutano la religione tradizionale. Viene in mente la ricerca durkheimiana di « sostituti secolari » della religione e del rituale, e la convinzione di De Coubertin, che tali sostituti aveva trovato nell'atletica intemazionale, una convinzione che lo condusse alla riuscita istituzione dei giochi olimpici, una festa ellenistica, umanistica, post-religiosa e altamente ritualizzata, che celebra dò che tutti gli esseri umani hanno in comime: un corpo capace di sot-toporsi a una disciplina (una sorta di ascesi profana) e un impulso agonistico (benché questa competitività darwinia-na si sia dimostrata essere più che altro ima caratteristica della cultura occidentale).

Si può comprendere l'attrattiva, il richiamo esercitato dal programma di Grotowski. Creiamo uno spaáo-teinpo liminale, un 'bozzolo' o im centro di pellegrinaggio, sem-bra che dica, dove gli esseri umani possano essere educati ed educarsi a strapparsi di dosso le false personae che sof-focano l'interiorità individuale. Chiaramente si deve pro-vare un gran senso di sollievo e di liberazione quando

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questa interiorità emerge e viene riconosciuta. A questo emergere è evidentemente coHegata Tidea di un ritomo alla natura. Ma risulta dall'esperienza degli antropologi ciie nei processi di iniziazione d sono gravi pericoli. Di solito Tiniziando vieae iniziato a qualche cosa; può venire affran-cato da un insieme di status e di ruoli, ma soltanto al fine di imprimei^ene meglio im altro. Gli anziani, i guru, i maestri della circoncisione, le 'guide*, sono li appunto per imprimere segni indelebili (non solamente sotto forma di mutilazioni finche quali la circoncisione, la subincisione, Tasportazione di un dente, la scarificazione e simili, ma anche nella psiche stessa) sulla generica prima materia uma-na a cui gli iniziandi, più o meno consenzienti, sono stati ridotti. È vero che gli studiosi di antropologia non hanno prestato sufficiente attenzione alla dimensione soggettiva dell'iniziazione, e di tutti i tipi di riti di passaggio. In questo senso abbiamo molto da imparare dal teatro speri-mentale. Ma vediamo anche come un ordinamento o un regime organidstico o totalitario possa trovare molto di suo gusto l'elaborazione sofisticata di nuovi riti di passag-gio secolarizzati, guidati da ideologi uffidalmente ricono-sduti che capiscano il processo rituale.

A suo merito bisogna dire che Schechner non ha mai dimenticato che il teatro è teatro, e che Pintrattenimento è una componente fondamentale di esso. L'intmttenimen-tQ non è limtnale ma liminoide, è soffuso di libertà. Impli-ca a ju^ gioco . e il ^pco è fonte di democratidzz^one lo capi quando buttò via la sua bacchetta, alla fine della Tempesta. Sche-chner, che pure è stato spesso redarguito per essersi preso delle libertà con il testo di un autore, non Io ha mai eli-minato completamente. Anzi, egli ritiene che il copione sia una componente vitale del processo di prova, anche se non Io tratta come se lo considerasse sacro e inviolabile. È come minimo una struttura preliminare fondamentale, attraverso la quale deve fluire il processo dì prova, benché l'estensione e il carattere di questa struttura possano esse-re modificati, a volte in modo assai drastico, dalla logica intema di tale processo. Altre componenti hanno un peso

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pressoché uguale: il regista Tattore, Pambiente, vale a dite la scena, die viene creata per ogni spettacolo. Tutte queste cose, e il copione, crescono insieme e interagiscono col maturare del processo di prova. Schedmer ama dtare la fommla dello psicologo deIPinfan2ia Winnecott: « dal-Vio ai non4o al non-non-io », per esprimere questo proces-so di maturazione teatrale. LVo, l'individuo biologico-sto-rico, l'attore, si trova di fronte al ruolo dato nd copione, al non-io; nel crogiolo dd processo di prova ha luogo una strana fusione o sintesi fra Vio e il non-io. Affiorano aspetti dell'esperienza dell'attore die vanno a permeare fl ruolo dd copione che egli lia assunto, mentre aspetti ddla vi-sione dd mondo o del messaggio dell'autore contenuti nd copione, in particolare in quanto vengono intesi dal punto di vista dd 'personaggio' che si interpreta, penetrano nel-l'essenza dell'attore come essere umano. Il ruolo dd regi-sta è prindpalmente quello di un catalizzatore, egji dà il suo aiuto nella celebrazione delle nozze mistiche o alche-midie che avvengono quando l'attore attraversa il limen fra il non-io e il non-non-io. In questa terza fase Vio è un io più ricco, se non più profondo (non mi piace usare qui la metafora della "profondità", poidié essa poggia su pre-supposti religioso-filosofid inconsd della cultura ocdden-tale) di quello iniziale.

Ma non intendo fare un'esposizione delle tecnidie di prova di Sdiediner: lui naturalmente lo può fare molto meglio di me. Ciò che sto dicendo è però che tenendo in mano la linea vitale del copione, la finzione sdvatrice, per cosi dire, Schechner preserva il suo teatro da quella die Jaques Derrida ha definito « l'arroganza monologica dd sistemi *uffidali' di significazione ». E mantenendo aperta la possibilità di modificare il copione, che, in un certo senso, diventa anch'esso un non-io e poi xm non-non-io come gli attori, il copione stesso può essere preservato dalla « arro-ganza monologica » ddle interpretazioni ufficiali, che han-no sempre avuto la tendenza a fossilizzare l'ispirazione poe-tica in 'modalità canoniche di rappresentazione'. Le opere di un genio drammatico richiedono molte generazioni per potersi manifestare non dico pienamente, ma almeno in

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la reciumone nella vita quotidioita

modo adeguato; e il ccMnpito di cia^xina generazione dì teatranti è di farle vivere di nuovo volgendole nei termini della sua propria esperienza. Eccoci cÜ nuovo alle prese con gli andli dell'otto coricato della figura, con le rel¿ioni di opposizione e di sintesi fra Ü dramma sociale e il dram-ma estetico.

? Intrattenimento, entertaintnenñ Questa è una parola chiave. Letteralmente significa « tenere in mezzo )>, dal-Pantko francese entre^ « fra e tenir, « tenere ». Qoè, può essere interpretato come la produzione della liminalità, dello stato che non è né carne né pesce. Webster gli attri-buisce valenze sia giocose che serie, poiché può sig^care: d) « catturare l'interesse di e procurare piacere a; distrar-re; divertire », oppure è) « concedersi di pensare a; avere in mente; considerare », Cosi nella confessione, quando il penitente raccontava di aver avuto pensieri lascivi, Ü prete

j gli chiedeva: « Ma fi^olo, àìd you entertain them? Ti sei concesso di pensare a loro? ». É la sua risposta, abbastan-za onesta, giungeva prontamente: « No, padre, ma loro hanno divertito me, fhey entertained me ». Questa ambi-guità è Panima del teatro, die non è un meccanismo di re-pressione e neppure di sublimazione, ma rende fantastica la realtà persino quando realizza la fantasia. Esso inoltre concede allo spettatore la sua dignità umana, il suo diritto di trattare tutto dò che vede in un modo congiuntivo, del 'come se\ Schechner ha tentato recentemente di procedere verso una teoria della performance intesa come un « siste-ma binario », un termine del quale è la « azione efficace-rituale » (o con un intento trasformativo, di « cambiare » coloro che vi partecipano) e Taltro è V<c intrattenimento-teatro ». Nella mia terminologia queste due formule espri-merebbero un contrasto fra modalità Viminali' e 'liminoi-di' della performance. Nella realta effettuale esse si com-penetrano a vicenda, anche se Grotowski vorrebbe far pre-valere la prima, e gran parte del teatro di Broadway la seconda.

La perfomance [scrive Schedmer] contiene Timpulso a essere seri e rìmpulso a intratteioeie; a taca>gliere sanificati e a passate

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il tempo; a dispiegare coiripottamenti simbolici che attualizzano un « l a ^ u e allora » e ad esistere solo « qui ed ora a essere se stessi e a giocare ad essete altri; ad essete in trance e ad essere cosdenti; a ottenere dei risultati e a perder tempo in sdoc-cbeffie; a concentrare Fazione su e per un gruppo sekzionato di persone dbe condividono un l inguaio ermetico e a raggmngere il più vasto pubblico possibile di estranei che paghino il biglietto

Eccoci dunque tornati, alla fine, al nostro titolo, i cui risvolti ironici non sono affatto stati cancellati dalle nostre per^inazioni. Quando 'agiamo' [actl nella vita quotidia-na non d limitiamo a re-agire Ire-actì a stimoli indicativi, ma agianìo in strutture che abbiamo estratto a fatica dai generi della performance culturale. E quando 'agiamo' su una scena, qualunque essa sia, dobbiamo, più che mai in quest'epoca riflessiva della psicoanalisi e della semiotica, portare nel mondo simbolico o fittizio i problemi scottanti ddla nostra realtà. Dobbiamo andare nel mondo congiun-tivo dei mostri, dei demoni e dei down, della cruddtà e della poesia, per dare un senso alle nostre vite quotidiane, guadagnando il nostro pane quotidiano. E quando entria-mo in qualunque teatro a cui la nostra vita d conceda l'accesso, abbiamo già imparato quanto strana e stratifi-cata sia la vita quotidiana, quanto straordinario dò che è ordinario. Allora non abbiamo più bisogno della « sicurez-za infinita » delle ideologie, come la chiama Auden, ma apprezaamo il « rischio senza necessità » dell'azione e del-l'interazione teatrale.

Note

^ J e ^ Grotowski, Per un teatro povero^ Roma, Balzami Editore, 1970, Rimandiamo anche al numeio mtMiogtafìoo di Sipano » (n, 404, 1980) curato da Renata MoÜnari, dedicato a Grotowski e all'attività del Teatr LaÌx)ratorium di Wtodaw.

2 William Blake, Viiioni, Mlano, Mondadori, 1965, p. 107. 3 Ibidem^ p. 111. ^ Phyllis HartnoU, The Concise History of Theatre, New York, Harry

N. Abrams, s,d., p. 8.

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La recitazione ndla vita quotidiana

5 Ibidem, p. 89, ^ Turner nmanda all'itrtìcolo di David Emil Thomas Mirror Images,

apparso in « Sdeatific American», Il e IH (1980), n. 6, pp. 206-228. Agghmgiamo a questa indicazione lo stadio di Baltrosaitis, Le miroiry Paris, Elmayan-Le Seuil, 1978; trad. it. Lo specchio^ Milano, Addpbi.

^ Thomas, Mirror ImageSy dt., p. 206. * Marjorie Boulton, Tbe Anatomy of Drama, London, Routledge and

Kegan Paul, 1971, p. 3, ^ Ridiard Sdiechner, Performers and Spectators Trasponed and

Trasformed, in «Kenyan Review», 1981, voL ELI, n. 4, pp. 83-113; trad. it. Periormer e spettatori trasportati e trasformati in La teoria della performance 1970-1983, Roma, Bulzoni Editore, p. 177.

^ n comportamento «recuperato» o rivissuto» è trattato di£Eiisar* mente in Restauration of Beibtfwwr (pubblicato per la prima volta in «Studies of Visual Gmununication» nel 1981 e preseate nella dtata raccolta italiana con il titolo « Sul recupero di comportamenti passati ») dove Scbedmer individua il paradigma dei rito processo di allesti-mento dello spettacolo, e nel « recupero di im passato comportamento » il denofflinat{»re comune cbe musce attività cosi diverse come il rito, il teatro, la psicoterapia, lo sdamanesimo.

" Blake, Visiotfi, d t , p. 101. ^ Clifford Geertz, Blurred Genres. Tbe Refi&íration of Social

Thought, in American Scholar», primavera 1980, pp. 165-179. Ibidem, p. 169, Ibidem, p. 172.

15 Ibidem, K Ibidem, p. 175. 17 Ibidem, pp. 175-176. 18 CjEr. La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Bresda,

Morcelliana, 1976, pp, 32-40, p, 331 ss. Turner, La foresta dei simboli, dt,: per il rituale di droondsione

c£r. p, 187 ss.; per il rito di pubertà delle ragazze cfr. pp. 3&-31; per ü rapporto tra matrilinearità e virilocalità cfr. pp. 27-29.

2® Wolfang Goethe, Faust^rfaust; trad. it. Faust^rfaust^ a cura di Vittorio Amoretti, Milano, FdtrineHi, 1965, II, p. 647.

21 Blake, Visioni, dt., p. 135. ^ Schechner, From Ritual to Theatre and Back in Essays on Perfor-

mance Theory (1970-1976), New York, Drama Book Specialist, 1977, p. 79.

^ Kenelm Burridge, Someone, No One. An Essay on Individuality, Princeton, Mnceton University Ptess, 1979, p. 4.

Ibidem, pp. 146-147. 25 Ibidem, p. 56. ^ Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza,

p. 83 ss.

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^ C£r. Richard Seni^ Il decUno deWuomo pubblico. La società intimista^ MIano, Bompiani, 1982.

28 Raccolto nd volume curato da Kolanktffwicz, On the Road tí> Active Culture. The Activities of Grotowski's Theater Laboratory Institute in the Years 1970-1977, Wroclaw, Teatr Laboratortum, 1978, pp. 95-97.

^ Ibidem, p. 103. ^ Qoi Turner fa rifenmento ai numerosi progetti sped^ realizzati

da Gtotofwsìd e dal suo gruppo vanamente istituti a seconda delle circostanze in cui erano presentati. Ricordiamo i titoli di alami |aogetti s p e ( ^ presentati in It^a la cui dizione era stata approvata a& Gro-«>wski: Progetto la monta&ta. L'albero ddle gentil akri titoli Acting Theraphy, Meditazione a voce alta. Analisi de¿i eventi. Song or my self. Viaggi attraverso un hwontro^ Stages parateatrale. Acting Search, Espe-rienze parateatrali. Incontri di lavoro. La veglia,

^ Jerzy Grotowski ha lasciato definitivamente la Polonia alla fine del 1982. Attoaimente lavora allUniveratà di Irvine (CaliÉomiii) e ha costituito un Centro di lavoro europeo <xm sede in Italia.

^ Non bisogna dimenticare la matrice teatrale delle attività di Gro-towski e la sua ricerca sdDfò orioni (H teatro e sulle tecnidie delk originL Scrive a proposto delle attività parateatrali: « Oggi ì OHifini del teatro si pcmgono in modo diverso, e ciò che chiamimno parateatrale è semplicemente, se vogliamo, teatro-non teatro, Gmiunque per noi resta sempre in tutto questo il fenomeno umano che ccHitaj , in «Sipario», n. 404, gennaio 1980,

^ Turner, Frame Flow and Refiection, Ritual and Drama in Public Liminality raccolto nd volume antologico curato da Benamou e Cara-mdlo. Performance in Postmodern Culture, Madison Wscoaán, Coda Press, 1977, p. 54.

^ Janina Dowlasz, Psycholo&st at Grotowski's, in « Zide Literackie », 18 settembre 1977, n. 381538, pp. 111415.

^ Burridge, Someone, No One, dt., pp, 5-6, ^ Burridge, op. cit., p. 6. ^ L'articolo di André Gregory è raccolto nel volume curato da

Kdankiewicz, On the Road to Active Culture, dt. ^ Schedmer {a cura di), Ritud, Play and Performance, New York,

The Seabury Peess, 1977, p. 218,

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Indite

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Indice

Introdiazione all'edizione italiana, di Stefano De

Matteis p. 7

Introdusione 27

I. Dramma e riti di passaggio, lo svago e il la-voto. Saggio di simbologia comparata 49 II. Drammi sociali e narrazioni su di essi 117

III. Rituale drammatico/dramma rituale. Antro-pologia della performance e della riflessione 163

IV. La recitazione nella vita quotidiana e la vita quotidiana nella recitazione 183