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YERVANT GIANIKIAN E ANGELA RICCI LUCCHI NON NON NON

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Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi NON NON NON

Quaderno HangarBicocca n. 1

A cura di Andrea Lissoni con la collaborazione di Chiara Bertola

Editing Francesca Trovalusci

Coordinamento EditorialeValentina Fossati

FotografiaAgostino Osio

GraficaLeftloft

TraduzioniStudio Bozzola

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi – NON NON NON è il primo Quaderno Critico di HangarBicocca, uno strumento che nasce con il duplice obiettivo di offrire un contributo di approfondimento sugli artisti coinvolti nelle mostre e di colmare eventuali lacune di testi di natura critico-teorica sulla loro ricerca. Basato su contributi di esperti, il Quaderno consente di contestualizzare il percorso degli artisti in un panorama cul-turale e storico-artistico più esteso; il Quaderno contribuisce inoltre a puntualizzare le motivazioni delle scelte degli artisti e la specificità delle opere proposte nell’ambito della visione curatoriale di HangarBicocca.

Nel caso di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi la pubblicazione è motivata dalla necessità di sopperire alla non semplice reperibilità dei testi dedicati alla loro imponente ricerca (testi peraltro disseminati in contesti disparati, poco accessibili e raramente tradotti in lingua italiana). Ma il proposito è anche e soprattutto quello di illuminare per la pri-ma volta l’ampio segmento della loro attività relativo alle installazioni video e ai disegni (e quindi alla relazione con l’arte contemporanea), che rappresenta di fatto il cuore della mostra presso HangarBicocca.

In questo senso si è ritenuto importante – in sintonia con l’identità rinnovata di HangarBicocca – rendere i quaderni il più possibile accessibili, pubblicandoli sotto licenza Creative Commons* e rendendoli scaricabili dal sito www.hangarbicocca.org in formato pdf e ebook.Ringraziamo tutti gli autori che hanno generosamente accettato la nostra proposta di prendere parte a questo progetto con un testo inedito o rivisto.

*Licenza Creative Commons – Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/deed.it). Le imma-gini sono copyright dei rispettivi proprietari che autorizzano a pubblicarle su questo Quaderno e a diffonderle nell’ambito delle attività legate al progetto. Foto: Variazione, serie da I Cineasti, acquerello su carta, 24.5 x 17.0 cm, 1989 – 1996, di Agostino Osio.

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Indice

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi NON NON NON Quaderno HangarBicocca n. 1

L’occhio è strumento del pensiero – Chiara Bertola

Scruta, interroga, graffia. Gianikian e Ricci Lucchi, esplorare senza arrendersi mai alla storia – Andrea Lissoni

Alla ricerca del tempo perduto – Mark Nash

Bloody News from Friends, Notizie di sangue dagli amici: il cinema denso di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi – Ara H. Merjian

Oggetti trovati – Rinaldo Censi

Cartografia dei gesti – Christa Blümlinger

Mano di verità – Raymond Bellour

Biografia

Bibliografia

Filmografia

Installazioni

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L’occhio è strumento del pensiero— Chiara Bertola

A casa di Angela e Yervant, a Milano. Nella loro cucina ritrovo oggetti e gesti che pensavo inghiottiti dal tempo. Sembra di respirare qualcosa che si è perduto, la cultura del fare, l’attenzione alla tradizione ereditata, il rispetto per le cose dell’uomo. Insieme ad Andrea Lissoni – che fin dall’inizio della nostra collaborazione all’Hangar ha proposto la loro mostra – riprendiamo il filo dei discorsi, molti, tutti intrecciati l’uno nell’altro e difficili da dipanare, da districare come se ci trovassimo perduti in mezzo ai rovi. Avevo visto Dal Polo all’Equatore, uno dei loro film più conosciuti, a Boston, e La marcia dell’uomo, installato alla 49a Biennale di Harald Szeemann nel 2001. Poco o nulla rispetto alla loro immensa filmografia. Adesso ho la possibilità di vedere i loro film uno a uno e con una proiezione privilegiata, col tempo necessario e l’opportunità di domandare e dialogare con gli autori. Adesso, le immagini dei film insieme ai loro racconti, uno dopo l’altro, si estendono ampi, potenti, emozionali e si allargano, crescono fino a diventare, per la forza etica dei temi, per la potenza delle immagini, per l’urgenza e l’attualità della denuncia, qualcosa d’ingombrante e nello stesso tempo di maestoso e immenso come una cattedrale. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi sono considerati i capifila del cinema sperimentale italiano. Sono conosciuti in tutto il mondo e vivono e lavorano insieme a Milano. HangarBicocca accoglie la prima retrospettiva assoluta di installazioni della loro opera.I due artisti iniziano a collaborare agli inizi degli anni Settanta raccogliendo, catalogando e collezionando centinaia di oggetti, la maggior parte vecchi giocattoli e immagini che iniziano a filmare, riattivando la memoria inevitabilmen-te incrostata in essi. È così, ad esempio, che nella leggera animazione di Carrousel de Jeux e Ghiro Ghiro Tondo, il passato rievocato e rivivificato restituisce nuovi e vecchissimi racconti, dolorosi e gioiosi al tempo stesso. E come se non fossero sufficienti quei resti per sollecitare un ricordo sommerso, gli autori sostituiscono alla colonna sonora una colonna olfattiva, diffondendo nella sala della proiezione profumi che, come madeleine proustiane, raccordano i fatti della storia alle emozioni personali. Si tratta degli esordi del percorso creativo dei due artisti, incentrato sugli archivi filmici e fotografici che si sono accumulati nel corso degli anni fino al 1977, anno in cui essi scoprono alcuni film su pellicola al nitrato girati dal documentarista Luca Comerio all’inizio del secolo. Salvano le pellicole, che tecnicamente non sono più visibili o il cui materiale si sta lentamente deteriorando, e ri-filmano ogni fotogramma con una speciale macchina inventata e costruita da Yervant: la camera analitica. Come i fili di un telaio su cui s’intreccerà il disegno della tela, allo stesso modo Yervant e Angela tessono i fotogrammi delle vecchie pellicole e le rimontano evidenziando la trama nascosta della storia. Esplorano i temi del passato per mostrare quanto essi siano sottesi al presente, quanto il tempo trascorso nella prima metà del secolo scorso continui a plasmare il nostro presente. «Pensiamo che esista solo il presente e per noi la memoria è presente, non passato. Per questo rifiutiamo la categoria di archeologi, lavoriamo nel presente e per il presente, l’idea del passato non la accettiamo, quello che vediamo nei fotogrammi è quello che vediamo oggi»1.Gli artisti lavorano sui fotogrammi, rifilandoli, colorandoli, tagliandoli, pulendoli, per estrarre l’essenza di una so-stanza temporale che sta per dissolversi, innestando su qualcosa di oscuro un seme di verità… come se la storia fosse terra… come se le immagini fossero zolle rigirate al sole da un aratro. La camera analitica – che Gianikian e Ricci Lucchi costruiscono artigianalmente per riuscire a ri-filmare le vecchie pellicole ritrovate – agisce come quell’attrezzo rurale, riportando alla luce un mondo la cui verità rischia di rimanere sepolta. Questo il senso di quel lavoro immenso e faticoso di Yervant che per cinque anni di seguito ri-filma nel buio dello studio i 360.000 fotogrammi della pellico-la Dal Polo all’Equatore, ritrovato nell’archivio Comerio, e insieme ad Angela li ricolora, li musica, li riordina. Un modo di operare che rievoca le parole di Osip Mandel’štam, quando ricorda che «l’occhio è strumento del pensiero2».In questo caso l’occhio è la camera analitica dei due cineasti, in grado di vedere nelle cose i tratti che ci legano al lontano e al diverso e di mostrarli in nuove e insolite relazioni visive. Un occhio che «come quello di un uccello rapa-ce, possiede la facoltà di adeguamento. Ora si trasforma in un binocolo militare a lunga gittata, ora nella lente d’in-grandimento del gioielliere3». Un occhio che recupera e interroga le immagini della Storia rimettendola in moto. Per ottenere questo scopo gli artisti cercano una prospettiva intenzionalmente “bassa”, attenta a particolari quasi invisibili, e soprattutto volta a costruire quel grande e impercettibile “telaio” concettuale capace di tessere insieme gesti, memo-rie, profumi, immagini, oggetti che si pensavano perduti per sempre. «Ci interessa l’archivio perché tutto il presente è già contenuto nell’archivio… ma è lento e noi dobbiamo rileggerlo e rimetterlo in moto. La memoria ci interessa non come passato ma come scoprimento e lettura del presente4».L’immensa opera dei Gianikian possiamo immaginarla allora come la cronaca di un incubo o di un sogno sulla storia del Novecento. È una realtà governata dalle ambivalenti leggi oniriche, capaci di rovesciare il contenuto letterale della visione nel suo opposto. E nei film dedicati agli anonimi, alle persone e alle cose scomparse, al non senso della guerra, la sola possibilità di rinascita sembra intravedersi in quel tempo ciclico – senza fine né inizio – del linguag-

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gio poetico delle immagini che è l’emblema del sentire umano. La ciclicità di un tempo in cui le ferite della guerra si assorbono nella bellezza tragica di un volto ferito e si cauterizzano nel sorriso di un mutilato. Perché il linguaggio dell’arte, così come quello della poesia, riesce a far sì che «i marci petali della rosa sfiorita» si riuniscano alla terra «per generare nuove forme di vita5».

La storia dell’uomo è anche il cammino dello spettatore

Il lavoro di Angela e Yervant è stato sempre presentato, criticato e amato nel circuito del cinema d’avanguardia mentre molto poco lo si è presentato al mondo dell’arte contemporanea, non considerando invece l’importanza che ha in que-sto ambito. Il motivo è da imputare anche a una scelta precisa degli artisti che li spinge, negli anni Settanta, a seguire la via offerta dal cinema: «In quegli anni […] non avevamo più contatti con il mondo dell’arte, eravamo usciti dalle gallerie e il cinema ci sembrava il nostro mondo. Un mezzo più democratico, più aperto e fuori dai mercati6». Così si deve aspettare fino al 2001, quando l’invito di Harald Szeemann alla 49a Biennale di Venezia li induce a ripresentarsi al mondo dell’arte contemporanea internazionale. In effetti, già un anno prima la Fondation Cartier aveva commissio-nato loro un’opera, Visions du désert, un lavoro che sviluppano attraverso la realizzazione di un’installazione. Subito dopo, nel 2004, sono invitati a partecipare a una grande mostra collettiva internazionale, Experiments with Truth, al Museo di Philadelphia, in cui propongono un’installazione multipla dove il tempo di proiezione non si riesce più a controllare e la sincronia tra i quattro schermi si perde poco a poco. Cominciano quindi a usare lo spazio e la possibili-tà di suddividere o moltiplicare la proiezione su schermi multipli, fatto che raddoppia le possibilità emozionali e nello stesso tempo permette di accordare lo spettatore a una sorta di passo di camminata: si offre la possibilità al pubblico di incedere insieme agli artisti lungo la via della loro ricerca. Riprendendo questo modulo espressivo, nella mostra NON NON NON all’Hangar, i loro film sono presentati in forma installativa attraverso diverse grandi proiezioni multiple lungo una delle navate. La marcia dell’uomo rivela, uno dopo l’altro, attraverso tre grandi schermi, tre momenti chiave della storia delle immagini del Novecento. Nello spazio del Cubo, invece, sono presentate cinque installazioni significative del loro percorso artistico: si tratta della serie dei Frammenti elettrici (diffusa su quattro pareti in simulta-nea), Visions du désert, Trittico del Novecento, Terrae Nullius, Topografie.La marcia dell’uomo diventa in questo caso anche quella che deve fare lo spettatore per poter vedere lo sviluppo dell’installazione. Camminando lungo la sequenza dei tre schermi si attraversa la storia dell’uomo in tre tempi “inter-ni” che si attivano successivamente: la fine dell’Ottocento con il primo schermo, gli anni Venti con il secondo e infine gli anni Sessanta, con il terzo. «Camminare è essenziale, ci piacerebbe realizzare delle camminate ancora più lun-ghe… Camminare vuol anche dire camminare fuori dal cinema, più lontano, allontanarsi dall’immagine o avvicinarsi ad un’altra, dove il cinema diventa una cosa quasi scultorea7».Nel lavoro proposto si consolida dunque il rapporto dei due artisti con l’arte contemporanea, un rapporto che per loro, come abbiamo detto, è ed è sempre stato intrecciato con il cinema sperimentale, una vera e propria scuola di espe-rienza percettiva: basti pensare all’attenzione per il dettaglio, accompagnata dai “trattamenti” della pellicola quali le colorazioni (talvolta acide, quasi pop, simili alle serigrafie di Warhol), l’uso di fotogrammi in negativo, la non cancel-lazione – spesso un’evidenziazione – delle tracce del deterioramento del nitrato di cellulosa, l’impiego della musica e di lunghi silenzi, che insieme costituiscono i procedimenti per attuare un processo che va «dall’arte verso il mondo8».Il cinema permette a Angela e Yervant di rallentare la velocità con cui il mondo scompare insieme con i suoi oggetti, le sue ragioni e i suoi torti; consente loro di mostrare il dettaglio, di sovvertire l’ordine, di scompaginare la realtà met-tendola sottosopra grazie agli ingrandimenti e allo scorrimento moderato delle immagini.

La materia informe

Inevitabilmente quando si parla di spiazzamento e ribaltamento, viene in mente il ready-made di Duchamp e di conseguenza il Dadaismo e il Surrealismo; dimensioni per le quali sia Yervant Gianikian che Angela Ricci Lucchi mi confermano l’iniziale interesse. Non a caso quando chiedo a Yervant e Angela la relazioni con l’arte contemporanea i primi nomi a essere evocati sono Dalí e Buñuel. L’orizzonte surrealista è quello cui guardano quando lavorano ai loro primi film profumati e quando catalogano oggetti, pellicole, e soprattutto vecchi giocattoli rotti o mutilati dal tempo e dalla violenza dell’uomo. Ecco una traccia: l’informe. Quella parola li riconnette all’esperienza delle prime manifesta-zioni surrealiste, ma nel senso indicato da Bataille (L’histoire de l’œil, 1926), che indirizza sotto la parola informe ciò che non trova la possibilità di essere definito: l’ambiguo9. Il Surrealismo cerca di creare un cortocircuito nella logica della forma producendo un’impensabile mutazione al suo interno. Minare questo concetto di forma diventa un pas-saggio fondamentale e fondativo per questo movimento artistico, che indietreggia davanti alle categorizzazioni della realtà imposte dal conformismo sociale di quegli anni. Come propone Rosalind Krauss, l’erosione di cui si sta parlan-do non è un attacco alla materia/forma della scultura ma piuttosto «un’erosione sul piano delle categorie10».Tento, allora, di ritrovare lo sguardo dei Gianikian Ricci Lucchi, in quei primi anni in cui raccolgono pezzi di reale, rotto e abbandonato, e lo ricompongono per restituirgli un’altra possibilità di “parola”, un’altra lingua. La forma di cui parlano, come per i surrealisti, non si riferisce solo alla fattezza fisica, ma anche, appunto, alle rigide categorizzazioni

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e opposizioni in cui la realtà è confinata: dentro/fuori, vivo/morto, alto/basso. Ed è «la trasgressione di queste distin-zioni […] che produce l’informe11». Seguendo Bataille, non sono solo le categorie logiche delle forme a definire l’a-spetto della realtà, ma è attraverso di esse che si attribuisce poi un significato alla realtà12. In questo senso l’attenzione dei Gianikian Ricci Lucchi ai documentari, così come ai film di scienza, al recupero di pellicole amatoriali così come d’archivio, può essere ricondotta soprattutto all’esigenza di procurarsi della materia da decostruire, per poi ricostruirla e trasformarla in altro. Il che significa soprattutto riplasmare tali elementi dentro altre categorie, portando ad esempio il “basso” a essere percepito come “alto”. «Ingrandire, mostrare i dettagli, estendere […] sono atti che, dopo averli manipolati, trasformano gli archivi iniziali in incontestabili e attuali discorsi ideologici13».Per fare questo, cioè affinché questa materia incominci a esercitare la funzione critica del linguaggio, i due autori hanno bisogno di segmentarla, tagliarla in tante parti distinte che serviranno poi come agenti portanti di un discorso diverso e rinnovato. Quella che essi consegnano al mondo dell’arte è una dichiarazione circa il potere espressivo della semplice materia (i fotogrammi), un potere che stava per scomparire, che era sul punto di scendere al livello dell’inar-ticolato. Si accostano ai fotogrammi, che loro considerano materia “informe”, come due scultori di fronte a una vera “pasta modellabile” da plasmare. Lo fanno mostrando quel materiale d’immagini da un punto marginale della storia, e da quel margine, da quel sottosopra, riescono a far emergere un’esperienza di quella stessa materia che diventa spiaz-zante e, in certi momenti, anche sublime.

Gli acquerelli

Ho l’occasione di entrare nel doloroso affresco proposto da Angela e Yervant non solo dalla porta principale del lavoro sui fotogrammi, ma anche da una finestra che lascia filtrare un po’ più di luce e di aria, raffreddando, placando e attenuando l’incandescenza delle immagini dei loro film. Uno spazio in cui riusciamo ad accostare gli stessi temi ma con uno sguardo forse leggermente più distaccato e un animo più sollevato... Sto parlando delle centinaia di acquerelli che Angela Ricci Lucchi ha continuato a disegnare, tessendo il paradigma narrativo e tematico entro cui si costrui-scono i loro film. La mostra all’Hangar è infatti resa eccezionale dalla presentazione di questi acquerelli finora mai esposti. Dopo il determinante incontro con Yervant Gianikian, a metà degli anni Settanta, Angela Ricci Lucchi per uscire dai limiti della pittura e dell’arte concettuale, si è spinta verso la sperimentazione performativa e cinematografica; di fatto, però, non ha mai smesso di dipingere, dando vita a un personalissimo universo pittorico costituito dall’insieme dei disegni ad acquerello. Un corpus che si articola su più piani e registri: i più importanti e continuativi sono quello diaristico, con acquerelli di piccole dimensioni (spesso su album), che segue la vita, i viaggi e la quotidianità dei due artisti; poi vi è quello strettamente connesso con le opere cinematografiche, di cui i singoli fotogrammi sono ripresi o reinterpretati in centinaia di pagine singole o su quaderni; e infine un terzo legato e basato sulla tradizione culturale armena delle fiabe. Gli acquerelli accompagnano da sempre il fare creativo e la vita dei due artisti. Prima è Yervant che prende appunti in forma di microstorie disegnate come rebus in cui piccolissimi disegni si alternano alla scrittura «alta e dritta come un viale di pioppi14». Una tipologia di appunti disegnati che in seguito Angela continuerà, dando forma ogni volta a visioni sempre più complesse. «Io non ho fatto scuole d’arte. Non credo che s’impari a diventa-re artisti. M’interessava molto la tecnica dell’acquerello, che continua ad affascinarmi tuttora. In Italia non ha una grande tradizione, mentre al nord sì, così ho avuto l’occasione di incontrare Oskar Kokoschka, che mi ha insegnato oltre all’acquerello una certa apertura mentale. A metà anni Sessanta la cultura nordica, dalla pittura, alla filosofia, alla letteratura, non era particolarmente conosciuta in Italia e l’incontro con Kokoschka è stata un’occasione per me per scoprirla15». Si tratta di una cultura mitteleuropea che include autori molto amati dall’artista, come Kraus, Ador-no, Werfel, Schönberg, ma soprattutto Musil (il cui diario di guerra ritroviamo in Su tutte le vette è pace) e Mahler, al quale Angela e Yervant dedicano addirittura un film. Gli acquerelli di Angela sono la tessitura del lavoro filmico; non propriamente quello che si definisce lo storyboard – perché non corrispondono alla sceneggiatura disegnata che accompagna la presentazione di un film – piuttosto un paradigma tematico e visivo derivato dalla narrazione delle loro pellicole. Gli storyboard di un film nascono come ap-punti veloci di chi, avendo a disposizione un tempo molto limitato per presentare e pubblicizzare un prodotto, studia e previene e visualizza la sequenza delle immagini nel modo il più possibile calcolato e calibrato; al contrario gli ac-querelli di Angela Ricci Lucchi seguono la lunga gestazione dei film che può durare anni e si accordano soprattutto al passo e al tempo della lettura dei libri, delle discussioni e dei racconti della sera. Anche se è difficile isolare i contribu-ti dei due artisti, è la mano di Angela che disegna e che ha sempre assunto nello stretto sodalizio di coppia il “fronte” più letterario e culturale. Yervant esplora e lavora sulle pellicole; Angela esplora e lavora sui libri. Yervant annota ogni cosa che vede nei fotogrammi nel suo taccuino nero; Angela traduce ogni pensiero discusso o letto negli acquerelli. Un giorno mi hanno detto: «I film sono il lavoro sui fotogrammi, gli acquerelli sono il lavoro sui libri».I libri di viaggio, etnografici, coloniali, i film o i documentari a soggetto esotico costituiscono un’inesauribile materia di confronto e nutrimento per le loro ricerche, aiutandoli a smascherare la fisionomia ottusa, violenta e sprezzante di fenomeni come il colonialismo o come il più recente turismo di massa. «I film a soggetto esotico c’interessavano per

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questa dimensione di rapina, di rapina culturale che poi avremmo trattato in Dal Polo all’Equatore16». Angela legge soprattutto la letteratura di viaggio, quella che assume nel Ventennio un valore spiccatamente propagandistico. È un genere molto specifico, connesso a una scrittura leggera che non nasconde forme di razzismo, esaltazione e propagan-da dell’Italia all’estero, nel segno della politica di “sprovincializzazione” dell’Italia durante il regime fascista.

Un altro giorno nella casa/studio di Angela e Yervant a Milano: dobbiamo vedere e scegliere gli acquerelli da mettere in mostra. Sono ammonticchiati sul tavolo, in studio, pile di album suddivisi per temi (Mahler, Marinetti, Guerra, Oh! Uomo, Dal Polo…) ma anche in relazione ai viaggi, molti e intensi, che hanno segnato gli anni Settanta e Ottanta: Vienna, la Turchia, gli Stati Uniti, l’Armenia, Gerusalemme, Parigi, Mosca, Leningrado... Ogni album contiene ordinati singolarmente in ogni facciata i fotogrammi ritradotti in acquerello. I disegni si sus-seguono uno dopo l’altro sui fogli dei quaderni procedendo di pagina in pagina, come di scena in scena. In realtà, pur seguendo la narrazione e il tema del film cui la coppia sta lavorando, la narrazione acquerellata di Angela è “un altro film”, nato dalle immagini più significative e intense viste nelle pellicole. Sono piccole gemme che emergono dall’ombra dei fermo immagine… penso alla serie di acquerelli tratta da Su tutte le vette è pace, ognuno dei quali è una fortissima e commovente rappresentazione che restituisce in un solo dettaglio visivo tutta la fatica dei protago-nisti delle scene filmate: il mulo che affonda nella neve accasciandosi sotto il carico delle armi, i ragazzi soldati che arrancano sulla montagna trascinandosi un inutile cannone... Un piccolo acquerello delineato in pochi tratti riesce a trasmettere il freddo, la stanchezza, il non senso di quell’inutile marcia sull’Adamello durante la Prima Guerra Mon-diale.

Passare dall’olio all’acquerello ha comportato per Angela Ricci Lucchi un grande sforzo: è stato – racconta lei stessa – come passare dalla terra all’acqua, un passaggio che non poteva realizzarsi senza la lezione del maestro Kokoschka e la sua esortazione alla leggerezza. Nell’acquerello tutto si gioca nell’immediatezza: «La freschezza o si salva o non si salva». Gli acquerelli di Angela riescono a cogliere nel particolare l’essenziale, quello che si dice «il sentimento dell’insieme, cosicché alla fine tutto sparisce e rimane il tono giusto, come quello finale che lascia sulle corde, per molte ore, una melodia dopo averla sentita17». E, infatti, ogni figura apparsa nell’acqua della pennellata è vitale, sem-bra guizzare e muoversi mentre si imprime per lungo tempo negli occhi dello spettatore.Negli acquerelli che si riferiscono all’operazione chirurgica alla testa di una donna, ad esempio, ripresa nel film Oh! Uomo, la mano dell’artista riesce a seguire la lezione espressionista sulla leggerezza e sulla vitalità, arrivando a far sanguinare sulla carta l’acquerello come se fosse carne. In queste immagini Angela traccia una sorta di diario, in cui però trasforma l’appunto di lavoro o l’annotazione minuziosa nella trascrizione simbolica della creazione artistica. In questo modo l’autrice riesce a far confluire qualcosa dell’infinito scorrere del tempo e della memoria nel finito della forma, entro i limiti di qualcosa di visibile.Gli scarni elementi di cui si compongono le sue figure riescono a trasmettere con immediatezza il movimento di una scena. Si può fare arte con poco o quasi niente. Il disegno, sappiamo, è perlopiù questo niente, dal quale, però, riesce a nascere qualcosa di vitale e di autentico senza dover ricorrere a tecnologie sofisticate. Angela sa bene che utilizzan-do questo mezzo deve arrivare a una semplificazione decisiva, lasciando emergere nel disegno solo una flebile traccia di un ben più lungo e profondo confronto con le cose. Il risultato, straordinario, è che ancora una volta una forma d’arte ci aiuta a ottenere coscienza della realtà.

Un altro film

A fianco della selezione degli acquerelli, in mostra all’Hangar è allestita un’opera sorprendente: un unico rotolo di carta lungo 15 metri e alto 80 centimetri, interamente segnato e ritmato dall’alto in basso da figurine che costituisco-no le cellule delle storie armene. Angela Ricci Lucchi ha illustrato con il suo linguaggio ad acquerello gli episodi di sedici antiche storie armene che Raphael Gianikian, padre di Yervant, le ha raccontato. Il formato davvero inusuale dell’opera – a metà fra tradizione della scrittura orientale e pittura miniata – restituisce con poesia e capacità evoca-tiva un mondo orale ormai quasi completamente scomparso. Angela comincia il lavoro al “lungo disegno” nel 1989 e lo termina il giorno di Pasqua del 1991. Quelle storie sono animate dal suono della viva voce di Raphael Gianikian che racconta le fiabe traducendole dall’armeno in italiano. Le immagini delle figurine disegnate da Angela si animano dentro il racconto sonoro del padre di Yervant e ritornano a vivere dentro quella tradizione orale che è parte integrante della cultura armena. Non si tratta, dunque, soltanto di note o appunti caotici o disordinati, ma di una complessa e precisa figurazione dise-gnata con tratto veloce e appuntito come se fossero parole. Angela trasporta in immagine quello che legge o sente rac-contare. E questa inusuale “trascrizione” muta i materiali sonori in materiali visivi con gli inevitabili effetti di sintesi, di manipolazione e comunque di trasformazione. Forse è interessante sottolineare come il formarsi delle immagini sul lungo disegno, quel loro procedere a nastro dall’alto al basso come se fossero anch’esse lettere di un alfabeto, quel loro organizzarsi per appunti episodici seguen-do, passo dopo passo, la fonte della narrazione, porti il disegno a mantenere il ritmo e l’improvvisazione insita nell’in-

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cedere del racconto orale. Il disegno diventa così l’impronta visiva della voce, simile al pentagramma di uno spartito antico su cui si appuntavano con i “neumi” le figurazioni dei ritmi e delle estensioni della voce. Lo scorrere sul lungo foglio dei minuscoli acquerelli tiene conto, ad esempio, di certe caratteristiche formule di apertura e chiusura tipiche della fiaba armena. Pensiamo al «C’era e non c’era» con cui iniziano molto spesso le fiabe armene – una vaghezza che s’incontra anche nel frequente «camminarono molto o poco» – o alla tipica chiosa finale in cui si proclama: «Dal cielo cadono tre mele: una per chi ha narrato questa storia, una per chi ha ascoltato e una per chi l’ha capita»; elementi che ritornano nel lungo disegno, dove a ogni chiusura di fiaba, come una punteggiatura, incontriamo tre piccole mele gialle. In fondo, anche per questo lungo acquerello si tratta di applicare il procedimento artigianale della camera analitica; non c’è molta differenza tra il “modo verticale” e per nuclei con cui Angela annota e quello con cui studia la sequenza dei fotogrammi su cui lavorano. «Osservando i film senza proiettore né moviola, ho perso il movimento che contrad-distingue il cinema […]. Ho analizzato i fotogrammi come lunghe serie ininterrotte di fotografie incollate su di un album, leggendo le didascalie come fossero pagine di un libro illustrato, la scrittura e l’immagine […]18».

Le parole richiedono tempo per arrivare a produrre il loro effetto e così anche le immagini. Vedendo, uno dopo l’altro, i film di Yervant e Angela e intrecciandone la visione al lavoro straordinario degli acquerelli, mi è parso chiaro come quei fotogrammi abbiano la forza di tanti quadri, come in effetti siano “pittura”. Mi sembra, infatti, che al pari delle opere pittoriche anch’essi perseguano lo scopo di rendere durature delle immagini. In questo senso sembrano corri-spondere alle parole di Odisseas Elitis: «La pittura è pittura. Corregge piuttosto che rendere la realtà e non in dire-zione del temporaneo ma della durata, non del deperibile ma dell’incomprensibile». Forse il particolarissimo modo di raccontare di Angela e Yervant, ripetitivo, talvolta esasperante potrebbe colmare il deficit di un’immagine veloce, distante e poco veritiera dell’esistenza, per tornare a significare il nostro tempo. Ciò che è sicuro è che di fronte alle tormentate immagini di tutta la loro opera sento quanto sia difficile con le parole esprimere il dolore, e quanto invece sia grande il potere comunicativo delle immagini. Con le loro opere mi sono trovata come davanti alla grande pit-tura, di fronte alla quale si tratta solo di riuscire a vivere l’esperienza della contemplazione, ad “abitare” il silenzio: quest’ultimo è la condizione in cui far germinare le parole e il senso. Non è forse nel buio e nel silenzio della terra che il seme germoglia?

Quest’opera è pubblicata sotto licenza Creative Commons – Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/deed.it) ed è scaricabile dal sito www.hangarbicocca.org in formato pdf e ebook.

1. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist.2. O. Mandel’štam, Viaggio in Armenia, Adelphi, Milano, 2010, p. 164.3. O. Mandel’štam, op. cit., p. 189.4. Yervant Gianikian durante la presentazione alla Tate Modern di Londra nel novembre 2011.5. S. Vitale, La seconda nascita, in O. Mandel’štam, op. cit., p. 189.6. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist.7. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist.8. L’intera riflessione si può ricondurre a L. Vichi, La memoria fluttuante della materia. Questo articolo è parte integrante del seminario/rassegna cinematografica

svoltosi all’interno del Corso di Filosofia della Storia del Professor Manlio Iofrida dell’Università degli Studi di Bologna nel 2010.9. G. Bataille, Informe, in “Documents”, n. 7, 1929, p. 382; cito dalla ristampa anastatica della rivista, Éditions Jean-Michel Place, Paris, 1991, 2 voll. La nozione

di informe trova la sua prima formulazione teorica attorno agli anni Trenta, quando Georges Bataille vi dedica una delle voci del Dizionario incluso nella rivista d’arte di cui è direttore, “Documents”. Bataille parte dall’impossibilità di definizione di un genere maschile femminile. In questa impossibilità vede l’ambiguità delle espressioni surrealiste e dei travestimenti, da Duchamp, a Dalí a Chaun.

10. R. Krauss, Celibi, Edizioni Codice, Torino, 2004, p. 8.11. R. Krauss, op. cit., p. 76.12. Questo discorso viene introdotto e analizzato da Rosalind Krauss (p. 78 e seguenti) nel suo libro Celibi.13. D. Hibon, D. Païni, Del documentario fatto a mano, in P. Mereghetti, E. Nosei (a cura di), Cinema Anni Vita Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Il

Castoro, Milano, 2000, p. 100.14. O. Mandel’štam, op. cit., p. 6315. Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist.16. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist.17. O. Elitis, La materia leggera, Donzelli, Roma, 2005, p. 140.18. S. Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian Angela Ricci Lucchi, Hopefulmonster, Firenze, 1992, p. 85.

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Scruta, interroga, graffia. Gianikian e Ricci Lucchi, esplorare senza arrendersi mai alla storia— Andrea Lissoni

Preziosità, rigore, classificazione, sguardo analitico, ricerca coltissima e instancabile, storia, memoria, politica. Fra postura personale, atteggiamento, modalità di lavoro e ossessioni personali, questi sono i tratti di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Dai primi anni Settanta sono attivi come artisti visivi, con un percorso prima individuale e poi di coppia. Gianikian e Ricci Lucchi hanno graffiato con potenza la storia fra cinema d’autore e arte degli ultimi quaranta anni. Anche se lavorano sugli stereotipi, ne sono anche inseguiti senza sosta: “Non ci sono materiali sul loro percorso”. Non è vero, sono di enorme qualità, ma dispersi fra le discipline del cinema e della storia (è uscita nel 2011 l’impor-tante monografia Entering the Frame dello storico Robert Lumley, presentata alla Tate Modern insieme ad una antolo-gica di film). “Sono invisibili”. Non è vero, hanno avuto retrospettive al MoMA, al Jeu de Paume, alla Cinémathèque Française, presentato film ai Festival di Cannes, Rotterdam, Venezia, Torino, esposto alla Biennale di Venezia, alla Fondation Cartier, al Witte de With, al Mart, al Moca di Chicago, fra gli altri. “Lavorano sugli archivi”. Non è vero, hanno esordito con performance di proiezioni e diffusione di odori e girano in piccoli formati, come l’8mm, il Super8, l’Hi8, come per Carrousel de Jeux (2005). Soprattutto, non sono cineasti sperimentali, anche se con stati molto vicini a maestri come Jonas Mekas o Kurt Kren. Gianikian e Ricci Lucchi lavorano sulle immagini molto da vicino, spesso a partire da archivi perduti e salvati: le osservano, le sezionano, le tagliano, le organizzano, le ri-filmano, le mani-polano e le moltiplicano in forma di sequenze. Guardano agli esclusi e ai gesti che li riguardano, che siano anonimi, popoli sottomessi (Armeni, Rom, popolazioni indigene colonizzate) o bambini. Ma questo non spiega ancora l’emo-zione devastante davanti ai loro film o alle installazioni. Svegliano la nostra memoria con film costruiti in termini mnemonici, suonando con il tempo e affondandolo nel colore. Scrutano nei dettagli, nei gesti, sapendo che è lì che si annida l’orrore, lo stereotipo, il germe ma anche la cristallizzazione dell’immaginario. L’esplosivo lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi impone incessantemente domande nelle proprie sequenze, anche se conosce gran parte delle risposte. È splendente, personale, unico, e, soprattutto, dannatamente politico.

Andrea Lissoni: C’è una definizione che vi rappresenta o in cui vi ritrovate?

Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian: Non siamo archeologi, antropologi o entomologi, come spesso veniamo definiti. Per noi non esiste il passato, non esiste la nostalgia, ma esiste il presente. Far dialogare il passato con il pre-sente. Non usiamo l’archivio per se stesso, usiamo il già fatto, con un gesto alla Duchamp, per parlare di noi, di oggi, dell’orrore che ci circonda. L’artista e il proprio lavoro per parlare della violenza che ci sta coinvolgendo ad Oriente come ad Occidente. Fin dall’inizio, il nostro lavoro è contro la violenza, sull’ambiente, sugli animali, sull’uomo con-tro l’uomo. In Dal Polo all’Equatore la prima apparizione dell’uomo nel deserto bianco è con il fucile e il suo primo gesto è uccidere un orso. Insomma, non usiamo l’archivio in modo antiquariale, ma come un oggetto del presente, sempre. Questo in ogni opera, installazioni comprese, fin dalla prima, Visions du désert – per l’omonima collettiva del 2000 alla Fondation Cartier – che mostra il viaggio intrapreso da una donna in Algeria nel 1931. Il ‘31 è l’anno del centenario della colonizzazione francese del Paese. E siamo in grado di datare precisamente l’anno, non c’è opera in cui non cerchiamo dati storici e tutte le fonti possibili per contestualizzare e leggere i materiali su cui lavoriamo. Quella è stata la nostra prima installazione, a loop continuo.

AL: Quali sono le origini del vostro percorso e le sue relazioni con l’arte contemporanea?

ARL-YG: Abbiamo entrambi iniziato come artisti visivi. Io ho tenuto la mia prima mostra a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, poi ho esposto a Bologna. Venivo da una formazione legata al disegno, mi sono, per così dire, perfezionata sull’acquerello in Austria, mentre Yervant lavorava realizzando scatole e aveva esposto alla Galleria del Cavallino a Venezia nel 1972. Quando ci siamo incontrati, cercavamo entrambi qualcosa di diverso, probabilmente delle immagi-ni in movimento. Yervant faceva già dei film.

AL: Che tipo di film?

ARL-YG: In 8mm. Uno per esempio su Ezra Pound che camminava alle Zattere a Venezia, al tramonto. Era l’epoca in cui non parlava.

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AL: Quindi erano riprese non autorizzate…

ARL-YG: Esatto, che però ho perduto.

AL: Tornando alla nostra genealogia, il primo momento importante è forse La Settimana Internazionale della Performance, alla GAM di Bologna nel 1977. Come definite tutto il lavoro che avete fatto negli anni Settanta, quando vi siete incontrati?

ARL-YG: Abbiamo iniziato con un film – il cui titolo è un anagramma da Ezra Pound – che avevo girato in Romagna poi, una volta venuti a Milano, a film non sviluppato, Yervant ha fatto delle sovrimpressioni. In seguito abbiamo iniziato a fare film con diffusione di odori e profumi, spostandoci con un armamentario piutto-sto impegnativo, i film, un proiettore, una grande valigia. Allora quel tipo di ricerca, era definita, a seconda dei casi, ambiente, environment, performance; si trattava, insomma, di opere dove l’artista agiva e dove la sua presenza era richiesta. E alla Settimana Internazionale della Performance, alla GAM di Bologna nel 1977, ha fatto seguito la presentazione londinese al National Film Theatre che ci ha aperto le porte dei viaggi negli Stati Uniti. Era l’ultimo festival d’avanguardia di Londra, in Inghilterra c’era lo strutturalismo di Peter Gidal, c’era l’austriaco Kurt Kren che aveva seguito tutto l’Azionismo, gli americani lavoravano sul flickering, c’era Stan Brakhage. Da quel contesto – non ci piace chiamarlo di cinema sperimentale – siamo stati costantemente invitati e abbiamo fatto diversi tour in America e in Inghilterra.

AL: È possibile descrivere più accuratamente il vostro intervento a Bologna?

ARL-YG: Si trattava di tre spazi costruiti appositamente. Avevamo cercato di fare dei pertugi piuttosto stretti fra una e l’altro in modo che i profumi non si mescolassero o svanissero. Ogni spazio era trattato in modo diverso. In uno c’erano i bruciatori per terra disposti a quadrato, con una determinata profumazione, nel successivo c’era un proiettore 8mm con una proiezione di dimensioni ridotte dove passavano Le fiabe di Propp, nell’ultima sala avevamo messi i bruciatori con i tubi di gomma e degli oggetti dentro delle gabbie, il tutto aveva un aspetto piuttosto “chimico”. Non ci aspettavamo una reazione particolare del pubblico, in realtà è accaduto che le persone si siano per lo più accovacciate a terra come in una sorta di trance.

AL: Quindi era un’installazione, con il pubblico che circolava da una stanza all’altra. Mi interessa capire se c’era un tempo determinato, per esempio dalla proiezione, o se le persone erano libere.

ARL-YG: Ciascuno era libero di comportarsi come voleva. Anche se, non essendoci loop sui proiettori, era necessa-rio ricaricarli al termine di ogni proiezione. Abbiamo attivato personalmente l’opera e poi nel corso del tempo è stata riattivata dai custodi, che avevamo istruito.

AL: Possiamo concludere che si trattasse di un’installazione performata, anche se non lo inserivate nel contesto dell’expanded cinema…

ARL-YG: La novità e il valore aggiunto era data dalla dimensione olfattiva, che a quel che ci risulta a quel tempo era inedita. Però poi a Londra nel 1979 siamo rientrati nell’ambito del cinema e quando abbiamo rimesso in piedi quel tipo di progetto, proiettando il “Lombroso” e il film sui giochi, eravamo al National Film Theatre, pur in un contesto d’avanguardia.

AL: Poi nei tour americani fra fine anni Settanta e primi Ottanta il modello era misto o si adattava a seconda dei contesti?

ARL-YG: Si adattava, ma il modello era quello, a prescindere dagli spazi: fiammate, bruciatori e l’immagine proiet-tata coperta dai fumi. Abbiamo riportato il cinema in una dimensione diversa e invece di una colonna sonora lavora-vamo con una colonna olfattiva, che fossimo all’Anthology Film Archive di New York o al Filmforum di Pasadena. Realizzavamo personalmente le cartoline. Espandevamo lo spazio del cinema quando ci eravamo chiusi dentro.

AL: Ogni proiezione era accompagnata da una cartolina che realizzavate appositamente?

ARL-YG: Più o meno, potevano essere cartoline che seguivano una parte di tour.

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AL: La cosa interessante è che sulle immagini sono riprodotte delle etichette che annunciano titoli e date. Sono molto simili a quelle che utilizzate come cartelli o intertitoli nei vostri film.ARL-YG: Sono le stesse, ne abbiamo una collezione. Le abbiamo fatte tutte in casa. Scrivevamo sulle etichette e stampavamo le foto. Le usiamo ancora oggi nei film.

AL: Che tipo di pubblico vi seguiva?

ARL-YG: Un pubblico che si passava la voce da una proiezione all’altra, da una città all’altra.

AL: Ma vi seguivano in quanto artisti europei oppure per il vostro approccio, in particolare rispetto alla com-ponente politica?

ARL-YG: Senz’altro per la componente politica, giravamo le università, Madison e Berkeley per esempio erano mol-to politicizzate, al di là del post-Vietnam, erano gli anni in cui Robert Kramer aveva lasciato gli Stati Uniti.

AL: Possiamo definire quel pubblico una comunità?

ARL-YG: Senz’altro, come lo eravamo noi che non definirei né cineasti né artisti, ma un gruppo di avanguardia.

AL: E chi erano gli artisti che avevano questo tipo di seguito, di che tipo di programmi facevate parte?

ARL-YG: Per esempio Tony Conrad molto spesso, ma anche Kurt Kren, lo stesso Jonas Mekas, o Ernie Gehr…

AL: Conoscevate Robert Kramer?

ARL-YG: Eravamo molto amici. Lui amava molto i nostri film. Ci siamo visti ai festival, a Rotterdam, a Locarno.

AL: Avevate in comune un pubblico?

ARL-YG: Senz’altro. Ci è capitato spesso di essere in programmi insieme, a Locarno un anno eravamo in programma con Kramer e Panahi, che è un’indicazione molto precisa rispetto a una direzione e ad un’intenzione politica.

AL: Vi muovevate un po’ come una band insomma, ma in che tipo di spazi? White cube o sale cinematografi-che?

ARL-YG: In effetti in Italia non c’era interesse per il nostro tipo di ricerche, così abbiamo approfittato dei molti inviti e siamo partiti per tournée di anche tre mesi, con costanti problemi di dogana per via della nostra valigia piena di ma-teriali chimici, di alcol, che venivano facilmente equivocati... Siamo stati all’Anthology Film Archive di Jonas Mekas, a New York, ma anche in piccoli teatri di mormoni, a El Paso, come anche a Philadelphia. Potevano essere gallerie d’arte, come a Los Angeles, ma anche cinema o teatri.

AL: Il repertorio che presentavate in cosa consisteva? E come si è evoluto da un’esperienza sinestetica verso il cinema?

ARL-YG: Proiettavamo film sugli oggetti, i “cataloghi” (Catalogo della scomposizione, Catalogo comparativo, 1975, Cataloghi – Non è altro che gli odori che sente, 1976…), nominando gli odori che si sentivano, e il film su Lombroso (Cesare Lombroso – Sull’odore del garofano, 1976), che chiudeva una sequenza che si era aperta in modo dolce e diveniva progressivamente spaventosa e angosciante. Ed è Lombroso che ci ha fatto poi cambiare direzione. La prima parte di Karagoez (Karagoez et les brûleures d’herbes profumés, 1979, cui segue nel 1981 Karagoez – Catalogo 9,5) era profumata. L’ultimo dei nostri film profumati è stato Essence d’absinthe del 1981, abbiamo fatto la nostra ultima tournée e, al ritorno in Italia, abbiamo girato il film su Mahler (Das Lied von der Erde – Gustav Mahler, 1982), anche se avevamo già trovato l’archivio del regista Luca Comerio, che è stata la base per il lungo lavoro di Dal Polo all’E-quatore (1986).

AL: Il percorso verso il cinema è stato quindi un viaggio all’interno dell’immagine, del linguaggio e dell’espe-rienza della percezione, un viaggio che riguardava ossessioni e grandi temi imprescindibili. Non tanto fra le discipline, cioè dall’arte visiva al cinema.

ARL-YG: Assolutamente. Il materiale della violenza, della guerra, del sogno orientalista, il colonialismo. Rispetto alle

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discipline eravamo piuttosto degli “altri”: conosciamo, ma non ci riconosciamo nel cinema sperimentale. E il con-fronto con il pubblico negli Stati Uniti avveniva sulla base della cultura europea – di una sua immagine differente – e di quella americana, non sugli stili del cinema sperimentale. Sono trascorsi, quindi, anni di lavoro intensissimo, oltre Dal Polo all’Equatore, i primi due film della “trilogia della guerra” – Prigionieri della guerra (1995), Su tutte le vette è pace (1998) – e, fra gli altri, gli Archivi italiani (1991), Animali criminali (1994), Trasparenze (1998) e Inventario balcanico (2000), prima di tornare all’installazione. Ma i film o i video che abbiamo girato sono comunque nella tra-dizione del cinema d’avanguardia, in continuità con la nostra ricerca artistica.

AL: Direi che a dare forma a un regime di continuità di linguaggio – oltre alle vostre ossessioni – sia il lavoro sul frame di un film pre-esistente – tramite un’azione sul re-inquadramento e sul colore – e poi il lavoro sulla determinazione di nuove e altre temporalità, sul montaggio e sulla sua natura musicale. Dobbiamo, tuttavia, parlare della vostra “camera analitica”, lo strumento che avete messo a punto per l’analisi, la lettura delle immagini e lo snidamento degli stereotipi che rappresentano e producono al tempo stesso gli immaginari. Cos’è e come funziona?

ARL-YG: Possiamo dire che viaggiamo catalogando, cataloghiamo attraverso il cinema che andiamo a ri-filmare. Le fonti originarie sono i recuperi di archivi documentari, tra i quali, appunto, la collezione privata del pioniere del cinema di documentazione, Luca Comerio (1878-1940), dell’ultimo laboratorio del quale abbiamo trovato le tracce a Milano nel 1982. La “camera analitica” ci permette di avvicinarci, di scendere in profondità nel fotogramma. D’inter-venire sulla velocità di scorrimento, sul dettaglio, sul colore. Di fissare e riprodurre in forme non abituali il materiale d’archivio. Attraverso di essa compiamo le nostre “catalogazioni”, archiviamo tra la massa di immagini ritrovate e possedute quelle che provocano in noi forti tensioni. Facciamo emergere dal repertorio i significati nascosti, per rovesciare i significati primitivi. Così si determinano le memorie, i comportamenti, le ideologie. È costituita da due elementi: nel primo scorre verticalmente l’originale 35mm, e può accogliere la perforazione Lumière e le pellicole con vari gradi di restringimento e di decadimento del supporto. Lo scorrimento è manuale, a manovella, data la preca-rietà dello stato delle perforazioni e il continuo rischio di combustione del materiale infiammabile. Questa prima parte della camera è il risultato della trasformazione di una stampatrice a contatto. Il secondo elemento è invece una camera aerea, in asse con il primo elemento di cui assorbe, per trasparenza, l’immagine. È una camera con caratteristiche microscopiche, più fotografiche che cinematografiche. La camera è munita di meccanismi per lo scorrimento laterale, longitudinale e angolare in tutte le direzioni, può rispettare integralmente il fotogramma, la sua struttura originaria e la sua velocità di apparizione, in senso filologico. Oppure penetra in profondità il fotogramma per l’osservazione dei dettagli, nelle zone marginali dell’immagine, nelle parti incontrollate dell’inquadratura. La camera può rispettare il colore del viraggio originale o della coloritura a mano del fotogramma, ma può anche dipingere autonomamente vaste zone del film. Per fare un esempio, per il film Dal Polo all’Equatore (di 101 minuti) sono stati scattati almeno 347.000 fotogrammi.

AL: Insomma uno strumento essenziale che incarna lo specifico del vostro processo di lavoro sulle immagini preesistenti: la visione, la ricerca dentro l’immagine, la catalogazione, il riassemblaggio e la rilettura degli ar-chivi in opere nuove e sconvolgenti.

ARL-YG: È un desiderio di vedere bene l’archivio, che all’origine nasce dalla necessità di guardare materiali letteral-mente invedibili, pellicole che si potevano ormai svolgere solo a mano. In una moviola o in un proiettore si sarebbero distrutti. In questa logica di esperienza del tempo, film e installazione sono davvero vicini. L’immagine si ricrea guar-dandola attraverso un loop, un ritmo, da qui la struttura e natura musicale del montaggio.

AL: Che dà anche un senso molto specifico e direi unico al vostro lavoro sull’archivio. Non è esattamente la tradizione del found footage dello sperimentalismo, né quella della devozione, né tanto meno del suo uso al fine del racconto di controstorie. Ma che tipo di relazione avete con i materiali su cui lavorate?

ARL-YG: È una ricerca incessante, dobbiamo possedere i materiali fisicamente. Solo quando li possiedi, li puoi vede-re; è necessario essere collezionisti.

AL: La marcia dell’uomo, che avete presentato nella mostra Platea dell’umanità di Harald Szeemann alla Bien-nale di Venezia del 2001, è però su tre schermi. Come avete deciso di tornare a ridisegnare lo spazio attraverso le immagini?

ARL-YG: In un certo senso abbiamo rianimato Marey che apre il XX secolo, da cui abbiamo ripreso anche il titolo. E il lavoro nasce da una ricerca lunghissima sul suo lavoro negli archivi alle porte di Parigi. La suddivisione in schermi nasce anche dalle tre fonti di ciascuno schermo, materiali del 1895, del 1910 e dal 1960, un viaggio nel XX secolo nel

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suo momento spartiacque. Era il 2001, ma non era ancora l’11 settembre. Rispetto ai tre schermi, è importante dire che il soggetto chiede inevitabilmente un avvicinamento fisico, nel tempo, del pubblico, che marcia verso l’installa-zione e cammina da uno schermo all’altro vedendo altri uomini marciare. Poi è venuto anche il Trittico del Novecento (2008), commissionato dal Mart di Rovereto, su cinque schermi e articolato nei tre grandi soggetti della guerra, della fame e della religione.

AL: Carrousel de Jeux (2005) nasce invece come installazione. È su materiali trovati, ma in questo caso non su film, ma su oggetti che vi appartengono, una collezione di giocattoli che vengono tolti dalle loro scatole e mo-strati uno dopo l’altro alla camera che riprende.

ARL-YG: È un catalogo di diecimila giocattoli che sono sopravvissuti alle infanzie traumatizzate fra le due guerre mondiali. Miniature fatte di materiali poveri, ombre minacciose del Nazismo e del Fascismo, che abbiamo ritrovato nelle Dolomiti, le cime di porcellana colorate di un rosso artificiale. È un vero e proprio carosello, che ha una sua successione ma non un percorso narrativo, una rassegna che potrebbe anche proseguire all’infinito, se non fosse per il finale. Certo, non è un film su un archivio filmico ma è nelle immagini, come di consueto, che si ritrovano ossessioni e figure. Ci sono sempre bambini, come nei nostri film, per esempio, e fantasmi di atrocità, sofferenza, indicatori del male, delle perversioni dell’immaginario, perfino nei giocattoli. Il montaggio si costruisce su una serie di associazioni.

AL: Per quanto distanti, sembra che fra le prime performance, i “film profumati” con i cataloghi di oggetti, e i giocattoli di Carrousel de Jeux ci sia evidente continuità.

ARL-YG: Certo, è una sorta di catalogo dal vivo. Il processo di scartare le varie scatole di Carrousel, fa scoprire la violenza dei giochi e al tempo stesso la violenza sui giochi, spezzati o frantumati, che portano addosso i segni dei marchi più infami, come per esempio le distinzioni razziali. Non abbandoniamo le nostre ossessioni.

AL: Sentite una responsabilità sociale nel vostro lavoro?

ARL-YG: Fare film sulla guerra purtroppo non significa fermare la guerra. Però sappiamo che il nostro lavoro è desti-nato a un pubblico. Quando abbiamo smesso di fare i film profumati lo abbiamo fatto perché abbiamo capito che era necessario interrompere e passare ad altro, ad un’altra dimensione. Siamo anche andati sul campo, per girare, come quando siamo andati in Unione Sovietica prima e subito dopo il crollo del Comunismo. Abbiamo scelto una strada dura, ma era necessario.*

*La conversazione è una versione rivista dell’originale pubblicata sul n. 31 di “Mousse Magazine” che ne ha gentilmente concesso la ripubblicazione.

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Alla ricerca del tempo perduto— Mark Nash

Ho conosciuto l’opera di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi attraverso uno dei loro film più importanti, Dal Polo all’Equatore (1986), quando fu proiettato e distribuito nel Regno Unito un paio di anni dopo. Critici e cineasti nel Regno Unito sono rimasti affascinati da questo grande progetto sull’eredità della guerra, del colonialismo e delle esplorazioni. Da poco era stato anche distribuito nel Regno Unito il documentario poetico Sans Soleil (1983) di Chris Marker. Sia Gianikian e Ricci Lucchi sia Marker erano alla ricerca di immagini di quelle tracce che avevano plasmato il Novecento, il secolo che aveva anche creato il mondo dell’immagine in movimento. Tanto l’uno quanto gli altri cercavano di comprendere questo mondo contemporaneo attraverso il cinema. Marker, per esempio, interrogava i do-cumenti d’archivio relativi alla lotta di liberazione della Guinea Bissau mostrando filmati di Amilcar Cabral insieme ai commilitoni del PAIGC1, uno dei quali, Inocêncio Kani, lo avrebbe assassinato il 20 gennaio 1973 a Conakry in Guinea, quando il paese era ormai prossimo alla dichiarazione di indipendenza dal Portogallo. Marker commenta i filmati che ci mostra come se fosse possibile riguardare queste immagini del 1973 e vedere il futuro di questa rivolu-zione: la morte di Cabral, l’indipendenza dal Portogallo e tutto il resto. Marker sviluppa una poetica cinematografica che lega queste immagini, e per estensione i loro mondi, allo scopo di creare un mondo filmico utopico, immagini «che risvegliano il cuore».«La prima immagine di cui mi parlò è quella di tre bambini su una strada in Islanda nel 1965. Disse che per lui era l’immagine della felicità e anche che in diverse occasioni aveva tentato di collegarla ad altre immagini, senza mai riuscirvi… Mi parlò di Sei Shonagon, una dama al servizio della principessa Sadako nei primi anni dell’XI secolo, nel periodo Heian… Shonagon aveva una passione per gli elenchi: l’elenco delle “cose eleganti”, delle “cose dolorose” e addirittura delle “cose che non vale la pena di fare”. Un giorno ebbe l’idea di compilare un elenco delle “cose che risvegliano il cuore”». L’opera di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi ha molti punti in comune con quella di Marker, per esempio la politica materialistica. Usando il cinema per auspicare un mondo migliore, sono in un certo senso socialisti, sebbene questo non sia l’argomento specifico di nessuno dei loro film, così come invece lo è per Marker. I Gianikian lavorano esclusivamente su filmati d’archivio, film che hanno caparbiamente cercato nelle cineteche di tutto il mondo, e poi nello studio e nella sala di montaggio del loro appartamento milanese editano questo materiale usando le tecniche del rallentatore, della ripetizione e del viraggio.

Giocano con quello che Roland Barthes ha chiamato l’«effetto di realtà»2 dell’immagine fotografica. L’immagine fotografica secondo Barthes si coniuga in un tempo particolare: il presente anteriore. Parla sia di oggi (il momento in cui la vediamo) sia di allora (il tempo dell’evento filmato). La fotografia è portentosa per la sua capacità di mescolare questi due tempi, se vogliamo riportando in vita i morti. Reagiamo di fronte ai filmati d’archivio come se vedessimo un evento per la prima volta, o con occhi nuovi. Non riusciamo a vedere la distanza cronologica che ci separa dall’e-vento. I soldati italiani della Prima Guerra Mondiale sono intenti ad attraversare le Alpi Giulie adesso, un orso bianco viene colpito da una fucilata in questo momento, i missionari sono ancora al lavoro in Africa. Il film Dal Polo all’E-quatore gioca con questo effetto di realtà del cinema. Il rallentatore, in particolare, ci ricorda che stiamo guardando un film, analizzando un’azione come in un film narrativo, calcolando il preciso momento in cui il proiettile ucciderà l’orso bianco. Ma le immagini riprendono il loro corso normale e ci troviamo immersi di nuovo in una realtà cine-matografica che è ancora più reale proprio per il fatto di essere stata filmata. Gli aficionados del cinema sperimentale ricorderanno il lungometraggio di Ken Jacobs, Tom, Tom, the Piper’s Son (1969) in cui il regista utilizza accorgimenti simili a quelli presenti nell’omonimo corto del 1905. Jacobs si concentra sull’immagine filmica, il movimento della pellicola, la grana dell’immagine, e a mano a mano che interviene sul materiale, questo si fa sempre più astratto e scollegato da qualsiasi referente.

Gianikian e Ricci Lucchi condividono i medesimi interessi, ma la loro ambizione è molto più grande, i loro film assomigliano piuttosto a una macchina del tempo con cui viaggiamo all’indietro nel passato, vivendolo come se fosse il presente. Chris Marker naturalmente aveva creato una macchina simile con il suo film di fantascienza La Jetée (1962) in cui emissari del futuro vengono mandati nel presente per cercare di deviare il corso della storia ed evitare una guerra catastrofica. Gianikian e Ricci Lucchi cercano di conferire alle loro immagini una tale carica emotiva che lo spettatore vive, come per la prima volta, qualcosa della pena e del terrore che quegli eventi devono sicuramente aver evocato in coloro che ne sono stati testimoni, come il cineasta originale, in questo caso, il pioniere milanese del cinema di documentazione, Luca Comerio (1878-1940). Gianikian e Ricci Lucchi editano sequenze del materia-le di Comerio per creare una sequenza narrativa che racconta la storia del Novecento in un modo che a quel tempo

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non sarebbe stato possibile. Ci spostiamo letteralmente da un capo all’altro del mondo, dal polo all’equatore, con le immagini che creano collegamenti fra esplorazione, colonialismo e guerra. La loro è una storia affettiva, una sequen-za di emozioni prodotte dal nostro leggere la sequenza di questo film come un racconto. L’avvio del film, una lunga carrellata di un viaggio in treno in uno scenario di montagna, ha una funzione emblematica. Nell’Ottocento, il treno trasformò il concetto di geografia, di durata e di narrazione (poiché i romanzi uscivano a puntate, si potevano leggere in treno). In Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust racconta con grande efficacia come il paesaggio di Baalbec sia stato trasformato psico-geograficamente dall’arrivo del treno. Il treno con cui cominciano il loro film è anche la macchina da presa che crea e al tempo stesso trasforma la nostra esperienza del Novecento, condensandone lo spazio, il tempo e la narrazione.

L’esempio più emozionante di questo sentimento della loro opera è il lungometraggio Oh! Uomo (2004). Il peso as-soluto di queste immagini delle deformità e sofferenze provocate dalla Prima Guerra Mondiale crea un impatto molto forte, come se vedessimo per la prima volta gli effetti della guerra sul corpo dell’uomo. Oggi siamo abituati alle no-tizie che tutti i giorni arrivano da teatri di guerra come la Libia e l’Afghanistan, solo per citarne alcuni, ma i media di oggi ci riparano da queste realtà e ci desensibilizzano con la riproposizione ossessiva delle immagini. In Oh! Uomo, invece, i corpi dei feriti si ammucchiano davanti ai nostri occhi, lo schermo si riempie di amputati e di arti artificiali come a voler quantificare gli effetti della guerra sui sopravvissuti. Viene in mente un paragone diretto con J’Accuse (1919) di Abel Gance in cui i morti in guerra tornano a sfidare i vivi per la loro colpa.

Lavoro da tempo con artisti che si occupano di immagini documentaristiche. Non avevo potuto includere Gianikian e Ricci Lucchi in Documenta11, che presentava una vasta gamma di opere documentaristiche al mondo artistico con-temporaneo, ma a seguito del mio lavoro per Documenta, nel 2004 sono stato invitato a curare una mostra presso il Fabric Workshop and Museum di Philadelphia. Pensai subito a Gianikian e Ricci Lucchi. Le loro opere cominciavano a fare la loro comparsa in contesti artistici di alto profilo e avevo visto il loro progetto per La marcia dell’uomo alla Biennale di Venezia di Harald Szeemann del 2001 e anche Catherine David aveva inserito il loro film sugli aborigeni australiani Terra Nullius nel suo programma del 2003 presso il Witte de Witt di Rotterdam. La presentazione di Sze-emann proponeva un percorso attraverso una serie di schermi su cui veniva proiettato materiale d’archivio, parte del quale sarebbe poi apparso in Oh! Uomo. Non ero convinto che questo fosse il modo migliore per presentare la loro opera in un contesto artistico, perché lo spettatore poteva scegliere di non confrontarsi direttamente con il materiale, passando semplicemente oltre.

Andai a trovare Gianikian e Ricci Lucchi nel loro appartamento-studio di Milano per parlare del mio progetto di mostra Experiments with Truth che prendeva spunto dal sottotitolo dell’autobiografia di Gandhi, «i miei esperimenti con la verità», come modo di evidenziare l’approccio differente e sperimentale al documentario di diversi artisti3. Gli esperimenti di Gianikian e Ricci Lucchi con i filmati d’archivio mettono alla prova la “verità”, nascono per stabilire che cosa si può (e non si può) dire nel presente a proposito del passato. Considerate le mie preoccupazioni circa la necessità di vedere le loro opere più lunghe nella loro interezza, Gianikian e Ricci Lucchi mi mostrarono una serie di film, tre dei quali già terminati, e il quarto in lavorazione. Accettai di procurare finanziamenti per il quarto, Nuova Caledonia, affinché potessimo presentarli nella mia mostra come una serie costituita da quattro opere, Frammenti elettrici (2002-04).

Frammenti elettrici utilizza spezzoni fotoamatoriali privati girati dopo la Seconda Guerra Mondiale e la caduta del Fascismo in Europa. Nelle parole dei cineasti, racconta le «disuguaglianze sociali e delle diverse “specie” di esseri umani». In Rom (Uomini) del 2002, milanesi della buona borghesia incontrano quasi per caso alcuni Rom liberati dai campi di concentramento e accampati alla periferia della città. Il film prefigura la storia della loro persecuzione che continuerà nel dopoguerra. In Viet-Nam (2002), le fantasticherie turistiche di un militare francese includono alcuni spezzoni sull’innocente fraternizzazione con uomini e ragazzi vietnamiti, i quali smentiscono quella che conosciamo come la realtà dell’imperialismo francese in essere e di quello americano prossimo venturo. Il terzo frammento, Corpi (2003), propone spezzoni ripresi di nascosto di donne che si rilassano su una spiaggia; né puritano né pruriginoso, questo film mette in evidenza il voyeurismo, un problema al centro di questa serie, come la questione del controllo: chi ha in mano la macchina da presa?

Il noto saggio di Hal Foster, The Artist as Ethnographer4, esplora l’opera di artisti che assumono la posizione di etnografi, talvolta con estrema ingenuità, in altri come nel caso di Gianikian e Ricci Lucchi con grande sensibilità in relazione al modo di affrontare la cultura visiva dell’antropologia. Nelle parole di Foster, i Gianikian cercano di «inquadrare chi inquadra mentre questi inquadra l’altro»5. Questo si nota più chiaramente nel quarto frammento, Nuova Caledonia (2004), che prende in esame le immagini dei festeggiamenti di cui sono stati testimoni alcuni rap-presentanti della Francia, potenza coloniale di allora. Con reinquadrature e ripetizioni, i cineasti cercano immagini dei colonizzatori nelle loro divise chiare da contrapporre ai corpi neri dei neocaledoniani che danzano per i loro padroni,

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drammatizzando i rapporti di forza fra indigeni e uomo bianco. Mentre lavoravo alla progettazione della mostra, mi resi conto che la presentazione migliore per questi film era un’installazione. I quattro film dovevano essere proiettati su schermi disposti a formare un rettangolo, appesi a una distanza sufficiente dalle pareti tale che le persone potesse-ro camminarvi dietro o davanti, come a voler editare i quattro pezzi in un’unica esperienza che lo spettatore potesse modulare attraverso il proprio movimento nello spazio. Erano tutti abbastanza brevi da consentire la permanenza dello spettatore per l’intera durata del lavoro. L’idea ha funzionato molto bene: i quattro pezzi sono molto diversi in termini di contenuti e questa differenza è stata enfatizzata dai diversi viraggi oltre che dai contenuti stessi, quindi si è trattato chiaramente di un’installazione di quattro film distinti. Gianikian e Ricci Lucchi realizzano spesso colonne sonore sperimentali e ipnotiche per i loro film. Non avevamo parlato di come organizzare le tre colonne sonore (Nuo-va Caledonia all’epoca non l’aveva) quindi proposi di prendere da Viet-Nam un pezzo di sole percussioni particolar-mente ipnotico e di ripeterlo per tutta l’installazione nel suo complesso. E ha funzionato. Il suono che echeggiava in tutta la mostra attirava gente a vedere questo festival di affetti che Gianikian e Ricci Lucchi avevano prodotto. Questo è anche, naturalmente, un esempio di curatela interventista. I cineasti avevano una scaletta di produzione piuttosto serrata, non sono potuti venire a Philadelphia e penso fossero così impegnati con il repertorio di immagini cui stavano lavorando che pensarle in termini spaziali non rappresentava per loro una priorità. All’HangarBicocca, invece, le loro opere vengono adeguatamente presentate negli spazi che meritano.

Gianikian e Ricci Lucchi parlano con eloquenza del loro lavoro. Sono talmente appassionati di ciò che fanno, delle loro scoperte e delle rivelazioni che possono provenire dai loro film che mi viene in mente la metafora di André Bazin del film come maschera funeraria della realtà, capace di fornire un collegamento esistenziale con un mondo che non è più con noi. Perché Gianikian e Ricci Lucchi sono capaci di riportarci indietro nel tempo facendo rivivere immagini ormai morte.

Quest’opera è pubblicata sotto licenza Creative Commons – Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/deed.it) ed è scaricabile dal sito www.hangarbicocca.org in formato pdf e ebook.

1. PAIGC, Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde.2. R. Barthes, L’effet de réel, in “Communications”, n. 1, 1968, pp. 84-89.3. M. Nash, Experiments with Truth, The Fabric Workshop and Museum, Philadelphia, 2004.4. H. Foster, The Artist as Ethnographer in The Return of the Real: The Avant-garde at the End of the Century, MIT Press, Cambridge, MA, 1996, p. 203.5. Vedi Trinh Min Ha, The Framer Framed, Routledge, New York, 1996. In questa raccolta di saggi, l’autrice presenta un’altra prospettiva dell’artista su questi temi.

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Bloody News from Friends, Notizie di sangue dagli amici: il cinema denso di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi— Ara H. Merjian

Lo scrivere mondano comincia coi fatti, ma si affida alla fantasia per arrivare al nocciolo della questio-ne… Gli eventi si raggruppano e si dissolvono… La prosa del testimone risponde al mondo, trova il pro-prio impiego nelle occasioni che la richiamano. Il suo metodo è precisa attenzione per l’attuale. Dipende da una rispettosa lettura del dettaglio; dalla fantasia che crea collegamenti e vede quello che c’è. Dipen-de anche dall’arte…

- Terrence Des Pres, Writing into the World, 1991

Non voglio che questa lettera ti impaurisca,Il tuo cuore, come la nostra terra insanguinatae il ramo d’olivo del nostro sogno di Fratellanza,brucerà ancora nelle fiamme di tutto questo.

- Siamanto, «Il pugnale», Bloody News from my Friend, 1909

Da oltre quarant’anni, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi recuperano, ri-fotografano e alterano in modo sottile filmati di origine disparata. Lavorando insieme, la coppia modifica i fotogrammi virandoli, introducendo sequenze al rallentatore e negativi invertiti, mettendo allo scoperto rapporti improbabili e spesso sconvolgenti tra fatti apparen-temente scollegati. Le loro (ri-)composizioni trattano un nucleo di temi coerenti del Novecento: guerra, Fascismo, colonialismo, sport, spettacolo e i fili che li annodano.

Fili che spesso assumono forma corporea. La Storia nelle opere di Gianikian e Ricci Lucchi non è semplicemente fatta di striature a grana grossa o patina del nitrato sbiadito, ma ritorno di corpi reali. Corpi mutilati e straziati dalle bombe (Oh! Uomo, 2004); disposti in cerchio e inseriti in scenografie per cerimonie politiche (Il fiore della razza, 1991; Su tutte le vette è pace, 1998); sondati e ridotti a feticci dall’occhio errante della macchina da presa (Images d’Orient – Tourisme vandale, 2001). In Oh! Uomo il montaggio di anonimi veterani mutilati della Prima Guerra Mondiale in primo piano rivela volti sfigurati che si affannano (invano) per contorcersi in sorrisi condiscendenti. È la storia del XX secolo distillata, per un istante, in un’immagine, una forma umana, deformata. Umiltà e ferocia, scienza e il suo mostro di Frankenstein. Un sorriso senza mento.

Non è solo verso i corpi dei soggetti ripresi che il lavoro di Ricci Lucchi e Gianikian richiama l’attenzione. I primi esperimenti cinematografici della metà degli anni Settanta sono i “film profumati”, in cui l‘immaginario si dispiega insieme a particolari odori, scelti e diffusi dagli artisti. Alice profumata di rosa (1975) era legato, giustappunto, al profumo di questo fiore. Per Catalogo della scomposizione (1975), gli artisti facevano circolare l’odore della nafta-lina. Sinestetiche nel vero senso della parola, queste opere cercavano una sorta di empatia corporea fra lo spettatore e l’immagine. Costantemente silenzioso, ancorché privato di abbellimenti olfattivi, il lavoro d’archivio di Gianikian e Ricci Lucchi ha continuato a perseguire quella che potremmo chiamare fenomenologia degli spettatori. Alcuni dei tropi evidenziati nei loro film ricordano espedienti storici dell’arte. Sia in Das Lied von der Erde – Gustav Mahler (1982) sia in Su tutte le vette è pace, troviamo per esempio imponenti Rückenfigur.

Resa celebre dal paesaggista tedesco Caspar David Friedrich, la Rückenfigur è letteralmente una “figura di spalle”. Vista da dietro, la sua presenza risveglia in noi l’attenzione per la scena osservata e ricapitola il nostro vedere all’in-terno della composizione stessa1. La dimensione cinetica dell’immagine filmica entra in risonanza in modo ancora più empatico con il corpo dell’osservatore. Nei film di Ricci Lucchi e Gianikian, la dilatazione delle sequenze sottolinea una proiezione immaginata o percepita nel fotogramma.

Nei primi decenni del Novecento, fondamentali per il lavoro dei due registi, i futuristi italiani si erano dedicati a «por-

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re lo spettatore al centro del quadro». Riproponendo ed editando le immagini cinematografiche di quegli stessi anni, Gianikian e Ricci Lucchi fanno qualcosa di simile, opponendosi però in modo assoluto all’insistenza dei futuristi per la velocità. Lo spettatore, sostiene Ricci Lucchi, viene spronato dai film a uscire dalla passività, sollecitato dalla tem-poralità coagulata dell’immagine, per riflettere sul proprio processo percettivo: «Devi entrare dentro ogni fotogramma. Ti obblighiamo a riflettere sulle operazioni che abbiamo condotto sul materiale originale». Di sicuro, questa consape-volezza spesso appare nelle riprese originali stesse. L’atto della visione – specie quella protesica – viene ripetutamente in superficie nei primi film muti che i registi hanno riportato alla luce. Se Gianikian e Ricci Lucci contribuiscono a smorzare la frequente violenza della sorveglianza e delle tecnologie di visione, il materiale su cui si basano accelera tale attenzione. In diversi film vediamo cacciatori puntare fucili muniti di mirino, o afferrare binocoli da dietro un cespuglio. Lo sguardo della Rückenfigur lascia spazio a un atto meno eccentrico, più teleologico.

Anche quando il corpo è assente dal fotogramma, Gianikian e Ricci Lucchi sfruttano un mondo sagomato, e rovinato, dal disegno dell’uomo. Ghiro Ghiro Tondo (2007) seleziona giocattoli e bambole smarriti, raccolti in diversi luoghi d’Europa fra le due guerre mondiali. Che si tratti di soldatini o di una statuetta di Mussolini, gli oggetti evocano il Fascismo e le sue conseguenze a livello sia implicito che esplicito. Sopravvissuti ai danni del tempo che invece non hanno risparmiato chi li ha realizzati e chi li ha posseduti, questi vecchi oggetti testimoniano – con una poeticità a denti stretti – una materialità parallela. Gli oggetti qui sono muti e anonimi come i soggetti che compaiono nelle altre produzioni dei due registi e nelle riprese da essi ritrovate. Allontanandosi, tuttavia, dal loro modus operandi abituale, Ricci Lucchi e Gianikian hanno filmato gli oggetti direttamente. L’unica colonna sonora è il rumore della carta quan-do le cose vengono estratte dagli involucri, isolate, messe in mostra davanti alla macchina da presa. Il lavoro richiama in qualche modo l’idea di Siegfried Kracauer del regista come “straccivendolo”.

Eppure il film è privo della proverbiale sporcizia insita in questo lavoro di recupero2. Procede implacabilmente, quasi oppressivamente, in modo empirico. Non c’è viraggio, né rallentatore. Cadenzata nell’arco di un’ora espressamente monotona, la presentazione di ogni oggetto mina – con la propria serialità – quel concetto di storia individuale che potremmo voler attribuire a ciascuno, attenua il pathos implicito in certi passaggi (l’aspetto fortemente connotato in termini razziali di certe statuette, per esempio; o i mucchi di bambole sudice che evocano il terrore dei campi). Ghiro Ghiro Tondo frustra spesso gli spettatori con il suo distacco, il suo deviare da una progressione narrativa più logica. Tuttavia, possiamo pensare al film come metafora – involontaria o no che sia – dell’attività più generale degli artisti: la cernita di resti storici, a metà strada fra il tentativo ostinato di trovare un significato nella modernità e il riconosci-mento della sua inesorabile, spesso spietata successione.

La cernita e la rimessa in sequenza dei fotogrammi in gran parte delle opere di Ricci Lucchi e Gianikian, rappresen-tano una protesta tacita contro l’inesorabilità del secolo scorso, contro un positivismo che è andato nella direzione sbagliata. La marcia dell’uomo prende come punto di partenza implicito l’Exposition Ethnographique de l’Afrique Occidentale di Parigi del 1895. È qui che venne installato il pannello fotografico di Félix Regnault, Hommes nègres, marche, un campione di quello che il Dott. Regnault sperava potesse un giorno costituire un inventario completo dei tipi razziali. Alla maniera degli studi cronofotografici di Étienne-Jules Marey, uomini dell’Africa occidentale cammi-nano sullo sfondo di un telo bianco, fotografati di lato. Il termine francese per la stampa fotografica – cliché – non è forse mai stato usato in modo più appropriato che altrove per indicare una prassi di definizione (letterale) dei profili razziali, all’apice del dominio colonialista e di quello che è stato il suo microcosmico terreno di gioco: l’Esposizione Universale.

Commentando l’intensità emotiva dei suoi «manufatti mobili» quali documenti razziali, Regnault asseriva che «nell’uomo primitivo, il gesto ha preceduto la parola». Così come tante riprese etnografiche della prima ora, l’imma-ginario riportato alla luce da Gianikian e Ricci Lucchi per La marcia dell’uomo risentono di quell’assioma. Le tribù apparentemente intercambiabili catalogate dalla macchina da presa non hanno bisogno di sonoro – e nemmeno di sottotitoli – per indurre una riflessione sulla loro presenza, a un tempo selvaggia e trasparente, esotica ed essenziale. La presunta universalità dei “primitivi” (persino quelli più strani) in questi film, non deriva da un qualche pathos sul genere della “famiglia dell’uomo”, ma piuttosto dalla convinzione che i loro gesti fossero, come affermava Regnault, «identici presso tutti i popoli… riflessi naturali e non convenzionali come il linguaggio». Individui anonimi che sfila-no, pungolati a fare smorfie in macchina come star hollywoodiane qualsiasi nell’epoca del cinema muto.

La vista, nella Marcia dell’uomo, di un colonizzatore che abbatte animali di grossa taglia per divertimento, e poi manda uno dei suoi servitori indigeni a raccoglierli, è quasi banale nella sua dura arroganza. Così come lo è il costante collegamento fra lo sguardo della macchina da presa e il cannocchiale del cacciatore. Le immagini utilizzate per Dal Polo all’Equatore e Lo specchio di Diana (1996) simboleggiano la tracotanza del secolo persino – o soprattutto – quando ritiene di illuminare. Ma Gianikian e Ricci Lucchi hanno messo in evidenza il pregiudizio presente anche nei documentari ispirati a buoni principî (si pensi, per esempio, a Nanuk l’eschimese). La distorsione è spesso insita nel

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progetto stesso del documentario. Non possiamo quindi avvicinarci ai film di Ricci Lucchi e Gianikian come semplici sovvertimenti del realismo. Come hanno osservato gli artisti stessi nei loro appunti per La marcia dell’uomo, gran par-te dei filmati originali con cui lavorano, già “deforma e snatura” i soggetti. Nella maggior parte dei casi, la “macchina da presa occidentale” cercava argomenti e punti di vista esotici per confermare i propri preconcetti, offrendo un’etno-grafia speciosa nella sua selettività.

Quelle scelte includevano spesso l’edificante impresa della colonizzazione. Dal Polo all’Equatore ci mostra scolari africani che imparano a farsi il segno della croce e applaudono all’unisono, sotto lo sguardo attento di una missionaria in cappello da safari. I gesti appresi meccanicamente sembrano echeggiare nella colonna sonora originale di Keith Ullrich e Charles Anderson, con le sue note metalliche al pianoforte, insistenti e dissonanti al tempo stesso. L’inqua-dratura successiva rivela un rapporto diverso fra colonizzatore e suddito, mentre un colono bianco abbatte un grosso animale, e alcuni africani vengono mandati a legare la bestia morente (un rituale ripetuto nella Marcia dell’uomo). I diritti avanzati dalla colonizzazione trovano, nella caccia, uno svago totalmente opposto su cui Gianikian e Ricci Luc-chi puntano ripetutamente. Una sequenza successiva vede un uomo bianco che stuzzica un’antilope solitaria, prenden-dola poi per le corna e mettendola in mostra come un trofeo davanti alla macchina da presa. Gli animali sembrano più grandi man mano che le sequenze vanno avanti, con le zebre che lasciano il posto ai rinoceronti.

Ma le curiosità esotiche dell’imperialismo possono attingere a fonti più nostrane, come nel film della coppia La Sentinella della Patria, costruito sulle registrazioni realizzate nel 1927 da Chino Ermarcora delle danze folcloristiche friulane. Salvo l’apparente celebrazione dei campi di battaglia del fronte settentrionale della Grande Guerra (e per estensione il fiorire del nazionalismo novecentesco italiano), il soggetto sembrerebbe violare l’ansiosa sorveglianza della cultura regionale da parte del regime fascista. Il colonialismo, comunque, comincia in casa propria. Alla fine di Dal Polo all’Equatore, Gianikian e Ricci Lucchi hanno inserito uno spezzone dell’ingresso di Mussolini a Tripoli, a cavallo usando riprese non di Comerio, ma dell’Istituto Luce3. La Storia diventa prolettica anziché strettamente crono-logica. Mussolini in Africa non ricordava semplicemente la millenaria romanità di Scipione, ma il più recente esempio di Gabriele D’Annunzio a Fiume. Anziché reiterare la logica diacronica, l’opera di Gianikian e Ricci Lucchi sottolinea le bizzarrie del tempo storico: anacronistico, atavico, eternamente ricorrente.

Sia nell’approccio che nella finalità, di fatto, la loro opera è saldamente storica. Ma perché è emersa proprio in un determinato momento? Perché ha assunto la forma che ha? Alcune risposte ci arrivano dalla loro biografia. Per Giani-kian, figlio di un sopravvissuto del genocidio armeno, essere testimone è un impegno quotidiano; formatasi nell’Italia degli anni Sessanta, Ricci Lucchi è altrettanto impegnata in una politica di testimonianza, libera da qualsiasi restrittivo senso di italianità. A parte le intenzioni o le dimensioni personali, tuttavia, possiamo meglio comprendere l’essenza storica della loro opera contestualizzandola storicamente. Il loro lavoro è stato considerato perlopiù un fenomeno sui generis, avulso da altre tendenze artistiche e cinematografie. Poche eccezioni hanno deviato da questo presuppo-sto. Fotogrammi di uno dei primi film di Gianikian e Ricci Lucchi sulla collezione di cadaveri “criminali” di Cesare Lombroso furono inclusi nella mostra tenutasi a Venezia nel 2009, Italics: Arte italiana fra tradizione e rivoluzione, 1968-2008. Esposte nella tromba delle scale di Palazzo Grassi, le immagini echeggiavano altre opere, sia precedenti che successive: una fotografia di Roberto Cuoghi di un cadavere mezzo seppellito nella terra (2006); l’immagine di Paolo Mussat Sartor di una scultura di Luciano Fabro che assomiglia a un cadavere coperto da un telo (1968); i nove cadaveri di Maurizio Cattelan, All (2008), scolpiti in marmo di Carrara e distesi a terra uno accanto all’altro. Allestita quello stesso anno al Mart, la proiezione di Gianikian e Ricci Lucchi, Trittico del Novecento, ricorda altre installazioni video simili, così come la loro opera Frammenti elettrici del 2006 in mostra al MoMA PS1.

Eppure, a parte qualche occasionale rima visiva, o affinità ideologica con gli esperimenti di qualche contemporaneo, la loro opera trova poche analogie negli ambienti artistici e cinematografici. L’ambito accademico offre forse esempi più appropriati. La fine degli anni Settanta, quando Gianikian e Ricci Lucchi cominciarono con i loro primi lavori d’archivio, ha visto l’ascesa di quella che comunemente viene chiamata “microstoria”. Benché diffuso in tutta Europa, il metodo si è messo in evidenza più visibilmente prima in Italia, in particolare con Giovanni Levi e Carlo Ginzburg (co-fondatori, nel 1981, della collana Microstorie per Einaudi)4. Gianikian e Ricci Lucchi non hanno importato questa ricerca nel loro lavoro in nessun senso esplicito, ma questa vi ha assunto un ruolo importante per molti versi. I meto-di sviluppati negli studi microstorici – tratti in diversi casi dalla disciplina in evoluzione dell’antropologia culturale – echeggiano in tutta la loro filmografia. I loro montaggi allontanano la storia dal solco perentorio della narrazione ufficiale, riconvogliandola attraverso canali ed estuari, lasciandola ristagnare in rientranze e insenature nelle quali è più facile coglierla. A tal fine, gli artisti hanno attinto – e a loro volta contribuito – ad aspetti della teoria post-colonia-le, studi subalterni e storiografia marxista, i quali hanno tutti avuto enorme importanza ed esercitato grande influenza negli anni Settanta e Ottanta.

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Quella che Clifford Geertz chiamava «thick description» trova, a mio avviso, una certa eco nei fotogrammi rallentati e in loop dei due registi, nell’estrapolazione e nell’isolamento delle sequenze, finalizzate alla loro analisi5. In modo più ovvio, l’uso da parte di Gianikian e Ricci Lucchi dei primi piani (là dove non erano previsti) evoca un’attenzione microscopica per il dettaglio emarginato. E tuttavia è l’ethos temporale generale della loro opera – un’etica del tempo – che tradisce in modo più intenso la sua particolare sensibilità storica. Il tempo, nei loro film, si addensa, appare «pried open»6, per dirla con le parole di Stephen Kern (nella sua incisiva storia, Il tempo e lo spazio: la percezione del mondo tra Otto e Novecento). La trasformazione di un evento non specificato in una sorta di “caso di studio”: quella tendenza – tipica tanto dei primi esperimenti di montaggio del cinema d’avanguardia quanto della scuola microstorica degli anni Settanta e Ottanta – emerge con estrema evidenza nel metodo di Gianikian e Ricci Lucchi.

Ancorché stimolato dallo stesso impeto archivistico della ricerca accademica, il loro lavoro non è in alcun modo di-dattico. Se produce una propria retorica, non offre una trattazione esplicita e men che meno esplicativa. Nella misura in cui gli artisti catalogano e classificano immagini, essi ne insidiano l’aspirazione a un logos definito. Perché, ci ricordano i loro film, è anzitutto all’apparente servizio del progresso e della ragione che sono stati messi questi regimi (originali) di scrutinio e sorveglianza. Altrettanto vitali per l’amministrazione coloniale quanto la cartografia, la fotografia e il cinema sono serviti da propaggini tecnologiche della ragione illuministica. Il territorio appena mappato delle colonie appariva coestensivo con la portata della macchina da presa, una complicità che l’opera di Ricci Lucchi e Gianikian non ci permette di dimenticare. Ripresa da una macchina montata sulla motrice di un treno, la sequenza iniziale di Dal Polo all’Equatore si dispiega dentro la volta di una galleria buia, prima di aprirsi su un paesaggio alpi-no nel quale si fanno strada le rotaie. Affinità metaforiche – fra rappresentazione e topografia, obiettivo fotografico e parete della galleria, rocchetto dentato e traversina – non potrebbero essere rese in modo più carismatico che in questi primi dieci minuti del film di Comerio. Un’equivalenza simile emerge nella sequenza immediatamente successiva, quando la prua di una nave taglia il ghiaccio artico, il “polo” eponimo del titolo del film.

Come le riprese di Comerio, l’ampia filmografia di Gianikian e Ricci Lucchi attraversa gli angoli più reconditi del pia-neta, dai Balcani alle ultime vestigia dell’Impero ottomano, dalle savane alle giungle dei climi più caldi. A unificare la varietà delle location provvede una sorta di spettralità, uno degli aspetti più coerenti e particolari delle loro immagini. Come ha osservato Robert Lumley, quella qualità fantasmatica ricorda gli epiteti associati alle prime proiezioni cine-matografiche: «spettrali», «sinistre», «ossessionanti»7. E tuttavia, il lavoro di Gianikian e Ricci Lucchi recupera anche la proposizione inversa dell’apparato cinematografico, la sua presa apparentemente agevole sulla realtà. La misteriosa dimensione delle loro immagini deriva anzitutto dalla loro evidente veridicità; il loro essere spettrali sconvolge per via dell’evidente solidità e corporeità di persone, oggetti, paesaggi. Una dialettica irrisolta – tra fatto e fiction, tra pratico e mistico, tra l’empirismo ordinario dei fratelli Lumière e la fantasia di un Georges Méliès – da sempre si cela nel cuore del cinema, fin dalle sue origini. I caratteristici intertitoli a stampa che aprono i film di Gianikian e Ricci Lucchi rendono omaggio alla preistoria da cui il loro impegno dipende.

I loro film sono ancora spesso etichettati come “documentari”. Il loro lavoro, tuttavia, trascende e insidia la giusta opportunità di quel genere. Il montaggio lirico e studiato con cui la coppia edita materiale esistente costituisce invece una sorta di prassi meta-documentaria: un archivio cinematografico e al tempo stesso una decostruzione dei suoi mez-zi e dei suoi metodi; testimonianza visiva, e relativa meditazione sui piaceri, gli orrori e i fallimenti del testimoniare. Le aggiunte cinematografiche di Gianikian e Ricci Lucchi – che, altrettanto spesso, sono sottrazioni (omissioni, tagli, ellissi) – flettono il materiale verso nuovi significati. Inflessioni che, a parte le tinte che impregnano le diverse scene, o il ralenti che ne distende le forme, sono quasi intangibili in senso plastico. Gli interventi degli artisti sono deliberati, tropologici, persino tendenziosi; allargano alcuni fotogrammi, ne escludono altri. Mettono in evidenza meccanismi ap-parentemente trasparenti: strategie di allestimento scenico, di messa in quadro, di montaggio che si celano in maniera indiscernibile nell’originale. L’inestricabilità dalle fonti dei film di Gianikian e Ricci Lucchi: questa, a mio avviso, è l’essenza del loro modo di operare, la sua quiddità, la sua curiosità.

È anche ciò che avvicina di più il loro lavoro ad alcune tendenze dell’avanguardia e della neo-avanguardia del No-vecento. Le tecniche di montaggio e rallentatore utilizzate nel loro lavoro ricordano illustri esempi del cinema d’a-vanguardia (Ejzenstejn, Entr’Acte, ecc.). Ma ancora più profonda è l’intenzione che anima il loro lavoro. I film di Gianikian e Ricci Lucchi aderiscono all’essenza degli originali, parlano con e attraverso i loro idiomi, pur alterandoli. Gli artisti scrivono: «La macchina da presa auspicata da Marey si insinua nei visi, nelle forme, nella testa, nel corpo, (quasi) fino dentro agli organi»8. Non è una coincidenza che Gianikian abbia descritto il loro lavoro come una “vivi-sezione” cinematografica9. La loro macchina da presa critica si compenetra (in massima parte) impercettibilmente con quella che l’ha preceduta. Il loro lavoro prende le mosse da filmati esistenti, senza differenza da quell’oggetto trovato che è materia prima dell’ironia dadaista. I loro film si riallacciano quindi tanto all’opera di René Clair quanto a quella di Péter Forgács; hanno qualcosa in comune tanto con la fotografia di Sherry Levine quanto con quella di Shimon Attie.

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Basti pensare, in questo filone, al collage fotografico di Salvador Dalí del 1933, El fenómeno del éxtasis, che evoca, con la sua struttura a griglia, i pannelli diagnostici sull’“isteria” del Dott. Charcot. La cernita, la catalogazione e la selezione delle immagini di Gianikian e Ricci Lucchi ricordano i processi della criminologia pseudo-scientifica di Lombroso, oggetto di uno dei loro primi film. Parte di ciò che rende il loro lavoro tanto avvincente è l’instabilità dei registri: amministrazione imperiale e curiosità antropologica; esaltazione della violenza e lamento per i suoi effetti; descrizione scientifica e decostruzione artistica; illustrazione ed empatia. Gianikian e Ricci Lucchi ripropongono la serietà delle immagini di origine, ma al tempo stesso la epurano dalle sue supposizioni apodittiche e dalle deleterie conseguenze delle stesse sulla tarda modernità. Scott Mac Donald ha opportunamente definito il loro lavoro «schizoi-de» nei suoi effetti10.

Ciò che gli artisti non sono riusciti a trovare, permea il loro lavoro tanto quanto qualsiasi altra cosa. Gianikian ha os-servato che continuerà a cercare, fino alla morte, filmati del genocidio armeno. In senso più metaforico, è una mancan-za, un vuoto, una insufficienza, che tormenta il cuore del progetto degli artisti. Una ferita sempre aperta. Come ci ha ricordato con bruciante eloquenza nei suoi scritti il compianto Terrence Des Pres, la poesia dell’essere testimoni deve rendere presente ciò che è assente, un peso spesso incompatibile con il modernismo, con il suo debole per l’ellissi e l’omissione, la negazione e il silenzio11. I film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi creano un accordo impro-babile fra questi imperativi, ri-suturati sul cadavere frankensteiniano del Novecento. Dottore e mostro al tempo stesso, il loro progetto incarna tutta la speranza e l’orrore del suo corpo fotomontato.

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1. Sulla Rückenfigur nell’opera di Friedrich e su alcuni dei suoi antecedenti, si veda J.L. Koerner, Caspar David Friedrich and the Subject of Landscape, Yale University Press, New Haven e London, 1990, pp. 159-166.

2. S. Kracauer, Theory of Film: The Redemption of Physical Reality, Princeton University Press, Princeton, 1997.3. S. Mac Donald, A Critical Cinema: Interviews with Independent Filmmakers, University of California Press, Berkeley, 1998, p. 282. [«La ripresa non è di

Comerio, ma dell’Istituto Luce. Abbiamo voluto mostrare cosa sarebbe il futuro degli Italiani».]4. Si veda G. Levi, On Microhistory, in P. Burke, New Perspectives on Historical Writing, Polity Press, London, 1991, pp. 93-113. In italiano, A proposito di

Microstoria, in Peter Burke (a cura di), La storiografia contemporanea, Laterza, Roma/Bari, 1993, pp. 111-134.5. C. Geertz, Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture, in The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973.6. Stephen Kern usa il termine «presente denso» in riferimento alle evocazioni della simultaneità nella cultura europea nella seconda decade del ventesimo secolo,

in particolare a quella del cinema – un apparato che ha permesso a «ogni momento [di essere] forzato e espanso a volontà». Si veda l’acuta storia di Kern, The Culture of Time and Space, 1880-1918, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1983, pp. 65-88.

7. R. Lumley, Entering the Frame. Cinema and History in the Films of Yervant Gianikian and Angela Ricci Lucchi, Peter Lang, Oxford, 2011, p. 3.8. Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, La marcia dell’uomo (Marcia della conquista), in D. Païni, D. Hibon, La marcia dell’uomo, tradotto da Gina Abbati e Laure

Pelayo, Mazzotta, Milano, 2001.9. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, citati in S. Mac Donald, A Critical Cinema, p. 277.10. S. Mac Donald, Avant-Garde Film. Motion Studies, Cambridge University Press, Cambridge, 1993, p. 119.11. T. Des Pres, Writing into the World, Viking, New York, 1991; si veda in particolare il capitolo sulla poesia di Nazim Hikmet.

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Oggetti trovati— Rinaldo Censi

Nel 1981, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi terminano Karagoez - Catalogo 9,5 (1979-1981); il film ha preso circa tre anni di lavoro. È il primo film che i due filmmaker hanno realizzato ri-filmando i materiali via camera ana-litica, passando così dal gesto di filmare oggetti a quello di ri-filmarli, ri-fotografandoli fotogramma per fotogramma attraverso questo nuovo dispositivo. Ri-filmano oggetti, volti, gesti, espressioni, che sconosciuti operatori, profes-sionisti, amatori della domenica, scienziati avevano a loro volta fissato su pellicola cinematografica agli albori del cinema. Entrano in contatto con il proprietario di un laboratorio cinematografico a Milano. Il padrone del laboratorio è il nipote di Paolo Granata, primo operatore di Luca Comerio durante la Prima Guerra Mondiale, poi operatore di spicco dell’Istituto Luce fascista. Anche il nipote è stato operatore; le prime immagini che ha filmato sono quelle del Duce appeso a testa in giù, in Piazzale Loreto. Egli ricorda ancora, negli anni Quaranta, le visite di Luca Comerio al laboratorio. Scrive Yervant Gianikian:

A Milano, nella primavera del 1982, troviamo le tracce dell’ultimo laboratorio di Luca Comerio. Il luogo è il piano interrato di un piccolo stabile alla periferia della città, verso le autostrade. Il laborato-rio cinematografico ha un aspetto ottocentesco. La macchina da presa Prevost con cui Comerio riprese, all’inizio unico operatore, la Prima Guerra Mondiale, è appoggiata in verticale, su di una titolatrice di legno. La stampatrice a contatto, anch’essa di legno, è simile a un piccolo armadio, con due tende di tessuto nero nella parte inferiore per nascondere i due cesti che raccolgono la pellicola. Nella macchina la pellicola viene trascinata unicamente da una sola ruota dentata a otto punte. I film vengono conservati su di un tavolino di legno con i piatti di bachelite. Il laboratorio è in via di demolizione. Il proprietario, unico lavorante, ha già smontato e distrutto a colpi di martello la stampatrice Lumière, per disperazione, per assenza di futuro. I vari pezzi, arrugginiti, smembrati, riempiono dei secchi deposti all’esterno nel cortile, sotto la pioggia, dove sono allineati anche i telai di legno per gli sviluppi. All’interno altri oggetti, meccanismi cinematografici su piedistalli, sono ricoperti da pesanti teli neri e legati con grosse corde. I film documentari infiammabili sono conservati in una cantina. Sono destinati a essere bruciati. Vediamo alcuni fotogrammi di un frammento di film. Li vediamo “fermi”, a mano, in controluce sul vetro smeri-gliato, illuminato, del tavolo. Una barca a vela virata e dipinta, blu del cielo e rosa del mare1.

Davanti ai due rulli di Dal Polo all’Equatore i Gianikian capiscono di essere di fronte a materiale incandescente. Co-minciano ad interessarsi a Comerio. Raccolgono notizie, materiali cartacei, studiano a fondo i dati, li confrontano con la filmografia esistente: Dal Polo all’Equatore non compare nella filmografia ufficiale. Il film in loro possesso è una copia positiva colorata. È possibile che un negativo completo non sia mai esistito.

La descrizione del laboratorio – che a qualcuno potrebbe ricordare una bizzarra installazione contemporanea – è in re-altà la precisa descrizione di un ambiente malinconico, in rovina: la disperazione e il lutto sono ovunque palpabili. Il luogo accoglie una vera e propria stratificazione di materiale filmico, infiammabile. Film di Comerio, film da Comerio collezionati (film scientifici, documentari), film fascisti girati da Paolo Granata (in cui appare evidente l’influenza di Comerio). Una sorta di magazzino dimenticato, in giacenza. Luca Comerio negli anni Trenta si ammala gravemente, cade in un profondo stato di amnesia. Ma è lo stesso labora-torio che pare affetto dalla stessa malattia: questo laboratorio è un archivio completamente obliato. Dell’opera di Co-merio, le cineteche hanno spesso trattenuto solo i film di finzione. Amnesia d’archivio: questo gesto ignora le ipotesi pionieristiche di Boleslaw Matuszewski, che già nel 1898, a Parigi, sosteneva la necessità di fondare un “Deposito di Cinematografia storica”2. Ma questa può apparire un’ovvietà. E poi, come segnala Arlette Farge, nulla è più incerto del termine archivio, la cui natura è principalmente “lacunare”, fatta di mancanze3. Luogo di potere, l’archivio è votato paradossalmente all’insta-bilità, al provvisorio. Mal d’archivio4. Capita che le fonti siano instabili, mobili, anonime. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi osservano scrupolosamente, analiticamente, i fotogrammi; ri-fotografano le immagini rallentandole, isolando dettagli, schiudendo gesti, facendo emergere elementi nascosti (è una specie di inconscio ottico). È noto il lavoro monumentale che hanno svolto in Dal Polo all’Equatore (1981-1986)5. Non è questo il luogo per affrontare simili questioni.

Pure – l’alterazione è ciò che emerge da ogni pellicola.

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L’amnesia dunque non indica solo il sonno dell’archivio, ma la sua lenta caduta chimica.Prendiamo una pellicola “nitrato”:

La pellicola nitrato comincia a decomporsi dal momento in cui viene completata la sua produzione. Questa disintegrazione è lenta, ma non è ancora stato trovato alcun mezzo per arrestarla. Nel corso della decomposizione la pellicola libera dei gas. [...] I gas al nitrato hanno lo stesso effetto distruttivo su tutti i film conservati nella stessa stanza, quale che sia la loro età, siano essi al nitrato o all’acetato6.

Seguiamo gli stadi di decomposizione indicati da Volkmann: 1) lo strato argenteo prende una tinta marrone e perde nitidezza, 2) l’emulsione diventa appiccicosa, 3) ammorbidimento del rullo (formazione di “miele”) – compaiono bolle e si avverte un odore pungente, 4) l’intera pellicola si rapprende in una massa solida, 5) la base di disintegra in una polvere marrone che emana un odore acre – la pellicola può prendere fuoco a temperature molto basse.Dimensione pestilenziale, epidemica, via effluvia (aria, respiro, piaghe), chioserebbe Daniel Defoe7. Ma queste suppurazioni, queste bolle, questo miele appiccicaticcio e puzzolente che cosa designa? Una forma fossile? Certo una lacuna nell’albero genealogico tracciato da chi vorrebbe ricostruire una tradizione (del film). Oppure – sem-plicemente – materiale deteriorato, desueto, sepolto in un archivio (junk material).Prendete per esempio un piccolo film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi: Trasparenze (1998), sei minuti in video. Inquadrature su pellicola esposta nella sua caduta chimica: disjecta membra, pezzi di perforazioni (Kodak), pellicola lacerata dall’emulsione, giuntata, assaltata dagli acidi. Il fotogramma è divorato: spuntano solo alcuni pezzi di figure umane, braccia, teste, gambe, figure irriconoscibili, fucili, cime di montagne, macchie rosse sul corpo della pellicola. Yervant Gianikian mostra questi resti come fosse un teatro anatomico; tenta di descrivere ciò che vede8. Sono i resti di un rullo girato da Comerio sul Monte Adamello durante la Prima Guerra Mondiale. Alcune parti – salvate dal degrado – appaiono in Dal Polo all’Equatore e in Su tutte le vette è pace (1998). L’ultima inquadratura del video ci mostra un rullo di pellicola srotolato a fatica. Possiamo notare il miele, la compattezza della bobina, le bolle, i viraggi blu sulla pellicola, come una specie di giostra che si srotola sotto i nostri occhi. Una forma fossile? Un ramo secco in un albero genealogico? Meglio, una ramificazione di corallo (fiore di sangue – dice J. Michelet) ormai atrofizzata e separata dal resto del suo corpo – una forma decaduta nel tempo, qualcosa di estinto, divenuto fossile, appunto9. Ma non è questo. Non solo questo. Trasparenze evidenzia un doppio registro, che a prima vista potrebbe passare inos-servato. Dobbiamo considerare quel rullo, e in generale i materiali ritrovati dai Gianikian, non solo come resti filmici in decadimento, ma pure nella loro qualità oggettuale, alla stregua di “oggetti trovati”. Sono anche dei ready-made. È un aspetto che i due filmmaker hanno più volte sottolineato: il loro debito nei confronti delle avanguardie. E il gesto di mostrare e ri-filmare un fotogramma denota proprio questo aspetto, questa doppia identità. Insomma: qualcuno osserva dei pezzi di pellicola “trovati”, li descrive, soprattutto li ri-filma. Si viene curiosamente a creare – qui – un doppio fondo, qualcosa che, a ben vedere, ritorna nella maggior parte dei lavori di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Viene fissato, tradotto su pellicola (o su video) il fotogramma di un’altra pellicola. Le due fonti risultano spes-so indistinguibili, coestensive, tanto che questo processo in atto a molti rischia di sfuggire. Credo non si tratti solo di una questione di trasmissione a mezzo copia. Non è in gioco solo il ripristino della funzionalità dei materiali filmici danneggiati. L’azione del ri-fotografare nasconde qualcos’altro, anzi, lo fa emergere. È noto che uno dei tratti significativi dell’iperrealismo lo desumiamo dal suo “aspetto semiotico”, ben colto da Jean-Claude Lebensztejn, che, riprendendo una notevole lettura della Pop Art operata da Lawrence Alloway, segnala come «sia l’uno che l’altro producano immagini di immagini, dei segni i cui oggetti sono dei segni»10. I referenti iconici sarebbero in questo caso delle fotografie. Si viene a formare un doppio statuto dell’immagine, un doppio fondo: l’im-magine dipinta – scrive Lebensztejn – rappresenta un’immagine fotografica che a sua volta rappresenta un transatlan-tico (Malcolm Morley), un aeroplano, un’esplosione atomica o una galassia (Vija Celmins), una gara ippica (ancora Morley). Questa messa in abisso implica un aspetto cruciale: nella rappresentazione dell’immagine risulta ben visibile un “margine”, una cornice bianca da cartolina, a volte una scritta, una bruciatura, o le cifre impresse sulla coda di una pellicola fotografica (ad esempio le Ruined Slide series di David Kessler), la violenta incisione di una X (Race Track di Malcolm Morley). Qualcosa come un’impurità, o un difetto, rende palese questo doppio statuto dell’immagine, certifica uno spostamento semiotico: qualcosa agisce sulla superficie, ma lavora in profondità l’immagine. La mostra Hyperréalisme USA. 1965-1975 allestita nel 2003 a Strasburgo da Jean-Claude Lebensztejn e Patrick Ja-vault rendeva evidente l’impossibilità di definire una volta per tutte l’iperrealismo, pensandolo come «una costruzione che obbliga lo storico dell’arte o della cultura a ripensare costantemente gli oggetti della sua indagine»11. Il cinema non ne è esente. Il fatto che ogni film porti in sé la traccia della sua matrice fotografica – osserva Akira Mizuta Lippit – rende piuttosto evidenti certi tratti iperrealisti. Insomma, «l’iperrealismo al cinema è possibile al di fuori dell’iperrealismo proprio al supporto»?12 Esiste in poche parole un iperrealismo ulteriore, “alla seconda”? Ho la sensazione che i film dei Giani-kian realizzati via “camera analitica” evidenzino questo aspetto. La macchina da presa inquadra, ri-quadra, ri-filma, ri-produce un fotogramma: ma proprio gli aspetti lacunosi, i graffi, le linee a pioggia, le perforazioni rotte o impresse

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sull’emulsione, i fiori colloidali, le giunte mal fatte, fanno emergere un “margine”, il suo doppio fondo (e rende ben percepibile la realtà fisica del supporto), qualcosa che ci permette di cogliere in termini plastici la natura eminente-mente fotografica del cinema e della loro opera. Queste immagini ovviamente sono mobili, non sono fisse (solo in Trasparenze il fotogramma è fisso, o scorre tenuto tra le mani). La vicinanza dei Gianikian al lavoro di Étienne-Jules Marey si comprende proprio qui: ciò che essi realizzano sono particolari sequenze fotografiche, o cronofotografiche. Il loro rallentamento, ottenuto moltiplicando i fotogrammi, permette di cogliere al meglio certi dettagli legati ai gesti, accentuandoli in maniera radicale in un’esagerazione, un eccesso di realismo, evidenziando un vero e proprio a-sin-cronismo tra il film girato (o meglio ri-fotografato) e il film proiettato. Viene a formarsi una non coincidenza tempora-le: un’estasi del tempo. Questi due aspetti 1) l’impurità – in grado di far emergere un “margine” che rivela la “trasparenza” del supporto, e insieme il doppio fondo dell’immagine – 2) l’a-sincronismo temporale, sono gli elementi che per Akira Mizuta Lippit fondano un “cinema iperrealista”. Entrambi concorrono a definire – in maniera ambivalente – un «tempo fotografi-co»13. E anche se Lippit arresta i suoi esempi al 1971, viene la tentazione di prolungare la sua disamina: queste con-siderazioni sembrano infatti combaciare con il lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Con la differenza che nei loro lavori è il tempo a lasciare tracce, sedimentazioni sul supporto, ad inciderlo: non è neppure necessario operarvi manualmente. Al limite, le alterazioni potrebbero derivare da una cattiva manutenzione dei materiali (erro-ri indiretti di un conservatore, di un proiezionista). Insomma, ciò che maneggiano è un vero o proprio ready-made. A loro non resta che studiare e ri-filmare il materiale, cogliervi elementi nascosti, facendovi emergere qualcosa che sembrava sopito. Ma, oltre a questo, nei loro film e nelle installazioni, ci troviamo anche di fronte a questo parados-so: un’immagine ri-filmata rappresenta un’immagine fotografica che a sua volta rappresenta un uomo con un fucile, o un’esplosione, o un uomo che cammina, turisti occidentali in terra africana (La marcia dell’uomo), un paesaggio aereo (Topografie), le mura di Gerusalemme, una donna e un frigorifero degli anni Cinquanta, un bimbo denutrito, un cranio suturato (Trittico del Novecento). Il segno (la sua traccia) oscilla, viene perturbato. Si interpongono i livelli dei significanti e degli spazi, gli uni negli altri. Nei loro film, una prossimità tattile – evidenziata dai guasti, dal deca-dimento dei materiali, amplificata dal rallentamento – genera una distanza ottica, vorrei dire critica; il tempo viene captato come eccesso, alterazione, qualcosa che appare più reale del reale, «iperreale»14. È una specie di intensità, uno stato di coma che schiude un arrière-monde15. O forse un’extimità, qualcosa come un’intimità che si esteriorizza: la profondità in superficie. Un tempo cronofotografico altro, per degli “oggetti trovati”16.

Immagini trovate. Immagini del passato, a volte dimenticate. Immagini di immagini. (Vija Celmins in una famosa intervista con Chuck Close: «Per quanto mi riguarda, era un po’ come rimettere nel mondo reale, nel tempo reale, le immagini [fotografiche] che trovavo nei libri e nelle riviste [come Suspended Plane, 1966]. Perché osservando l’opera ci confrontiamo con il qui e ora»17. – L’oggi con i materiali di ieri, ripetono spesso i Gianikian). Questa deviazione iperrealista non vuole certo rovesciare o mettere in dubbio la ricezione tradizionale dei loro lavori, gli aspetti più dibattuti della loro opera. C’è infatti nei film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, nelle loro installazioni, una dimensione storica, memoriale, bio-politica, un’urgenza (è la violenza del secolo che ci siamo lasciati alle spalle) che è preminente, e stride parecchio con la vulgata iperrealista (sebbene la vacuità degli oggetti ritratti, la loro stupidità, lasci serpeggiare una violenta satira sociale, spesso negata dagli stessi artisti). Semmai questa ipotesi vorrebbe coglie-re un aspetto inedito del loro lavoro, chiedendosi se il “soggetto” dei loro film non sia più complesso, più articolato. Come se fosse proprio questa eccedenza iperreale, questo tempo riprodotto in un’altra forma, che giunge da un altro-ve, a creare ricordi e mettere la memoria in movimento, in un presente che è qui e ora. Il loro è materiale sfuggente, incandescente, magnificamente imprendibile.*

*Ho qui ripreso, ampliato e modificato un testo apparso, con un titolo differente, nel n. 2 di “Fata Morgana”, quadrimestrale di cinema e visioni (numero mono-grafico dedicato all’Archivio), Luigi Pellegrini Editore, maggio-agosto 2007.

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1. Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, La nostra camera analitica, in P. Mereghetti, E. Nosei (a cura di), Cinema Anni Vita Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Il Castoro, Milano, 2000, p. 38.

2. B. Matuszewski, Una nuova fonte della Storia (Creazione di un deposito di cinematografia storica), in G. Grazzini (a cura di), Boleslaw Matuszewski: un pioniere del cinema, Carocci, Roma, 1999, p. 67.

3. A. Farge, Le Goût de l’archive, Le Seuil, Paris, 1989.4. «“Archivio” è soltanto una nozione, una impressione associata a una parola e per la quale Freud e noi non abbiamo nessun concetto. Abbiamo soltanto una

impressione, un’impressione insistente attraverso il sentimento instabile di una figura mobile, di uno schema o di un processo in-finito o indefinito». J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli, 1996, pp. 37-40.

5. Vedi S. Mac Donald, From the Pole to the Equator, in “Film Quarterly”, 1989, ora in S. Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian Angela Ricci Lucchi, Hopeful-monster, Firenze, 1992.

6. H. Volkmann, La pellicola cinematografica: proprietà, conservazione, ripristino, in P. Cherchi Usai (a cura di), Film da salvare: guida al restauro e alla con-servazione, Comunicazione di Massa, vol. III, anno VI, settembre/dicembre 1985, p. 112.

7. D. Defoe, La peste di Londra, Bompiani, Milano, 1995, p. 80. Sulla metafora epidemica, pestilenziale e artaudiana della decomposizione pellicolare, riman-diamo a M. Canosa, Per una teoria del restauro cinematografico, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema Mondiale. Vol. 5 – Teorie, strumenti, memorie, Einaudi, Torino, p. 1070.

8. Questi materiali rimandano a uno stato “cronico”. Walter Benjamin ricorda la visita dell’Archivio Goethe-Schiller, a Weimar: «Nell’Archivio Goethe-Schiller scalone, sale, vetrine, biblioteche: tutto è bianco. Non un posto dove l’occhio possa riposare. I manoscritti sono lì stesi come infermi in letti d’ospedale. […] Ma non erano anche questi fogli immersi in una crisi? Non erano tutti corsi da un brivido, che nessuno sapeva se presagio dell’oblio o della gloria? E non rap-presentano essi la solitudine della poesia? E la cella del suo raccoglimento? E fra queste pagine non ce ne sono alcune, il cui irripetibile messaggio si libera solo come lo sguardo o il respiro di un sembiante muto e turbato?». W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino, 1971, pp. 55-56.

9. Si veda al riguardo, H. Bredekamp, I coralli di Darwin. I primi modelli evolutivi e la tradizione della storia naturale, Boringhieri, Torino, 2006, p. 34.10. Rimandiamo al saggio esaustivo di Jean-Claude Lebensztejn, Préliminaire, in J.C. Lebensztejn (a cura di), Hyperréalisme USA. 1965-1975, Hazan/Les

Musées de Strasbourg, Paris, 2003, p. 28.11. «Hyperrealism is a construction that obliges the art or cultural historian to rethink constantly the objects of his or her inquiry». Vedi J.P. Criqui, Locus focus:

Jean-Pierre Criqui talks with Jean-Claude Lebensztejn – Interview, in “ArtForum”, giugno 2003. 12. A.M. Lippit, Extimité. Chronographie et cinéma hyperréaliste (1963-1971), in J.C. Lebensztejn (a cura di), Hyperréalisme USA. 1965-1975, cit., pp. 89-97.13. A.M. Lippit, Extimité. Chronographie et cinéma hyperréaliste (1963-1971), cit., p. 92. Lippit porta alcuni esempi: tra gli altri, Fuses di Carolee Schneemann

(come esempio di impurità: la pellicola graffiata farebbe emergere lo sfalsamento semiotico), o i film dipinti a mano da Stan Brakhage o i film di Andy Warhol girati a 24 fotogrammi e proiettati a 16 fotogrammi al secondo.

14. A.M. Lippit, Extimité. Chronographie et cinéma hyperréaliste (1963-1971), cit., p. 94. Un discorso a parte meriterebbe il lavoro di colorazione sulla pellicola, lo strato monocromo che si aggiunge sul fotogramma.

15. R. Bellour, L’arrière-monde, in “Cinémathèque”, n. 8, autunno 1995, pp. 6-11.16. Salvador Dalí, nel 1973, scrive la prefazione a un libro sull’iperrealismo americano, e accomuna i loro artisti al cripto-dadaismo: «In maniera sotterranea,

il ready-made ha influenzato la coscienza degli artisti iperrealisti, conducendoli a dipingere dei ready-made fatti a mano». Cfr. Réalisme sybaritique aigu, prefazione a L. Chase, Les Hyperréalistes américains, Filippachi, Paris, 1973, p. 4. Riprendiamo la citazione da J.C. Lebensztejn (a cura di), Hyperréalisme USA. 1965-1975, cit., p. 43.

17. Si veda Vija Celmins interviewed by Chuck Close, 26-27 settembre 1991, in W. S. Bartman, Vija Celmins, New York, Museum Of Modern Art, 1992, p. 17.

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Cartografia dei gesti — Christa Blümlinger

Il titolo stesso dell’installazione, La marcia dell’uomo1, sembra voler privilegiare, fra tre sequenze di immagini di materiale d’archivio, un ensemble di pellicole cronofotografiche, qui intitolato Hommes nègres, marche. La proie-zione in tre parti inizia dunque da un problema di rappresentazione fotografica, che può essere affrontato in modo teorico-percettivo, epistemologico ma anche storico-tecnico. Attraverso la variazione cinematografica della velocità di marcia fino allo stato di apparente immobilità, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi analizzano il fenomeno dell’istantanea fotografica così come si è sviluppato alla fine del XIX secolo. Secondo Michel Frizot questo si manife-sta, da un lato, come distacco da un’iconografia della posa che nasce dall’arte visiva, verso una fotografia del movi-mento non convenzionale, pur tuttavia proprio per questo “più vera”, che paradossalmente è in grado di riprendere i gesti in modo netto e definito «come nello stato di immobilità»2; dall’altro come strumento scientifico per l’analisi di un quesito fisiologico che trova nuova risposta nella possibilità di scomporre un movimento in una sequenza continua di momenti distinti. Nella Station physiologique di Étienne-Jules Marey soggetti africani provenienti da esposizioni universali e altre rassegne sono stati ritratti in fotografie in serie da etnografi e naturalisti3 secondo un principio di simultaneità derivato dal principio scientifico di comparabilità, in modo analogo a quanto era stato realizzato con gli europei in marcia, nella stessa disposizione scenica solo su sfondo chiaro invece che scuro. Uomini, donne e bam-bini che camminano davanti alla camera mantenendo sempre una congrua distanza, a tratti incrociandone il campo visivo. Percorrono tutti lo stesso tragitto, misurato in modo discontinuo da un cronometro visibile nell’immagine. Le singole velocità di marcia delle persone riprese producono sempre un numero diverso di scatti istantanei, e in caso di animazione di queste immagini ne consegue una diversa durata dello “shot” filmico. Nell’opera analitica di Giani-kian e Ricci Lucchi del materiale d’archivio questi singoli fotogrammi pur venendo tradotti in una sequenza animata di immagini in movimento, rimangono percepibili attraverso freeze frames come sequenza originaria di momenti congelati e distinti. Aumentando la modulazione del numero di singole immagini riprodotte per realizzare un freeze frame si ottiene, in particolare nella ripetizione, una variabilità nell’esperienza della visione. Così Gianikian e Ricci Lucchi presentano i bambini neri africani che danzano fuori dalla fila in fermo-immagini più prolungate evidenziando attraverso l’ingrandimento dell’inquadratura anche un certo punctum di Barthes, istanti carichi di significato e detta-gli toccanti. Nella ripetizione differenziata, La marcia dell’uomo insiste su gesti, sequenze, sguardi. In questo modo non solo viene evidenziato il fuori campo visivo, ma si apre anche una dimensione dell’immaginario, che va oltre la referenzialità dei gesti rappresentati.

Il materiale cronofotografico riciclato è tema dominante nel primo dei tre schermi di dimensioni relativamente grandi, posizionati in successione a distanza ravvicinata uno dietro l’altro, mentre le altre due proiezioni a loro volta found fo-otage sono da leggere in relazione alle riprese di Marey. Si tratta di immagini dell’Africa girate da viaggiatori europei in cerca dell’esotico. Il materiale della spedizione dell’anno 1910, così come il filmato amatoriale in 8mm dell’anno 1960, non vengono quasi mai mostrati a velocità normale, esattamente come nelle sequenze di Marey. Nell’instal-lazione sono soggetti alla medesima dissezione analitica per il continuo e distinto inserimento di fermo immagini di durata variabile. Nello studio differenziato con single frame Gianikian e Ricci Lucchi lasciano emergere momenti che non sarebbero risultati altrettanto visibili alla velocità di marcia reale. Per l’osservatore il tempo filmico si scinde e oscilla tra immagine passata e osservazione presente, e questo non solo attraverso rallentamento e fermo-immagine, bensì anche per mezzo dell’ingrandimento, del colore e della ripetizione. Vengono evidenziati i segni di deterioramen-to del materiale, la cui risoluzione, luce e contrasti rivelano una profonda eterogeneità.

La visita di due cacciatori bianchi in abbigliamento da safari in un villaggio dell’Africa occidentale trova espressione nella trasformazione del materiale filmico originario come circolazione asimmetrica di attributi e pose: i bianchi sedu-ti sul pavimento accanto ai neri alla stregua di pseudo-ospiti rivelano con la loro gestualità la volontà di mascherare la propria inadeguatezza; i neri colonizzati seduti al tavolo con cilindro e gilet rivelano con il loro abbigliamento “non consono” un gioco sovversivo. Alla fine di questa seconda immagine viene proposta una rielaborazione della configu-razione filmica del punto di vista come rapporto gerarchico tra safari di caccia e trofeo, tra bianco e nero, tra gesto di conquista e sottomissione. Nella sequenza dell’installazione e nella rielaborazione formale, questa configurazione non è intesa come convenzione fissa, ma come possibilità del passato. Infine, la terza proiezione, esoticizzata dal colore viola profondo, attraverso la trasformazione di un filmino di una vacanza ai tempi del turismo di massa, enfatizza la differenza sessuale come componente di un dispositivo di potere post-coloniale. Nascosto da occhiali scuri, non riconoscibile, un voyeur occidentale osserva donne nere seminude che gli danzano intorno dietro compenso in denaro. Anche in questo caso, sguardo e gestualità vengono dissezionati da fermo-immagine, ingrandimento e ripetizione.

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Nella loro scelta precisa del materiale Gianikian e Ricci Lucchi propongono al tempo stesso un percorso di interpreta-zione archeologica di raccolte cinematografiche “etnografiche” nel senso più lato del termine e una nuova cartografia di queste geografie umane. In questa interpretazione archeologica la rilettura dei Gianikian della marcia cronofotogra-fica rivela non solo la traccia iconografica o etnografica, in tutta la sua referenzialità ambivalente, ma anche l’arche-ologia di un dispositivo, nel quale le immagini si sono inscritte: come è noto, negli studi fisiologici sul movimento, l’interesse di Étienne-Jules Marey non era rivolto tanto all’illusione di una riproduzione, quanto all’analisi di un cliché. Come ricorda il suo collaboratore Lucien Bull, secondo Marey «la proiezione non poteva insegnargli nulla di più dell’attenta analisi di un cliché 4». Nel contesto di questa installazione, il materiale paradossale di Marey viene rie-laborato proprio nel senso della sua scoperta, quindi non secondo la logica dell’illusione del cinematografo dei fratelli Lumière, bensì con una modalità di visibilità del tutto particolare tra immobilità e mobilità variabile, tipico dei mezzi di osservazione pre-cinematografici, come lo Zootropio. Si avverte che alla base di questa disposizione sperimentale vi è un concetto scientifico, secondo il quale la natura fisiologica della marcia umana viene interpretata come modello paradigmatico del progresso della meccanica dell’apparecchiatura, secondo lo schema movimento/stasi/movimento/stasi5. L’approccio dei Gianikian è archeologico anche nel senso che si interessa al materiale e alla circolazione delle pellicole non solo all’interno degli archivi, e non unicamente per il loro contenuto rappresentativo. In particolare considerando gli altri due filmati che danno vita all’installazione, più precisamente il filmato della spedizione del 1910 e il materiale amatoriale in 8mm del 1960, parafrasando Foucault si potrebbe affermare che attraverso il recupero del materiale un linguaggio stagnante diventa il fondamento di un linguaggio circolante, come peraltro lasciava intende-re anche il possibile campo di applicazione originario delle pellicole. La disposizione dei tre schermi in successione progressiva svolge in tal senso un ruolo per nulla secondario e deve essere intesa non solo in senso cronologico (1895-1910-1960), ma anche e soprattutto come raffronto epistemologico delle diverse funzioni di immagini fotografiche e cinematografiche “dell’altro”. Tra l’analisi di Marey di una differenza fisiologica, il gestus dell’esotismo coloniale della collezione di Comerio e l’approccio del cineasta privato (come del turista di massa consumista post-coloniale) esistono differenti mondi vitali e orizzonti di esperienza di pensiero occidentale, che determinano di volta in volta la figurazione della gestualità e della motricità dei “neri africani”.

Il dispositivo dell’installazione qui scelto non esprime quindi una genealogia dell’etnografia, e neppure una storia dei nomadi dal punto di vista dei sedentari. Al visitatore che si muove tra gli schermi non appare nulla di lineare, piutto-sto qualcosa che, come detto in precedenza, potrebbe essere definito come nuova cartografia di gesti e di movimenti filmici. Questa forma potrebbe essere ulteriormente spiegata nell’interpretazione di Deleuze e Guattari con il concetto di rizoma, che non è gerarchico, ed è definito univocamente dalla circolazione di stati: «Ciò che è in questione nel rizoma è il rapporto con la sessualità, ma anche con l’animale, con il vegetale», si afferma in Mille Plateaux, «[...] tutte le specie di “divenire”»6. Sempre secondo il binomio concettuale di originale e copia di Deleuze, si potrebbe sostenere che il riutilizzo del materiale d’archivio ci riporta dalla presunta competenza della “copia” foto-cinemato-grafica di un mondo alla performance della cartografia, che rende possibile lo studio dell’inconscio, la produzione di nuovi messaggi e di desideri. La marcia dell’uomo (Marcia della conquista) è, di fatto, una deterritorializzazione di determinate forme di percezione del mondo, di organizzazione dei viaggi di scoperta e di creazione di archivi. Questo tentativo rispecchia la tendenza contemporanea di criticare la rappresentazione unificante della storiografia umana della tradizione hegeliana e di contestare in modo fermo la definizione di identità da un punto di vista occidentale. La storia dell’etnografia (anche nel senso più lato, come osservazione partecipata e riflessiva di una cultura) non può certamente essere considerata omogenea. Il teorico culturale James Clifford ne sottolinea l’ambiguità: «In quanto pratica ibrida, l’etnografia è al contempo scrittura, raccolta di dati, collage modernista, potere imperialista e forza sovversiva»7. Proprio di questa ambiguità hanno tenuto conto Gianikian e Ricci Lucchi nella loro rilettura dei reperti etnografici. Il lavoro della “camera analitica” di Gianikian, nella modulazione specifica di stasi e movimento, inqua-dratura e concatenamento, si richiama al concetto di rizoma, nello specifico nell’interpretazione di Deleuze e Guattari «per variazione, espansione, conquista, cattura, iniezione»8. Questa cartografia di gesti fotografici e filmici attraverso la forma della modulazione dà espressione alla propria variabilità ed evita così la presentazione manichea di pose etno-foto-cinematografiche*.

*Testo apparso con il titolo A cartography of gestures. Notes about an installation (Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, La marcia dell’uomo), in Cinema & Cie, n. 8, autunno 2007, pp. 70-75.

Quest’opera è pubblicata sotto licenza Creative Commons – Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/deed.it) ed è scaricabile dal sito www.hangarbicocca.org in formato pdf e ebook.

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1. L’installazione è stata curata da Dominique Païni per la Biennale di Venezia 2001, per incarico di Harald Szeemann. Vedi D. Hibon, D. Païni, Marcher, monter, in “Trafic”, n. 38/estate 2001, pp. 66-67.2. Sul tempo di posa dell’istantanea, Étienne-Jules Marey scrive: «[...] un temps de pose assez bref pour que les objets en mouvement soient représentés dans l’épreuve avec des contours aussi nets que s’ils eussent été immobiles». E.J. Marey, Le Mouvement, Masson, Paris, 1894, p. 14, cit. in M. Frizot, Comment on marche. De l’exactitude dans l’instantané, in “La revue du Musée d’Orsay”, n. 4/primavera 1997, pp. 74-85, qui: p. 78.3. L’etnografo Félix Regnault pubblicava nel 1898 uno studio sulla marcia umana, di cui Étienne-Jules Marey curava la prefazione, e per il quale ha utilizzato tra l’altro studi cronofotografici sulla locomozione degli africani; cfr. F. Regnault e De Raoul, Comment on marche. Des divers modes de progression, de la supériorité du mode en flexion, Charles-Lavauzelle, Paris, 1898; e M. Frizot, Comment ça marche. L’algorithme cinématographique, in “Cinémathèque”, n. 15/primavera 1999, pp. 15-27. Marta Braun ripropone un ensemble sulla locomozione umana dalla Station physiologique, in seguito poi realizzato, con il seguente titolo: “African village of the universal exposition 1900”. Cfr. M. Braun, Picturing Time. The work of Étienne-Jules Marey 1830-1904, University of Chicago Press, Chicago, 1992, pp. 380-81.4. Cfr. L. Bull, Quelques souvenirs personnels de mon maître E.J. Marey, in “Bulletin de l’AFITEC”, n. fuori serie, 1954, pp. 3-7. cit. in M. Frizot, Les reliques en rouleaux, in D. Païni (a cura di), La persistance des images. Tirages, sauvegardes et restaurations dans la collection films de la Cinémathèque Française, Cinémathèque Française, Paris, 1996, pp. 21-23, qui: p. 21. Le pellicole cronofotografiche di Marey da tempo ritenute perdute, il cui formato in 90mm con-sente una migliore risoluzione fotografica rispetto ai filmati cinematografici dell’epoca, sono state rinvenute negli anni Ottanta e in seguito restaurate dalla Cinémathèque Française su pellicola da 35mm.5. Su questo principio in Regnault e Marey si veda M. Frizot 1999, cit., p. 21.6. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie 2, Éditions de Minuit, Paris, 1980, p. 32.7. J. Clifford, The Predicament of Culture Twentieth-Century Ethnography Literature, and Art, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1988, p. 13. 8. G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 21.

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Mano di verità* — Raymond Bellour

La collezione presuppone una follia che la follia del filmare porta a compimento volendola esaurire. Ne redige un catalogo che non è più quello della cosa né quello dell’elenco, perché il film ne costruisce una memoria. Ma una memoria senza codice, una memoria di esperienza. Ed è questa memoria formata da dimenticanze accumulate che si offre alla prova di corpi tesi verso di essa, giusto in uno sguardo. Di qui la tentazione, una volta, di accompagnarlo per mano, per dire a questo sguardo: tu vedi quello che tocco e ciò che ti mostro, per testimoniare un supplemento di verità. La mia mano fa ciò che potrebbe fare la tua, se tu scoprissi la tua collezione più antica, se tu te la mostrassi desiderando condividerla. La collezione di 10.000 giocattoli scoperta nei primi anni Settanta sulle Alpi orientali era rimasta addormentata per molto tempo, nascosta da qualche parte nell’appartamento milanese di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Come un eccesso sepolto, una follia primaria di cui non si sa che fare, senza potersene disfare. La richiesta di un museo etnografico, nel 1998, per un’esposizione che non vedrà mai la luce, affretta un primo ritorno. Una parte della collezione viene ripresa, lasciando un’ora e mezza incompiuta. Otto anni più tardi, inverno 2006, la pressione amiche-vole di una retrospettiva (alla Galerie Nationale du Jeu de Paume) permette al film di esistere, ridotto a 43’, intitolato Catalogo 1997, Ghiro Ghiro Tondo (titolo scherzoso, a cui la traduzione francese Carrousel de Jeux non rende giusti-zia).Nell’ammirevole coppia di artisti-cineasti che forma insieme ad Angela Ricci Lucchi fin dagli inizi della loro colla-borazione, Yervant Gianikian tiene la macchina da presa, la semplice videocamera come la camera analitica che serve loro a decomporre per molti film migliaia, decine di migliaia di fotogrammi. È quindi sua la mano che si vede, la sua mano sinistra che manovra i giocattoli mentre la destra, invisibile ma sensibile, manovra la macchina da presa. È il rapporto di queste due mani che si sente, senza sosta, in balia di un gioco teso di presenze e di assenze. Già dai primi piani, si percepiscono le strategie il cui intreccio comporrà altrettante variabili possibili. Il coperchio di una scatola, inizialmente immobile, “Giochi nuovi riuniti”, con le carte adesive strappate. Poi una trottola che la mano lancia, fa girare, tenta invano per due volte di riprendere. Poi una bambola di legno colorato, dritta, che la macchina scopre indietreggiando su un fondo di tessuto; e la mano entra per posarne una seconda, e la macchina scende, scoprendo la parte bassa del corpo, vuota. Poi frammenti di corpi che giacciono, abbandonati. E sempre, a intervalli regolari, la mano ritorna, tocca, manipola, accarezza, contiene, presenta, mostra dettagli, aprendo scatole, sollevando carta, met-tendo in moto meccanismi, suscitando movimenti, o l’imprevisto di suoni un po’ osceni; e sempre la mano scompare più o meno a lungo sotto quello che mostra. Due volte, le due mani entrano nell’inquadratura per alzare il coperchio di una scatola o per far aprire la bocca a tre rane manovrando un’astina di legno; è allora la macchina da sola o l’altra cineasta che filma un istante.Questi giocattoli, risalenti a un tempo che va dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale, portano con sé l’emozione di giocattoli ancora poveri la cui suggestione bastava a presagire altri mondi. Vi trovano traccia infanzie inconfessate, proiettate da questa mano adulta, a disagio per la sproporzione. Questi giocattoli di tutti i materiali e di tutti i gene-ri sono anche, per molti, di una bruttezza decisa, che la presentazione sistematica intensifica ulteriormente. Come sottrarsi agli occhi fissi, aperti o chiusi, uniformemente spalancati, di tante bambole che una dopo l’altra, in serie, la mano tende, per poi scomparire dietro questi sguardi intollerabili? Si pensa a Bellmer che nei primi anni Trenta, a Berlino, sceglie di dedicarsi esclusivamente alla costruzione torturante della sua «bambola», unico rimedio possibile alla nuova atrocità dei tempi. Perché questi giocattoli sono anche testimoni dell’orrore. La mano li gira, abbassa il sopra del vestito, arriccia i capelli; l’altra mano anima tremando lo zoom per scoprire le parole incise sulla celluloide o sul cartone. “Made in Germany”. “Made in U.S. Zone Germany”. Anche parole italiane. Figure asiatiche. È l’asse ROBERTO (Roma-Berlino-Tokyo), che attraversa gli appunti di lavorazione del film. E così questo catalogo intermi-nabile di giocattoli che si accaniscono a risuscitare le infanzie straziate dell’Europa entrano nel catalogo degli archivi filmati, testimoni delle atrocità e dei genocidi del secolo che tutti i film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, da trent’anni, continuamente affrontano. E la mano che li tende all’altra mano che li filma, queste mani sono quelle dell’archeologo della pellicola che attraverso di essa hanno voluto mostrare.È anche l’anno delle prime riprese di Ghiro Ghiro Tondo. Non si vede la mano in Trasparenze (1998), solo l’estre-mità della pinza che regge a sinistra il frammento di pellicola 35mm rosata, ridotto quasi alle sue sole perforazioni, e che scende lentamente nell’inquadratura. Molti altri vengono presentati così alla macchina da presa. Si intuisce, a un doppio tremolio, la presenza delle due mani, che però non si vedono. E si sente, laggiù, come un rumore riemer-so dalla profondità degli anni, la voce di Yervant Gianikian che mormora ciò che intravede dei motivi preservati sui fotogrammi, a mano a mano che questi appaiono. Soldati, per esempio, la cui immagine ha riempito, ossessionato tanti loro film. Queste immagini sciupate, gonfie, macchiate, divenute spesso enigmatiche, sono delle rovine. Diven-

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tano l’incarnazione obbligata di tanti corpi distrutti dalla guerra. Si pensa agli elenchi così precisi dei fotogrammi originali utilizzati, menzionati parte per parte nell’inventario che Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi hanno redatto per il loro film più lungo, il capolavoro Dal Polo all’Equatore (1986); si pensa al numero di fotogrammi che è stato manipolato: 347.600. Si coglie meglio, anche, l’impressione così unica e così forte legata ai loro film, queste velocità irregolari che ne fanno delle sonate di spettri. Così esibite, nel loro stato primario di rovine, queste immagini ricordano certi affreschi cancellati della pittura antica; fanno pensare ai pannelli dall’illeggibilità frammentaria di cui Georges Didi-Huberman ha esaltato la potenza, nei quadri del Beato Angelico e nei loro contorni di materie astratte. È questa illeggibilità vibrante che innerva le figurazioni più concrete degli archivi restaurati e rieditati che si percepisce così allo stato grezzo in Trasparenze. Alla fine di questo film di otto minuti, una mano invisibile srotola metri e metri di pellicola incollata: si offre un paesaggio di fotogrammi composto da sfumature di un blu intenso di cui le combi-nazioni, i vortici, le striature ricordano sia Turner che de Staël. Scorre così secondo una velocità che sembra allora estranea a quella della proiezione; ma è l’arte propria dei loro film il cui archivio crea la finzione documentata a far sì che la proiezione debba, di questa manipolazione, conservare l’ossessione.(Attrazione quasi magnetica dello scorrimento manuale: una nuova “trasparenza” attirerà tre anni più tardi in Luci misteriose (2005) lunghi rulli di pellicola 9,5 a perforazione centrale unica e molto ben conservati, dalle tonalità smor-zate (bianco e nero, bistro, marrone chiaro), che salgono interminabilmente nel quadro a velocità contrastate; lembi minuti di oscurità, a volte, contro il bordo inferiore sinistro, a testimoniare, essi soltanto, minimi traumi d’immagine, del lavoro della mano collegata allo sguardo). È sulla cassetta in cui rivedo Trasparenze che scopro Notturno (1997), e il frammento di notiziario girato a Sarajevo nel 1995. Di notte, la camera osserva dall’esterno, attraverso le finestre di un ristorante affollato, una festa zigana, rit-mata dalla comparsa intermittente delle reginette di bellezza. La camera tenuta in mano passa da una finestra all’altra, andando, tornando, attraversando i montanti che separano le finestre e sembrano delimitare altrettanti fotogrammi. L’immagine attraverso il vetro è caratterizzata da un fuori fuoco granuloso, con i toni e la materia che ricordano un po’ dei frammenti di pellicola rovinata. Fino all’istante magico in cui uno degli invitati alla festa, impossessandosi di un tovagliolo, pulisce dall’interno, con un ampio movimento della mano, la finestra centrale, trasformando la visione sfocata in una visione nitida.

* Questo testo è stato scritto a partire da un primo stato del film, di una lunghezza di 43’, presentato alla Galerie Nationale du Jeu de Paume nel febbraio-marzo 2006. In seguito, ne è stata elaborata una versione più lunga, di 61’, presentata inizialmente al F.I.D. di Marsiglia e poi di nuovo al Jeu de Paume, a ciclo continuo, per una settimana, dal 25 settembre al 2 ottobre 2007. Il catalogo dei giochi si apre verso altre forme di cataloghi, dall’arte alla politica, che hanno diversamente ispirato quest’opera.

Quest’opera è pubblicata sotto licenza Creative Commons – Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/deed.it) ed è scaricabile dal sito www.hangarbicocca.org in formato pdf e ebook.

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Biografie

Raymond Bellour, ricercatore e scrittore. Direttore emerito di ricerca presso il C.N.R.S. di Parigi. Si interessa di letteratura, Romanticismo (le sorelle Brontë, Alexandre Dumas) e contemporaneo (Henri Michaux, edizione dei suoi lavori completi ne La Pléïade), così come di cinema (L’analyse du film, 1979, Le corps du cinéma. Hypnoses, émotions, animalités, 2009). È inoltre interessato dalle mescolanze, dai passaggi, dagli stati misti delle immagini – pittura, fotografia, cinema, video, immagini virtuali, così come dai rapporti tra parole e immagini. Nel 1991 insieme a Serge Daney ha dato vita alla rivista di cinema “Trafic”.

Chiara Bertola è nata a Torino nel 1961. Vive e lavora tra Venezia e Milano. Direttrice Artistica di HangarBicocca a Milano, è curatrice della Fondazione Querini Stampalia di Venezia e della Fondazione Furla di Bologna. Ideatrice e curatrice del Pre-mio FURLA per giovani artisti italiani oggi alla sua nona edizione. È stata presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia dal 1996 al 1998. Ha co-curato il Padiglione Venezia per la 52a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia ed è stata tra i curatori della XV edizione della Quadriennale di Roma del 2008. Ha curato diverse mostre in Italia e all’estero e scritto numerosi saggi e presentazioni di artisti. Recentemente ha pubblicato per Mondadori/Electa il libro sulla figura del curatore Curare l’arte (2008), e con Corraini il libro del progetto espositivo all’HangarBicocca Terre vulnerabili – a growing exhibition (2011).

Christa Blümlinger, professore di studi cinematografici presso l’Università Vincennes-Saint-Denis (Parigi 8). Tra le sue prece-denti attività di insegnamento, è stata ricercatrice presso l’Università Sorbonne Nouvelle e guest professor presso la Libera Uni-versità di Berlino. Numerose le attività curatoriali e critiche a Vienna, Berlino e Parigi. Le sue pubblicazioni includono l’edizione degli scritti di Harun Farocki, in francese, e di Serge Daney, in tedesco, oltre a libri su film d’essai, media art, estetica cinema-tografica e cinema austriaco. La sua più recente pubblicazione in tedesco è Kino aus Zweiter Hand. Zur Ästhetik materieller Aneignung im Film und in der Medienkunst, Vorwerk 8, Berlin, 2009 (sull’appropriazione nell’arte cinematografica e mediatica), e in francese, Théâtres de la mémoire. Mouvement des images, edito insieme a Sylvie Lindeperg, Michèle Lagny e altri (Presses Sorbonne Nouvelle, Paris, “Théorème 14”, 2011).

Rinaldo Censi si occupa di immagini mobili. Collabora a “Alfabeta2”, a “Il Manifesto”, ad alcune riviste di cinema (“Cine-forum”, “Filmcritica”, “Fata Morgana”). Ha partecipato a numerosi volumi collettivi e ha scritto un libro: Formule di pathos. Genealogia della diva nel cinema muto italiano, Cattedrale, Ancona, 2008. Ha curato per la Cineteca di Bologna l’edizione dvd delle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard. Propone alle case editrici – spesso senza successo – libri da tradurre. Program-ma rassegne cinematografiche (con spirito warburghiano), quando glielo permettono. Ha insegnato Storia e Filologia del Cinema presso l’Università di Pavia, per un po’ di anni.

Andrea Lissoni, PhD, è curatore presso HangarBicocca. Dal 2001 insegna presso l’Accademia di Brera e dal 2007 presso l’Uni-versità Bocconi. È co-fondatore di Xing e co-direttore del festival internazionale Live Arts Week-Gianni Peng. Scrive regolarmen-te per “Mousse” ed è direttore del magazine “Cujo”. Presso HangarBicocca ha curato mostre e progetti di Cameron Jamie, Carlos Casas, Phill Niblock, Céleste Boursier-Mougenot e co-curato con Chiara Bertola la mostra Terre vulnerabili – a growing exhibi-tion. Nel 2011 ha co-curato Tudo è, una mostra sulle scene creative ed artistiche in Brasile (Pitti Immagine, Firenze).

Ara H. Merjian è ricercatore di Studi e Storia dell’Arte Italiana presso la New York University. Ha insegnato presso le Univer-sità di Stanford e di Harvard, ed è autore di Giorgio de Chirico and the Metaphysical City (Yale University Press, 2013). I suoi saggi sono apparsi sul “Getty Museum Research Journal”, su “Modern Painters”, “Res” e “Modernism/Modernity”. È critico per “Artforum”, “Frieze” e “Art in America”. Sta attualmente lavorando a un nuovo progetto su Pier Paolo Pasolini e le politiche della storia dell’arte.

Mark Nash è curatore, storico del cinema e filmmaker, con una specializzazione nelle pratiche dell’immagine in movimento nell’ar-te contemporanea e nel cinema d’avanguardia e mondiale. Negli anni Settanta e Ottanta è stato attivamente impegnato nella cultura cinematografica britannica come editor per “Screen” (1976-1981) e come filmmaker indipendente. Il suo dottorato presso la Middle-sex University è basato sui suoi scritti dell’epoca. Mark Nash è stato direttore del Fine Art Research presso il Central Saint Martins College of Art & Design. Ora è professore e direttore del Corso “Curating Contemporary Art” al Royal College of Art di Londra. Ha insegnato anche in numerose istituzioni statunitensi, tra le quali Harvard, New York University e UC Santa Cruz.

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Bibliografia selezionata

AA.VV., Yervant Gianikian&Angela Ricci Lucchi, Cinemateca Portuguesa-Museu do Cinema, Lisbona, 2001

R. Bellour, L’arrière-monde, in “Cinémathèque”, n. 8, autunno 1995, pp. 6-11

B. Benoliel, Archéologues de la pellicule, in “Cahiers du Cinéma”, n. 545, aprile 2000, pp. 94-95

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Filmografia

Erat Sora, 8mm, colore, muto, profumo di rosa, 10’, 1975

Wladimir Propp – Profumo di lupo, 8mm, colore, muto, profumo di lampone, 10’, 1975

Del sonno e dei sogni di rosa limitata al senso dell’odorato, 8mm, colore, muto, profumo di mughetto e sempreverde, 10’, 1975

Alice profumata di rosa, 8mm, colore, muto, profumo di rosa, profumo mascherato, 10’, 1975

Klinger ed il guanto, 8mm, colore, muto, profumo mascherato, 5’, 1975

Catalogo della scomposizione, 8mm, colore, muto, odore di naftalina, 10’, 1975

Non cercare il profumo di Buñuel, 8mm, colore, muto, profumo di centaurea moschata e angelica, 10’, 1975

Stone Book, 8mm, colore, muto, 10’, 1975

Dal 2 novembre al giorno di Pasqua, 8mm, colore, muto, 10’, 1975-1976

Cesare Lombroso – Sull’odore del garofano, 16mm, muto, 12’, 1976

Di alcuni fiori non facilmente catalogabili, 8mm, colore, muto, 10’, 1976

Cataloghi – Non è altro gli odori che sente, 16mm, muto, profumo di viola e fragola, 20’, 1976

Catalogo n. 2, 8mm, colore, muto, 20’, 1976

Profumo, 8mm, muto, vari profumi e odori, 27’, 1977

Catalogo n. 3 – Odore di tiglio intorno alla casa, 8mm, colore, muto, profumo di albero di limoni, 12’, 1977-1979

Un prestigiatore/Una miniaturista, 8mm, colore, muto, due odori, 10’, 1978

Milleunanotte, 16mm, incompiuto, 1979

Karagoez – Catalogo 9,5, 16mm, muto, 56’, 1979-1981

Catalogo n. 4 – Un due tre: immagini. Un due tre: profumi, 16mm, colore, muto, 18’, 1980

Essence d’absinthe, 16mm, colore, muto, 15’, 1981

Das Lied von der Erde – Gustav Mahler, 16mm, colore, muto, 17’, 1982

Dal Polo all’Equatore, 16mm, colore, colonna sonora originale di Keith Ullrich and Charles Anderson, 101’, 1986

Ritorno a Khodorciur. Diario Armeno, Beta SP, colore, suono, 80’, 1986

Frammenti, 16mm, suono, 159’, 1987

La più amata dagli italiani, U-matic, colore, suono, 80’, 1988

Passion, 16mm, colore, suono, 7’, 1988

Terremoto, 10’, 1989-2006

Uomini anni vita, 16mm, colore, suono, 70’, 1990

Interni a Leningrado, 16mm, 35mm, video, incompiuto, 1990

Archivi italiani n. 1. Il fiore della razza, 16mm, colore, suono, 25’, 1991

Catalogo comparativo, 8mm, colore, muto, 10’, 1975

Archivi italiani n. 2, 16mm, colore, muto, 20’, 1991

Mario Giacomelli – Contact, 35mm, bianco e nero, 13’, 1993

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Animali criminali, 16mm, Beta SP, colore, muto, 7’, 1994

Diario africano, 16mm, colore, 8’, 1994

Aria, 16mm, colore, muto, 7’, 1994

Lo specchio di Diana, Beta SP, video, colore, colonna sonora originale di Keith Ullrich, 31’, 1996

Prigionieri della guerra, 16mm, 35mm, colore, colonna sonora di Giovanna Marini, 67’, 1995

Nocturne, Beta SP, video, colore, muto, 18’, 1997

Io ricordo, Beta SP, video, colore, suono, 11’, 1997

Trasparenze, 16mm, 35mm, Beta SP, colore, suono, 6’, 1998

Su tutte le vette è pace, 16mm, 35mm colore, colonna sonora di Giovanna Marini, 72’, 1998

Inventario balcanico, 16mm, colore, colonna sonora di Charles Ullrich e Djivan Gasparyan, 62’, 2000

Images d’Orient – Tourisme vandale, Beta Digitale, colore, colonna sonora di Giovanna Marini e Luis Agudo, 67’, 2001

Frammenti elettrici n. 1 – Rom (Uomini), Beta SP, colore, 13’, 2002

Frammenti elettrici n. 2 – Viet-Nam, Beta SP, colore, 9’, 2002

Frammenti elettrici n. 3 – Corpi, Beta SP, colore, 9’, 2002

Frammenti elettrici n. 4/n. 5 – Asia, Africa, Beta Digitale, 63’, 2005

Nuova Caledonia, Beta Digitale, colore, 9’, 2004

Oh! Uomo, 35mm, colore, colonna sonora di Marina Marini e Luis Agudo, 72’, 2004

Luci misteriose, video, bianco e nero, 12’, 2005

Carrousel de Jeux, Beta SP, 43’, 1997-2006

Ghiro Ghiro Tondo, Beta Digitale, colore, suono, 61’, 2007

Frammenti elettrici n. 6. Diario 1989. Dancing in the Dark, Digital Beta Pal, colore, suono, 60’, 2009

Ti regalerò il mio ultimo respiro, video, colore, 5’, 2009

Installazioni

Visions du désert, in Desert, Fondation Cartier Pour l’Art Contemporain, Paris, 2000 (successivamente presso Fundació La Caixa, Barcelona; Centro Andaluz de Arte Contemporáneo, Sevilla, 2000)

La marcia dell’uomo, in Platea dell’umanità, Biennale Arte, Venezia, 2001 (successivamente presso Centro Cultural de Belém, Lisboa Photo, Lisboa, 2005)

Rom (Uomini), in Aubes, rêveries au bord de Victor Hugo, Maison Victor Hugo, Paris, 2002

Corpo ferito, inaugurazione, Mart, Rovereto, 2002

Terra Nullius, in Based on True Stories, Witte de With Museum, Rotterdam, 2003

Inventario balcanico, in Blood&Honey, Sammlung Essl, Wien, 2003

Aux vainçus, installazione permanente/permanent installation, Mart, Rovereto, 2004

Frammenti elettrici, in Experiments with Truth, Fabric Workshop and Museum, Philadelphia, 2005 (successivamente presso Château de Nyon, 2005; MoMA PS1, New York, 2006)

Luci misteriose, in Belgique Visionnaire, Palais des Beaux-Arts, Bruxelles, 2005

Train, in Le noir est une couleur, Fondation Maeght, Saint-Paul de Vence, 2008

Trittico del Novecento, installazione permanente, Mart, Rovereto, 2008

Topografia aerea, installazione permanente/permanent installation, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto, 2008

Cesare Lombroso, in Italics-Arte Italiana tra tradizione e rivoluzione 1968-2008, Palazzo Grassi, Venezia, 2009 (successivamente presso Museum of Contempo-rary Art, Chicago, 2009)

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