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Mainake, XXIX / 2007 / pp. 7-52 / ISSN: 0212-078-X MARMO ED EVERGETISMO NEGLI EDIFICI TEATRALI D’ITALIA, GALLIA E HISPANIA Patrizio Pensabene Università di Roma “La Sapienza” RIASSUNTO: Con il presente lavoro viene indagato il ruolo dei teatri di Pompeo, di Marcello e di Balbo a Roma nel determinare non solo la struttura architettonica, ma anche l’uso dei marmi in tutta la successiva archi- tettura teatrale di età imperiale. Ricostruire gli elevati architettonici in marmo e in particolare la qualità e il nu- mero delle colonne, riveste notevole importanza per determinare il tipo di committenza che è intervenuta nella realizzazione dei teatri. A tal fine vengono indagati alcuni teatri dell’Italia (Volterra, Ostia, Pompei), della Gallia (Arles) e dell’Hispania (Cordoba, Cartagena, Italica) di cui si ricostruisce l’elevato architettonico della scena, mettondolo in relazione con i possibili committenti noti dalle iscrizioni o ipotizzabili in base al contesto storico. Anche da questi pochi esempi risulta come il fenomeno dell’uso del marmo investa in modo grandioso anche l’architettura teatrale italiana e provinciale: il suo studio deve perciò essere affrontato con strumenti nuovi, basati sulla cultura materiale, in modo da ottenere risultati utili alla ricostruzione storica. PAROLE CHIAVE: Impero romano, Architettura teatrale, Marmo, Committenza. MARBLE AND EVERGETISM IN THE THEATRICAL BUILDINGS OF ITALY, GALLIA AND ROMAN SPAIN ABSTRACT: With this article we want to research the role of the theatres of Pompeus, Marcellus and Balbus in the city of Rome in establishing not only the architectonic structure, but also the use of marble in theatral buil- ding during all the imperial age. To reconstruct the architectonical elevation in marble, including the quality and the number of columns, cover remarkable importance in order to investigate the financing and its economical possibilities. With this aim we focused some thatres of Italy (Volterra, Ostia, Pompei), Gallia (Arles) and Hispa- nia (Cordoba, Cartagena, Italica), of wich it has been possible to recontruct the columnar elevation of the scene, and we put them in relation with the financiers if known by inscriptions or assumable by the historical context. Also from these few examples it is clear how the use of marble regarded in a huge way the italian and provincial theatral architecture: therefore we must affront its study with new tools based on material culture, in order to get usefull informations for the historical reconstruction. KEYWORDS: Roman Empire, Theatral Architecture, Marble, Financing. 1. INTRODUZIONE E’ noto come gli edifici teatrali proprio in età augustea registrino un’improvvisa e capilla- re diffusione anche nelle province occidentali non ellenizzate e in Italia, dove la maggior parte dei teatri fu costruita negli 80 anni successivi al secondo triunvirato. Prima di Augusto e fuori Roma si conoscono teatri stabili solo nelle città greche, in area campana e campano-sannitica e in Sicilia, oltre agli esempi laziali di Tivoli, Praeneste e Gabi strettamente connessi a santuari. E’ stato più volte osservato come riflesso della nuova situazione sia la codificazione di Vitruvio nel-

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MARMO ED EVERGETISMO NEGLI EDIFICI TEATRALI D’ITALIA, GALLIA E HISPANIA

Patrizio PensabeneUniversità di Roma “La Sapienza”

RIASSUNTO: Con il presente lavoro viene indagato il ruolo dei teatri di Pompeo, di Marcello e di Balbo a Roma nel determinare non solo la struttura architettonica, ma anche l’uso dei marmi in tutta la successiva archi-tettura teatrale di età imperiale. Ricostruire gli elevati architettonici in marmo e in particolare la qualità e il nu-mero delle colonne, riveste notevole importanza per determinare il tipo di committenza che è intervenuta nella realizzazione dei teatri. A tal fi ne vengono indagati alcuni teatri dell’Italia (Volterra, Ostia, Pompei), della Gallia (Arles) e dell’Hispania (Cordoba, Cartagena, Italica) di cui si ricostruisce l’elevato architettonico della scena, mettondolo in relazione con i possibili committenti noti dalle iscrizioni o ipotizzabili in base al contesto storico. Anche da questi pochi esempi risulta come il fenomeno dell’uso del marmo investa in modo grandioso anche l’architettura teatrale italiana e provinciale: il suo studio deve perciò essere affrontato con strumenti nuovi, basati sulla cultura materiale, in modo da ottenere risultati utili alla ricostruzione storica.

PAROLE CHIAVE: Impero romano, Architettura teatrale, Marmo, Committenza.

MARBLE AND EVERGETISM IN THE THEATRICAL BUILDINGS OF ITALY, GALLIA AND ROMAN SPAIN

ABSTRACT: With this article we want to research the role of the theatres of Pompeus, Marcellus and Balbus in the city of Rome in establishing not only the architectonic structure, but also the use of marble in theatral buil-ding during all the imperial age. To reconstruct the architectonical elevation in marble, including the quality and the number of columns, cover remarkable importance in order to investigate the fi nancing and its economical possibilities. With this aim we focused some thatres of Italy (Volterra, Ostia, Pompei), Gallia (Arles) and Hispa-nia (Cordoba, Cartagena, Italica), of wich it has been possible to recontruct the columnar elevation of the scene, and we put them in relation with the fi nanciers if known by inscriptions or assumable by the historical context. Also from these few examples it is clear how the use of marble regarded in a huge way the italian and provincial theatral architecture: therefore we must affront its study with new tools based on material culture, in order to get usefull informations for the historical reconstruction.

KEYWORDS: Roman Empire, Theatral Architecture, Marble, Financing.

1. INTRODUZIONE

E’ noto come gli edifi ci teatrali proprio in età augustea registrino un’improvvisa e capilla-re diffusione anche nelle province occidentali non ellenizzate e in Italia, dove la maggior parte dei teatri fu costruita negli 80 anni successivi al secondo triunvirato. Prima di Augusto e fuori Roma si conoscono teatri stabili solo nelle città greche, in area campana e campano-sannitica e in Sicilia, oltre agli esempi laziali di Tivoli, Praeneste e Gabi strettamente connessi a santuari. E’ stato più volte osservato come rifl esso della nuova situazione sia la codifi cazione di Vitruvio nel-

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la cui lista delle costruzioni civili in grado di caratterizzare la vita urbana si hanno il foro e, subito dopo, il teatro1. Il teatro diviene, dun-que, uno degli strumenti per eccellenza della politica augustea di urbanizzazione e perciò viene investito di signifi cati propagandistici e celebrativi che si rifl ettono sul suo apparato architettonico e scultoreo.

In età augustea e primo giulio-caudia ven-gono costruiti in Italia, in Gallia e in Hispania più di trenta teatri, tutti dotati di due ordini di colonne, in alcuni casi di tre (Arles, Oran-ge, Verona), di arredi scultorei, come i cicli di ritratti della famiglia imperiale di grandi di-mensioni (il culto imperiale si avvia a divenire anche nei teatri una componente importante delle funzioni ad essi affi date), le statue-ritrat-to dei cittadini importanti, spesso donatori di parti dell’edifi cio, e le statue ideali e i fregi scolpiti relative alle divinità connesse agli spet-tacoli teatrali, ai culti delle città e di nuovo al culto imperiale: si deve immaginare, quindi, uno sforzo organizzativo immane, che va dall’acquisizione del terreno, all’approvvigio-namento dei materiali e al reperimento delle maestranze specializzate nell’esecuzione delle varie componenti. Se i materiali edilizi per la costruzione delle strutture portanti, come la cavea e il nucleo dell’edifi cio scenico, pote-vano essere reperiti in base alle risorse locali, tutto ciò che riguardava il legname, le pietre e i marmi da utilizzare per la decorazione ar-chitettonica e scultorea, molto più frequente-mente doveva essere trasportato da depositi distanti dai luoghi d’impiego. La distanza di-veniva grande quando i marmi utilizzati pro-venivano non da cave regionali o provinciali, bensì da cave poste nell’Italia settentrionale e in Oriente: in questi casi le motivazioni di tali

scelte sono più spesse ideologiche e di presti-gio, che non dovute alla mancanza di risorse locali o comunque provinciali.

Le strette relazioni tra i programmi deco-rativi degli edifi ci pubblici, ed i messaggi po-litico-propagandistici a cui essi erano destinati coinvolgono, dunque, anche le modalità di esecuzione del progetto architettonico, i ma-teriali, la qualità di esecuzione, origine e for-mazione delle maestranze incaricate dei lavori. E’ solo attraverso la ricostruzione di tali rela-zioni che diviene possibile risalire alle classi di-rigenti che delle realizzazioni dell’architettura pubblica si fecero promotrici e anche alle ri-sorse economiche delle città e delle loro élites: quindi, tutta una serie di dati precipuamente archeologici derivanti dall’analisi delle struttu-re può essere utilizzata, insieme alle più rare fonti storico-epigrafi che, per meglio defi nire la committenza delle costruzioni pubbliche e le loro motivazioni.

In questa sede c’interessa, inoltre, il pro-blema di come valutare la presenza di una massiccia quantità di marmi pregiati, quali il pavonazzetto, il giallo antico, l’africano e il cipollino nei fusti di colonne in molti degli edifi ci di spettacolo italiani e di differenti pro-vince, sia di committenza del tutto pubblica, come di nuovo il teatro di Ostia, sia privata o mista. Vi sono alcune regioni, come la Cam-pania, nei cui teatri a questi marmi si aggiun-ge anche l’uso di fusti di “granito del Foro”, normalmente riservati soltanto all’architettura pubblica di Roma (poche sono le eccezioni2) e fuori dalla distribuzione di mercato3. Abbiamo visto in altra sede come l’evidenza epigrafi ca negli edifi ci della Campania abbia permesso di chiamare in causa l’evergetismo imperiale per tutto o anche per solo una parte dell’edifi cio

1 Cf. BEJOR, G. (1979): 124-138.2 Motivate da particolari circostanze economiche, come ad Astigi nella Baetica, dove s’incontrano grandi colonne di

granito del Foro, di cui non si conosce il contesto originario: PENSABENE, P. (2006): 121.3 PEACOCK, D., MAXFIELD, V. (1997): 334.

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(v. per quest’ultima eventualità l’anfi teatro di Capua) e in quest’ambito è risultato utile in-dagare quali fossero le offi cine marmorarie che intervenivano nella scultura delle trabeazioni e dei capitelli e valutare le differenze o meno emergenti dal confronto con la decorazione architettonica di edifi ci, invece, sicuramente di committenza locale (anfi teatro di Pozzuoli). Ma abbiamo detto come il caso della Campa-nia sia particolare per la sua posizione privile-giata, rispetto al resto dell’Italia, proprio per quanto attiene ai diretti interventi imperiali

nella costruzione e nel restauro del patrimo-nio monumentale, anzi l’evergetismo imperia-le si esplica in particolar modo proprio nella costruzione o nel restauro di teatri ed anfi tea-tri. Nella maggioranza degli altri teatri italiani e delle province le informazioni epigrafi che e i contesti storici e sociali non permettono di ricostruire un’attività evergetica imperiale ri-levante, ma il rinvio è quasi sempre alle élites locali che seguono tuttavia indirizzi comuni, pur nelle varianti delle soluzioni architetto-niche scelte di volta in volta a seconda delle

Fig. 1. Roma, Teatro di Pompeo (da F. Sear, 2006)

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varie condizioni storiche e topografi che. Uno di questi indirizzi è appunto l’uso di marmi bianchi e colorati per l’edifi cio scenico e in questo senso è importante ricercare i modelli su sui si basa quest’uso: essi sono certamente da individuare a Roma nel Teatro di Pompeo e in quelli di Marcello e di Balbo.

2. I TEATRI DI ROMA COME PUNTI DI RIFERIMENTO PER L’ARCHITETTURA TEATRALE NELL’IMPERO ROMANO

La costruzione a Roma del Teatro di Pompeo (fi g.1) inaugurato nel 55 a.C. e del teatro di Marcello già in uso nel 17 a.C. se-gnano, dunque, una svolta nell’architettura teatrale del mondo romano, non tanto e non solo per la defi nitiva codifi cazione del tipo architettonico del teatro con la cavea intera-mente sostruita, la facciata esterna conforme allo schema del Theatermotiv e le parodoi che collegano l’edifi cio scenico con la cavea, che già aveva precedenti nei teatri campani di II e I sec.a.C.: la svolta riguarda invece la gran-diosità dell’impianto, la ricchezza dei materiali impiegati e il lusso dispiegato nel frontescena4. In particolare viene defi nitivamente cristalliz-zato l’uso tardo repubblicano di elevare edifi ci scenici con ampio uso di colonne su due se non tre ordini architettonici, dove sono scelti i marmi pregiati che la tradizione architettonica delle monarchie ellenistiche aveva lasciato in eredità alla classe dirigente romana di epoca tardo repubblicana. Dei frontescena dei teatri di Pompeo e di Marcello restano poche tracce, ma soprattutto relative alla fase di ricostruzio-ne severiana. Abbiamo tuttavia informazione dalle pitture parietali di II stile e dalle fonti di alcuni teatri provvisori eretti dagli edili nel

corso del I sec.a.C. che già di per sé permet-tono d’immaginare la qualità e la ricchezza dei marmi della scena dei primi teatri stabili di Roma, perchè questi sicuramente presero spunto proprio dalle facciate sceniche utiliz-zate nei teatri provvisori tardo-repubblicani e nelle case private degli evergeti che le avevano fi nanziate5, offrendo dunque stabilmente ai cittadini ciò che prima era oggetto di un ever-getismo solo temporaneo

L’impiego di colonne monolitiche di marmo negli atri delle case aveva acquistato nel periodo tardo-repubblicano un signifi cato particolare, essendo collegato alla volontà di aprire la parte pubblica della casa alle numero-se clientele che costituivano un fondamentale strumento di lotta politica: così le colonne di marmo imezio collocate nell’atrio della casa di Crasso (chiamato per questo “Venere Pa-latina”), o le colonne di marmo luculleo fat-te venire dalle cave di Teos, in Asia Minore, dall’edile del 58 a.C., M. Emilio Scauro, ma inizialmente utilizzate nella scena del teatro provvisorio per i ludi da lui fi nanziati: da qui furono poi dirottate nell’atrio della propria casa sul Palatino6. Si tratta di una procedura che forse non era un caso unico tra i ricchi edili del tempo, ma che in Scauro arrivò a li-velli di fasto mai raggiunti prima: il theatrum Scauri, infatti, pur non essendo stabile, avreb-be presentato la scena a tre ordini con ben 360 colonne (forse si tratta di 36), di cui quelle del primo ordine alte 38 piedi, e con 3000 statue di bronzo, in tal modo costituendo, secondo Plinio, che ne disapprova il lusso eccessivo, un opus maximum omnium quae unquam fuere humana manu facta (Plin., NH 36.114). Ma la storia delle colonne del teatro di Scauro non fi nisce qui perché da Asconio Pediano (Pro Scauro 45) sappiamo che Augusto trasfe-

4 Cf. GROS, P. (1987).5 PENSABENE, P. (1997): 185.6 PLIN., NH 36. 4-8.

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rì nella scena del teatro di Marcello quelle in marmo luculleo della casa di Scauro (Plin. NH 36.2,6), provenienti, dunque, dal suo teatro7.

Che il dispiego del lusso fosse una con-suetudine, nonostante la provvisorietà degli impianti teatrali repubblicani, lo confermano altre iniziative, come l’impiego di materiali preziosi per decorare il muro della facciata di scene in legno (Val.Max., II 34) nei tea-tri provvisori di C. Antonius (argento), di un Petrius (oro) e di Q. Catulo (avorio). Inoltre C. Scribonio Curione, per i funerali del padre, fece realizzare in legno nel 53 a.C. due teatri vicini che poggiavano su perni e su ruote in modo da poterli unire per formare un grande anfi teatro (Plin., NH 36.116).

In ogni caso, i teatri di Pompeo (fi g. 1) e di Marcello, assieme a quello di Balbo (fi g. 2), pur in pianta stabile, proseguono la tradi-zione tardo-repubblicana di affi dare al lusso enfatizzato dall’uso di colonne il messaggio propagandistico dei committenti: costruiti nel Campo Marzio e in uso fi no ad epoca tardo antica, furono suffi cienti alle necessità della cittadinanza durante tutto l’Impero. La loro architettura fornì i modelli o comunque i punti di riferimento per tutti gli edifi ci teatrali successivi: già in età augustea troviamo teatri, come a Cassino, Ferento, Arles (fi g. 3), dove vi è un ampio impiego di fusti in bardiglio di Luni, portasanta, cipollino, giallo antico e an-che in alabastro, pietra questa che abbiamo già incontrato nel Teatro di Marcello e che sono citate da Plinio nel teatro di Balbo a Roma (NH 36.12,60)8. Anche in Campania, dove già vi era una presenza ben attestata di teatri, a

partire almeno dai primi del II sec.a.C., le sce-ne vengono quasi tutte rifatte in età augustea secondo la nuova moda e dotate, quindi di co-lonne in marmi d’importazione, che sostitui-scono quelle in pietre locali (calcari, tufi ecc.), dove il colore era riportato sullo stucco di rive-stimento: la manifestazione del lusso consiste proprio nel disporre di colonne naturalmente e non artifi cialmente colorate e di crustae in marmi colorati che di nuovo sostituiscono i rivestimenti parietali dipinti.

Per comprendere, dunque, la storia del-l’architettura teatrale romana è necessario ricostruire il più possibile non solo la pianta, ma anche gli elevati e i materiali utilizzati nei primi teatri stabili di Roma.

Il grande teatro di Pompeo9 (61-55 a.C.) dalle cavea di m.150 di diametro (fi g.1), già restaurato da Ottaviano nel 32 a.C., al-meno a giudicare dalle Res Gestae 20 (cf. CIL VI, 9404: in schola sub teatro Aug(usto) Pompeian(o) ) aveva avuto la scena pesanta-mente rifatta da Tiberio dopo l’incendio del 21 d.C. (Tac., Ann 3,72.4; Suet., Tib. 47.1) e i lavori proseguirono anche sotto i successori della sua dinastia. Un altro importante restau-ro fu quello operato da Tito dopo l’incendio del Campo Marzio dell’80 (Dio Cassius, LXVI 24). La scena fu ancora rifatta da Settimio Se-vero, come si ricava dalla menzione epigrafi ca di un procurator operis teatri Pompeiani (CIL VI, 1031) in occasione dei Ludi Secolari del-l’anno 204 (CIL VIII, 1439; XIV, 154); infi ne altri due incendi, nel 247, sotto Filippo l’Ara-bo, e nel 282, sotto Carino, sono seguiti da un restauro sotto Diocleziano e Massimiano nel

7 Le notizie delle fonti sembrano confermate dal ritrovamento proprio nell’area del Teatro Marcello di fusti di africano scanalati, poco inferiori alle misure tramandate da Plinio, e conformi alle proporzioni stabilite da Vitruvio (V, 6.6) tra altezza della colonna (base e capitello compresi) del primo ordine della scena e ¼ del diametro dell’orchestra, che, nel caso del teatro di Marcello, equivale a m 9,25 (p.r. 31 ¼); nello stesso teatro sono stati poi trovati fusti di alabastro e giallo antico: PENSABENE, P. (1994): 307.

8 Ibidem: 307, n. 65.9 Su un’iscrizione relativa al teatro v. HUELSEN, Ch. (1889): 251-263; Cf. Anche CANINA, L. (1835); SOANO,

G. (1919): 1-56; GROS, P. (1999): 35-38.

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285, che sembra abbiano aggiunto (o forse solo restaurato) altri portici detti Iovia e Her-culia (Chron. a.354, p.279), mentre altri in-terventi sono avvenuti sotto Arcadio e Onorio (CIL VI, 1191) e su ordine di Teodorico tra il 507 e il 511 (Cassiodoro, XXXIX 38; Variae, IV 51)10. Dell’articolazione della scena della prima fase non si hanno testimonianza, anche se si è ipotizzato che potrebbe essere stata ri-presa in uno tra i più antichi teatri, quello di Cherchel, del 25- 10 a.C. circa, caratterizzato da fronte rettilinea, ma con una grande nicchia absidata al centro per la porta regia; un indizio di una scena già articolata potrebbe anche ve-nire dal teatro tardorepubblicano di Gubbio11. In età severiana, come sappiamo dalla Forma Urbis che ci deve restituire la pianta del teatro del 204, il teatro presentava una grande scena a tre esedre, una rettangolare al centro e due absidate ai lati, e alle estremità non vi erano i parasceni, ma ampie sale ipostile (basilicae): nella Forma Urbis è indicata anche la posizio-ne delle colonne all’interno delle esedre e in-torno ai piloni che le separavano, ricostruibile per un numero di 46 fusti, che nel caso, come è quasi sicuro, presentasse due ordini, assom-mano a 84; a queste vanno aggiunte le colonne delle due sale ipostile, per un totale di circa 32 (ripartite tra le due fi le di colonne che separano le tre navate di ciascuna sala, e la fi la di colon-ne addossata alla parete di fondo). Vanno poi considerate quelle del quadriportico sul retro, su cui si affacciava il muro del postscaenium con nove porte.

Il numero di colonne impiegate nel teatro di Pompeo è altissimo, e, se è possibile che quello sopra indicato sia pertinente ai rifaci-menti severiani della scena, tuttavia deve rifl et-tere la situazione dell’impianto originario, per quanto possano essere stati sostituiti i fusti e gli elementi delle trabeazioni danneggiati nei

vari incendi. Possiamo fare questa affermazio-ne in base a quanto abbiamo detto a proposi-to della scena provvisoria del teatro di Emilio Scauro, in cui erano state messe in opera fusti di africano di diverse grandezze, almeno a giu-dicare da quanto scrive Vitruvio.

Di questa enorme quantità di marmi, come è noto, resta pochissimo: oltre ad alcune delle colossali statue del ciclo di Apollo e le muse, di Eracle e Telefo che ornavano il frontescena, di due Pan, alti m.2,70, che forse servivano come telamoni ai lati della scena o del pulpito, se aveva questa altezza (v. l’uso analogo nei teatri campani e sanniti del 100 a.C. circa), ancora delle 14 nationes che erano disposte nel quadriportico (di ben 180x135 m.) o nell’He-catonstylum, cioè il portico di cento colonne (probabilmente la Porticus Lentulorum) che correva sul lato nord del complesso, sono at-

Fig. 3. Arles, Teatro, capitello corinzio della scena

10 Cf. GRISAR, H.P. (1930): 21.11 SEAR, F. (2006): 84.

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tribuibili al complesso alcuni elementi architet-tonici: una grande colonna di africano vista dal Ficoroni in Via dei Chiavari e pubblicata nel 1803 da R.Venuti, in quanto la sigla letta sulla superfi cie inferiore dello scavo –Cn. Pompei – è da sciogliere come una sigla di destinazione12 (anche se forse può signifi care che le cave di Teos erano venute nel controllo di Pompeo dopo la sua campagna in Asia), e altre due sempre dal sottosuolo della stessa via scoper-te nel 1876 e nel 1892, una in granito grigio dal diametro di cm.92, trovata insieme ad una cornice e a un frammento di fusto rudentato13;

altri frammenti di fusto e pezzi architettonici vengono da scavi di Campo dei Fiori della cor-te di Palazzo Pio Rigetti (tra cui un frammento di capitello corinzio largo un metro)14. Da un inventario effettuato da Antonio Monterroso Checa, risulta che nella zona del Teatro di Pompeo, sono individuabili solo sette fusti frammentari: due tronconi delle colonne del Tempio di Venere, che sappiamo dalla Forma Urbis essere enorme, altre due delle colonne tirate fuori dal Colini nello scavo della fogna de Via dei Chiavari, e possibilmente apparte-nenti al primo ed al secondo ordine della fron-

Fig. 4. Roma, Largo Argentina, Portico Tardo

12 FICORONI, F. Del (1740): 15; BRUZZA, L. (1870): 184, n.187; DUBOIS, M.C. (1908): 149, n. 480.13 SEAR, F. (2006): 61.14 Per una lista dei ritrovamenti, Ibidem: 61.

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tescena del teatro rifatta da Settimio Severo per i Ludi Secolari del 204, probabilmente le stesse che compaiono nella Forma Urbis. Una era di marmo bianco, pare lunense, e l’altra di granito grigio, probabilmente della Troade, come quasi tutte le colonne sparse nei portici medievali di Via di Giubbonari ed appartenen-ti, secondo Monterroso, al teatro. Un’altra colonna di granito rosso è stata trovata nel-l’abside di Santa Andrea della Valle e segata e rimessa come soglia della nuova chiesa barroca dal Della Porta15. Avanziamo come proposta l’ipotesi che nel portico eretto nel V secolo a chiudere a nord l’area sacra di Largo Argentina e che correva parallelo all’estremità est dell’He-catonstylum16, siano state reimpiegate colonne e basi dal complesso del Teatro di Pompeo: si tratta di quattro fusti scanalati –tre in por-tasanta (fi g. 4) e uno in cipollino17, diam.inf. cm.52/54– con astragalo liscio che percorre i listelli e con punte di lancia tra le estremità delle scanalature, con tre basi apparentemente pertinenti, decorate eccetto su un lato non visi-bile (che indica la loro originaria appartenenza a colonne addossate ad una parete, forse al ter-zo ordine del frontescena)18, mentre una quar-ta è ottenuta dal reimpiego di un’iscrizione di Settimio Severo. Sempre in quest’area sono stati radunati frammenti architettonici rinve-nuti nella zona, tra cui parte di una transen-na con delfi no (alt.mass.cm.58, largh.cm.60,

spess. lastra cm.13), e vari frammenti di fusti colorati che potrebbero sempre provenire dal teatro (tronconi sia da fusto di sienite molto chiara dal diam. cm.70, sia da fusto scanalato in cipollino dal diam. di cm.60, ecc.

Il teatro di Marcello (fi gg. 2, 5), eretto an-ch’esso nel Campo Marzio, ma nel sito dove sorgeva il theatrum et proscaenium ad Apolli-nis (Liv., XL 51.3), fu iniziato nel 46 a.C. e già nel 17 a.C. venne utilizzato come sede dei Ludi Saeculares; completato nel 13 o 11 a.C., quando fu dedicato a Marcello (Cass.Dio, LIV 26.1; Liv., XXVI 1; Plin., N.H. 8.65), venne poi ampliato e riorientato da Augusto a par-tire dal 22 a.C., fi no ad arrivare ad una cavea di ca. m.130 di diametro e a consentire una capienza di ca. 13.500 posti19. Si ritiene che dal punto di vista urbanistico e politico possa considerarsi la risposta di Augusto al teatro di Pompeo, rispetto a cui, anche se probabilmen-te ne riprende l’aspetto del fronte esterno con arcate inquadrate da semicolonne20, presenta alcune novità:• la rinuncia alla forte spinta ascensionale

data dalle dimensioni del tempio di Vene-re in cima alla cavea del teatro di Pompeo, a favore di una maggiore semplicità nella giustapposizione di cavea e tempio, que-sto molto più ridotto;

• l’edifi cio scenico saldato alla cavea tramite parodoi coperte e provvisto sui fi anchi d

15 Sono individuabili anche alcuni dei gradini in marmo lunense, che Monterrosi attribuirebbe alla grande riforma che Augusto fa nel teatro pompeiano per i Ludi Secolari dell’anno 17, la stessa che accenna nelle sue Res Gestae. Su questo ed altri gradini mi sono occupato nel lavoro che ho presentato a omaggio alla Professoresa Pilar León.

16 MANCIOLI, D., SATANGELI VALENZANI, R. (1997): 16: “Il portico settentrionale venne restaurato con materiali di reimpiego, probabilmente a seguito di un terremoto, forse quello del 408 o quello del 443… in un momento successivo, databile probabilmente ai primi anni del VI secolo, l’area sacra subì una pesante ristruttura-zione …vennero tamponati anche gli intercolumni del portichetto settentrionale che venne trasformato così in un corridoio coperto”.

17 Le colonne sono citate da MATTERN, T. (1995): 57-76.18 Il plinto è decorato da due kymatia lesbii continui, contrapposti e separati da un listello, il toro inferiore da un

motivo a treccia, la scotia da una serie di baccellature, mentre il toro superiore da un festone di foglie di quercia: le proporzioni sono nella tradizione delle basi attiche di età imperiale, mentre la lavorazione, caratterizzata da un forte uso del trapano, è molto corrente e pare attribuibile al periodo severiano

19 HUELSEN, CH. (1894): 320.20 HANSON, J.A (1959): 44; GROS, P. (1985 - 1987): 319ss.

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due basiliche che limitavano la corte retro-stante;

• la riduzione dell’area dell’orchestra ad un semicerchio;

• infi ne le proporzioni delle sue parti, che avranno forte infl uenza nella successiva architettura teatrale, anche se in forme modifi cate.

Dopo l’incendio neroniano e l’assedio dei Vitellini al Campidoglio nel 69 a. C:, vi inter-venne Vespasiano (Suet., Vesp. 19), che ne re-staurò la scena, ma non il fronte esterno della cavea che rimase intatto; lo stesso durante il grande incendio dell’80 d.C., che si estese tra

il Teatro di Pompeo e il Portico d’Ottavia, fi no a raggiungere il Campidoglio, perché apparen-temente il fronte esterno attuale della cavea, almeno la parte che resta con i due ordini archi-tettonici tuscanico e ionico ancora conservati (del terzo –corinzio– restano quattro capitelli di semicolonna), sembra risalire alla fase ori-ginaria primoaugustea: poiché le fonti non lo nominano tra i restauri intrapresi da Domizia-no, è probabibile che anche la scena non abbia subito sotto questo imperatore grandi rima-neggiamenti. L’Historia Augusta (Alex. 44.7) menziona invece un restauro di Alessandro Severo, che ordinò che vi si celebrassero i Ludi Saeculares21 e questo, come vedremo, riguardò

Fig. 5. Roma, Teatro Marcello

21 Cf. ANGIOLILLO, S. (1973): 349ss.; contra TEDESCHI GRISANTI, G. (1977-78): 171ss.

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soprattutto l’edifi cio scenico con il suo fronte colonnato. Si dubita se la sua spoliazione fosse veramente cominciata con Graziano nel 360-370, che ne avrebbe riutilizzato i blocchi di tra-vertino per ricostruire il ponte Cestio22, perché Ausonio lo ricorda ancora funzionantel 390 e il prefetto dell’urbe Petronio Massimo vi pose varie statue nel 421; in effetti fu abbandonato solo alla fi ne del V secolo.

La sua pianta è raffi gurata nella Forma Urbis, dove appare con la scena rettilinea, dietro la quale vi è un portico dotato di 18 colonne che non sappiamo se erano di mar-mo o di travertino, corrispondenti a 18 lesene che sporgono dal muro posteriore dell’edi-fi cio scenico: le sei colonne centrali rientre-rebbero rispetto alle laterali. Ai fi anchi della scena e della corte sul retro vi sono due aule basilicali absidate (aula regia) divise in tre navate da due fi le di cinque sostegni, che è possibile fossero colonne di travertino, perché dell’aula orientale nota dall’incisione secente-sca del Du Perac23, resta il pilastro nord-occi-dentale in travertino (con quarto di colonna addossato su un’unica base attica e capitello tuscanico) davanti a cui vi è una semicolonna che sporge da una lesena che doveva essere addossata ad un pilastro sempre con capitel-lo tuscanico. Sicuramente di marmo e pietre colorate erano invece i fusti e le trabeazioni del frontescena, di cui sono state riconosciuti alcuni fusti di africano (fi gg. 6, 7), una ele-mento di basamento della fase protoaugustea (fi g. 8) e cornici e altri elementi delle fasi fl avia e severiana (fi g. 9). Solo il Fidenzoni restituisce, contrariamente all’immagine dela Forma Urbis, una scena articolata in tre ese-dre, rettangolare al centro e absidate ai lati e immagina la scena accompagnata da podi su cui si elevava il primo ordine composto da 24 colonne. Il terzo teatro di Roma, ancora nel

Campo Marzio e di grandi dimensioni (dia-metro cavea m.90), era quello fatto costruire da Cornelio Balbo (fi g. 2) tra il 19 e il 13 a.C. (Plin., NH 36.12,60), in cui si è negli anni recenti scavato parte del criptoportico che so-steneva tre lati della porticus post scaenam, la crypta Balbi dei Cataloghi Regionari).

Fig. 6. Roma, Teatro Marcello, fusto in africano

22 NSc, 1886, p. 159; BCom, 1886, p. 200.23 (1575): tav. 38.

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Anch’esso colpito dall’incendio del 80 d.C. (Plin., NH 66.24,2), fu in seguito restaurato, probabilmente già a partire dal periodo domi-zianeo e fi n nel secondo quarto del II sec.d.C., perché vi sono stati rinvenuti bolli laterizi di età tardo adrianea24. Della sua decorazione mar-morea sappiamo poco: Plinio c’informa della presenza di quattro colonne di onice poste da Balbo nella scena (Plin., NH 66.24,2), mentre gli scavi della calcara medievale dell’esedra del quadriportico hanno restituito alcuni elementi architettonici in marmo, in procinto di essere bruciati, e che in parte sono attribuibili alla scena25. Citiamo in particolare un frammento

di colonna scanalata in cipollino, un grande capitello composito (fi g. 10: alt.cm.83, diam. inf. cm.64,5) e vari frammenti di volute26, probabilmente della fase tardo domizianea, un frammento di maschera teatrale, un frammen-to di fregio architrave con bucrani e ghirlande alto cm.31, ecc.; una cornice con anthemion a tralci intermittenti sembra invece dell’età anto-nina avanzata. Rileviamo ancora che nei resti di strutture medievali reimpiegate nel Palazzo delle Botteghe Oscure (ora sede del museo) vi è ancora in situ una colonna di cipollino dal fusto liscio a cui è stato adattato un capitello medievale in travertino. Infi ne proponiamo di

Fig. 7. Roma, Teatro Marcello, fusto scanalato in africano

24 MANACORDA, D., s.v. “Cripta Balbi”, in Lexicon I, 1993, pp. 326-329, fi gg. 123, 155-156, 191-193; ID., s.v. “Theatrum Balbi”, in Lexicon V, 1999, pp. 30-31, fi gg.17,18.

25 ID. (2001): 53, fi g.57. 26 ID., fi gg. 57, 2, 60.

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Fig. 8. Roma, Teatro Marcello, basamento della fase proto-augustea

Fig. 9. Roma, Teatro Marcello, cornice della fase Severiana

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riconoscere in alcuni dei frammenti architetto-nici reimpiegati come decorazione nel cortile di Palazzo Mattei, che sorge praticamente sulla scena, elementi di questa, come ad esempio un lacunare con grandi rosette nei cassettoni, che secondo il Marchetti Longhi fu ritrovato nel cortile del palazzo27.

Va rilevato che il portico post scaenam di questo teatro doveva presentare nella fase ori-ginaria i bracci divisi in due navate, di cui ora restano alcuni fusti in laterizio stuccato della ricostruzione imperiale28. È possibile che il

portico del Foro delle Corporazioni di Ostia, ugualmente con la funzione di postscenio del suo teatro, che ugualmente si presenta diviso in due navate da colonne tuscaniche in lateri-zio stuccato, potesse avere come modello pro-prio quello del teatro di Balbo.

È noto come la politica augustea di nuova urbanizzazione o di rimodellazione dell’urba-nistica delle città delle province occidentali ha come cardine la cinta muraria e alcuni tipi di monumenti pubblici, quali i fori, con i templi e gli edifi ci con funzioni civiche annessi (curie,

Fig. 10. Roma, Teatro di Balbo, capitello composito

27 MARCHETTI LONGHI, G. (1920): 757, fi g.11; CARINCI, F. (1982): 295, n. 134.28 Il portico post scaenam del teatro di Balbo era originariamente diviso in 2 navate Il pilastro attuale del portico risale

alla fase imperiale (quando era a navata unica) ed è in mattoni rivestito di stucco: è ora rialzato nel museo.

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basiliche), ancora i teatri e gli anfi teatri. È ad essi che viene affi dato il ruolo di rappresentare l’immagine del potere romano e il patto di al-leanza stabilitosi con le classi dirigenti locali, e sono questi monumenti i luoghi per eccellenza in cui si dispiegano i programmi statuari e de-corativi incentrati sul culto imperiale, che divie-ne lo strumento di controllo da parte del potere politico e di espressione di fedeltà allo stato ro-mano da parte delle classi dirigenti locali. È in conseguenza di ciò che proprio i teatri di Pom-peo e di Marcello divengono i diretti modelli per tutte le imprese di costruzioni teatrali che dall’età augustea si moltiplicano in tutte le città dell’impero e che fondano i messaggi ideologi-ci e anche di prestigio affi dati alle architetture teatrali proprio sulla grandiosità dell’impianto e sull’uso di materiali preziosi quali i marmi bian-chi e soprattutto colorati provenienti dalle cave imperiali. Non si tratta, se non raramente, di donativi imperiali, bensì dell’acquisto di mar-mi grezzi e semilavorati (in particolare nel caso delle colonne, delle basi e dei capitelli, e spesso anche, nel corso del tempo di sculture -dai ba-cini alle statue), per i quali lo sforzo fi nanziario della committenza fu sempre notevole, soprat-tutto quando si trattava di manufatti importati dalle cave orientali e non da quelle locali, dati gli alti costi dei trasporti.

3. COLONNE E MARMI COLORATI NEI TEATRI ROMANI

In assenza di informazioni epigrafi che, ma non solo, dunque, sarà proprio la qualità e la quantità dei marmi impiegati, insieme al tipo di offi cine marmorarie –se locali, regio-nali provinciali o itineranti da altre province

o da Roma stessa– a permetterci di ricostruire le possibilità fi nanziarie delle committenze, defi nirne lo status sociale e la cultura che ha presieduto appunto alle scelte dei programmi espressi dalla decorazione statuaria e architet-tonica. Inoltre è ormai ovvio come non sia da vedere necessariamente un diretto intervento imperiale quando ci si trovi in presenza di mo-numenti con elevato marmoreo in uno stile molto vicino a quello di Roma. Anche per le stesse capitali provinciali, Tarraco, Corduba, Augusta Emerita, Lione, o per città importan-ti come Arles, Nimes, Cartagena, Carmona, la presenza dei grandiosi complessi forensi mar-morizzati può essere letta sulla base del rango sociale delle loro élites29: infatti la presenza di senatori o cavalieri originari di queste città, dove rivestirono talvolta anche il fl aminato e altre cariche, e in rapporto con l’imperatore possono ugualmente giustifi care il diretto in-tervento di offi cine formatesi presso i cantieri pubblici di Roma stessa o anche di altre città italiane, purché operanti in manifestazioni di architettura uffi ciale su modelli della capitale.

Inoltre il fatto che sia stato usato marmo proveniente da cave imperiali, quali appunto il lunense e il proconnesio, non implica una donazione imperiale, in quanto i marmi statali erano certamente posti in commercio, come tra l’altro testimonia la fl uttuazione dei prezzi a cui essi erano soggetti30 e come conferma in tutte le province occidentali, l’ampia utilizza-zione nel I sec.d.C. di marmo lunense anche ad opera di offi cine locali. Anche quando era usato nell’edilizia pubblica dei municipi pro-vinciali, si deve pensare per la maggior parte dei casi ad un acquisto da parte delle élites o dei governi municipali. A maggior ragione

29 Cf. RUIZ DE ARBULO, J. (1993): 100, dove per il complesso superiore di Tarraco si osserva: “Los inmensos fondos necesarios para la construccion de este enorme complejo junto a las sumas destinadas a su ornamentacion marmorea nos permiten de imaginar el poder economico de la élite provincial reunida en el concilium y el prestigio alcanzado por la fi gura del fl amen provincial”.

30 PENSABENE, P., (1983): 57 ss.

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non si deve ritenere segnale di provvidenze imperiali l’uso di marmi bianchi e colorati provenienti dalle cave ispaniche.

Che per gli edifi ci di spettacolo, dati gli alti costi, dovessero spesso essere utilizzate forme miste di fi nanziamento -cioè pubblico e privato, ove tra il pubblico si possono inserire non solo interventi delle città o di funzionari nell’eserci-zio della loro carica, ma anche gli interventi di membri della famiglia imperiale come Agrippa, i suoi fi gli adottati da Augusto, e invece inter-venti congiunti solo di personaggi locali o non che agiscono come benefattori: lo testimoniano le iscrizioni che ricordano quasi sempre un in-tervento evergetico riguardante non tutto l’edi-fi cio, bensì alcune sue parti: così si donano sia settori di posti a sedere, ad esempio in Hispania a Siarum (loca spectaculorum / exstructa a solo / saxis C...) o ad Aurgi dove i seviri si uniscono per donare 200 posti; (loca spectaculorum/ nu-mero CC), sia tratti del podio (così nel circo di Balsa in Lusitania31: podium circi pedes C..., e di Zafra podium in circo p(edum) DC...); a Olisipo l’augustale perpetuo C. Heius Primus fi nanziò la costruzione del proscaenium e dell’orchestra del teatro; doni separati per l’orchestra e/o il proscaenium, o il porticum vengono fatti per i teatri di Malaca e Italica.

Casi esemplari di fi nanziamento misto sono in Italia i due teatri di Pompei e di Er-colano, dove si verifi ca l’intervento isolato di personaggi di rango senatorio, masoprattutto dell’élite locale.

Teatro di Pompei

Il teatro di Pompei (fi gg. 2, 11), costruito tra il tardo II sec.a.C. e l’età sillana in uno spa-

zio piuttosto limitatati da edifi ci precedenti, tra cui le mura32, in questa sua prima fase presen-tava una pianta di tradizione tardo-ellenistica e simile ai teatri siciliani contemporanei, cioè con cavea dagli analemmata poco divergenti (come nella prima fase del teatro di Teano, ecc.) e non collegati con l’edifi cio scenico e con il logeion posto tra parasceni sporgenti dalla fronte obliqua. Pare che già in età sillana la scena assunse l’aspetto tipico del teatro ro-mano, con la creazione di confornicationes e di un pulpitum che sostituiva il logeion. Un’ulte-riore ricostruzione in tre tappe avvenne in età augustea , promossa da M. Holconius Rufus e M. Holconius Celer, che in diversi momenti erano stati duoviri della città (il primo nel 3 a.C., il secondo nel 14 d.C.), e ad opera del-l’architetto M.Artorius Primus, un liberto (CIL X.1, 181): in una prima tappa si ricostruirono in laterizio la frons scaenae con tre nicchioni, curvo quello centrale, rettangolari gli altri, e la parte centrale del pulpito, sistemato a fontana (come a Nocera33) con cui sono da connettere due vasche nell’orchestra; in una seconda tap-pa vennero ampliati in laterizio e in blocchi di reimpiego (soglie in calcare, ecc.) i podi alla base del frontescena evidentemente per soste-nere meglio la columnatio che dovette essere messa o rimessa in opera in occasione di questo allargamento; nella terza tappa si completaro-no la columnatio con la relativa decorazione architettonica, le parti laterali del pulpito e si concluse il rifacimento della cavea con la co-struzione della cripta e delle soprastanti strut-ture34. Dopo il terremoto del 62 i restauri non sembra siano stati iniziati.

Resta poco della decorazione marmorea di questa terza fase: Johannowsky ha ricostruito

31 CIL II, 5165, 5166. Cf. anche 984, 3364.32 BYVANCK, (1925): 107ss.; JOHANNOWSKY, W. (2000): 17-32.33 Con il teatro di Nocera quello di Pompei ha in comune anche nell’area dell’iposcenio una doppia serie di pozzetti

in funzione dell’auleum e il collegamento con un cunicolo.34 Ibidem: 20.

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l’esistenza di lastre di rivestimento in cipollino e marmo grigio nella parte inferiore dell’edifi cio scenico, in base al conservarsi in situ di tasselli di questi marmi usati come rinforzi; inoltre ha messo in evidenza due elementi (alti cm.15,3) di una cornice marmorea sugli sbocchi delle scale adiacenti ai tribunalia (fi g. 12), nei quali doveva continuare la stessa cornice, e ha potuto ricostruire le cornici dei due ordini della sce-na in base ai disegni del Mazois. Il teatro era dotato di un arredo statuario in marmo, come testimoniano tre teste femminili ritrovate, una delle quali forse un ritratto di Antonia Minore –saremmo in presenza, dunque, anche a Pom-pei di un culto imperiale nel teatro– un’altra, sempre un ritratto, ma non identifi cata, di una qualità molto fi ne non di offi cina locale35.

Le cornice dei tribunalia presentano sima con kyma lesbico seminaturalistico continuo, corona ridotta ad un listello, soffi tto con men-sole rettangolari a gola dritta poco pronuncia-ta, rivestite da foglie d’acanto che sorreggono con la cima il sottile pulvino terminale, e alter-nate a riquadri decorati con motivi vegetali di forme varie (ma anche da armi, lumache, tar-tarughe, come si ricava dai disegni del Mazois; segue la sottocornice molto ridotta e limitata ad un dentello continuo e a un sottile kyma le-sbico. Le cornici del primo ordine, alte cm.38 (in base ai disegni del Mazois), con sima e co-rona liscia separati da una sottile gola rovescia, e soffi tto senza mensole, mentre con dentelli rettangolari e kyma ionico nella sottocornice; le cornici del secondo ordine, più decorate

Fig. 11. Pompei, Teatro

35 BONIFACIO, R. (1997): 46ss.; JOHANNOWSKI, W. (2000): 23.

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(alte un piede), con kyma ionico tra sima e co-rona lisce, con soffi tto a mensole rettangolari rivestite da foglia d’acanto e incorniciate da kyma ionico, alternate a campi quadrati con rosette, e con dentelli quasi quadrati tra due kymatia lesbii seminaturalistici continui nella sottocornice.

Le cornici dei tribunalia (fi g. 12) riman-dano alla prima e media età augustea (30 a.C.-5 d.C.) per lo scarso sviluppo della sottornice e il tipo delle decorazioni dei riquadri tra le mensole, ancora nella tradizione tardo-repub-blicana e primo-augustea36; le cornici della scena rimanda invece alla tarda età augustea o poco oltre per lo sviluppo in tre modanature

della sottocornice e devono risalire all’ultima tappa della terza fase.

Si ha notizia del ritrovamento negli sca-vi dell’iposcenio37 di frammenti di capitelli corinzi e dell’inquadratura di una porta de-corata, ma è diffi cile individuare quali siano. Recentemente l’Heinrich38 ha ipotizzato che un gruppo di frammenti di capitelli di colonna e di pilastro in marmo lunense (alt. del capitel-lo meglio conservato cm.67,5) dei magazzini del Museo Nazionale di Napoli e di Pompei provengano dal teatro: l’acanto elegantemen-te intagliato e dai lobi a fogliette leggermente ogivali e separati da zone d’ombra ogivali e oblique, presuppongono le forme elaborate a

Fig. 12. Pompei, Teatro, particolare della cornice dell’aditus

36 Si confronti con i motivi analoghi nelle cornici della fase augustea del Santuario di Diana Nemorense: PENSABENE, P. (1979): 135, tav. 65,1,2.

37 SPANU, G. (1912): 111 ss.38 (2002): n. K40a-k.

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Roma nel Foro di Augusto e sono databili tra il 5 e il 20 d.C.

Teatro di Ercolano

Il teatro di Ercolano (fi g. 13) si presenta con la cavea costruita in reticolato con am-morsature in tufelli rettangolari, ma con l’edi-fi cio scenico e la fronte esterna in laterizio; i resti attuali sono attribuibili ad una fase augu-stea (fi g. 9), mentre non si riconoscono tracce di un’eventuale fase precedente: anzi è preci-sabile un lasso di tempo tra la prima e la media età augustea in base all’iscrizione al duoviro L. Annius Mammianus Rufus, la cui summa ono-raria fi nanziò l’inizio della costruzione diretta dall’architetto P. Numisius, ma che non fu l’unico benefattore perché probabilmente an-che il Console Appius Claudius Pulcher, a cui,

quando già era morto, era stata dedicata una statua nel teatro, e M. Nonius Balbus parteci-parono alle sue spese39. Dediche alla famiglia imperiale continuano fi no all’età fl avia.

La scena, del tutto in laterizio e in origi-ne rivestita di marmi policromi, era rettilinea, ma con larga abside poco pronunciata in cor-rispondenza della porta regia; se ne conserva buona parte del primo ordine per un altezza massima di m.5,23; alla sua base si addossa il podio, alto circa m.2, che doveva reggere la columnatio (ne sono state ricostruite 10 per ognuno dei due piani, tra cui fusti in africano), ma di cui non resta molto poco: tre capitelli corinzieggianti marmorei, sbozzati sul retro, frammenti di lastre di architrave a fasce e al-cune cornici a mensole e cassettoni pertinenti al primo ordine, un frammento di fusto di africano (diam.cm.30, alt.mass.cm.70) forse

Fig. 13. Teatri di Pompei ed Ercolano (da F. Sear, 2006)

39 CIL X,1,1424, 1426-28, 1438-40; PAPPALARDO, U. (1997): 417ss.

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dal secondo ordine, e numerosi frammenti di piccole cornici marmoree40.

Al centro della summa cavea sorgeva un piccolo sacello su podio lungo m.3,40, in ori-gine con ricca decorazione marmorea di resta un frammento della cornice d’angolo del po-dio e un frammento di cornice con ovuli.

Si conservano alcun cornici marmoree, una composta da quattro pezzi combacianti41. Ci restituiscono una cornice a mensole rettan-golari a gola dritta poco pronunciata con sot-tile lacunare al centro della superiore inferio-re, alternate a riquadri con motivi vegetali di varia forma; la sottocornice è poco sviluppata e limitata a un dentello continuo e a una gola rovescia42. Il tipo deriva da quello della Regia a Roma , che ha una certa diffusione (Foro di Formia, ecc.) tra il 30 e il 10 a.C. circa. In base

ai disegni del Mazois è stato possibile identi-fi care i capitelli del primo ordine in marmi a cristalli grandi, forse pario o tasio: sono avvolti da due corone di quattro foglie acantizzanti poste agli angoli, la prima con palmette in mezzo, la seconda con foglie d’acqua sempre in mezzo. Esemplari molto simili sono noti a Nocera, Napoli e Salerno e sono dovuti a mae-stranze colte, forse di formazione urbana43.

Teatro di Volterra

Su tutto un altro piano, anche per le di-mensioni, è il caso del teatro di Volterra (fi gg. 14,15) dove i benefattori sono due personaggi di rango consolare, A. Caecina A f. Severus, generale di Augusto e console suffetto nel 1 a.C., e C. Caecina A. f. Largus, d’incerta

Fig. 14. Teatri di Volterra e Ostia (da F. Sear, 2006)

40 PAGANO, M., BALASCO, A. (2000): 85, 86.41 Ibidem: 35.42 JOHANNOWSKI, W. (2000): 24, fi g. 8.43 Ibidem: 24, 25, fi gg. 8, 9.

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identifi cazione, forse il fratello e forse console suffetto del 13 d.C.44 il primo sicuramente era tra i collaboratori di Augusto e ciò si traduce in un diretto collegamento con le fonti di ap-provvigionamento dei marmi, in particolare il lunense, e con le mode architettoniche in uso a Roma.

L’edifi cio, che si è ipotizzato costruito sotto il consolato del primo Caecina del-l’iscrizione, presenta un frontescena lungo m.35,98, con grande valva semicircolare al centro, per la porta regia, e due semplici aper-ture rettangolari ai lati per le hospitalia. Si ele-va per 16 m. di altezza su due ordini colonnati in marmo lunense, ciascuno di dodici fusti con 24 scanalature (alti ripettivamente m.4,58 e 4,34), non monoliti, ma composti da due tronconi: vedremo come rispetto ai teatri di Ostia e Arles, su cui intervennero Agrippa e Augusto, mancano colonne in pietre colo-rate di prestigio, che compaiono invece nei rivestimenti dei podi e di altre superfi ci della scena di Volterra, ottenuti con spesse lastre di giallo antico, africano e cipollino. La scelta del lunense per i fusti non è da imputare a spese di trasporto dovute alla posizione di Volterra lontana dal mare, perché altrettanto sarebbe costato il trasporto di fusti colorati, bensì dal minor costo del lunense, favorito anche dalla pratica della prefabbricazione che si era andata istaurando nelle cave lunensi, dove sempre di più si stanno ritrovando usti e altri manufatti architettonici già semilavorati da maestranze attive direttamente presso i luoghi di estra-zione. Non meraviglia quindi che anche le basi attiche e capitelli corinzi della scena di Volterra, sempre in marmo lunense (fi g. 15), appartengono al tipo augusteo derivante dal Foro di Augusto, tra l’altro inaugurato nel-l’anno del consolato di Caecina Severus, e ben presto diffuso in Italia e contemporaneamen-

te in Gallia proprio mercè la specializzazione raggiunta dalle cave lunense nella produzione di blocchi e manufatti semilavorati in funzione della politica augustea di monumentalizzazio-ne delle città e anche nell’organizzazione del trasporto via mare, come attesta il noto nau-fragio di St. Tropez. I confronti diretti per i capitelli, dunque, sono non solo nell’urbe, ma in moltissimi centri occidentali (Terracina, Pozzuoli, Cherchel, Cartagena, Cordoba, Au-tun, ecc.), che testimoniano la diffusione già nei primi due decenni del I sec.d.C. di questo tipo di capitelli ad opera di offi cine itineranti specializzate in questi elementi e provenienti da Roma o Ostia, ma collegate con le cave di Luni. Va rilevato che nel teatro di Volterra, come anche altrove (ad esempio a Cartagena),

Fig. 15. Volterra, Teatro, frontescena

44 PIZZIGATI, A. (1993).

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si può riscontrare una differenza stilistica tra i capitelli e le trabeazioni, queste spesso legate a tradizioni decorative precedenti, in particolare quelle del secondo triunvirato, o più trascu-rate e meno sensibili ai valori plastici pur ob-bedendo ai nuovi modelli: anche a Volterra le botteghe locali già formatesi precedentemente sono state affi ancate solo occasionalmente dal-le maestranze urbane la cui presenza si spiega con committenze quali quelle dei Caecina, con stretti rapporti con la casa imperiale. Si ri-leva ancora come gli architravi e i fregi del tea-tro volterrano non siano lavorati in un blocco marmoreo unitario, bensì in lastre da applica-re ad un nucleo in pietra locale: gli architravi sono a modanature lisce, i fregi dovevano es-

sere ornati con girali d’acanto e motivi vege-tali in molti frammenti di rilievi del teatro45; le cornici degli ordini, a dentelli, kyma ionico e kyma lesbico, e altri elementi architettonici, pur derivando dai modelli augustei di Roma, sono inquadrabili per la resa stilistica con pez-zi simili dell’Italia settentrionale e sono da at-tribuire alle maestranze locali46.

Davanti al frontescena doveva essere esposto il ciclo statuario giulio-claudio di cui sono state ritrovate le teste di Augusto, Livia e Tiberio (in origine lavorate a parte e inserite nei corpi), sopra il quale, sul fregio del primo ordine, probabilmente sopra la regia, si leg-geva la grande iscrizione dedicatoria dei due Caecina. E’ rilevante il fatto che inizialmente il portico post scaenam era costituito da un unico braccio sul retro della scena con fusti lisci e capitelli ionici di tufo (di Pignano) –nel-la prima fase il marmo, dunque, era riservato solo alla scena– ma che in occasione del suo ampliamento in età claudia con altri tre bracci che delimitavano l’area postica (si conservano i due bracci laterali) s’impiegarono colonne in bardiglio alte m.3,50, con capitelli corinzieg-gianti (fi g. 16): l’ampliamento probabilmente fu fi nanziato da un omonimo del secondo Caecina dell’iscrizione sopra citata, C. Caeci-na Largus, che fu console del 42 d.C. e amico dell’imperatore Claudio, cronologia a cui por-tano i capitelli e i dati di scavo di questa parte del complesso47.

Con i Caecina, dunque, nobile gens vol-terrana trasferitasi a Roma in età postsillana e celebrata da Cicerone come la più illuste di tutta l’Etruria, siamo di fronte ad un esempio signifi cativo del coinvolgimento delle élites municipali italiche nel sistema politico augu-steo. Per le aristocrazie senatorie, pervenute al consolato, compiere atti di evergetismo verso

Fig. 16. Volterra, Teatro, Portico del post scaenam

45 Ibidem: 63.46 Ibidem: 62.47 MUNZI, N., TERRENATO, M. (2000): 38.

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la propria città d’origine48 aveva il doppio si-gnifi cato di autocelebrazione e di rivalutazio-ne in chiave ideologica del proprio passato, seguendo in tal modo l’esempio di Augusto. Si ha inoltre l’evidenza che il trasferimento dei Caecina a Roma comportò non l’abban-dono degli interessi nella città natale, ma il consolidamento della pratica dell’evergetismo a favore del municipio: in questo senso si deve intendere anche il ritrovamento di numerosi bolli laterizi degli stessi due personaggi che compaiono nell’iscrizione e che attestano l’attività di una fi glina di loro proprietà, sita a Volterra e nelle proprietà suburbane della fa-miglia, dove si producevano laterizi per il tea-tro e per altri cantieri promossi dai Caecina. Infi ne, sono proprio le committenze edilizie a carattere monumentali da parte degli ammini-stratori locali e in particolar modo dai senatori di origini municipali a favorire la diffusione dell’edilizia teatrale in Italia e nelle provin-cie, contribuendo in tal modo alla politica di urbanizzazione promossa da Augusto che si realizzava anche attraverso la partecipazione di familiari e amici.

Teatro di Ostia

In effetti, nel primo periodo augusteo vi sono alcune città nelle quali per varie cir-costanze storiche vi è un diretto intervento dell’imperatore o di Agrippa che riguarda la totalità o buona parte della costruzione degli edifi ci di spettacolo, testimoniata dalle iscri-zioni (Ostia, Merida) o proprio dall’elevato architettonico marmoreo (Arles).

A Ostia l’intervento si spiega per la par-ticolare condizione della città di quartieri di servizi di Roma, in quanto il suo porto sempre più aveva assunto una funzione commerciale e di primo deposito delle merci destinate alla

città, oltre a quello più tradizionale di por-to militare. Il teatro (fi g. 14) fu costruito, dunque, insieme alla porticus post scaenam, da Agrippa, in un’area che era rimasta senza costruzioni, perché destinata ad ager publicus. Dal diametro di circa m 80, anche dagli scavi recenti si è avuto conferma di come la cavea, sostenuta da due ambulacri, sia stata costruita sopra un banco di sabbia di riporto artifi ciale. Dell’edifi cio scenico di questa fase si conser-vano ancora le fondazioni in cementizio dei muri anteriore e posteriore, su cui poggiavano i muri dell’elevato in blocchi: è stato possibile ricostruire l’andamento rettilineo del fronte in cui si è riconosciuto il modello del Teatro di Marcello, sui fi anchi del palcoscenico i pa-rascaenia e sui fi anchi di questi e dell’edifi cio

48 MUNZI, N. (1993): 41-42.

Fig. 17. Ostia, Teatro, Capitello composito della scena

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scenico due versurae che si saldavano con i bracci laterali della porticus post scaenam. Del-la decorazione architettonica augustea resta poco, perché il frontescena è stato completa-mente riedifi cato nella successiva fase severia-na: tuttavia è stato rinvenuto un certo numero di capitelli compositi (quattro esemplari, alti cm 42, più vari frammenti49), attribuibili per l’acanto che risente ancora della tradizione del secondo triumvirato che possiamo attribuire proprio alla fase augustea del teatro (fi g. 17): essi costituiscono, insieme a quelli reimpiega-ti nel Mausoleo di Costanza a Roma, i primi esempi di capitelli compositi a Roma e Ostia, ma abbiamo visto come nell’area del teatro di Marcello sono stati ritrovati alcuni capitelli io-nici a quattro facce, di grandi dimensioni, che potrebbero aver costituito la parte superiore di capitelli compositi lavorati in due blocchi di-stinti. E’ probabile che il ritrovamento nel tea-tro di Ostia di capitelli compositi in un discreto numero sia dovuto al fatto di essere stati reim-piegati nella scena severiana, eventualmente nel secondo o terzo ordine, e il loro adattarsi alle colonne di bigio e di cipollino sempre rinvenute nell’area del teatro ostiense può far pensare che anche queste facessero parte della scena augustea (più probabilmente quelle di cipollino, mentre quelle di bigio al portico in summa cavea)50; uno dei fusti in cipollino reca ancora la sigla di cava –L(oco) DCIII– incisa sulla parte inferiore quando il fusto era ancora steso subito dopo l’estrazione. La possibilità del reimpiego dalla scena augustea riguarda anche due grandi capitelli corinzi, rinvenuti nell’area del teatro e sempre nella tradizione del secondo triumvirato: uno di essi, che con-serva intera l’altezza (cm 79,5) e con nume-rose cavità per inserire tasselli di restauri anti-

chi51, doveva essere pertinente a fusti alti poco meno di sei metri e probabilmente collocati ai lati della Porta Regia anche nella fase severia-na. La pertinenza alla fase augustea del teatro è più incerta, ma possibile, per il capitello a “sofà” in marmo lunense, rinvenuto davanti ad una sua taberna52: è intagliato insieme ad un semicapitello tuscanico ed è direttamente collegabile alla tradizione ellenistica, non solo per la sua tipologia a “sofà”, ma per la sua ar-ticolazione che presuppone una semicolonna addossata ad un pilastro o anta.

Abbiamo riportato queste informazioni perché il rapporto che si è potuto stabilire tra la forma rettilinea della scena e l’uso di capi-telli compositi del teatro ostiense e di quello di Marcello a Roma confermano l’immediato impatto che gli edici di spettacolo del Campo Marzio hanno avuto sulla successiva storia dei teatri romani.

Inoltre è stato possibile ricostruire una serie di successivi interventi nel teatro tra i quali una certa rilevanza ha la ristrutturazio-ne sia dell’edifi cio scenico, che della porticus post scaenam avvenuti in età adrianea, quan-do furono ricostruiti tutti i piani pavimentali, sebbene una nuova fase di ricostruzione che ingloba e amplia la cavea precedente inizia . L’opera fu terminata da Settimio Severo che, insieme ai fi gli, dedica il teatro nel 196, e da questo imperatore deve essere stata portata a termine la ricostruzione dell’elevato architet-tonico del frontescena del tutto marmoriz-zato –cominciato forse molto prima–, che di nuovo si adatta alla caratteristica dell’edifi cio scenico poco profondo.: non sarebbe stato possibile, quindi, aprire nicchioni absidati in corrispondenza delle porte, perciò il muro an-teriore resta rettilineo e l’effetto scenografi co

49 PENSABENE, P. (1973): nn. 385-388.50 Uno dei fusti -n. inv. 19357- è stato rinvenuto sulla cavea (Scavi di Ostia, VII, p. 107, nota 4).51 Ibidem, nn. 204-205.52 Ibidem, n. 672 (n. inv. 17211: alt. cm 36,5).

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non è affi dato a colonne staccate dalla parete, bensì a pilastri addossati e presumibilmente semicolonne e/o colonne sempre addossate alla parete. Anche per questa fase si è volu-to sottolineare l’intervento imperiale, perchè Ostia continua ad avere in età severiana un ruolo centrale per la sua funzione annonaria e di scalo merci: per questo gli imperatori s’inte-ressano in prima persona della città e dei suoi monumenti principali.

Teatro di Arles

Una situazione analoga si deve essere veri-fi cata ad Arles. Il teatro (fi g. 18) sorge ad est del foro, nel luogo più alto della città: costrui-to in epoca augustea (è stato proposto intorno al 15 a.C.) del tutto su sostruzioni, presenta il fronte esterno –tutto nella pietra locale– della cavea diviso in tre ordini con colonne e capi-telli dorici e trabeazione composta da un ar-chitrave-fregio dorico a metope e triglifi , da un fregio ionico con girali d’acanto e da una cornice con mensole e cassettoni. La cavea, che dunque si avvale di un imponente sistema

sostruttivo, è divisa in tre maeniana e in quat-tro cunei: nella parte più bassa è la proedria che occupa parzialmente lo spazio dell’orche-stra, mentre un balteus la separa dalla cavea. Il frontescena conserva una profonda esedra semicircolare centrale ed un postscaenium arti-colato in vari ambienti: era arredato da statue di divinità sulle quali dominava al centro quel-la di Augusto e da “altari apollinei”. Del suo elevato rimangono: le grandi colonne lisce in africano e in bardiglio di Luni ai lati della porta regia sormontate da capitelli in calcare lavorati in due parti; le colonne rudentate in bardiglio di Luni e in giallo antico del primo e secondo ordine, con basi e capitelli corinzi (fi g. 3) in marmo lunense più chiari nell’insieme e nei particolari rispetto a quelli più grandi della porta regia (si tratta di un rapporto simile fra modello e imitazione come anche nella Mai-son Carré) e con cornici sempre nello stesso marmo. Anche il piano dell’orchestra conserva le lastre di rivestimento in cipollino, bardiglio, giallo antico, e alcuni tipi di alabastro.

Va subito rilevato che la presenza di mo-numentali colonne in bardiglio e in africano

Fig. 18. Teatri di Arles e Cartagena (da F. Sear, 2006)

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e l’abbondanza di marmi colorati della scena e dell’orchestra rimandano direttamente al Teatro Marcello di Roma con analogo uso di colonne di marmo africano: dato anche la presenza di offi cine urbane per i capitelli e le cornici in marmo, non può non pensarsi ad un diretto interessamento se non intervento di Augusto o di Agrippa per la fornitura dei marmi e delle maestranze. Non sappiamo se tale intervento riguardò anche l’assunzione del costo dell’intero edifi cio; certo è che nel-la sua costruzione intervennero anche mae-stranze regionali portatrici di tradizioni tardo repubblicane, come testimonia la disinvolta mescolanza dell’ordine dorico e ionico nel fronte esterno. Ciò suggerisce una tradizione lavorativa continuata di queste maestranze in Gallia e dunque la presenza di committenze

locali in grado di fi nanziare lavori edilizi pri-vati (v. frammenti della decorazione di monu-menti funerari di Narbona che richiamano le metope del Teatro).

Inoltre il fatto che le cornici ed anche i capitelli marmorei del teatro di Arles (fi gg. 3, 19) siano molto simili ai frammenti architetto-nici sempre di marmo rinvenuti nel criptopor-tico della città e attribuiti dal Gros al sacello di culto imperiale del Foro, e ancora l’uguaglian-za del doppio fregio ionico e dorico in pietra locale del fronte esterno del teatro e dell’”Arc du Rhone” documenta l’ampiezza degli inter-venti operati ad Arles nella prima età augustea, resi possibili dalla coesistenza di maestranze esperte da Roma e locali.

Tra la fi ne del I e gli inizi del II sec.d.C. si verifi ca una nuova ondata di monumenta-

Fig. 19. Arles, Teatro, cornice della scena

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lizzazione anche ad Arles in analogia ad altri centri della Gallia meridionale, che portò alla costruzione dell’anfi teatro e del circo, que-sto con lussuosa decorazione architettonica in marmo: essa culmina in età adrianea nella trasformazione del lato nord del foro in cui si inserì un nuovo edifi cio templare. Tutto ciò presuppone l’esistenza di una classe dirigente che in questo periodo poteva concorrere con la colonia al fi nanziamento dei nuovi edifi ci con il ricorso a maestranze “regionali” colte in grado di lavorare anche il marmo. Si sotto-linea questo aspetto perchè numerosi elementi architettonici invece in pietra locale, conserva-ti nel lapidario annesso al teatro, dimostrano l’esistenza e la continuità lavorativa di mae-stranze locali, che hanno aderito allo stile fl avio (v. la sovrabbondanza degli ornati e del chiaroscuro), inserendolo nella tradizione de-corativa della Gallia meridionale (v.le baccel-lature piene nella corona delle cornici), ma lo hanno caratterizzato con l’introduzione di va-rianti libere nella resa degli ornati tradizionali (dentelli molto stretti e lunghi tra le mensole, grosse perline intorno ai cassettoni). Di con-seguenza anche ad Arles si riscontra nel corso del I secolo e nei primi decenni del successivo una sorta di dualismo tra maestranze regionali e locali determinato dalla resa dei motivi deco-rativi e spesso dall’uso del marmo.

Se, dunque, i programmi decorativi ri-conoscibili nella prima età imperiale ad Arles rimandano senz’altro alla volontà propagan-distica di Augusto, della sua famiglia (Teatro, Foro, “Arc du Rhone”) e di Tiberio (“Forum Adiectum”, “Arc Admirable”), ci si può chie-dere se il fi nanziamento dei nuovi edifi ci sia stato assunto del tutto o in parte dall’impera-tore, dalla colonia Iulia Paterna Arelate Sex-tanorum, dalla classe dirigente locale, e quali siano stati i canali attraverso cui sono giunti nella città il marmo e le maestranze urbane.

Arles, come è noto, fu insieme a Narbonne, uno dei principali centri commerciali della pro-

vincia, dati i suoi intensi traffi ci con l’Italia e la sua posizione lungo la rotta che portava l’olio betico e altre merci delle province ispaniche in Italia: in effetti, tra i pochi personoggi noti dal-l’epigrafi a della città vi sono proprio due navi-cularii, entrambi seviri augustali (i liberti L. Se-cundus Eleutherius e M. Frontonus Euporus). Tuttavia, a differenza di altre città, non si han-no notizie ad Arles di donazioni effettuate da seviri, nè da altri esponenenti del ceto comer-ciale. Il solo atto di evergetismo noto epigrafi -camente è invece dovuto ad un duoviro che fu anche fl amen: si tratta di un C. Iunius Priscus che dona ob honorem quinquennalitatis un po-dium novum cum ianuis all’anfi teatro, dove appunto era collocata l’iscrizione, e signa duo Neptuni argentea ad ornamentum basilicae, e del quale la grande disponibilità fi nanziaria è confermata dal fatto che aggiunge 200.000 se-sterzi alla summa honoraria già promessa. Sono comunque noti altri personaggi dai quali ci si potrebbero aspettare simili donazioni, quali il fl amen Romae et Augusti L. Donnus Flavos, il fl amen e patrono dei navicularii di Arles Cn. Cornelius Optatus e il fl amen Q. Iulius.

Ma il fatto che uno dei patroni della cit-tà fu L. Cassio Longino, console nel 39 d.C. e marito della fi glia di Germanico, Drusilla, e che ad esso gli abitanti di Arles esprima-no riconoscenza, ci getta uno spiraglio sulla continuità degli stretti rapporti della città con Roma e sui possibili veicoli attraverso cui cui erano resi disponibili materiali costosi quali i marmi imperiali.

Teatro di Merida

Il caso più evidente di un diretto rapporto tra interventi di Augusto e Agrippa in edifi ci di spettacolo e il ruolo –questa volta politico e militare– della città in cui ciò si verifi ca è Me-rida, capitale di una provincia nuova rispetto alle già esistenti Citerior e Ulterior. Il teatro (fi gg. 20, 21) fu dedicato da Agrippa nel 15

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a.C., sebbene pare che già alla fi ne dello stesso secolo vi sia stato un rifacimento della frons scaenae: in ogni caso in questa fase il materiale impiegato per la scena doveva essere il granito locale rivestito di stucco, come prova la pietra delle iscrizioni dedicatorie di Agrippa poste all’entrata dell’aditus maximus e dei capitelli ionici del portico postscenico, di cui si conser-vano molti esemplari53; altri frammenti sono stati reimpiegati nell’opera cementizia del po-dio54. Tra il tardo I e l’età adrianea la scena fu del tutto rifatta, con un’articolazione in abside centrale e due nicchie rettangolari ai lati e con due ordini sovrapposti di colonne, ma di que-sta fase non si conoscono dati epigrafi ci che c’informino sui patroni e gli imperatori sotto i quali avvenne la ricostruzione della scena e chi furono i fi nanziatori.

La fase di Agrippa vide, dunque, l’uso del granito delle cave locali nell’embalse romano di Proserpina, nelle località attuali di Cuarto

de la Charca e di Quarto de la Jara, dove resta-no molti segni dello sfruttamento romano. La fase successiva (fi g. 22) utilizza ancora le cave locali di un calcare grigio a venature parallele (che ricordano il cipollino grigio) delle sierre-cillas di Araya e Carija ancora presso Proserpi-na, mentre le trabeazioni, le basi e i capitelli sono del marmo bianco delle cave di Estre-moz, ad una cinquantina di km da Merida55. Il marmo rosso, caratterizzato dalla presenza di fossili, dello zoccolo del podio delle scena, su cui poggiano le colonne, proviene da Alcone-ra, vicino a Zafra nella provincia di Badajoz

Evidentemente la lontananza dal mare di Merida e la non navigabilità del Guadalquivir rese diffi cile collegare la prima edilizia di com-mittenza imperiale all’uso del marmo d’impor-tazione, per cui inizialmente si utilizzò il gra-nito, ma per la quale si rimase fedele rispetto al modello di urbanizzazione basato sul foro (dominato dal Tempio di “Diana”, ancora in

53 BARRERA ANTÓN, J.L. de la (1984): 99.54 NOGALES BASARRATE, T. (2003): 67.55 ÁLVAREZ SÁENZ DE BURUAGA, J. (1982): 303.

Fig. 20. Teatri di Merida e Italica (da F. Sear, 2006)

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Fig. 22. Merida, Teatro, particolare del frontescena

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granito) e sul teatro: solo l’apertura e l’orga-nizzazione delle vicine cave di Estremoz rese possibile la trasformazione della città dal nero (il colore del granito locale, che era comunque rivestito di stucco dipinto) al bianco (il marmo di Estremoz). Quello lunense rimase utilizza-to soprattutto per la scultura rappresentativa (v. i probi viri del Foro di Marmo e vari altri ritratti imperiali), nel cui ambito spesso si regi-strò l’importazione di manufatti già sbozzati o semilavorati, come proprio le statue di grandi dimensioni dei togati.

Teatro di Cartagena

Abbiamo iniziato per le province ispaniche con il teatro di Merida che risulta il più anti-co tra quelli fondati in età augustea, ma per il

quale, come si è visto, il processo di marmo-rizzazione non è collegabile con questa fase più antica. Ma proprio per gli edifi ci teatrali ispanici si hanno testimonianze sia epigrafi che, sia archeologiche, che illustrano il collegamen-to tra ricerca sulle committenze e ricerca sugli aspetti della cultura materiale legati all’uso del marmo e alla scelta delle offi cine. Ma di parti-colare interesse sono due teatri augustei, quel-li di Cartagena e Cordoba perché sono stati costruiti, o almeno iniziati, quasi contempo-raneamente ai teatri di Marcello e di Balbo e a quelli del Lazio della Campania e dell’Umbria che s’ispirano ad essi (Ostia, Cassino, Gubbio, Spoleto, ecc.) e anche perché sono tra i primi edifi ci a fornire importanti informazioni sul-l’introduzione del marmo lunense in Hispania Ma, mentre il teatro di Cartagena ha la cavea appoggiata sul declivo, quello di Cordoba se-gue fedelemente il linguaggio urbano anche per il fatto di presentare la cavea interamente sostruita: su un totale di 23 teatri in Hispania solo quelli di Cordoba e di Caesaraugusta pre-sentano questo sistema, mentre gli altri conti-nuano a essere costruiti, secondo la tradizione campana e latina, con sistemi di sostegno della cavea misti56 (basti citare i teatri di Cales, di Teano tardorepubblicani e di Bonomia con la cavea in parte appoggiata e in parte sostruita).

Con il teatro di Cartagena (fi g. 18), so-pra le cui aditus, sono state trovate dediche a C e L. Cesare, i fi gli adottivi di Augusto57, si è di fronte ad un’organizzazione altamente sviluppata delle offi cine incaricate di scolpire e mettere in opera gli elementi del frontescena: essa ci è testimoniata da un insieme di sigle di collocazione conservate sui piani di posa e di appoggio sia dei rocchi dei fusti in travertino rosso (si tratta di una pietra con cambiamen-ti cromatici che ricordano l’alabastro e di cui vi è certamente un affi oramento nelle cave di

Fig. 23. Cartagena, Teatro, capitello corinzio

56 CHECA MONTERROSO, A. (2003): 279-297, in particolare p. 286.57 RAMALLO ASENSIO, S.F. (1992): 49-73; ID. (1996): 307-309.

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Cerro de la Almagra, presso Mula, nella re-gione di Murcia58), sia delle basi e dei capitelli in marmo lunense (fi gg. 23-25)59. I caratteri latini di queste iscrizioni sono talvolta molto regolari, altre volte più correnti, ma in ogni caso attestano un cantiere altamente organiz-zato dove il progetto architettonico del teatro (reso possibile attraverso cartoni, modelli?) messo a disposizione dall’architetto consentì agli impresari edilizi che avevano l’incarico della realizzazione degli elevati- di stabilire preliminarmente la posizione dei singoli pez-zi, compreso l’attacco tra i vari elementi della

trabeazione: anzi, i pezzi erano forse stati col-locati in una spianata accanto al teatro e già accostati –in particolare le trabeazione– secon-do la posizione che avrebbero assunto. Altre sigle (B.V) sono invece da interpretare come le iniziali dei capo-offi cina dei marmorari che avevano scolpito i capitelli e forse erano state apposte già presso le cave di Luni, se i capitelli erano giunti semilavorati a Cartagena.

Ci troviamo di fronte, probabilmente, ad un architetto e ad un’offi cina specializzata nel-la rifi nitura di capitelli e basi che venivano da fuori, forse inviati dai grandi benefattori della

Fig. 24. Cartagena, Teatro, retro del precedente

58 RAMALLO ASENSIO, S.F., ARANA CASTELLO, R. (1987): 97ss.59 RAMALLO ASENSIO, S.F. (1993); (1996): 226, fi g.5.

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città, C. e L. Cesare, e inizialmente con ogni probabilità, dallo stesso loro padre, Agrippa, che fu patrono e duoviro di Cartagena60, anche se l’edifi cio scenico, per i suoi caratteri stilistici, deve essere stato terminato dopo la sua morte avvenuta nell’11 a.C., e forse negli anni tra il 5 e l’1 a.C. a cui si data l’altare dedicato a C. Cesare nel teatro61: i fi gli di Agrippa avrebbero così contribuito a terminare l’opera eventual-mente promossa del padre, che aveva visitato

la città tra il 19 e il 18 a.C.62; al fi nanziamento è possibile, tuttavia, che abbiano partecipato anche ricchi notabili di Cartagena, come il magistrato locale L. Iunius Paetus, che dedica l’altare sopracitato di C.Caesar ed un altro alla Fortuna, sempre ritrovato nel teatro63.

L’affermazione di una presenza di mae-stranze itineranti nasce dal fatto che prima di questo edifi cio non sono noti a Cartagena elevati architettonici né con uso del marmo

Fig. 25. Cartagena, Teatro, capitello corinzio; piano d’appoggio con sigla numerale

60 Sui patroni della familia Caesaris: ABASCAL, J.M., RAMALLO ASENSIO, S.F. (1997): 116-121, n. 13-14 (C. Caesar), pp. 121-122, n. 15 (L. Caesar), pp. 173-175, n. 42 (Tiberius), pp. 175-177, n. 42 (Agrippa), pp. 191-193, n. 49 (Iuba II); gli autori propongono anche che lo stesso Augusto sia stato patrono della città; Cf. anche RAMALLO ASENSIO, S.F. (1999): 29.

61 Ibidem: 38.62 Anche nel caso di Nimes, visitata nel 20-19 a.C. da Agrippa che ne divenne patrono (CIL XII, 3153, 3154), si ha la

testimonianza che uno dei suoi fi gli C.Cesare ne assunse il patronato (CIL XII, 3155): AMY, R., GROS, P. (1979): 194.

63 RAMALLO ASENSIO, S.F. (1998): 134; ID. (1999): 34.

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nella trabeazione, nei capitelli e nelle basi, né con questo stile decorativo (solo ora sta emer-gendo un grande complesso legato al culto imperiale in località Molinetes, con grande dispiego di marmo lunense, ma probabilmente successivo, anche se di poco, al teatro), ma so-prattutto dal fatto che il progetto del teatro era perfettamente consono alle nuove architetture teatrali diffuse nell’età augustea e direttamente dipendenti dal modello del teatro di Marcello. Nell’Hispania romana il teatro di Cartagena è il primo edifi cio di spettacolo marmorizzato e questo, ripetiamo, non può che essere dovuto al favore di Agrippa e di altri illustri benefat-tori della città. Finora resta un unicum anche per Cartagena stessa, perché l’uso del marmo non compare ad esempio nell’elevato archi-tettonico del piccolo Augusteo recentemente sistemato (come vedremo da non identifi care con il tempio del divo Augusto noto dalle monete, ma con un tempio degli augusta-les): qui le colonne erano nel calcare locale, lo stesso le basi, di cui restano in situ alcuni esemplari; di marmo era invece il lussuoso opus sectile pavimentale, nel quale trovano impiego sia marmi colorati d’importazione, sia marmi locali.La conoscenza anche degli altri marmi e pietre impiegati in questo teatro, inoltre, è importante perchè, essendo ben datato ai pri-mi anni della nostra era (1-5 d.C.), ci consente di sapere con certezza quali e quanti erano i marmi allora importati in Hispania. B. Soler ha intrappreso una’analisi quantitativa e volu-metrica d tutti i frammenti marmorei scoperti nel teatro, identifi cando le quantità totali: fu-rono impiegati 76,63 m3 di marmo lunense, 5,37 m3 di marmo colorato e 121,25 m3 di travertino rosso locale (fi g. 26), cioè quasi il doppio del marmo lunense Inoltre la Soler ha effettuato l’identifi cazione delle combinazioni cromatiche che caratterizzano l’edifi cio nei suoi differenti momenti di vita, in alcuni casi modifi cate con l’applicazione di uno strato di pittura sugli elementi marmorei. Per ciò che

riguarda i fusti delle colonne è signifi cativo che nel teatro di Carthago Nova fosse impiegato il travertino rosso locale e non marmi d’impor-tazione, come invece era avvenuto quasi nello stesso periodo nel Teatro di Arles, del 20-10 a.C. circa, dove si utilizzano fusti in bardiglio, africano, giallo antico, lo stesso in città della Campania (Nocera) e del Lazio Meridionale (Cassino). Tuttavia nel teatro di Carthago già nella sua prima fase l’apparato decorativo com-prendeva anche Africano, Giallo Antico, Pavo-nazzeto, Cipollino, Breccia di Sciros e Breccia

Fig. 26. Cartagena, Teatro, fusto in travertino rosso dalla scena

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Corallina per le lastre di rivestimento a signifi -care che l’investimento dei benefattori non si volle o potè spingere fi no all’acquisizione di fusti delle stesse pietre imperiali. Ma la scelta del travertino rosso ci da altre importanti in-formazioni proprio sulla posizione sociale dei donatori di questi fusti. Innanzitutto il suo vo-lume (121,25 m3), confrontato con quello del lunense, ci permette di valutare il sovrapprezzo che avrebbe comportato l’utilizzazione di fusti in marmi d’importazione e ipotizzare, quindi, qualche dato sui committenti.

Qual’è, dunque, il ruolo di personaggi locali come i Postumii o L. Iunius Paetus, o di membri della casa imperiale come i fi gli di Augusto, Caius e Lucius Caesar, nella realiz-zazione del teatro? E’ possibile che entrambi i fi gli di Augusto, patroni della città abbiano occupato magistrature civiche, partecipado alla costruzione dell’edifi cio, comesi potrebbe dedurre dall’alto numero di dediche tributate loro nel teatro e in altri luoghi della città, o anche che la sua costruzione sia stata iniziata da Agrippa e terminata dai suoi fi gli dopo la sua morte; tuttavia possiamo includere tra i personaggi che contribuirono alla costruzione del teatro L. Iunius Paetus, sulle cui possibilità fi nanziarie abbiamo informazioni dedotte dal recente ritrovamento di un lingotto di piom-bo a Magdalensberg: nel cartiglio appare C. Iunius Paetus, fi glio di Lucius, dato che do-cumenta la relazione della sua famiglia con la metallurgia del piombo e che podrebbe spie-gare le realizzazioni energetiche di Paetus nel teatro: si spiegano in tal modo anche le due are in lunense, decorate con motivi ornamen-tali provenienti da un ambiente strettamene urbano (Roma). Inoltre è possibile che la fa-miglia abbia avuto interessi nello sfruttamen-to delle cave locali e più specifi catamente del

travertino rosso, dati il suo diffuso impiego a Carthago e nella sua regione, sia nell’edilizia pubblica come pivata64. E’ certo che nel teatro furono impiegati in differenti funzioni areni-sca, calcari, oltre al travertino rosso, ma questo è l’unico materiale estratto da cave locali che poteva essere utilizzato come pietra di “sosti-tuzione”, e per questo doveva avere un certo valore economico.

Teatro di Cordoba

In effetti, dal I secolo d.C. in poi, in Hi-spania si stabilisce una relazione continua tra pietre e marmi locali e quelli d’importazione e si conosce sempre di più il ruolo delle offi cine provinciali, in particolare quelli di Cordoba, che si muovono in tutta la ricca provincia. Ma a Cordoba, divenuta colonia nel 25 o nel 15 a.C. il teatro, considerato il più grande della Spagna (diametro m.124, altezza dal piano dell’orchestra m.30), venne costruito o alme-no terminato apparentemente dopo quello di Cartagena, anche se a distanza di pochi anni, a giudicare dai capitelli e dalla probabile prove-nienza da esso di un altare dedicato in questa data alla Fortuna (che fa pensare ad una data intorno al 5 d.C.)65: esso presentava la scena marmorea decorata secondo il nuovo stile au-gusteo e nel quale di nuovo si scorge l’attività di marmorari itineranti. Sono state rilevate si-gle di cava M . P sulle cornici in calcare micri-tico della Sierra Morena, che dovevano appar-tenere al fronte esterno della cavea: si è propo-sto di sciogliere la sigla in Mercellones Persini, importante famiglia equestre della città, forse proprietaria delle cave da cui furono prelevate le pietre o forse, con questa sigla, intenzionata ad affermare la loro partecipazione alla costru-zione del teatro66: in effetti l’edifi cio è ritenuto

64 RAMALLO ASENSIO, S.F., ARANA CASTELLO, R., (1987).65 CIL II, 2191; CIL II2 /7, 225.66 VENTURA, A. et alii (2002): 123 ss.

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il frutto dell’evergesia urbana, ad opera dei più ricchi della nuova élite coloniale. Nei suoi sca-vi si sono trovati fusti di Africano, Verde An-tico e Cipollino, alcuni dei quali sicuramente appartenevano alla fase augustea della costru-zione (ad eccezione del verde antico utilizzato solo dal II sec.d.C., ma che attesta un restau-rio della scena), ma più rilevante ancora è che tutta la gradinata della cavea sia in marmo. Proprio l’uso di questi fusti e la grande quan-tità di marmo bianco utilizzato non solo nelle trabeazioni della scena, ma nella cavea, rivela il modello dei grandi teatri urbani, alla stessa stregua d’altronde del Forum Novum, in mar-mo lunense, costruito, qualche anno dopo, ad immagine del Foro di Augusto; anzi, nono-stante l’impianto della cavea sia stata inserita in un ripido pendio, essa non è appoggiata, bensì sostruita da un insieme di ambulacri e scalinate, come nei teatri del Campo Marzio, pur mantenendo la funzione di spazio di co-municazione tra i vari livelli di Cordoba e in particolare con la terrazza superiore, per cui il teatro si proetta sulla città come decoro sceno-grafi co e non rimane conchiuso in se stesso67: resta il fatto che costituisce il primo esempio di teatro sostruito in Hispania ed è evidente la volontà di rifarsi ai modelli di Roma e anche alle lo dimensioni, essendo di poco minore del teatro Marcello, anche se l’adozione dell’opus quadratum, e non del caementicium, porterà inevitabilmente con se varie differenze tecni-che e anche formali.

L’offi cina marmoraria italica, giunta nelle due città per la realizzazione dei progetti tea-trali, lavorò certamente insieme a maestranze locali riservando per sé la scultura dei capitelli e probabilmente delle modanature decorate più importanti della trabeazione (sima delle cornici del primo ordine, fregi scolpiti, etc.); a quelle locali, invece, vennero lasciate le

modanature meno visibili e più strette delle trabeazioni del primo ordine e delle porte e le trabeazioni del secondo e terzo ordine, o almeno buona parte di esse . Si deve infatti ritenere che le maestranze locali fossero più numerose di quelle itineranti italiche che accompagnarono il carico dei marmi lunen-si e che al massimo saranno state composte da una dozzina di unità: a queste tuttavia fu affi data l’organizzazione della scultura e del-l’assemblaggio degli elementi e forse insieme ad esse era venuto l’architetto. Inoltre queste maestranze apportarono in Hispania lo stile che era stato elaborato nel cantiere del Foro di Augusto, segnando anche per le province spagnole il passaggio più o meno progressi-vo tra lo stile del II triumvirato e lo stile della piena età augustea: il primo continua ancora ad essere utilizzato per buona parte dell’epo-ca augustea (teatro di Tarragona, Tempio di Barcellona, monumenti del foro di Saragozza) quando s’impiegano i calcari e le arenische del posto, a cui evidentemente erano abituate le maestranze locali formatesi nel periodo triun-virale, mentre l’apparizione del nuovo stile coincide con la presenza del marmo lunense e di marmi locali che lo imitano.

Infi ne, per giudicare appieno l’impatto ce-lebrativo e propagandistico in primo luogo del potere imperiale svolto da questi teatri nella compagine sociale dell’epoca si dovrebbe co-noscere con maggiori particolari il programma statuario: per quello di Carthagena è possibile ipotizzare la presenza almeno di un ritratto di membri della famiglia imperiale se il giovane atleta nudo in pentelico, rinvenuto negli scavi della scena, presentatava la testa di Caio o di Lucio Cesare. E’ probabile, comunque, che anche in questi due teatri alle statue del fron-tescena doveva essere affi dato il messaggio dell’esaltazione dinastica imperiale, se esse,

67 CHECA MONTERROSO, A. (2004): 279-297, in particolare pp. 281-282.

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come nell’esedra della porticus post scaenam del teatro di Merida, rappresentavano Augu-sto e la sua famiglia68, ed è stato rilevato come di preferenza Augusto si sia fatto rappresenta-re capite velato, con insistenza , dunque, sulla pietas dell’imperatore69.

Teatro di Italica

Ma per comprendere meglio il ruolo del marmo come fonte di informazione sulle clas-si sociali dell’epoca si deve affrontare anche il teatro d’Italica, in cui si manifesta una note-vole importazione di fusti dal Mediterraneo orientale70.

Nel teatro di Italica (fi g. 20), costruito per la prima volta in età augustea, il duoviro L. Blattius Traianus Pollio compare in un’iscri-zione monumentale, originariamente in lette-re di bronzo inserite in lastre marmoree, che corre tutt’intorno all’orchestra del teatro e celebra il fi nanziamento dell’orchestra e del podio (probabilmente del suo rivestimento marmoreo) fatto da lui e dal suo collega C. Traius Pollio71; L. Herius, due volte duumvir e pontifex Augusti, donò invece archi e portici pertinenti forse al lato occidentale della piazza porticata sul retro del teatro, mentre gli altri lati sembrano appartenere al II sec.d.C.72. Le iscrizioni vanno datate agli inizi del pe-

riodo tiberiano in quanto i personaggi sono stati tra i primi pontefi ci creati da Augusto, dopo che la città ricevette lo statuto munici-pale (pontifi ces prim[i creati] Augusto orche-stram pros[caeni]um itinera aras signa de sua P(ecunia) faciendum) c(uraverunt)73; Ponti-fex creatus Augusto primus municipio pollicitus ex [p]atrim[onio suo ar]cus... de sua pecunia dedit idemque dedicavit74). Resta comunque sicura una seconda fase piuttosto importante del teatro da collocare in età adrianea75, che pare testimoniata dall’uso del laterizio, con tecnica simile a quello impiegato nella nova urbs, nell’attuale podio che si addossa al pre-cedente balteus in marmo76 e nel frontescena e alla quale forse possiamo attribuire le magnifi -che statue di grandezza maggiore del vero in marmo pario, lì ritrovate (Hermes, Artemis e Venus)77. A questa fase potrebbero attribuirsi alcuni capitelli corinzi e compositi (primo e secondo ordine del frontescena?) in marmo proconnesio ora conservati mel Museo di Sivi-glia, provenienti da Italica; alcuni di essi sono stati messi in opera in un portico ricostruito in una delle sale78 del museo utilizzando anche colonne di cipollino da Italica uguali a quelle del teatro ancora in situ, depositate (fi g. 27) in gran numero presso la scena (alcune con sigle di cava sul piano di posa del sommosca-po ancora grezzo). Con la datazione adrianea

68 Cf. da ultimo ARCE, J. (2002): 237-240 e bibl. citata.69 ZANKER, P. (1987).70 RODRÍGUEZ GUTIÉRREZ, O. (2000): 130-131.71 BLANCO FREIJEIRO, A. (1977): 134; LUZÓN NOGUÉ, J.M. (1982): 186; GONZÁLEZ, J. (1991): 55, n.

83. La proposta della datazione si basa sul termine post quem dato dall‘elevazione a colonia da parte di Adriano (SYME, R. [1964]: 142). Nello stesso teatro la decorazione pittorica sarebbe stata fi nanziata d L. Licinio Sura: CANTO, A.Mª (1985): 232-235, n. 48.

72 CORZO, R. (1991): 127.73 ERI, 49.74 BRAH, 180 (1983): 13-15.75 CANTO, A.Mª (1982): 145.76 ROLDÁN GÓMEZ, L. (1994): 77ss., 220. Cf. CORZO, R. (1992).77 GARCÍA Y BELLIDO, A. (1949): nn.64, 140, 155.78 PENSABENE, P. (1993): 302, fi g. 12. Anche alcune cornici del Museo di Siviglia, ma provenienti da Italica,

paiono ugualmente poter aver fatto parte della fase adrianea del teatro, in quanto, in analogia ai capitelli, sono da attribuire ad offi cine di Roma o di Ostia che conservano ancora nei primi decenni del II sec.d.C. la tradizione fl avia: ID. (1996): tavv.1, 2-4, 2,2.

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si accorda l’epoca di costruzione della grande terrazza sul lato meridionale del teatro, alcu-ni resti di rifacimenti della cavea con muri in opus africanum e la data attribuita ad un altro intervento evergetico relativo alla decorazio-ne pittorica del pulpitum, dovuta a [L(ucius) Licinius] Sura79. Ma alla fi ne del II secolo o agli inizi del III secolo d. C. si realizza un rin-novamento generale dell’area della scena che riguardò soprattutto la ricostruzione degli ordini architettonici, probabilmente riutiliz-zando i fusti e capitelli ancora in buono stato,

insieme ad altri di nuova fattura80, dove sono impiegati marmi bianchi diversi (Almaden de La Plata, Proconnesio) (fi gg. 28-31).

Ma nel teatro di Italica è stato trovato un altare poligonale, che doveva essere collocato in una delle nicchie del fronte del podio in cui un M. Cocceius Iulianus (con il fi glio Quiri-nus e la moglie Iunia Africana) commemora la sua donazione di due columnas carystias e di un epistylium cum cancellis aereis: l’iscrizione è stata datata agli inizi del III sec. d.C., quan-do evidentemente devono essersi resi necessa-

Fig. 27. Italica, Teatro, fusto in cipollino

79 ERI, 48.80 Per un capitello corinzio rinvenuto nell’area della scena: LUZÓN NOGUÉ, J.Mª (1982): 188, fi gg. 8, 9;

GUTIÉRREZ BEHEMERID, M.A. (1992 ): n. 470.

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ri lavori di restauro, forse proprio della scena, a cui partecipano con donativi i maggiorenti locali, e come prova tutta una serie di capi-telli corinzi asiatici, alcuni ancora nell’area del teatro, altri nel Monastero di S.Isidoro del Campo di Santiponce e nel Museo di Siviglia (di nuovo messi in opera nel portico sopradetto) attribuibili all’età severiana81. Si può forse precisare una data intorno agli anni 209-211, ai quali risalgono due altari gemelli riutilizzati in epoca tarda nell’hyposcaenium e dedicati a M. Lucretius Iulianus curator della città82. Gli interventi dei donatori locali servì, dunque, ad integrare le colonne e altri mate-riali della precedente scena che non poterono essere riutilizzati, mentre in molti casi è docu-mentata un’attenta opera di restauro dei fusti già usati83. Materiale di reimpiego venne mes-so in opera anche nelle nicchie del pulpito, creando una sorta di opus sectile84. Tutto ciò spiega perché anche le trabeazioni della sce-na sono scolpite in marmi bianchi differenti (Proconnesio, Almadén de la Plata e Lunen-se). E’ stato affermato che le caratteristiche dell’edifi cio scenico, con il fronte colonnato notevolmente distanziato dal muro di fon-do rettilineo (e limitato nella sua funzione strutturale appunto per questa distanza) ha favorito la sostituzione della decorazione nel periodo severiano85. In ogni caso l’intervento severiano rappresenta un fenomeno piuttosto signifi cativo perchè in epoca severiana alcuni dei più importanti teatri ispanici, come quelli di Tárraco, Córdoba e Carthago Nova, sono abbandonati.

Anche le modalità d’impiego del marmo, dunque, forniscono un contributo per stabi-lire la differenza tra gli evergeti di un edifi cio

Fig. 28. Italica, Teatro, cornice

81 Ibidem: nn. 648-653.82 CANTO, A.Mª (1973): 311 ss.83 RODRÍGUEZ GUTIÉRREZ, O. (2001): 138 ss., fi gg. 1-4.84 EAD. (2004): 1357.85 Ibidem: 1357.

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e l’altro. Nel caso del teatro di Italica abbia-mo dedotto l’intervento di evergeti locali che contribuirono insieme alla costruzione e alle ricostruzioni dell’edifi cio. Lo si è dimostrato perchè vi è l’evidenza che le colonne nuove sono state donate da evergeti che potevano fornire solo un numero limitato di fusti: nella citata ara esagonale iscritta, in marmo procon-nesio, che era situata davanti al murus pulpiti, si fa riferimento al dono di sole due colonne in marmo Caristio e anche di un architrave con rejas di bronzo da parte di un possibile ma-gistrato della colonia, M. Cocceius Iulianus e la sua familia; in frammenti di scapi di fusti di

Caristio, di Portasanta, ma anche di Almaden de la Plata e di calcari conchigliferi locali stan-no iscritto nomi abbreviati –LU(CI) EMILI /SE NS, PIP/PCV86–che per la loro grafi a regolare non possono essere confusi con sigle di cava, ma si devono identifi care con i nomi degli acquirenti che contribuirono a fi nanziare la decorazione del frontescena (nella spianata dietro la scena si conservano anche fusti fram-mentari di africano, di breccia corallina e, più piccoli, di pavonazzetto e, con scanalature tortili, di pavonazzetto o breccia de Sciro). A ciò si aggiunga il fatto che per le trabeazioni non sono utilizzati blocchi interi di marmo,

Fig. 30. Italica, Teatro, capitello corinzio

86 EAD. (1997): 239, fi g. 14.

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ma lastre di rivestimento del nucleo strutturale realizzato con grandi blocchi di pietra calcare fossilifera e nuclei di opus caementicium87. E’ evidente la necessità dirisparmiare il marmo dato il suo costo elevato.

Teatro di Tarragona

In contrasto, il teatro di Tarragona, datato in epoca tardo augustea, presentava l’edifi cio scenico completamente realizzato in pietra locale articolato in nicchie e esedre ospitanti statue di marmo. I primi elementi architetto-nici di marmo s’introdussero in un momento posteriore con la ricostruzione del pulpito in

marmo lunense e la pavimentazione delle sue esedre in marmo nero, rosa e jaspeado rema-tado con listelli di Cipollino, studiata da Pérez Olmedo: anche in questo caso mancano dati cronologici sicuri.

Dell’elevato scenico suddiviso in tre or-dini sono conservati nel museo numerosi frammenti delle cornici e capitelli in pietra locale ed anche alcuni rivestimenti in marmo di semicolonne rudentate, che hanno fatto ri-conoscere, appunto, un uso molto oculato del marmo, forse limitato all’inquadramento della porta regia88.

Gli elementi, nel calcare del posto, dove-vano essere stuccati e di essi fanno parte alcuni capitelli corinzi nella tradizione del II triunvi-rato, quale espressa in Gallia ad esempio nel Teatro di Arles o in Tarraconense nel Tempio di Barcellona89: tuttavia non sono stati lavorati dalla stessa offi cina, in quanto uno (esposto nel museo) appare piuttosto accurato e vicino ai modelli (v.l’espansione delle foglie chiara-mente articolate e la concavità dei lobi con mosse fogliette a sezione angolare), altri sono più piatti con monotone foglie d’acanto fi no ad arrivare ad esemplari con foglie molto sem-plifi cate con riduzione delle zone d’ombra tra i lobi. Ad una datazione tra il 30 e il 15 a.C. ri-mandano non solo l’iscrizione dell’epistilio di uno dei portali del teatro (da escludere anche per criteri epigrafi ci una cronologia sotto un diverso imperatore), ma anche i frammenti di cornice: nonostante la resa sommaria, ricono-scibile nell’accentuato spessore del listello che separa la sima dalla corona, i motivi decorativi dei cassettoni (pigne, fi ori ad elica, con petali trilobati, ecc.) e la sottigliezza delle mensole (non rivestite da foglie d’acanto), rimandano allo stesso periodo.

Fig. 31. Italica. Monumento sulla spianata al di sopra del teatro, capitello corinzio-asiatico

87 EAD. (2004): 360.88 PENSABENE P. (1993).89 GUTIÉRREZ BEHEMERID, M.A. (1992a): 99.

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Teatro di Malaga

Nel teatro di Malaca una grande iscrizione incisa sul piano dell’orchestra ricorda donatori congiunti, per i quali si è supposto l’apparte-nenza al locale ordo decurionum, ma essendo mutila non sappiamo se di tutto l’edifi cio o solo di una parte: è comunque probabile, data la posizione e la monumentalità dell’epigrafe che il dono abbia riguardato almeno l’orche-stra e il pulpito (in analogia a Italica) e forse anche la scena90. La recente obliterazione della Casa de la Cultura sopra la scena ne favorisce ora la lettura: si conservano due grandi basi nel marmo loale delle cave di Mija (di aspet-to simile al proconnesio), le cui dimensioni (lato plinto cm.14491) non solo confermano l’esistenza nel frons scaenae di due ordini so-vrapposti di colonne, quelle inferiori alte pro-babilmente intorno ai 7 metri, ma consentono di ipotizzare che i grandi tronconi di colon-ne rudentate nel marmo bianco, reimpiegati nella porta d’ingresso all’Alcazaba potessero provenire dal teatro; alle colonne della porta regia potrebbe appartenere la base decorata di nuovo di grandi dimensioni, conservata nel museo archeologico dell’Alcazaba, men-tre alla trabeazione della scena un elemento di cornice nel marmo di Mija appartenente ad una trabeazione sporgente e conservato nei giardini di nuovo dell’Alcazaba. Lo scopo di queste ipotesi, tutte da verifi care perchè a Malaca esistevano certamente altri complessi monumentali dove era utilizzato il marmo (ad esempio è noto epigrafi camente un tempio di Giove) è quello di evidenziare il contrasto tra Italica e Malaca proprio per l’uso del marmo, esclusivamente locale nella seconda, d’impor-tazione e locale nella prima, che è da spiegare in funzione delle potenzialità delle classi diri-genti e della storia della città.

Abbiamo detto, dunque, come una una diretta testimonianza di questa aspirazione ai marmi pregiati, quali erano quelli utilizzati a Roma nei primi teatri stabili della città, ci provenga già in epoca augustea da alcuni tea-tri della Gallia, della Hispania e italiani, che, con la precoce attestazione che essi offrono dell’uso di marmi lunensi e di pietre colora-te d’importazione dall’Italia e dall’ Oriente, insieme a programmi decorativi fondati su esigenze celebrative e anche di culto imperia-le, mostrano come proprio agli edifi ci teatrali fosse affi dato un ruolo chiave nella propagan-da imperiale.

4. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE: EVERGETISMO E TEATRI

Le strette relazioni tra i programmi deco-rativi degli edifi ci pubblici, ed i messaggi po-litico-propagandistici a cui essi erano destinati coinvolgono anche le modalità di esecuzione del progetto architettonico, i materiali, la qua-lità di esecuzione, origine e formazione delle maestranze incaricate dei lavori. E’ stato solo attraverso la ricostruzione di tali relazioni che è divenuto possibile risalire alle classi dirigenti che delle realizzazioni dell’architettura pub-blica si fecero promotrici e anche alle risor-se economiche delle città e delle loro élites: quindi, tutta una serie di dati precipuamente archeologici derivanti dall’analisi delle strut-ture è stata utilizzata, insieme alle più rare fonti storico-epigrafi che, per meglio defi nire la committenza delle costruzioni pubbliche e le loro motivazioni.

È ormai noto dalla storia degli studi come si debba distinguere, fi n dove è possibile, tra interventi evergetici di imperatori, di senatori e cavalieri (di origine locale o no che fossero), di membri di ceti dirigenti locali, quali gli ap-

90 Hispania Antiqua Epigraphica, 2249. 91 PUERTAS, R. (1982): 205.

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partenenti agli ordines decurionum ed ai seviri augustales; un’ulteriore possibile distinzione è quella circa la natura dell’atto energetico, se ad opera di singoli o misto ovvero realizzato mediante un concorso di iniziativa pubblica e privata. In ogni caso, durante l’alto e medio impero le famiglie delle comunità cittadine, che per ricchezza e infl uenza politica possono permetterselo, tendono a impegnarsi notevol-mente nel governo, nello sviluppo delle pro-prie città, compreso l’aspetto architettonico-monumentale92.

L’evergetismo architettonico da parte delle élites locali ebbe una tale risonanza nel corso dell’età imperiale da aver fatto parlare di esplosione del fenomeno durante l’età antoni-na e severiana soprattutto per l’Asia Minore e l’Africa, e in qualche misura, come dimostra-no proprio gli interventi sugli edifi ci scenici di teatri già esistenti, anche per la Sicilia (Taor-mina e Catania), per l’Italia (Vibo Valentia, Ferento, Brescia,ecc.), per le province galliche e ispaniche, dove interventi di ricostruzione della scena nel II secolo d.C. sono segnalati a Merida, Italica, probabilmente Cordoba. In ogni caso l’amministrazione imperiale ritenne necessario regolamentare l’evergetismo, come mostrano le regole fi ssate in età antonina nel capitolo XII De Pollicitationibus (titolo 50) del Codex Iuris Civilis, in base a cui si sono potuti ricostruire i rapporti tra committenti, le comunità cittadine e i singoli costruttori.

Pur tenendo conto che l’epigrafi a può fornire una visione della realtà antica cor-rispondente soprattutto alle intenzioni del committente e non alla realtà, o ancora, che le città, quando dirette committenti, potevano

essere meno interessate rispetto ai privati a far constatare con insistenza nelle iscrizioni i de-nari spesi, resta comunque il dato percentuale rilevante di una committenza privata di gran lunga superiore di quella municipale, impe-riale e delle comunità civiche e i collegia. Ma proprio per ciò che riguarda gli edifi ci teatrali, i costi ingenti per la realizzazione dell’impresa rendono più comuni gli interventi congiunti delle città con i privati e anche con le associa-zioni, e in tal caso si ha un indizio prezioso sull’importanza di tali associazioni nella com-pagine cittadina: basti citare il caso del Teatro di Hierapolis in Frigia, dove il collegio dei tin-tori interviene nel completamente della scena marmorea attraverso il donativo di una grossa quantità di marmo pavonazzetto, di cui men-ziona la misura. Inoltre particolari circostanze rendono più frequenti gli interventi diretta-mente imperiali, come è il caso del Teatro di Nicea, distrutto da un terremoto (di cui Plinio il Giovane -Ep. 10.39,3) dice huic teatro ex privatorum pollicitationibus multa debentur ut basilicae circa, ut porticus supra caveam93), o della Campania, dati gli stretti interessi della casa imperiale per questa regione, che si ma-nifestano in un numero abbastanza rilevante di atti evergetici: basti citare la ricostruzione nella tarda età adrianea del Teatro di Sessa Aurunca in cui interviene direttamente Ma-tidia, la sorella della moglie di Adriano, che aveva vasti possedimenti presso Sessa, ancora i rifacimenti severiani dei teatri di Benevento, Teano. Anche la ricostruzione a Ostia da parte di Comodo e di Settimio Severo del teatro di Ostia si colloca nella dimensione del ruolo di città di servizi che essa svolgeva per Roma per

92 Si voleva così ottenere gloria, prestigio e riconoscimento di fronte ai propri cittadini condicio sine qua non per l’avanzamento del cursus honorum e, in tale aspirazione l’honos dipende direttamente dalla liberalitas, cioè dalla generosità. Naturalmente va distinto l’atto ob honorem, da cui un magistrato o sacerdote in carica non può sottrarsi, che è conseguenza della promessa elettorale da confermare uffi cialmente il giorno dell’entrata in carica, dal libero intervento di liberalità, sebbene talvolta i confi ne tra queste due categorie sia molto esile. Cf. MELCHOR GIL, E. (1993): 225-229; PENSABENE, P. (1996): 124.

93 Cf. DUNCAN JONES, R.P. (1997): 84 che cita anche casi per la Spagna (CIL II, 3364, 5166).

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cui gli interventi edilizi monumentali furono nella maggioranza dei casi fi nanziati dalla casa imperiale. Ma anche per Ostia emerge l’im-portanza del rapporto tra la sua élite politica e il teatro dal fatto che in età antonina Fabius Hermogenes, eques romanus e fl amen divi Ha-driani organizzò durante il suo sacerdozio, e probabilmente in occasione della nomina, spettacoli teatrali a sue spese, notoriamente gravosi dal punto di vista fi nanziario: è per questo che l’ordo dei decurioni gli dedicò una statua equestre nel Foro e che il padre di que-sto personaggio distribuiva nel genetliaco del fi glio le sportule davanti al Tempio di Roma e Augusto, come ricordano le iscrizioni che erano incise sul piedistallo della statua94, ma che non menzionano alcun intervento muni-fi co nel campo edilizio. Sottolineamo questo aspetto perché la mancanza di attestazioni di atti evergetici di edilizia teatrale da parte dei maggiorenti ostiensi, evidentemente a causa degli elevatissimi costi, è anch’essa un’impor-tante informazioni per ricostruire la storia del-le classi dirigenti locali.

A Cartagho Nova nel teatro si registra già dalla media età augustea una chiaro coesistere d’interventi di personaggi legati alla famiglia imperiale (i fi gli di Agrippa adottati da Aigu-sto), a cui si può collegare il precoce uso di marmo lunense nelle basi, nei capitelli e in parte delle trabeazioni e di pietre colorate di cave imperiali nelle lastre di rivestimento, in-sieme a importanti personaggi locali, i Paeti, arricchitisi con lo sfruttamento delle miniere dei metalli, a cui è possibile attribuire le colon-ne nel travertino rosso delle cave locali, di cui forse erano proprietari95.

Ma anche le città e i privati potevano ac-quistare colonne e marmi delle cave imperiali per gli elevati architettonici, come mostrano

già per l’età augustea i teatri di Pompei e di Ercolano, costruiti con il concorso di più per-sonaggi che erano stati o erano duoviri, uti-lizzando anche summae honorariae: in questi casi le offi cine sono campane, ma vicine alle mode della capitale. A Volterra, se i marmi lunense e bardigli delle colonne del teatro sono dovuti alla munifi cenza dei Caecina, di rango senatorio e originari del posto, è la loro vicinanza e collaborazione con la casa impe-riale che può anche spiegare l’accesso a grandi quantità di marmi.

A Italica siamo di fronte a interventi so-prattutto delle famiglie locali, che nella rico-struzione della scena in età severiana si divido-no l’onere di fornire le colonne sia in marmi d’importazione come il cipollino e il pavonaz-zetto, sia locali come l’Almaden de LaPlata e un un calacere conchiglifero della regione.

Il recente lavoro di P. Barresi sulla com-mittenza e il costo dei marmi in Asia Minore, dove sono affrontate anche le costruzioni de-gli edifi ci di spettacolo, ha dimostrato come anche in questa provincia il decoro urbano delle città sia in buona parte opera di perso-naggi in rapporto clientelare con l’imperatore e provenienti dalle aristocrazie municipali di origine sia locale, sia italica, in questo caso soprattutto nei centri coivolti nelle correnti commerciali italiche e dove fi n dal periodo el-lenistico vi agivano associazioni di negotiatores italici96. Da questo lavoro emerge la necessità da una parte di risalire alla storia delle famiglie delle élites urbane, quale strumento per inda-gare la formazione della ricchezza, dall’altra di ricostruire i costi degli atti evergetici per valu-tare le loro possibilità fi nanziarie. In tal senso è proprio l’utilizzo del marmo che da impor-tanti informazione sulla natura della commit-tenza e sulle spese sostenute ed è per questo

94 CIL XIV, 353; MARCHESE, M.E. (2003): 322-325.95 PENSABENE, P. (2006): 116.96 BARRESI, P. (2003): 207.

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che è indispensabile conoscere se i marmi uti-lizzati siano locali, regionali o d’importazione ed è da qui che scatta la dinamica della neces-sità di ricostruire il prezzo del marmo nei vari periodo.

Questo perchè i marmi sono utilizzati pro-prio nell’apparato decorativo del frontescena a cui era demandato una delle funzioni tipiche dei teatri: non solo e non tanto costituire una fi ttizia architettura di sfondo alle vicende rap-presentate, quanto di visualizzare attraverso un’architettura di apparato i messaggi celebra-tivi ed ideologici della committenza, sia essa la città e/o cittadini infl uenti di essa o talvolta la casa imperiale o personaggi ad essa legati, in una parola di visualizzare un settore impor-tante di comunicazione tra il potere politico e il pubblico.

Tutto ciò non era affi dato all’inventività architettonica di nuove forme per il frontesce-na, bensì alla traduzione ripetitiva dello sche-

ma tradizionale di scaenae frons in materiali sempre più pregiati, i marmi colorati, messi in opera da offi cine in rapporto con l’arte uffi cia-le: si tratta dello schema invalso in età imperia-le sui modelli prestigiosi del Teatro di Pompeo e del Teatro di Marcello a Roma, a loro volta nati dalla rielaborazione di tradizioni ellenisti-che tramandate dagli edifi ci teatrali campani e siciliani del periodo tardo repubblicano.

Le varianti si attuano soprattutto nei pro-grammi statuari e dei rilievi fi gurati dei fregi, dettati dall’esigenza di celebrare la famiglia imperiale in quel momento al potere e dal-l’esigenza di inserire temi locali tra i messaggi affi dati ai programmi ornamentali.

Siamo di fronte ad un’altra manifesta-zione di quella decor ad rationem loci che si trasforma, anzi viene a coincidere con ciò che è intrinsecamente connaturato allo spazio tea-trale, in una parola il decus cioè, la dignità e la bellezza che si addice al teatro.

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