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ARACNE Le donne di Giovanni Alterità e femminino nel quarto vangelo Gilberto Marconi

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ARACNE

Le donne di GiovanniAlterità e femminino nel quarto vangelo

Gilberto Marconi

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(06) 93781065

ISBN 978–88–548–1681–7

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I edizione: aprile 2008

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a S., nuovo alla vita, e a P., buono di natura, le differenze cui mi separano

i fantasmi prima che gli occhi e le mani

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VOLUME STAMPATO CON IL CONTRIBUTO DEL

DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE, STORICHE E SOCIALI DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL MOLISE

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Indice generale Abbreviazioni ................................................................................ 9 L’ingresso ...................................................................................... 15 Capitolo I Assente la sposa (Gv 2,1–10) ....................................................... 21 Capitolo II Lo specchio di Magdalena (Gv 20,11–18) .................................. 45 Capitolo III La straniera disponibile (Gv 4,1–26) .......................................... 61 Capitolo IV Il corpo per riconoscersi (Gv 12,1–8) ......................................... 83 Capitolo V La fatica della fiducia (Gv 11,1–44) ............................................ 93 Capitolo VI La famiglia nuova (Gv 19,25–27) ................................................ 109 Appendice I L’alterità dell’errore (Gv 8,1–11) ............................................... 117 Appendice II Alterità e cecità (Gv 9,1–41) ........................................................ 129 Il commiato .................................................................................... 155 Indici .............................................................................................. 157

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L’ingresso

L’oggetto

Molto più breve e geograficamente meno esteso rispetto al

“catalogo” che Leporello legge a donna Elvira, al mio nemmeno dispiace l’eco del testo di Lorenzo da Ponte, né, però, mi potevo occupare dei trattati di estetica che ne sono derivati. Più sempli-cemente era mio intendimento dare corpo cartaceo a uno studio durato ormai il tempo di sedimentazione sufficiente. Ciò è ac-caduto in concomitanza alla decisione del giurì della pubblicità di far ritirare una fotografia di Oliviero Toscani in cui l’imma-gine di una ragazza anoressica, nuda, denunciava la malattia: m’interessava che la precedenza percettiva, e sconvolgente, dell’immagine rispetto alla realtà mi riconciliasse, almeno in parte, coi percorsi della ricerca intorno alla vista e alle metafore che da anni vengo svolgendo. In fondo cercavo una giustifica-zione che mi desse almeno parvenza di continuità al lavoro. Un secondo motivo contingente che mi ha condotto allo studio del femminino, ormai fuori moda, è costituito dall’uso strumentale di figure femminili e più in generale dei personaggi e dei testi evangelici nella letteratura, nel cinema e nell’arte contempora-nei. Ultimo, ma non in ordine d’importanza, è la maggiore pre-senza, ai corsi del sottoscritto, di ragazze rispetto ai colleghi maschi. Se l’argomento del libro muove dunque dal tentativo di rendere maggiormente partecipe e rispondente a esigenze im-mediate del fruitore una materia che potrebbe rischiare di essere o supporto a un discorso di fede personale, dunque non perti-nente alle cattedre universitarie, oppure destinata al catalogo delle archeologie culturali, quando non vittima di usi stereotipa-

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ti e/o strumentali, è pur vero che durante l’elaborazione dei testi sono riemersi i motivi della riflessione che vengo conducendo da qualche anno circa il debito neotestamentario nei confronti della letteratura greca precedente e coeva.

Oggetto di studio sono state le pericopi del quarto vangelo che hanno donne per protagoniste. Il vantaggio del testo gio-vanneo era duplice: la semplicità del greco favoriva il cammino non spedito degli studenti, la maggior parte dei quali sono stati iniziati all’antico idioma ellenico con l’ingresso nella universi-tà; al contempo il numero contenuto di brani ne permetteva ana-lisi adeguata per l’esiguità del tempo a disposizione. Infatti in Gv la presenza delle donne è minore rispetto ai sinottici tra i quali spicca il terzo1: Mc conta 16 presenze femminili in 18 ci-tazioni; in Mt 17 sono le donne e 28 le loro presenze; mentre le 22 donne lucane risultano presenti 33 volte. In Gv le donne sono appena 9 e le presenze 152. A completamento del quadro nume-rico è bene ricordare che solo Lc e Gv mantengono un buon rapporto tra il numero di figure proprie e quelle presenti (11 su 22 nel terzo evangelista e 4 su 9 nel quarto) mentre modesta è la presenza di figure esclusive in Mt e in Mc (rispettivamente 2 e 1). Tanto contenuta presenza femminile risponde al ruolo mar-ginale cui era chiamata la donna nella società del tempo, pret-tamente maschile, non solo negli ambienti dei quali si fa men-zione nei testi evangelici: le negazioni cui era soggetta la donna ebraica ai tempi del Nazareno erano sostanzialmente condivise, sebbene con accentuazioni e sfumature differenziate, dalle don-ne dell’intiero bacino del Mediterraneo3. Alla donna pratica-mente veniva negato tutto4: la parola5, la dignità6, la conoscen-

1 Ciò non di meno la struttura del quarto vangelo proposta dal Laurentin fa iniziare ciascuno dei tre libri con due episodi femminili (Laurentin, 136–137).

2 Ricci, 69–70. Il computo è relativo alle presenze singole e di gruppo. 3 Cantarella; Gramaglia. 4 Aubert, 14–15, n. 6. 5 Non aveva valore giuridico la testimonianza della donna (Sheb IV,1). 6 «Un uomo non deve camminare mai dietro una donna per la strada, fosse anche

sua moglie. Se una donna lo incontra su un ponte, lo lascia passare da una parte; e chiunque traversa un fiume dietro a una donna non ha parte del mondo a venire… Cammini dietro un leone piuttosto che dietro una donna» (Ber 61a). Tra le sei cose che i rabbini ritengono sconvenienti per i discepoli di un saggio trovasi il «parlare con una

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za7, fino alla presenza fisica8. Segregata in casa9, a lei non si ad-dicono i mercati, le assemblee consiliari, i tribunali e quanto si svolge in pubblico10. Tra i motivi che possono condurla fuori dal proprio recinto sono i funerali; anzi, in questi casi, le si as-segnano i primi posti perché secondo tradizione lei è responsa-bile della morte11; spiegazione analoga offre il Sir 25,24 secon-do cui «dalla donna ha avuto origine il peccato, per causa sua tutti moriamo». Ciononostante oggi è comunemente riconosciu-to tra gli studiosi che alcune donne fossero parte della cerchia dei discepoli del Nazareno, non è condiviso invece il ruolo che ebbero, oltre alla testimonianza della tomba vuota e delle parole dell’angelo circa la risurrezione di Gesù. Che il maestro non abbia lasciato alcun insegnamento specifico sulle donne, non inficia il disorientamento derivato dal suo atteggiamento sui di-scepoli12, né ciò ha precluso agli evangelisti lasciare segno dell’opinione comune di cui erano vittime inconscie quanto in-volontari testimoni: nel racconto della moltiplicazione dei pani, lorché i primi due sinottici danno il numero di coloro che sono stati sfamati, Mt 14,21 e 15,38 precisa che erano «cinquemila uomini senza contare le donne e i bambini»; nota sfuggita al re-dattore marciano: perché non ha inteso offrire allusioni antico-testamentari13, o perché era normale che le donne e i bambini non venissero computati nelle stime ufficiali?

Nell’analisi dei racconti giovannei mi sono proposto cogliere le funzioni della donna, a cominciare dalle relazioni che instau-

donna sulla piazza pubblica» (Ber 43b). «Nessuno resti solo con una donna in una lo-canda, anche se è sua sorella o figlia, a causa dell’opinione pubblica» (ARN 2,2,18a).

7 Nel Talmud palestinese si legge: «Le parole della Torah vengano distrutte dal fuo-co piuttosto che essere insegnate alle donne» (Sot 19a).

8 La donna non veniva semplicemente contata, né per costituire il numero minimo di dieci necessario per svolgere la funzione nella sinagoga, né in qualsivoglia computo. Numericamente non esisteva.

9 «La donna non oltrepassa la porta dell’atrio. Le ragazze restano negli appartamen-ti delle donne, e per pudore evitano gli sguardi degli uomini, anche dei parenti più stret-ti» (Filone, Flac 89).

10 Filone, SpecLeg II,169. 11 Oepke, 709. 12 Laurentin, 129. 13 Es 12,37; Dt 3,19 ecc.

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ra con il protagonista e i vari personaggi della narrazione di cui è parte14. Complessivamente vengono trattati otto testi. Nei pri-mi sette il Nazareno si rapporta alla donna, sia essa madre, ami-ca, conoscente o sconosciuta (2,1–10; 20,11–18; 4,1–26; 12,1–8; 11,1–44; 19,25–27; 8,1–11); nell’ultimo, con un cieco (9,1–41). Se si eccettua il racconto dell’adultera, accettato solo da pochi testimoni15, la cui presenza è pretestuale al rapporto tra etica e diritto, e quello della guarigione del cieco nato in cui al confronto è sottratto il volto, anche dell’altro, perché colui che si confronta è cieco, in cui la donna è assente e la relazione si consuma tra cecità e alterità — entrambi i passi posti in appen-dice — tutti gli altri testi offrono motivi di riflessione sulla i-dentità dei personaggi nel gioco tra femminino e mascolino. Questi, rappresentato dal Nazareno, interpella la donna, per lo più, enfaticamente col vocativo: in cinque testi vengono usate le uniche sei presenze giovannee di gu,nai; delle quali quattro sono costruite con l’interrogativo: in altrettante la frase inizia con l’esclamativo; nelle restanti due vi si conclude16. La critica te-stuale è ridotta all’essenziale per i primi sette testi, mentre l’ho tralasciata nella seconda appendice che riprende un precedente articolo in cui era assente17.

14 Benché presente nella letteratura cristiana primitiva come nei testi non cristiani,

tanto da far supporre agli studiosi pertenere alla cultura comune della fine dell’antichità (Filone, QuaestEx 1,8; Porfirio, Marc), non ho trovato in Gv né nei sinottici l’uso della metafora della donna trasformata in uomo, né una delle sue varianti; cf. Vogt. Sull’idea pitagorica della trasformazione dopo la morte cf. J. Carcopino, Le mystère d’un symbole chrétien: l’ascia, Paris 1945, 45; per la gnosi cf. l’introduzione di C. Blanc a Origène, Commentaire sur saint Jean. Livres VI et X, tome II, Paris 1970, 27–31.

15 Cf. Appendice I. 16 Gv 2,4: Ti, evmoi. kai. soi,( gu,nai; Gv 4,21: Pi,steue, moi( gu,nai; Gv 8,10: Gu,nai(

pou/ eivsin; Gv 19,26: Gu,nai( i;de o uio,j sou; Gv 20,13.15: Gu,nai( ti, klai,eij; … Gu,nai( ti, klai,eij.

17 G. Marconi, “La vista del cieco. Struttura di Gv 9,1–41”, in Greg 79 (1998), 625–643.

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La bibliografia

Aubert J.M., La femme: antiféminisme et christianisme, Paris 1975. Brown R.E., La comunità del discepolo prediletto, Assisi 1982, 217–

235. Id., “Roles of Women in the Fourth Gospel”, in TS 36 (1975), 688–699. Cantarella E., L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della don-

na nell’antichità, Roma 1981. Fabris R., La donna nell’esperienza della prima chiesa, Roma 1982. Garzonio M., Gesù e le donne, Milano 1990. Genest O., “Evangile et femmes”, in SE 37 (1985), 275–295. Gramaglia P.A., “Personificazioni e modelli del femminile nella tran-

sizione dalla cultura classica a quella cristiana”, in Interpretazione e personificazione, a cura di G. Galli, Genova 1988, 17–164.

Grelot P., La donna nel Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 1996. Kopas J., “Jesus and Women: John’s Gospel”, TT 41 (1984), 201–205. Laurentin R., “Gesù e le donne: una rivoluzione misconosciuta”, in

Conc 4/1980, 125–141. Maccini R.G., Her Testimony Is True. Women as Witnesses According

to John, Sheffield 1996. Morris J., The Lady was a Bishop, New York 1973. Nortjé S.J., “The role of women in the Fourth Gospel”, in Neot 20

(1986), 21–28. Oepke A., “gunh,”, in GLNT, II, 691–730. Procter Smith M., “Immagini di donne nel Lezionario”, in Conc

6/1985, 75–90. Queré F., Les femmes dans l’évangile, Paris 1982. Ricci C., Maria di Magdala e le molte altre, Napoli 1991. Rigato M.L., “Le figure femminili nel vangelo secondo Giovanni”, in

I laici nel popolo di Dio; esegesi biblica, a cura di V. Liberti, Ro-ma 1990, 173–233.

Schüssler Fiorenza E., In memory of Her. A Feminist Theological Re-construction of Christian Origins, New York 1983.

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Schneiders S.M., “Women in the Fourth Gospel and the Role of Women in the Contemporary Church”, in BTB 12 (1982), 35–45.

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Valerio A., “La donna nella storia della chiesa”, in Conc 6/1985, 91–101.

Vogt K., “‘Divenire maschio’. Aspetti di un’antropologia cristiana primitiva”, in Conc 6/1985, 102–117.

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Capitolo I

Assente la sposa (Gv 2,1–12)

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Precede il brano una forma del riconoscimento1: due le scene

e tre i protagonisti sui quali è tessuto procedimento dialogico2. Nella prima Filippo comunica di aver incontrato il Messia che Natanaele contesta in nome della provenienza geografica: «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?». La seconda scena è occupata da Gesù e Natanaele: il Nazareno assume l’iniziativa dimostrando all’altro di “conoscerlo”; sebbene ancora lontano, sotto il fico, già sapeva chi fosse colui che poi gli sarebbe venu-to da presso. Conseguenza di siffatta previa conoscenza, è il ri-conoscimento messianico di Gesù da parte dell’interlocutore. Viene messa in crisi la forma abituale per riconoscere una per-sona. La provenienza geografica e quella familiare o parentale costituivano la coppia di canali comuni per riconoscere l’iden-tità di una persona. Gv li contesta entrambi: non indicando ge-

1 Gv 1,45–50. 2 L’articolazione dialogica che aumenta con lo sviluppo del brano, la cui intierezza

comprende anche i vv. 43–44, ne rende maggiormente comprensibile la dinamica. Nell’incontro del maestro con Filippo, il più breve, parla solo Gesù mentre relativamen-te ampio risulta il ragguaglio sui personaggi. Nell’incontro di Filippo con Natanaele (vv. 45–46) viene drasticamente ridotta la descrizione e quasi raddoppiato il numero delle parole impiegate nel discorso diretto che occupa buona parte della sezione: due gli in-terventi di Filippo e uno di Natanaele. L’incontro del Nazareno con Natanaele (vv. 47–50) è ancora più ampio e il dialogo articolato: raddoppia il numero dei versetti, nei quali si contano due interventi di Natanaele e tre di Gesù, l’ultimo decisamente il più lungo e composito (R. Boily, G. Marconi, Vedere e credere. Le relazioni dell’uomo con Dio nel quarto vangelo, Milano 1999, 128–132).

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Capitolo I

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nealogia viene meno la discendenza patrilineare3, riconosciuta invece da Mt 1,1–17 e Lc 3,23–384, mentre Natanaele dimostra non idonea quella geografica5. Atteggiamento analogo si riscon-tra verso la fine del quarto vangelo, sotto la croce ché offre fi-gliolanza nuova alla madre attraverso il discepolo amato6, alla tomba lorché Maria riconosce Gesù dopo che questi l’ha chia-mata per nome7. Non sono le esperienze pregresse, le categorie sociali, la provenienza geografica o parentale, ma la relazione con l’altro a determinare il riconoscimento dell’identità propria e altrui.

Diverso invece il genere che gli studiosi attribuiscono al no-stro brano. Trattasi di racconto di miracolo del quale hanno in-dividuato lo schema classico8: alla constatazione della situazio-ne di mancanza (vv. 1–2) succede la domanda d’intervento (vv. 3–5), il suo accadimento (vv. 6–8), la presa d’atto del prodigio (vv. 9–10) e l’espressione finale di ammirazione (v. 11). Né mancano le affinità con altre narrazioni di miracoli; particolare simiglianza emerge tra le nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani: la determinano la denuncia dell’assenza9 e l’abbondanza della risposta; la comune eco della tradizione di Elia–Eliseo10; il procedimento narrativo secondo cui il miracolo non viene rac-contato ma portato a conoscenza da una conseguenza11. Meno convincente sembra invece il rapporto con il racconto della re-surrezione di Lazzaro (Gv 11,20–27), retto unicamente sulle pa-

3 Gv 6,42. 4 Sebbene differiscano i due procedimenti genealogici, discendente in Mt, ascen-

dente in Lc. 5 Destro, Pesce, 68–72. 6 Gv 19,25–27. 7 Gv 20,11–18. 8 Non differisce nella forma la tesi della narrazione pregiovannea in cui Maria chie-

derebbe a Gesù un miracolo per i suoi amici (Lindars). 9 Oi=non ouvk e;cousin (Gv 2,3); ouvk e;cousin ti, fa,gwsin (Mc 8,2; cf. Mt 15,32). 10 «La moltiplicazione dei pani è anticipata in 2Re 4,42–44, e forse il cambiamento

dell’acqua in vino per provvedere a una festa nuziale può essere paragonato alla prodi-giosa fornitura di farina o olio operata da Elia in 1Re 17,1–16, e a quella di olio operata da Eliseo in 2Re 4,1–7» (Brown, I, 131–132).

11 Nella moltiplicazione dei pani dalla raccolta degli avanzi, qui dalla meraviglia dell’architriclino che assaggia il vino e lo trova di migliore qualità rispetto al precedente (Schnackenburg, I, 467).

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Assente la sposa (Gv 2,1–10)

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role di Maria e di Marta, per altro non poco diverse, sebbene animate entrambe dalla fiducia nel Nazareno. Tuttavia, oltre al generico canovaccio comune con le storie di miracolo e le affi-nità con alcune di esse, lo stesso redattore alla fine del racconto, identificando la vicenda come “primo segno”, ascrive il raccon-to al genere in questione (v. 11). Però, dei sette miracoli che si trovano in Giovanni, solo il racconto delle nozze di Cana non ha paralleli con la tradizione sinottica12; e soprattutto l’accettazione supina del racconto di miracolo confligge con le difficoltà stori-che evinte dalla narrazione, da risultare pressoché unanime il rifiuto della storicità del brano13: della sposa, nonostante la festa nuziale, non si dice alcunché, neppure che sia presente; di Ma-ria, presumibilmente invitata, stona lo “star lì” come le giare, che invitate non erano, ma soprattutto non s’addice a lei, donna e invitata, l’atteggiamento autorevole nei confronti del figlio adulto e dei servi del banchetto; della localizzazione sappiamo soffra carenza endemica d’acqua, mentre qui abbonda esagera-tamente14; delle giare enfatizzato è l’interesse attraverso detta-gliata descrizione come nessun altro personaggio del racconto (v. 6); all’architriclino va riconosciuto quanto meno inopportu-no rimprovero allo sposo nel giorno del banchetto nuziale, men-tre pare più plausibile il valore rituale. Anzi alle difficoltà stori-che gli esegeti optano per il racconto simbolico cui la motiva-zione traggono da eccedenza semantica applicata ad avrch, (v. 11) nella quale leggono valore fondativo, non cronologico. La forma, pertanto, risulterebbe ibrida.

12 Bultmann e altri ipotizzano influenza pagana, in particolare con il culto di Dioni-

sio. La festa di Dionisio veniva celebrata il 6 gennaio, stesso giorno in cui si leggeva il testo delle nozze di Cana che divenne parte della liturgia dell’Epifania; durante la festa le fontane dei templi pagani in Andros versavano vino invece di acqua. Noi sappiamo che le date e i motivi delle feste cristiane furono scelte spesso di proposito per sostituire le feste pagane o quelle ebraiche (cf. la Pentecoste).

13 H. Seesemann, oi=noj, GLNT, VIII, 461; Brown, I, 101–102; Dodd, 368; Leon Dufour, I, 283.295.

14 Peculiarità del luogo indica l’inclusione geografica “Cana di Galilea” cui la dop-pia presenza segna l’inizio e la fine della pericope (vv. 1.11).

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Capitolo I 24

Il testo

1 Kai. th/| h`me,ra| th/| tri,th|15 ga,moj evge,neto evn Kana. th/j Galilai,aj( kai. h=n h` mh,thr tou/ VIhsou/ evkei/\ 2 evklh,qh de. kai. o` VIhsou/j kai. oi` ma-

qhtai. auvtou/ eivj to.n ga,monÅ 3 kai. u`sterh,santoj oi;nou16 le,gei h` mh,-thr tou/ VIhsou/ pro.j auvto,n( Oi=non ouvk e;cousinÅ17

4 Îkai. 18 le,gei auvth/| o` VIhsou/j( Ti, evmoi. kai. soi,( gu,naiÈ ou;pw h[kei h` w[ra mouÅ 5 le,gei h` mh,thr auvtou/ toi/j diako,noij( {O ti a'n le,gh| u`mi/n poih,sateÅ 6 h=san de. evkei/ li,qinai u`dri,ai e]x kata. to.n kaqarismo.n tw/n VIoudai,wn19 kei,menai( cwrou/sai avna. metrhta.j du,o h' trei/jÅ 7 le,gei auvtoi/j o` VIh-

sou/j( Gemi,sate ta.j u`dri,aj u[datojÅ kai. evge,misan auvta.j e[wj a;nwÅ 8 kai. le,gei auvtoi/j( VAntlh,sate nu/n kai. fe,rete tw/| avrcitrikli,nw|\ oi` de. h;-negkanÅ 9 w`j de. evgeu,sato o` avrcitri,klinoj to. u[dwr oi=non gegenhme,non kai. ouvk h;|dei po,qen evsti,n( oi` de. dia,konoi h;|deisan oi` hvntlhko,tej to. u[dwr( fwnei/ to.n numfi,on o` avrcitri,klinoj 10 kai. le,gei auvtw/|( Pa/j a;nqrwpoj prw/ton to.n kalo.n oi=non20 ti,qhsin kai. o[tan mequsqw/sin21 to.n evla,ssw\ su. teth,rhkaj to.n kalo.n oi=non e[wj a;rtiÅ 11 Tau,thn evpoi,hsen avrch.n22 tw/n shmei,wn o` VIhsou/j evn Kana. th/j Galilai,aj kai. evfane,rwsen th.n do,xan auvtou/ kai. evpi,steusan eivj auvto.n oi` maqhtai. auvtou/Å 12 Meta. tou/to kate,bh eivj Kafarnaou.m auvto.j kai. h` mh,thr auvtou/ kai. oi` avdelfoi. Îauvtou/ 23 kai. oi` maqhtai. auvtou/( kai. evkei/ e;mei-nan ouv polla.j h`me,rajÅ

15 B f 13 invertendo l’ordine in trith hmera stemperano il valore del numerale,

forse al fine di distrarre dall’eventuale interpretazione simbolica. 16 * a (b ff 2) j syhmg optano per una lezione più lunga, oinon ouk eicon oti sunete-

lesqh o oinoj tou gamou, forse nell’intento di parafrasare usterein ipotizza Schnacken-

burg, I, 460, n. 12. 17 * cambia pure le parole di Maria in oinoj ouk estin. 18 Non poco incerto è il kai iniziale sostenuto da P66 1 A B K L Ws 0127 f 13

33 892 1241 al sy h, rifiutato da P75 *2 f l M a j sy p. 19 Rende più generica la purificazione * con la sottrazione di twn Ioudaiwn. 20 P75 892 accrescono l’enfasi dell’ordine con cui viene servito il vino, posponendo

prwton a oinon. 21 Lezione più facile propongono A f 1.13 33 M lat sy con l’addizione di tote. 22 Al testo riportato da P66c.75vid A B L N 083 f 1 33 565 579, preferiscono

epoihsen thn archn l W s f l3 M; prwthn archn epoihsen P66* f q ( * aggiunge prwthn

dopo Galilaiaj). 23 Assente in , mentre P66* 75 B 0162 omettono kai oi maqhtai autou.

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Assente la sposa (Gv 2,1–10) 25

1 E al giorno terzo, un matrimonio ci fu in Cana di Galilea, e c’era la

madre di Gesù là. 2 Fu invitato anche Gesù e i suoi discepoli al ma-

trimonio. 3 E venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui:

«Non hanno più vino». 4 [E] le risponde Gesù: «Che fra me e te, don-

na? non è ancora venuta l’ora mia». 5 Dice la madre di lui ai servi:

«Fate quel che vi dirà». 6 C’erano là sei giare di pietra, per la purifica-

zione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre metrete. 7 Dice loro

Gesù: «Riempite le giare d’acqua». E le riempirono fino all’orlo. 8 Poi

dice loro: «Attingete ora e portate(ne) all’architriclino». Ed essi (glie-

ne) portarono. 9 Come ebbe saggiato l’architriclino l’acqua divenuta

vino — e non (ne) conosceva la provenienza, ma (la) conoscevano i

servitori che avevano attinto l’acqua — chiamò lo sposo, l’archi-

triclino e gli disse: 10 «Ognuno serve prima il vino buono; e quando si

è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il

vino buono fino ad ora». 11 Gesù fece questo primo dei suoi segni mi-

racolosi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli

credettero in lui. 12 Dopo questo, scese a Cafarnao egli con sua ma-

dre, con i suoi fratelli e i suoi discepoli, e rimasero là alcuni giorni.

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Capitolo I

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Il teatro

Al procedimento binario vantato da più parti24 che pertiene

alla narrativa popolare di ogni tempo, è preferibile cogliere re-lazionalità conflittuale, più o meno palesemente espressa dai va-ri personaggi in scena inquadrati geograficamente ed esisten-zialmente in maniera precisa. La doppia presenza sia della indi-cazione geografica25 che viene a dire anche la specificità del sito (vv. 1.11) e della situazione (vv. 1.2), includono rispettivamente il brano intiero e l’introduzione.

Della conflittualità ha riscosso scarsa considerazione l’inciso parentetico26 in cui risulta enfatizzato il contrasto tra l’ignoranza dell’architriclino in merito alla provenienza del vino rispetto a-gli inservienti che invece sanno (v. 9)27. Seppur breve, un v. ap-pena, il testo è organizzato in cerchi concentrici; al centro l’antitesi cui il secondo membro è già di per sé sovraesposto dall’inciso: alla periferia del cerchio si colloca o avrcitri,klinoj, in posizione mediana to. u[dwr28, nel mezzo l’opposizione sotto-lineata dalla doppia negazione che anticipa il ripetersi di oi=da (ouvk h;|dei […] de. h;|deisan). Tanto rigonfiamento centrale lascia immaginare l’attenzione del redattore per siffatta disparità co-noscitiva, rovesciata rispetto al comune sentire, dei servi rispet-to all’architriclino. Quanto ai personaggi, dei dia,konoi è pale-semente assunta l’accezione minimale di coloro che servono a tavola; dell’avrcitri,klinoj invece si discute circa il vocabolo e

24 Leon Dufour, I, 309–310; Schnackenburg, I, 468. 25 Difficile la localizzazione di Cana, nel NT menzionata solo da Gv (anche in

21,2): cf. Giuseppe Flavio, Vit 86; F.–M. Abel, Géographie de la Palestine, Paris 1938, II, 291–292.412–413; C. Kopp, Das Kana des Evangeliums, Köln 1940; Id., I luoghi santi degli evangeli, Milano 1966, 247–263; B. Bagatti, “Le antichità di Khirbet Qana e di Kefr Kenna in Galilea”, in LA 15 (1964–1965), 251–292.

26 Pertiene alle funzioni del kai, (kai. ouvk h;|dei…; cf. Rm 1,13; 2Pt 1,18) introdurre l’inciso per spiegare quanto precede: cf. F. Blass, A. Debrunner, F. Rehkopf, Gramma-tica del greco del Nuovo Testamento, Brescia 1982, 44220; 4652.

27 Brown, I, 125–144 non ne parla; Schnackenburg, I, 467 si limita all’analogia all’interrogatorio del cieco nato, senza spiegare oltre; Leon–Dufour, I, 282–334, pur rintracciando nel testo un procedimento “per coppie”, non reputa l’antitesi sufficiente perché si costituisca coppia tra servi e architriclino, né dice alcunché del loro rapporto.

28 L’accusativo dopo geu,esqai (evgeu,sato…to. u[dwr) non è classico: cf. Blass, De-brunner, Rehkopf, 1697.

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Assente la sposa (Gv 2,1–10)

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la funzione29; ciò non impedisce, nel caso specifico, identificar-lo come referente qualificato dei servi per il loro servizio alla mensa: la reggenza del primo membro del composto che lo qua-lifica30, l’imperativo del Nazareno rivolto ai servi di attingere e portarne a lui perché saggi il vino nuovo (v. 8) e l’autorevolezza con cui convoca lo sposo e lo rimprovera per il presunto cam-biamento nell’ordine di distribuzione del vino (v. 10) ne fanno soggetto di prim’ordine nella gerarchia del banchetto, cui i ser-vitori debbono sottostare alla maniera d’un padrone. Di qui il contrasto tra l’ignoranza sua sulla provenienza del vino rispetto alla conoscenza dei servi. Allo scopo merita attenzione la nota dello Schnackenburg circa la “tendenza” analoga riscontrabile in Gv 931: però trattasi del metodo più che del merito. Infatti come nel caso nostro si ha il rovesciamento delle posizioni, per cui l’architriclino che dovrebbe sapere non sa mentre i servi, pur non tenuti alla conoscenza, sanno per aver esperito, anche nel racconto del cieco nato il protagonista conosce perché ha avuto l’esperienza, a differenza degli scribi i quali per mestiere erano chiamati a sapere, alla stessa stregua la possibilità di ve-dere pertiene al cieco mentre restano nella cecità coloro che

29 Tre volte ripetuto in due versetti (8.9.9) e poi non più in tutto il NT, assente nella LXX, nel greco classico e in quello ellenistico. Solo tardivamente si trovano rare attesta-zioni (quattordici in Giovanni Crisostomo, tre in Fozio, due in Basilio, una in Clemente Alessandrino, Eliodoro ed Epifanio). La modesta presenza del vocabolo è pari alla diffi-coltà nella identificazione del personaggio. La letteratura ebraica non ha corrispondente al funzionario giovanneo. Può darsi che nella narrazione della storia abbia assunto qual-che aspetto dell’arbiter bibendi (Brown, I,130). Alcuni vedono un parallelo in colui che presiede la tavola in Sir 32,1: in questo caso non è un servo ma un ospite scelto. Perciò stesso lo Schnackenburg, I, 467 esclude trattarsi di chi presiede, ma ipotizza essere il capo dei servi, secondo le scarse testimonianze della letteratura rabbinica (H.L. Strack, P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, München 1926, II, 407ss.). G. Delling alla voce a;rcw nel GLNT, I, 1271–1302 di avrcitri,klinoj non fa menzione.

30 Blass, Debrunner, Rehkopf, 118,2 dopo aver ricordato essere avrci– ellenistico, più recente di avrce–, colloca il vocabolo giovanneo nel novero delle valenze semantiche del “capo”.

31 «Vengono nominati i servi perché possono testimoniare il miracolo (analoga ten-denza si riscontra nell’interrogatorio del cieco nato al c. 9)» (Schnackenburg, I, 467). Cf. pure P.D. Duke, Irony in the Fourth Gospel, Atlanta 1985; R. Vignolo, Personaggi del quarto vangelo. Figure della fede in San Giovanni, Milano 20032, 215–221; F. Vouga, “L’argumentation par le malentendu et l’ironie”, in Le cadre historique et l’intention théologique de Jean, Paris 1978, 15–36.

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Capitolo I

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presumono vedere: l’analogia nel caso del cieco nato si porreb-

be non solo e non tanto nell’interrogatorio, quanto nella struttu-

ra dell’intiero capitolo32. In entrambi i casi l’esperienza deter-

mina la conoscenza. Invece non trovasi altrove in Giovanni ap-

plicazione della tendenza al rapporto servi–padroni, come acca-

de nei sinottici ove si pone il rovesciamento al fine di esaltare la

scelta del discepolo, diversa rispetto alla logica corrente, model-

lata su quella del Cristo33. Tuttavia non è mai espressa la supe-

riorità del servo rispetto al padrone in merito alla conoscenza,

come invece si dà nel teatro greco34. Nell’Ippolito il nunzio por-

ta a Teseo la notizia della morte del protagonista e aggiunge:

«Io sono un servo della tua casa, o signore, ma non potrò mai

giungere a tanto da credere che tuo figlio sia malvagio […]. Io

so ch’è nobile»35. La conoscenza del servo in questo caso è data

dalla frequentazione, e dunque dalla relazione diretta; mentre il

padre, che di un figlio dovrebbe conoscere più del servo, non sa,

come conferma Artemide più avanti; dopo aver svelato a Teseo

la lealtà di Ippolito, aggiunge: «Quanto alla tua colpa, la tua i-

gnoranza è una prima attenuante»36. Nella Medea, il pedagogo,

rivolgendosi alla nutrice che gli comunica il gemere della pa-

drona per il tribolo che l’ha colpita, della stessa dice: «Pazza —

32 Il percorso di rovesciamento in Gv 9 muove dall’inizio, dall’accettazione supina

del peccato come causa della cecità, per concludersi alla fine della pericope lorché si

addiviene alla concezione della vista come causa del peccato (cf. Appendice II): qui

come altrove nel quarto vangelo, il tema del rovesciamento è contiguo — a volte so-

vrapposto — a quello dell’ironia (cf. Gv 3,4.10; 4,12; 6,31.40; 7,11.35.42; 8,22; 10,24;

11,50; 12,19.23–25; 16,29–32; 18,28–31). 33 Mc 10,42–45; Mt 20,25–28; Lc 22,24–27; Mc 9,31–35; Mt 23,11–12 conclude il

monito gesuano con formula steoritipa espressa nella figura del chiasmo: o[stij de. uyw,sei eauto.n tapeinwqh,setai kai. o[stij tapeinw,sei eauto.n uywqh,setai; cf. anche Lc

14,11; 18,14. La tecnica del ribaltamento con o senza formule fisse è comune nel NT:

cf. Lc 3,5. 34 W.T. Mac Cary, “Menander’s slaves: their names, roles and masks”, in TAP 100

(1969), 277–294; W.S. Anderson, “A new Menandrian Prototype of the Servus Currens

of Roman Comedy”, in Phoe 24 (1970), 229–236; M. Alliaud, “La figura del servo in

Plauto”, in Zet 8 (1988), 27–46; V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società, Torino

1992, 212–219 (capitolo decimo dal titolo: “Servi e padroni”). Per il rovesciamento in

Aristofane si veda di D. Loscalzo, Aristofane e la coscienza felice, di prossima pubbli-

cazione: l’autore dedica un intiero capitolo alla dialettica servo–padrone. 35 Euripide, Hipp 1249–1254. 36 Id. 1334–1335.

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Assente la sposa (Gv 2,1–10)

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se si può dir così d’un padrone — / che non sa niente delle nuo-ve sventure»37. Situazioni analoghe suggerisce pure la com-media, evidentemente in altro contesto: nei Cavalieri di Aristo-fane i due servi conoscono gli oracoli di Paflagone ignorati dal-lo stesso il quale, benché servo, pretende farla da padrone al po-sto di Demo totalmente rincitrullito38; completano il rovescia-mento predicendo al salcicciaio fortuna politica ed economica contro ogni logica39. Se finora non sono stati tratti motivi dalle nozze di Cana per porre collegamento alcuno col teatro greco, non significa che fosse estraneo alla riflessione del primo cri-stianesimo. Già Paolo, non pochi lustri prima del nostro passo, verso la fine della prima metà degli anni Cinquanta, aveva ado-perato la metafora del teatro per riassumere l’intiera sua attività apostolica: «Reputo Dio abbia messo in scena noi apostoli come gli ultimi di tutti, come uomini condannati a morte, poiché sia-mo stati fatti un pubblico spettacolo (o[ti qe,atron evgenh,qhmen) al mondo, agli angeli e agli uomini»40. Né il modello teatrale era ignorato dalla riflessione profana, essendosene Seneca servito per descrivere la vita filosofica: «Eccoti uno spettacolo degno d’essere guardato da un dio intento alla sua opera, una coppia di combattimenti degna di dio: un uomo, mosso a lottare con la sorte avversa: se la sfida l’ha lanciata lui, tanto meglio. Non ve-do, voglio dire, quale spettacolo più bello abbia Giove sulla ter-ra, quando voglia dedicargli attenzione, che il mettersi a osser-vare Catone che, dopo più d’una disfatta dei suoi partigiani, nondimeno s’erge ritto tra le rovine dello stato»41.

Altro elemento, specifico della tragedia greca e ugualmente presente nel passo giovanneo è costituito dal ruolo femminile. La funzione della donna è quella di innescare la tragedia espo-nendo ciò che era e doveva restare intimo: lei custode dell’oikos propone all’attenzione degli estranei quel che pertiene alla casa e ai suoi familiari. La figura femminile nel passo giovanneo ha

37 Euripide, Med 61–62. 38 Aristofane, Eq 110–230. 39 Id. 178–193. 40 1Cor 4,9. 41 Seneca, Prov 2,8b–9.

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Capitolo I

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ruolo analogo: comunica al figlio, e per suo tramite a lettore, quanto non era opportuno fosse stato reso pubblico42.

Della commedia invece sembra il nostro essersi preoccupato più della forma, in particolare della commedia nuova. Nel rac-conto delle nozze di Cana infatti potrebbe rintracciarsi il prolo-go (forse si dà anche ripresa lorché delle giare, al v. 6, dicesi che sono là, come al v. 1 della madre di Gesù), l’agone (tra Ma-ria e il figlio, con la vittoria del primo contendente; anche l’ago-ne sembra ripreso successivamente, come il prologo, tra l’archi-triclino e lo sposo) e l’esodo (gli attori della prima parte si al-lontanano dalla scena, dirigono altrove; gioia li accompagna, per il felice esito del dramma). Data la brevità del racconto gio-vanneo, lo schema non poteva non essere essenzializzato: ne resterebbe eliminato il coro (quindi il parodo e la danza; già la commedia nuova aveva emarginato il coro e la danza, ridotti a semplici interludi, non più parti inerenti al testo); all’agone sa-rebbero state sottratte le parti del coro e del corifeo (l’ode che introduce lo scontro e l’antode); il primo antagonista non viene sconfitto ma vince.

Della commedia nuova intravedesi pure la scena come spa-zio privato, dato il contesto familiare del banchetto; la rappre-sentazione introdotta e caratterizzata dalla presenza di un con-flitto; la sottrazione del riso, carattere dell’antica commedia, per sottolineare l’impotenza e i limiti della condizione umana; seb-bene resti qualche accentuazione dei caratteri (la donna denun-cia la mancanza; i servi ubbidiscono senza fiatare; l’architri-clino non vede oltre l’etichetta stabilita dalla consuetudine), s’assiste, tuttavia, alla normalizzazione tra rapporti e personag-gi, alla scarsa creatività nei fatti, alla modesta figuralità. Poche e riducibili le metafore, quasi nullo l’utilizzo del materiale lin-guistico; il linguaggio comunica anziché connotare43.

42 D. Loscalzo, Il pubblico a teatro nella Grecia antica, Roma 2007, 144 ss. 43 Menandro è stato assunto come referente del confronto, modello della commedia

nuova; cf. Menandro, Commedie, a cura di G. Paduano, Milano 1989; Menandro, Le commedie. I, a cura di D. Del Corno, Milano 1966; A.W. Gomme, F.H. Sandbach, Me-nander. A Commentary, Oxford 1973; Menandro, Sentenze, a cura di G. Pompella, Mi-lano 1997; R.L. Hunter, The New Comedy of Greece and Rome, Cambridge 1985.

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Assente la sposa (Gv 2,1–10)

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Dagli elementi suesposti è ragionevole supporre il redattore giovanneo abbia mutuato alcuni topoi del teatro greco — i servi conoscono quello che non sanno i padroni, la figura della donna che invece di custodire l’intimo della casa porta fuori le infor-mazioni — assieme ad alcuni caratteri formali della commedia, perché funzionali alla poetica del rovesciamento, familiare all’autore del quarto vangelo.

Il vino

Il racconto sembra riducibile a due scene, a ciascuna delle

quali sovrintende un personaggio femminile che la introduce: della madre di Gesù e delle idre di pietra rispettivamente ai vv. 1 e 6 si dice fossero là44. La prima, ripetuta 3 volte nei vv. 1–5,

44 Delle 94 presenze neotestamentarie dell’avverbio evkei/ (Mt 28; Mc 11; Lc 16; At

6; Gv 22; Rm 2; Ti 1; Eb 1; Gc 3; Ap 4), considerata soprattutto la combinazione che ne viene fatta con il verbo essere, Mt caratterizza l’uso in termini escatologici (sette le pre-senze con il futuro [6,21; 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30] e due con altrettanti verbi, sempre al futuro [24,28; 28,7]; uno in Mc [16,7] e tre in Lc [12,34; 13,28; 12,18 con altro verbo]) mentre in Mc e Lc prevale la funzione descrittiva dell’imperfetto (Mc 2,6; 3,1; 5,11; 6,5 [altro verbo]; Lc 2,6 [perifrasi]; 6,6; 8,32; quattro le presenze dell’im-perfetto in Mt: 2,15; 14,23; 27,55.61). Gv usa 7 volte l’avverbio con l’imperfetto del verbo “essere”, a siffatta forma descrittiva se ne affiancano altre numericamente meno significative. Mentre Gv 3,22–23, che pure di acqua tratta con allusione liturgica, inver-te le posizioni dell’imperfetto rispetto a Gv 2,1.12 (il verbo “restare” all’inizio e il verbo “essere” alla fine), nel brano della Samaritana abbiamo la stessa posizione dell’avverbio e dei rispettivi verbi all’inizio (“essere”) e alla fine (“rimanere”); nella conclusione si ha pure il riferimento ai giorni restati in loco (2,1: kai. h=n h mh,thr tou/ VIhsou/ evkei/; 2,12: kai. evkei/ e;meinan ouv polla.j hme,raj; 4,6: h=n de. evkei/ phgh. tou/ VIakw,b; 4,40: kai. e;meinen evkei/ du,o hme,raj). I due testi possono vantare anche altri contatti: il riferimento all’ac-qua, il richiamo alla tradizione (di usare il vino buono dal primo momento; di adorare il Dio sul monte Garizim e a Gerusalemme), sebbene in termini diversi (con autorità il maestro di mensa; attraverso un imperativo la donna) e la messa in scena del suo rove-sciamento. Singolare pare pure il rovesciamento della richiesta: là era la donna a chiede-re al Nazareno, qui il Nazareno chiede alla donna, tuttavia nel corso del dialogo il mae-stro le dice che se solo lei sapesse con chi sta parlando, sarebbe lei a chiedere l’acqua che non ha fine, tant’è che poi è lei a chiedere quell’acqua; là si chiedeva vino, qui ac-qua; là siamo nel pieno di un banchetto, si suppone dunque all’interno; qui all’aperto; là il Nazareno era stato invitato, qui giunge stanco per aver camminato; qui l’iniziativa muove dal Nazareno che chiede acqua, là è della donna che denuncia l’assenza del vino; qui il Nazareno chiede alla donna di attingere acqua, là lo stesso maestro chiede ai servi di andare ad attingere acqua; qui l’acqua serve a dissetare lo stesso richiedente, là dopo

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Capitolo I

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ne costituisce personaggio centrale (stava là, comunica al figlio, comanda ai servi); poi scompare per ritornare alla conclusione (v. 12). Le seconde descritte con una attenzione dei particolari non riscontrabile per nessun altro personaggio del racconto (stavano là, erano sei, di pietra, per la purificazione, contenenti ciascuna cento litri), costituiscono la fonte donde trae origine il prosieguo della narrazione45. Realtà e simbolo della medesima funzionalità (la tradizione ha letto nel vaso il simbolo della donna per la sua fragilità e la sua capacità contenitrice) le colle-ga il riferimento al contenuto, rispettivamente il figlio e il vino, i due che fanno cambiare il volto di quella festa. Meglio sarebbe dire che l’una, intervenendo sul proprio figlio permette al con-tenuto delle altre, che di per sé sarebbe dovuta essere acqua, di essere trasformata in vino, elemento, questo, che permette una svolta alla storia di quel giorno. Del contesto nuziale46, di cui poco importano i vari elementi, va chiarito dunque anzitutto il valore del vino.

Prima però di addivenire alla trattazione del motivo centrale corre l’obbligo rispondere ad alcuni quesiti che l’esegesi ha po-sto circa il valore storico dell’imperfetto con cui viene indicata la madre del Nazareno essere presente al banchetto, e in merito all’invito esteso anche a Gesù e ai suoi. Per quanto concerne

aver attinto comanda ai servi di portarne al maestro di tavola; là il vino fa meravigliare il maestro di tavola che rimprovera lo sposo di averlo tenuto fino a quel momento, qui la meraviglia è dettata nella donna dalle competenze del Nazareno.

45 Il vaso nella tradizione simposiaca greca è il punto fisso attorno al quale si strut-tura l’attività dei convitati; confermato anche dal repertorio figurato: su una pelike a figure rosse [Londra E 351; Beazley, ARV 570/56] del 470 ca un vaso viene condotto, preceduto dal flautista, e bardato come un convitato (cf. F. Lissarague, L’immaginario del simposio greco, Bari 1989, 38s. e 43).

46 L’informazione del terzo giorno va inquadrata nella istituzione della festa nuziale spalmata in una settimana (Gdc 14,12) fatta risalire a Mosè (Strack, Billerbeck, I, 500ss.; II, 398s.). La Mishnah (Ket 1) ordina che lo sposalizio di una vergine avvenga di mercoledì. Né è mancato chi ha evocato la resurrezione, memore della simbologia mes-sianica cui l’ambientazione sponsale rinvia la Scrittura (Is 54,4–8; 62,4–5; Ap 19,9; cf. Mt 8,11; 22,1–14; Lc 22,16–18). Cf. E. Stauffer, game,w, in GLNT, II, 351–376; R. De Vaux, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Torino 19773, 34–48; H. Baltensweiler, Il matrimonio nel Nuovo Testamento. Ricerche esegetiche su matrimonio, celibato e di-vorzio, Brescia 1981; D.I. Block, “Marriage and family in Ancient Israel”, in Marriage and Family in the biblical World, ed. K.M. Campbell, Downers Grove 2003, 33–102.

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Assente la sposa (Gv 2,1–10)

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l’uso dell’imperfetto (“era”: descrizione di azione passata) de-nota presenza “già” in atto al momento del matrimonio. Di per-sona, nel caso specifico, venuta prima del matrimonio. Il fatto di essere già là ha lasciato supporre una qualche relazione tra Maria e lo sposo: una tradizione apocrifa l’identifica come la zia; un Prefazio latino del III sec. identifica lo sposo con Gio-vanni figlio di Zebedeo; e siccome Salome, la moglie di Zebe-deo, era sorella di Maria, ne consegue la parentela suindicata. A mio modo di vedere l’imperfetto ha motivazione esclusivamen-te formale e serve a relazionare la madre alle giare. Prova ne sono sia la caratterizzazione identitaria della donna con la pro-pria maternità (“la madre di Gesù”), per altro comune nel baci-no del Mediterraneo (l’identificazione del figlio attraverso il padre, della madre attraverso il figlio e quant’altro), sia l’esten-sione dell’invito “anche” a Gesù immediatamente successivo (evklh,qh de. kai. o` VIhsou/j). Il valore aggiuntivo del kai, lascia supporre che anche la madre avesse ricevuto l’invito, alla stessa stregua del figlio. Il fatto poi che Gesù venga invitato “con i suoi discepoli”, lascia supporre un coinvolgimento ormai rico-nosciuto del Nazareno con il proprio gruppo: il tempo e la gen-te, compresi i familiari suoi, hanno ufficializzato siffatto lega-me, per cui invitare l’uno automaticamente comportava l’esten-sione dell’invito all’intiero gruppo. In realtà sembra la chiamata dei primi essere avvenuta da pochissimi giorni. Anche in questo caso la soluzione al dilemma va cercata nella redazione: non è improbabile l’evangelista abbia collocato all’inizio dell’attività pubblica del maestro l’evento fondatore dell’intiera comunità, costituita dai discepoli. Si verrebbe a indicare qui la fondazione della Chiesa stessa. D’altronde non è il primo Gv a trattare di vicende conclusive all’inizio (o nei pressi) del racconto (cf. il racconto lucano della presentazione al tempio — Lc 2,39–46 — lorché è narrato in filigrana lo sgomento della comunità anzi al-la morte del Nazareno).

A prescindere dai problemi storici che sottendono la comu-nicazione della madre al figlio (l’ubbidienza supina dei servi alla donna e all’invitato, il reperimento di sei quintali di acqua e quant’altro la critica storica ha evidenziato), la denuncia

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Capitolo I

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dell’assenza del vino da parte della donna costituisce l’elemento centrale dell’intiero brano. Un codice molto importante, della fine III–inizi IV sec, il Synaiticus prima manu (attrave ,)* rso lectio longior tenta offrire spiegazione della mancanza: «Ormai essi non avevano più vino perché il vino provveduto per la festa era stato consumato»47.

Il tono comunicativo con cui Maria si presenta al figlio48 non lascia prevedere richiesta di miracolo, né la logica permette ipo-tizzarne non avendo il Nazareno ancora compiuto alcunché di analogo; sebbene la risposta del figlio sembra supporre una sia pur velata domanda. Né l’aver rilevato assenza importante va ascritta semplicemente alla capacità di osservazione insita nel carattere femminile49. Forse nel caso specifico la denuncia va a cogliere la negazione della stessa presenza della donna.

Il vino di cui viene denunciata assenza ricopre una gamma semantica tanto vasta da rischiare di perdersi dentro le sue mol-teplici significazioni: una specie di oggetto patafisico capace di tutto e del suo contrario50. Delimitarne l’ambito nuziale è impre-scindibile: nella mentalità biblica ne accompagna normalmente il banchetto sia storico che escatologico51; più genericamente è segno di prosperità52, e, con olio e grano, costituisce raccolto essenziale all’uomo53. Il vino è gioia54, e specchio maschile55.

47 Cf. n. 16. 48 La donna latrice di notizie è comune nei vangeli: in Gv 11,3 Marta manda a dire

al Nazareno che Lazzaro è malato («Signore colui che tu ami è malato»); in Gv 20,1s. Maria di Magdala porta a Pietro e all’altro discepolo l’annuncio che hanno rubato la salma del Nazareno; nei sinottici si hanno i gruppi di donne che devono condurre l’annuncio della resurrezione (Mt 28,1–8; Mc 16,1–8; Lc 24,1–10; Mt 28,9–10).

49 Garzonio, 18–20. 50 S. Beta, L. Della Bianca, Oinos. Il vino nella letteratura greca, Roma 2002; R.

Frankel, Wine and Oil Production in Antiquity in Israel and other Mediterranean Coun-tries, Sheffield 1999; P. Mc Govern, S. Fleming, S. Katz, The Origins and Ancient His-tory of Wine, Amsterdam 1995.

51 Am 9,13; Is 25,6. 52 Sal 104,15; Gdc 9,13; Sir 31,27s.; Zac 10,7. 53 Dt 7,13; 11,4. 54 «Non m’è caro chi presso il cratere ricolmo bevendo, / narra i tumulti le risse le

lagrimose guerre, / ma chi mescendo i bei doni di Afrodite / e delle Muse canta l’amabi-le gioia» (Anacreonte, 56).

55 Alceo, fr. 53: «Il vino è per gli uomini uno specchio»; fr. 104: «Il vino è lo spec-chio dell’umanità»; Eschilo, fr. 383: «Lo specchio della bellezza è il bronzo, il vino è

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Assente la sposa (Gv 2,1–10)

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L’assenza del vino per gli uomini sarebbe paragonabile alla mancanza dello specchio per le donne: impossibilitati a vedersi, non si sa che volto si porta, viene perduta la propria identità, non ci si riconosce56.

Date le premesse, la comunicazione della madre di Gesù in merito all’assenza del vino risulta doppiamente tragica: perché il contesto del banchetto impone al vino essere segno e motivo di allegria; venendo meno l’allegria, la festa non è più tale; per-ché se nella coppa del bere si specchia il greco, cercando il pro-prio riflesso nel vino, la mancanza del vino diventa perciò stes-so assenza del femminino. Plutarco nei Precetti di vita coniuga-le aveva già identificato nello specchio la tipologia relazionale che lega la sposa al marito57. Perciò della sposa non si parla; per cui non poteva non essere una donna a denunciarne l’assenza, ma non solo per sé, venendo meno lo specchio in cui l’uomo possa riconoscersi; perciò l’assenza del vino rende le giare sor-de ad ogni riflesso: se il vino è lo specchio dell’uomo la man-canza del vino si traduce in assenza di riflesso.

Alla denuncia del matrimonio senza sposa, lo sposo risponde tirando fuori un vino più buono, perciò stesso è colpevole a det-ta dell’architriclino di aver serbato fino a quel momento il vino migliore. Come dire che dallo sposo scaturisce la sposa, è lui che la genera; come d’altra parte lui trae da Lei la propria iden-tità, alla stessa stregua dello specchio che riflette il volto di chi vi si pone innanzi.

Sufficientemente distante l’ipotesi di non pochi esegeti i quali identificano Maria con Sion–Israele la cui denuncia espor-

quello dell’anima»; cf. fr. 288; Ag 839. Cf. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 200716, 344, n. 733. Il rapporto tra la coppa del vino e il membro ma-schile nella pittura vascolare greca è carattere presente.

56 F. Frontisi–Ducroux, J.–P. Vernant, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rap-presentazione di sé nella Grecia antica, Roma 1998, in particolare 35–108.

57 «Così come uno specchio ornato d’oro e di pietre preziose non è di alcuna utilità se non dà un riflesso rassomigliante, allo stesso modo una sposa ricca non offre alcun vantaggio se non modella la propria vita su quella del marito e non pone il suo carattere in accordo con quello di lui; se lo specchio rinvia un’immagine accigliata a un originale che si rallegra, o un’immagine ridente a un uomo sofferente e inquieto, lo specchio è falso e di cattiva qualità» (Plutarco, Coniug praec 14). Cf. Frontisi–Ducroux, Vernant, 103–108.

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rebbe «lo stato di indigenza in cui essa si trova»58; questi colgo-no nel retroterra anticotestamentario e apocalittico il terreno su cui è stato redatto il racconto. L’abbondanza del vino costituisce una delle immagini costanti dell’AT per esprimere la gioia dei giorni finali59. Hen 10,19 predice che la vite produrrà vino in abbondanza; in 2Bar 29,5 trovasi descrizione di siffatta abbon-danza: la terrà produrrà i suoi frutti 10.000 volte di più, ogni vi-te produrrà 1.000 rami, ogni ramo 1.000 grappoli, ogni grappolo 1.000 acini, ogni acino 460 litri di vino60. Mediante queste im-magini il segno poteva essere compreso come segno dei tempi messianici e della nuova economia. Alla stessa maniera la rive-lazione della gloria divina (v. 11) doveva essere un segno dei tempi ultimi: in Sal 17,32 il Messia farà vedere a tutti sulla terra la gloria del Signore, mentre Hen 49,2 parla della gloria dell’eletto61 e il Sal 102,16 promette che il Signore apparirà nel-la gloria62. All’identificazione di Maria con Sion–Israele vorrei obiettare che la madre non dice «non abbiamo più vino», ma «non hanno più vino»: lei dunque pare tirarsi fuori dal gruppo degli indigenti. Ma in quanto sposa non dovrebbe; né l’evan-gelista insistere a chiamarla “madre” (vv. 1.3.5.12), se il figlio l’apostrofa “donna” per prender le distanze dalla madre63 e rico-noscerle il ruolo di sposa che le sarebbe proprio in questo bra-no64. O forse, più semplicemente, il titolo che le conferisce il figlio risponde all’assenza denunciata: appunto la donna. Perciò si tira fuori. Che si tiri fuori lo racconta anche ai servi lorché comanda loro di ubbidire a qualunque ordine impartisca Gesù: infatti che le parole sue facciano l’eco a quelle degli egiziani che chiedono viveri al faraone il quale a sua volta li dirotta a Giuseppe65, o che si riferiscano a quelle del popolo d’Israele

58 Leon Dufour, I, 332. 59 Am 9,13–14; Os 14,7; Ger 31,12. 60 Ireneo, AdvHaer 5,33,3–4 attribuisce questo passo a Papia di Gerapoli di Frigia,

legato alle prime tradizioni giovannee. 61 Cf. Gv 1,34. 62 Cf. anche Sal 97,6; Is 60,1–2 ecc.; Brown, I, 136–137. 63 Cf. Mc 3,33 par. 64 Leon Dufour, I, 314–315. 65 Cf. n. 79.

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pronto a ubbidire a qualunque cosa Yhwh gli dirà66, comunque lei non è del gruppo di coloro che dovrebbero ubbidire.

Non è ora

Alla comunicazione della madre il figlio risponde con e-

spressione diffusa, attestata in ambito giudaico e giudeo–ellenistico: mah–lî w l k (Ti, evmoi. kai. soi,È “Che a me e a te?”), senza corrispondenze nelle lingue europee67. Il significato varia dal contesto e dal tono, ma sostanzialmente la congiunzione (kai.) va intesa in senso disgiuntivo, per separare i due pronomi, a marcare certa distanza. Propria del linguaggio diplomatico la formula è stata usata in due ambiti semantici: in contesto d’ingiustizia per difendersi, e significa: “Che ti ho fatto perché tu mi debba trattare così?”68; oppure in contesto di disimpegno per cui l’interpellato risponde: “Che c’entro io?”69. Questo se-condo sembra il più adatto al testo nostro (v. 4) in cui trattasi divincolare l’azione di Gesù dalla richiesta della madre appella-ta col semplice vocativo “donna”. Che fosse usato in contesto elogiativo o meno, costituiva il modo normale, gentile, di rivol-gersi alle donne70, documentato anche nel greco ellenistico71. Invece risulta particolare l’uso del sostantivo in termini assoluti (senza un titolo di accompagnamento o un qualificativo corri-spondente) da parte di un figlio lorché si rivolge alla madre, com’è il caso nostro. Più che segnare distanza, è difficile dire, non meno che dirimere la seconda parte della frase: ou;pw h[kei h w[ra mouÅ Per la grammatica e la sintassi risultano corretti, pertanto possibili, il valore sia interrogativo che negativo. Infatti quando è in principio di frase ou;pw può introdurre l’interro-

66 Cf. n. 78. 67 Gdc 11,12; 2Sam 16,10; 19,23; 1Re 17,18; 2Re 3,13; 2Cr 35,21; Mc 1,24; 5,7; Mt

8,29; Lc 4, 34; 8,28; PesR 5 (Strack, Billerbeck, II, 401); Epitteto, Diss 1,1–16; 22,15; 27,13; 2,19,16; CorpHerm 11,21.

68 Gdc 11,12; 2Sam 16,10; 19,23; 1Re 17,18; 2Cr 35,21; Mc 1,24; 5,7. 69 2Re 3,13; Os 14,8. 70 Mt 15,28; Lc 13,12; Gv 4,21; 8,10; 19,26; 20,13–15. 71 Schnackenburg, I, 462, n. 17.

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gativa72, ma anche la negazione, come negli altri dieci casi pre-senti nel dettato giovanneo73; per cui chi ha voluto superare la contraddizione provocata dalle parole del maestro con il succes-sivo comando della madre ai servitori e con l’azione dello stes-so Gesù, ha dovuto leggervi valore interrogativo, in controten-denza con l’uso giovanneo della formula. Né si negherebbe del tutto il rimprovero del Nazareno alla madre. Quanto all’ora74, poiché la valenza teologica deriva al vocabolo da ambienti apo-calittici75 e indica il momento in cui si compirà il disegno divi-no, le ipotesi si sono concentrate sull’ora futura riferita alla morte del Nazareno lorché verrà a compiersi la volontà del Pa-dre76, o su quella attuale della rivelazione del Nazareno attraver-so la sua opera espressa mediante il primo dei segni77. L’im-pianto ermeneutico seguito impone leggera rettifica a questa se-conda lettura: la risposta negativa del Nazareno alla madre non riguarda il segno in sé, che poi concretamente compie, ma la possibilità ulteriore, che si cela dietro la richiesta del vino, e che la madre chiedeva fin da ora, e cioè la presenza della sposa, per la quale ancora non era effettivamente ora, dovendo portare a compimento il proprio percorso storico. Da questa prospettiva le due interpretazioni sull’ora trovano punto di contatto all’oriz-zonte.

Al doppio atteggiamento del figlio cui la risposta orale è ne-gativa e l’azione positiva, la madre comanda ai servi di porsi a disposizione del figlio per qualsiasi cosa chieda. Il comando poggia su una frase relativa di valore condizionale generico ({O

ti a'n le,gh| umi/n poih,sate «Qualunque cosa vi dica fate») che la-scia spazio a qualsivoglia intervento del Nazareno: il soggetto

72 Mc 8,17. Così Gregorio di Nissa, Teodoro di Mopsuestia, Efrem, Taziano, Kna-benbauer, Durand, Seesemann, Kurfess, Michl, Boismard, Leon Dufour ecc. Il valore interrogativo supererebbe la contraddizione tra la risposta di Gesù e l’ordine impartito da Maria ai servi, oltre ad essere in controtendenza con l’uso giovanneo.

73 Gv 3,24; 6,17; 7,6.8.30.39; 8,20.57; 11,30; 20,17. 74 Il valore teologico del sostantivo w[ra (v. 4) non è rintracciabile nell’uso che vie-

ne fatto dei due avverbi successivi (v. 8 nu/n; v. 10 a;rti). 75 Dan 8,17.19; Hen 89,72; 90,1.5; IQS 1,5.11; 3,23; 4,17.18.20; 9,5.20; 14,13;

15,1; 18,3. 76 Lc 22,42 parr. 77 Leon Dufour, I, 321; Schnackenburg, I, 465.

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Assente la sposa (Gv 2,1–10)

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operante precede l’intervento. Il confronto con i passi anticote-stamentari con i quali generalmente gli esegeti colgono relazio-ne lascia emergere due tipologie testuali. La prima fa riferimen-to alla sudditanza espressa in prima persona dal popolo a Yhwh; non trattasi di comando o consiglio, ma di adesione spontanea e impegno per il futuro che viene usato, mentre manca la frase con valore condizionale78. La seconda, sintatticamente prossima all’espressione giovannea, narra del faraone il quale risponde agli egiziani, che chiedono pane, inviandoli da Giuseppe, quale persona adeguata perché deputata allo scopo: «Andate da Giu-seppe e qualunque cosa vi dica fate»79. Rispetto al nostro passo, però, la situazione relazionale è diversa: in Gen i richiedenti (e-giziani) si rivolgono al faraone il quale impone loro di ubbidire a Giuseppe, nel brano delle nozze di Cana è Maria a chiedere ma anche ad invitare i servi a fare quanto dirà Gesù. Comune ad entrambi è non solo la richiesta per la soddisfazione di un biso-gno, ma soprattutto l’identificazione della persona giusta cui ri-volgere la domanda. In definitiva regge solo il parallelo Giu-seppe / Gesù, cui l’analogia sarebbe fondata sulla tipologia e-spressa da At 7,9.13: Giuseppe dà il pane, Gesù offre il vino.

A questo punto la madre lascia la scena alle giare cui la tra-dizionale lettura simbolica80 relativa al numero81, al materiale e all’uso dell’acqua che avrebbero dovuto contenere82 continua a prevalere sulle letture storiche83; alla stessa stregua della inter-pretazione dei servi, che riempiono generosamente84 le giare se-

78 Es 19,8; 24,3.7; Gios 24,24. 79 Gen 41,55. 80 Tommaso ipotizza la continuità della vecchia legge con la nuova. 81 Sette meno uno indicherebbe l’imperfezione, la parzialità (Leon–Dufour; Mateos,

Barreto). 82 La pietra, non la terracotta come in genere sono le anfore del vino, richiamerebbe

le tavole della legge, come la purificazione per cui erano adibite. 83 Schnackenburg, I, 466; Brown, I, 129. L’uso delle giare di pietra era derivato dal-

le leggi levitiche sulla purità (cf. Lev 11,33; Strack, Billerbeck, II, 406–407): mentre le giare di terracotta potevano diventare ritualmente contaminate, pertanto dovevano esse-re spezzate, quelle di pietra non potevano diventare impure (Kel 2,3).

84 In 2Cr 26,8 l’espressione e[wj a;nw (h=n to. o;noma auvtou/ e[wj eivso,dou Aivgu,ptou o[ti kati,scusen e[wj a;nw) indica abbondanza in relazione alla potenza. Qui l’acqua ver-sata nelle giare arriva all’orlo.

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Capitolo I

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condo il comando di Gesù, e dell’architriclino cui devono porta-re il vino nuovo. Come ne ebbe saggiato l’architriclino, che non sapeva donde venisse85, chiama lo sposo86 e lo rimprovera per aver invertito l’ordine del servizio dei vini. Pur senza avere te-stimonianze di siffatta abitudine nella letteratura coeva, per il Brown trattasi di atteggiamento accorto87. Ma nulla vieta il con-trario, e cioè che il comportamento accorto sia stato quello dello sposo che ha servito prima il vino meno buono per conservare il migliore, se mai ne fosse restato dopo le feste: dipende dai punti di vista. Infatti in un frammento non autentico di Teopompo viene criticata la cattiva abitudine dei Lacedemoni di offrire agli ospiti prima il vino buono e poi quello più scadente88.

Con le parole dell’architriclino si conclude il racconto di un miracolo che non viene descritto ma solo portato a conoscenza attraverso il comportamento dello stesso maestro di tavola89. Per chi scrive il miracolo è meno importante del riconoscimento del vino buono nascosto dallo sposo fino a quando lo stesso non l’abbia tirato fuori, finché non inizia i segni di cui subito dopo si precisa questo essere stato il primo. L’architriclino, chiunque esso sia, riconosce la bontà del vino nuovo e la provenienza, per cui rimprovera lo sposo, mentre appena accennato nel richiamo al procedimento usuale resta il confronto tra il “nuovo / vec-chio”90 di cui i sinottici sono testimoni91, e che Lc inquadra in contesto simposiaco con esplicito riferimento allo sposo92. È sulla bontà del vino che punta il redattore giovanneo “vino buo-no” (kalo.n oi=non).

85 po,qen ha significato recondito: donde i doni di Gesù (4,11); donde lui stesso

(7,27s.; 8,14; 9,29s.; 19,9). Nella provenienza è implicito anche il carattere del dono e il suo significato (Schnackenburg, I, 467).

86 Per il Leon Dufour lo sposo (numfi,oj) è riferito a Dio; ma in Gv 3,29 il Battista riferisce il termine sposo a Gesù.

87 Brown, I, 130. 88 H. Windisch, “Die johannische Weinregel (Joh 2,10)”, in ZNW 14 (1913), 253ss.

tenta dedurne una regola del vino. 89 Schnackenburg, I, 467. 90 Seesemann, 459–460. 91 Mc 2,19; Lc 5,36–39. 92 Lc 5,29–35.

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Il commiato

Piuttosto che il compiersi dell’alleanza tra Dio e Israele e il

rapporto tra i due testamenti, le nozze di Cana raccontano storie di riconoscimenti: la madre, attraverso la denuncia della man-canza del vino riconosce l’assenza della sposa nel banchetto nu-ziale e al figlio riconosce la possibilità di riconoscere la sposa; l’architriclino riconosce la bontà del vino nuovo e, al contempo, rimproverando lo sposo, ne riconosce nello stesso la provenien-za: in ultima analisi il riconoscimento di Gesù transita attraver-so la stessa donna, rappresentata dal vino, il quale, alla stregua della sposa, addiviene solo grazie all’intervento del Nazareno. Reciprocità del riconoscimento che è conoscenza e accadi-mento.

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