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cultura L’America minima di Raymond Carver GABRIELE ROMAGNOLI la lettura Alphabet City, i giardini di Manhattan COLUM MCCANN spettacoli Il mito Josephine Baker compie un secolo LAURA PUTTI e SANDRO VIOLA S eguo il calcio da più di un quarto di secolo, e solo poche stagioni hanno una vita, un cuore e una personalità propri. Naturalmente l’an- no della doppietta dell’Arsenal; i recenti trionfi in campionato; l’annata in cui iniziai ad andare allo stadio; quella in cui disputam- mo quasi settanta partite, arrivammo in due finali di Coppa e non vincemmo niente. E la stagione 1983/84 del Cambridge United, da re- cord e fusione cerebrale, quando la squadra inanellò una serie sbalorditiva di trentuno partite senza vittorie nella Second Division (all’epoca lavoravo a Cambridge, e dividevo schizofrenicamente le mie passioni fra la reg- gia di Highbury e il tugurio di Abbey, cioè lo stadio del Cambridge). [...] Naturalmente, all’inizio fu seccante: a nessuno piace veder perdere la propria squadra. E fino a un certo pun- to, fu anche inspiegabile. La stessa linea difensiva solo pochi mesi prima aveva stabilito un nuovo record, di tutt’altro carattere: quello di più partite di campionato senza prendere gol. (segue nelle pagine successive) con un articolo di EMANUELA AUDISIO la memoria I demoni dell’Andrea Doria, 50 anni dopo PIERO OTTONE i luoghi La Roma mai vista di Cartier-Bresson FILIPPO CECCARELLI e STEFANO MALATESTA NICK HORNBY N el giugno del 1970 avevo dodici anni e facevo la quinta. C’erano i mondiali di calcio e me li sta- vo godendo un sacco. Il Chelsea aveva vinto la Coppa d’Inghilterra e due dei suoi giocatori, Peter Bonetti e Peter Osgood, erano nella na- zionale inglese. Erano le due medagliette della Texaco che volevo più di qualsiasi altra. Il mio desiderio fu esaudito. I miei genitori alimentavano la mia passione. Mi vie- ne adesso il sospetto che mio padre andasse a fare il pieno al- la Texaco con la Volkswagen, pompasse fuori la benzina, la buttasse via e tornasse a fare rifornimento. [...] Non mi chiesi mai, nemmeno una volta, perché in Mes- sico non ci fosse anche l’Irlanda e perché la Texaco non faces- se anche le medagliette dell’Irlanda. La loro assenza non mi colpì neanche nel 1974. Nel 1978 guardai un incontro di qua- lificazione all’Ucd, al bar dell’università; non mi ricordo con- tro chi giocavamo. Quel giorno la sorte non fu propizia all’Ir- landa, e neanche l’arbitro. C’era un gran silenzio al bar. Poi il cronista della Rte, Jimmy McGee, disse: «E a questo punto di- rei che il tango lo balleranno senza di noi, in Argentina». Dal- la folla partì uno sgabello che andò a sbattere contro il muro accanto al televisore. (segue nelle pagine successive) RODDY DOYLE i sapori La Festa dell’acciuga, pesce di montagna LICIA GRANELLO e NICO ORENGO ILLUSTRAZIONI DI GIPI DOMENICA 28 MAGGIO 2006 D omenica La di Repubblica In bilico tra la vergogna per gli scandali e lo show mondiale, due grandi scrittori ci raccontano lo sport che continua a regalare più emozioni Calcio odio e amore Repubblica Nazionale 29 28/05/2006

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cultura

L’America minima di Raymond CarverGABRIELE ROMAGNOLI

la lettura

Alphabet City, i giardini di ManhattanCOLUM MCCANN

spettacoli

Il mito Josephine Baker compie un secoloLAURA PUTTI e SANDRO VIOLA

Seguo il calcio da più di un quarto di secolo, esolo poche stagioni hanno una vita, un cuoree una personalità propri. Naturalmente l’an-no della doppietta dell’Arsenal; i recentitrionfi in campionato; l’annata in cui iniziaiad andare allo stadio; quella in cui disputam-

mo quasi settanta partite, arrivammo in due finali diCoppa e non vincemmo niente.

E la stagione 1983/84 del Cambridge United, da re-cord e fusione cerebrale, quando la squadra inanellòuna serie sbalorditiva di trentuno partite senza vittorienella Second Division (all’epoca lavoravo a Cambridge,e dividevo schizofrenicamente le mie passioni fra la reg-gia di Highbury e il tugurio di Abbey, cioè lo stadio delCambridge). [...]

Naturalmente, all’inizio fu seccante: a nessuno piaceveder perdere la propria squadra. E fino a un certo pun-to, fu anche inspiegabile. La stessa linea difensiva solopochi mesi prima aveva stabilito un nuovo record, ditutt’altro carattere: quello di più partite di campionatosenza prendere gol.

(segue nelle pagine successive)con un articolo di EMANUELA AUDISIO

la memoria

I demoni dell’Andrea Doria, 50 anni dopoPIERO OTTONE

i luoghi

La Roma mai vista di Cartier-BressonFILIPPO CECCARELLI e STEFANO MALATESTA

NICK HORNBY

Nel giugno del 1970 avevo dodici anni e facevo laquinta. C’erano i mondiali di calcio e me li sta-vo godendo un sacco. Il Chelsea aveva vinto laCoppa d’Inghilterra e due dei suoi giocatori,Peter Bonetti e Peter Osgood, erano nella na-zionale inglese. Erano le due medagliette della

Texaco che volevo più di qualsiasi altra. Il mio desiderio fuesaudito. I miei genitori alimentavano la mia passione. Mi vie-ne adesso il sospetto che mio padre andasse a fare il pieno al-la Texaco con la Volkswagen, pompasse fuori la benzina, labuttasse via e tornasse a fare rifornimento.

[...] Non mi chiesi mai, nemmeno una volta, perché in Mes-sico non ci fosse anche l’Irlanda e perché la Texaco non faces-se anche le medagliette dell’Irlanda. La loro assenza non micolpì neanche nel 1974. Nel 1978 guardai un incontro di qua-lificazione all’Ucd, al bar dell’università; non mi ricordo con-tro chi giocavamo. Quel giorno la sorte non fu propizia all’Ir-landa, e neanche l’arbitro. C’era un gran silenzio al bar. Poi ilcronista della Rte, Jimmy McGee, disse: «E a questo punto di-rei che il tango lo balleranno senza di noi, in Argentina». Dal-la folla partì uno sgabello che andò a sbattere contro il muroaccanto al televisore.

(segue nelle pagine successive)

RODDY DOYLE

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La Festa dell’acciuga, pesce di montagnaLICIA GRANELLO e NICO ORENGO

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la copertinaCalcioodio e amore

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

Alla vigilia del mondiale Nick Hornby, Roddy Doylee altri scrittori d’oltremanica raccontano la loropassione in un libro - “Il mio anno preferito”,pubblicato da Guanda - che fa capire come il tifocalcistico sia una malattia incurabile e affascinante

NICK HORNBY

Come perde bene la mia squadra(segue dalla copertina)

Aproposito... il periodo si concluse in maniera memorabile: il portiere del Cambridge MalcolmWebster fu richiamato sul campo ad Abbey nell’intervallo — una tempistica antiscaraman-tica che forse il club rimpianse — per ricevere un premio a ricordo dell’evento. Nel secondotempo accadde l’inevitabile. Incassò quattro gol in meno di venti minuti. Sia come sia, manmano si cominciò a capire che la squadra stava scrivendo una piccola pagina di storia e ognisconfitta per 5-0, ogni pareggio per 2-2 strappato dalle grinfie della vittoria diventava perver-

samente appagante.[...]Quell’anno il Cambridge fu una squadra di schiappe. Vinse quattro partite (due delle quali quando era

già matematicamente retrocesso) e ne perse ventiquattro. Mandò in campo trentadue giocatori diversi,quattordici dei quali in almeno una partita indossarono la maglia numero sette; e quattro dei quali eranoportieri. E avvicendò i tre allenatori canonici (uno licenziato, uno ad interim e uno che concluse il campio-nato). Fu fantastico. [...]

Esiste una cosa che si può definire “personalità predisposta alle dipendenze”? Attualmente sto riprovan-do a smettere di fumare. Porto un cerotto alla nicotina; ho un pacchetto di gom-me da masticare alla nicotina al mio fianco e in tasca un pacchetto di sigarettedi ieri sera. No, non sta funzionando. Nel suo libro The Easy Way to Give UpSmoking, Allen Carr paragona il fumatore a uno che porta scarpe strette soloper il gusto di levarsele, ed è una similitudine valida. I fumatori fumano per ilgusto di far sparire i sintomi di astinenza da nicotina, sintomi loro procurati so-lo dal fumo. In altre parole, spendiamo una fortuna e mettiamo a repentagliola nostra salute solo per raggiungere uno stato che i non fumatori mantengonosenza nessuno sforzo.

La calciodipendenza funziona praticamente allo stesso modo, e in un certosenso la mia dipendenza dal Cambridge United in quella stagione fu la più pu-ra che abbia mai provato. [...]

Fu un Natale cupo. A Santo Stefano andai a Highbury a veder l’Arsenal pareg-giare con il Birmingham City (Charlie Nicholas segnò il suo primogol nel nostro stadio, su rigore); due giorni dopo andai a Cam-bridge ad assistere alla sfida con il Grimsby. Tornai essenzial-mente per vedere la partita. Nel mio appartamento di Cam-bridge meravigliosamente privo di riscaldamento non c’era nes-suno, e avevo l’influenza: non fosse stato per la classifica della Se-cond Division, avrei potuto starmene stravaccato davanti alla telenella comoda casa di famiglia per qualche altro giorno.

Avevo come il sentore che quella contro il Grimsby sarebbe stata laPartita con la P maiuscola. [...] Stranamente, era palese che il popolo diCambridge aveva avuto sensazioni analoghe. A meno che le avversarie non siportassero dietro stuoli di tifosi (come avveniva per esempio con le squadre di Lon-dra, o i grandi club del Nord), generalmente lo United “faceva” circa 2.500 spettatori:senza motivo apparente ne vennero 4.500 a vedere il Grimsby, che dal canto suo non fu se-guito quasi da nessuno. La squadra reagì bene all’atmosfera da Maracaná, e nel primo tempopassò in vantaggio con Robbie Cooke. Neanche il pareggio del Grimsby angustiò più di tanto i no-stri, e Andy Sinton trasformò uno dei suoi rigori portandoli avanti per 2-1, punteggio su cui si arrivò al90’; il Grimsby non segnò il suo inevitabile gol che in pieno recupero. Di tutti quei sette mesi fu l’occasionein cui il Cambridge arrivò più vicino alla vittoria. [...]

Il triplice fischio pone fine all’ultima partita interna di una lunga stagione: i tifosi di casa danno sfogo allaloro gioia; i giocatori, alcuni dei quali prossimi al pianto, salutano festanti, e voi vi beccate le pacche sullespalle di amici e vicini, tutti in tripudio. È lo scenario che sognavate in agosto, quando tutto è cominciato: lecircostanze contano poco. Naturalmente avrei preferito esser lì a festeggiare la promozione in First Divisionche la fine del più spettacolare digiuno di vittorie di cui la Lega professionistica inglese sia mai stata testi-mone, ma pazienza. Una festa è una festa, o no?

Lo fecero apposta? Non credo. Ma i fatti sono molto singolari. Il precedente record di astinenza, detenu-to dal Crewe, era di trenta partite, e il Cambridge lo superò con uno 0-0 a Grimsby. Ma allora che stranezza,che solo cinque giorni dopo siano tornati nella modalità apparentemente sepolta del successo contro il New-castle, terza assoluta nella categoria, una compagine che schierava Beardsley, Waddle e Keegan... Forse ècome una di quelle storie che leggiamo sempre sulle coppie senza figli: si arrendono, firmano i moduli perl’adozione, e nove mesi dopo hanno un bambino loro. Forse una volta soppiantato il Crewe nell’albo d’oro,il Cambridge si rilassò e gli venne in mente come si fa a vincere.

[...] Solo un teorico quantistico può credere che i London Monarchs reggano il confronto con i Washing-ton Redskins, o che il Kingston possa mettere sotto gli LA Lakers a basket, o che Bruno sarebbe mai stato in

grado di sconfiggere Tyson. E allora cosa c’è, nel calcio, che permette al Suttondi battere il Coventry detentore della Coppa, al Colchester di sconfiggere ilLeeds di Revie, all’Algeria di suonarle alla Germania Ovest eterna campione delmondo? Sulla carta, il Cambridge era inferiore al Newcastle sotto ogni aspetto.[...] È vero che, come dice ogni allenatore di squadretta alla vigilia di un abbina-mento di Coppa apparentemente proibitivo, «ogni partita fa storia a sé» e con-ta «chi ha più fame». Certo, la disperazione è importante, ma lì i disperati eranoquelli del Newcastle, era a loro che serviva vincere per essere promossi. Il Cam-bridge era già retrocesso.

[...] Forse una squadra perde contro un’altra solo perché due o tre giocatorinon sono in giornata? E in tal caso, come mai non lo sono? Quando Alan Han-sen sentenzia che i due difensori centrali del Liverpool stanno troppo lontanil’uno dall’altro, o che «la difesa a quattro ha le maglie troppo larghe», sembrauna perfetta spiegazione del fatto che il Liverpool incassi delle reti. Ma perché i

due centrali stanno troppo lontani? È solo che non gliene frega niente? Si trovano antipatici? O è stato l’alle-natore a dire loro di giocare così? E perché? Perché i quattro dietro certi giorni giocano come Dio comanda,e altri no? [...]

Gran parte delle “analisi” dei media sui fatti calcistici è una semplice constatazione di successo o insuc-cesso, eppure restano tanti misteri da spiegare. La vittoria del Cambridge sul Newcastle è uno tra i più gran-di; perché Waddle non fece piangere i terzini del Cambridge — nessuno dei quali avrebbe avuto un gran fu-turo calcistico — di impotenza e vergogna per la loro inettitudine? Pochi anni dopo, lo stesso Waddle avreb-

be battuto il Milan quasi da solo. Perché Keegan e Beardsley non segnarono un po’ di gol per uno primadell’intervallo? Come mai il rigore di Kevin Smith nel primo tempo bastò a vincere la partita? Doman-

de, domande, domande: le risposte su cartolina postale, prego.Mentre tornavo a casa, un tifoso del Newcastle tentò di buttarmi giù dalla bicicletta,

ma non me la presi, sul serio. Capii il suo impulso, ecomunque ero già abbastanza felice. Il piacere delcalcio in due parole: nei sette mesi precedenti ilCambridge aveva continuato a sbattere la mia testacontro un muro, e quel pomeriggio aveva smesso.

The Abbey Habit©Nick Hornby 1993© 2006 Ugo Guanda editore

Il piacere del calcioin due parole: per sette mesiil Cambridge aveva sbattutola mia testa contro il muroQuel giorno aveva smesso

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RODDY DOYLE

Noi, eroi irlandesi in terra d’Italia(segue dalla copertina)

Nel 1982 guardai l’Irlanda del Nord far furore in Spagna, tifai perloro e li odiai. Delle partite di qualificazione del 1986 non mi ricordo nulla, anche se andai avederle tutte, quelle in casa. Nel 1990 la Texaco fece le medagliette dell’Irlanda.«Io ci vado. Etu?» «Certo; di sicuro». Nella seconda metà del 1989 dicevo una di queste due frasi pratica-mente tutti i giorni. «Ci vado di sicuro». Era vicinissima l’Italia; era lì a due passi. «Di sicuro».Poi il 16 dicembre ci fu il sorteggio; di nuovo l’Inghilterra, di nuo-

vo l’Olanda — proprio come nei campionati europei — e l’Egitto. Fu una gros-sa delusione: niente Brasile, niente Argentina e nemmeno la Colombia.

«Io ci vado lo stesso; e tu?» «Probabilmente. Vediamo che dice mia moglie».Nelle ultime settimane del 1989 cominciò a rimbalzare da un pub all’altro la

voce che l’Italia era molto cara. «Sette sterline a pinta, vi dico». «Sedici sterlineper un hamburger con patatine, e faceva schifo a quanto mi hanno detto». LaSardegna era lontana mille miglia dalla terra ferma, non faceva affatto parte del-l’Italia, in realtà. Andare dalla Sicilia alla Sardegna sarebbe costato un occhio.Neanche la Sicilia faceva parte dell’Italia, in realtà, era quasi Africa. Era il paesedella mafia: ti accoltellavano se li guardavi di traverso; non erano per niente co-me i veri italiani. Era proibito divertirsi da quelle parti.

«Sarà bello uguale in tivù».Restai a casa. Lo sapevo già fin dal primo momento. Mi vergognai di me stesso. Non mi

ero mai spinto più in là di Lansdowne Road per andare a vedere l’Irlanda, a cinque fer-mate da Dart. La partita e poi un paio di pinte, a questo ammontava il mio attaccamen-to. Finalmente mi si presentava l’occasione buona per seguire sul serio la squadra e mitiravo indietro. C’ero già stato in Italia, mi era piaciuta da morire. Ma non ci sarei an-dato. Mi guardai intorno in cerca di una buona scusa e la trovai: comprai casa.

«Tu ci vai?» «No, non posso; abbiamo appena comprato casa». «Oh, no». «Sa-rebbe meraviglioso, ma...». E a quel punto scrollavo le spalle. Non potevo farciniente.

[...] I tifosi partirono per Genova. Cominciarono a circolare storie di tutti i ti-pi: matrimoni e funerali rinviati fino a dopo la partita successiva; gente che te-lefonava a casa chiedendo di mandare altri soldi; gente che accendeva un se-condo mutuo; mamme che spedivano in Italia thermos di minestra e panini alprosciutto avvolti nella carta stagnola. Uomini e donne che avrebbero dovuto tor-nare al lavoro il lunedì mattina erano partiti a piedi alla volta di Genova. L’Irlandagiocava contro la Romania lunedì. La vera Coppa del Mondo; gli ottavi di finale.

Fu il lunedì più bello della mia vita. Tutto il paese chiuse e andò a stiparsi nei pub. Iotornai ancora una volta al Bayside Inn. C’erano molte donne stavolta, tante quanti gli uo-mini. E i vestiti erano sempre più fantasiosi, sembrava di essere in Brasile. Capelli tinti, faccecolorate, bandiere, bandiere, bandiere. [...]Lo stadio era meraviglioso. Le partite in casa del-l’Irlanda si giocavano a Lansdowne Road, un campo di rugby, una rovina piena di fossi e cu-nette, oppure a Dalymount, dove bisognava tagliare l’erba sul tetto della tribuna all’iniziodi ogni stagione. Quella era tutta un’altra cosa: cavi e piloni e l’erba di un verde sfavillante.Eravamo a un tavolino vicino alla tivù. Con una scorta di roba da bere da bastarci per tut-to il primo tempo. Eravamo pronti. «Ci siamo».

[...] Poi l’Italia: i quarti di finale a Roma. [...] Non pensavo che avremmo vinto. Gli italia-ni erano fantastici; Schillaci, Baggio, Maldini, e per fermarli noi avevamo Mick McCarthy.

Si prospettava un potenziale massacro. Speravo in una sconfitta onorevole, ma non lo dissi a nessuno. Erasabato sera; stesso pub, stessi amici, Belinda. Cominciò la partita. Infilai la mano sinistra tra i capelli e tirai,tirai. Gran bel cross di McGrath a Niall Quinn, Zenga dovette saltare e allungarsi per parare il colpo di testa.Lanciai un urlo di gioia e applaudii. Mi rilassai un po’. Stavamo giocando bene. Schillaci ci andò vicino. Mastavamo giocando bene. Non ci avrebbero distrutto. Il loro gol mi sembrò molto bello la prima volta. Mi sen-tii scendere un peso nello stomaco quando vidi il tiro in rete di Schillaci, sulla destra. McGrath per poco nonlo fermò col piede, ma il pallone andò dentro.

«Bel gol». «Già». Lo guardammo di nuovo. Tiro di Donadoni, molto potente,salvataggio di Packie, il pallone gli rimbalza sulle mani strette a pugno, Packieva giù sulla sinistra, Schillaci appoggia di piatto e mette in rete. «Grande gol».

E poi ancora. Schillaci che si porta avanti prima del tiro di Donadoni, per tro-varsi al posto giusto se la parata non fosse stata perfetta. Il tiro di Donadoni, larespinta, Schillaci. Fu un brutto colpo.

«Forza Irlanda!» Ero contento che l’avesse segnato Schillaci. «Forza Irlanda!»Fecero del loro meglio. Riuscirono a innervosire gli italiani. Gli stettero alle co-

stole e gli morsero il culo. Gli corsero dietro e gli slittarono tra le gambe e gli si mi-sero tra i piedi. Non ci lasciarono mai pensare che fosse tutto finito. Caricarono esi ritirarono e poi tornarono di nuovo alla carica. Secondo tempo. Schillaci colpì latraversa. Schillaci segnò, ma era in fuorigioco. Gli irlandesi seguitarono a darcidentro però, seguitarono a correre e a farsi valere. Furono grandi e li adorai. Poi ar-

rivò la fine. Non dicemmo nulla.I tifosi a Roma stavano ancora sventolando le bandiere, stavano ancora cantando. La gente

al pub faceva la stessa cosa. Dissi a Belinda che l’amavo. Era finita. Fu uno dei momenti più bel-li della mia vita, ero felice di essere dublinese e felice di essere irlandese. Sono passati anni, mame lo sento ancora dentro. La gioia e l’allegria e l’orgoglio. Adulti che si comportavano comebambini. Packie che stringeva i denti. Piangere in pubblico. E sbronzarsi di giorno. Le ma-gliette, i colori. Il tiro lungo di Mick McCarthy. Le canzoni. I giocatori. Paul McGrath. L’ec-citazione e la follia e l’amore. Me lo sento ancora tutto dentro e ancora adesso mi viene dapiangere.

Tornarono a casa il giorno dopo. Era arrivato anche Nelson Mandela, a cui era stata con-ferita la cittadinanza onoraria.

«PAUL McGRATH ALÉ ALÉ... PAUL McGRATH ALÉ ALÉ...»La città era strapiena. C’era mezzo milione di persone ad aspettare. Ci trovammo un

angolino a O’Connell Bridge. O’Connell Street era sepolta sotto la calca, la gente era ap-pesa agli alberi, ai piloni e alle finestre. La meravigliosa notizia si sparse tra la folla: il Ca-merun stava battendo l’Inghilterra.

«UN ROGER MILLA, C’È SOLO UN ROGER MILLA...»Aspettammo. Vedemmo gli autobus scoperti che spuntavano da Frederick Street e

avanzavano lungo O’Connell Street. Da quella distanza sembrava che li trasportasse-ro sopra le teste della gente. La strada era sparita. Piano piano, procedendo molto len-tamente gli autobus vennero verso di noi. Riuscii a distinguere Jack Charlton, ChrisMorris, David Kelly, Frank Stapleton. Poi ci furono accanto. Alzai le mani sopra la te-sta e applaudii.

«Grazie».Poi ce ne tornammo a casa.

Republic is a Beatiful Word ©Roddy Doyle 1993© 2006 Ugo Guanda editore

Il gol fu un brutto colpo,ma ero contento che avessesegnato Schillaci. I nostri

continuarono a darcidentro. Furono grandi

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 28 MAGGIO 2006

Non c’è niente da fare: a loro viene facile raccontare ilcalcio, quei giorni passati a sperare che qualcosa dibello capiti alla tua squadra. Ci mettono dentro af-

fetto, ironia, compassione, stagioni andate a male, serate alpub, bevute infinite, desiderio assurdo di fermare l’attimofelice, con l’illusione di esserci riusciti, ma sì il calcio tirasempre fuori qualcosa che vale la pena di guardare. Loro(gli autori d’oltremanica selezionati da Nick Hornby per comporre Il mio anno pre-ferito-Storie di calcio, edito da Guanda e in libreria l’8 giugno, 300 pagine, 15 euro)scrivono e corrono con la felice e piatta ingenuità di certi cross che vedi solo lì.

Da noi il calcio è epica, tattica, schema (e oggi scandali). Pure quando viene fer-mato sulla pagina. In Sudamerica è sogno di foresta, gringos, confini che scappa-no dal corner, Hugo Pratt lo spiegherebbe meglio, Osvaldo Soriano che in gioventùera stato il centravanti mancino del Confluencia così rispondeva a chi gli chiede-va perché avesse smesso: «Non so, un giorno la porta mi si è ristretta». A Hornby,Doyle e compagni la porta invece si è allargata. Ci stanno bene, ci stanno tanti, stan-no tutti lì, aggrappati alla rete, curano la loro passione con affetto, memoria, fishand chips, e se l’amore si guasta, loro non si scoraggiano, ci riprovano. Londra inquesto aiuta: ha 13 squadre professionistiche, ciascuna con il proprio stadio. Cen’è per tutti i gusti e quartieri, nomi da leggenda: Chelsea, Arsenal, Tottenham, We-st Ham, Fulham, Crystal Palace, Millwall. In Italia il bar sport toglie emozione e for-za alla letteratura, in Inghilterra e dintorni invece le parole per raccontare una sta-gione di campionato diventano un’iniziazione al destino, piccola curabile solitu-dine. Forse perché nel Regno Unito il calcio è molto working class, sciarpa da nonlasciare mai a casa. Loro, gli scrittori, sono sensuali. Basta leggere come Matt Na-tion parla del Bristol City, stagione 89-90, e delle cosce di Bob Taylor. «Non eranosolo grosse. Le sue erano cosce da calciatore. Avevano raggiunto la media perfet-

ta tra una grossezza superiore alla norma e quelle di un pi-lone di una squadra di rugby gallese. Avevano dei contornidegni di una cartina fisica del Nepal e ballonzolavano vi-stosamente quando Bob correva, ma non al punto da farpensare che avesse la cellulite: erano sobbalzi subliminali,alla Dirk Bogarde. Cosce come quelle di Bob ci davano spe-ranza, forza, e un calciatore di cui poterci vantare».

Loro, sempre gli scrittori, non si vergognano: di non aver avuto Shakespeare co-me modello, ma altri tipi di numero uno. Come spiega Giles Smith, che lavora peril Daily Telegraph: «Già la prima volta che spedii una lettera al Chelsea era indiriz-zata a Peter Bonetti. Ripensandoci fu temerario da parte mia pensare di poter scri-vere direttamente al portiere del Chelsea. Ma avendo comprato a Natale del 1971un paio di guanti da portiere consigliati da Bonetti — verdi e sottili, con finiture divelluto — mi sentivo entro certi limiti già in confidenza».

Il calcio è occasione, per alzare gli occhi e accorgersi che più in là c’è la vita. Ha ra-gione Harry Pearson, che ha una rubrica sul Guardian, tifoso del Middlesbrough,a dire: «Non mangio e non bevo mai niente che venga preparato in uno stadio dicalcio. Quando mi viene la tentazione mi ricordo quel che aveva detto David Bowiedopo una visita al bar di Brunton Park: “Non è un panino alla salsiccia, quello è unsuicidio”». E ne ha ancor di più a domandarsi: «Perché quando si va nei bagni degliuomini della curva ospite del Fratton Park non ci si accorge mai di avere le scarpeslacciate prima di mettere i piedi in uno strato di urina che arriva alla caviglia?».

In Italia chiunque spieghi il calcio ha la tendenza di salire in cattedra, in Inghilter-ra invece ci si toglie la giacca e ci si diverte. Febbre da 90’, appunto. Nick Hornby sta-volta parla della stagione ‘83-’84 del Cambridge United. «Quell’anno il Cambridgefu una squadra di schiappe. Vinse quattro partite e ne perse ventiquattro... Fu fan-tastico». Sì, veramente, un funerale di speranze. Un altro modo di spiegare Re Lear.

IL PALLONEDI CARTA

EMANUELA AUDISIO

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l’inchiestaVittime dimenticate

dall’apparato repressivo nazista consenti-vano allo stesso incassi per 5.000 marchi algiorno. Non è finita: il calcolo della redditi-vità era implacabile. Un forzato doveva re-stare in vita almeno nove mesi in media, peressere un “investimento” redditizio per leSs e per l’Ufficio centrale nazista».

Nell’ingranaggio spietato finì l’impiega-to statale e soldato del Regio Esercito arre-stato a Villa Vicentina. «Alto un metro e set-tantadue, snello, naso largo, orecchie piat-te, un dente mancante, capelli biondo scu-ro», registrò l’ufficiale della Gestapo di Trie-ste che riempì il suo primo dossier. Finì aBuchenwald il 3 agosto 1944, «deportatoper motivi politici», precisa la nota. Non sisa se ciò voglia dire cospirazione con la Re-sistenza o semplice appartenenza alle forzearmate. «Sequestrati all’arresto un paio discarpe, un paio di calzini, una giacca, unpantalone, due camicie, mutande, docu-menti e carte personali. Consegnati al dete-nuto a Buchenwald un berretto, un panta-lone e una giacca (l’uniforme concentrazio-naria, ndr), una camicia, un paio di zoccolidi legno». Il soldato di Badoglio era giovanee forte, fu trasferito da Buchenwald a Mit-telbau-Dora, l’impianto segreto dove i de-portati, lavorando in condizioni bestiali,costruivano i razzi V1 e V2 e le altre armi se-grete con cui i nazisti sperarono invano dirovesciare le sorti d’una guerra già persa.Sopravvisse alla guerra e nel 1964, grazie al-l’archivio di Bad Arolsen, ebbe i documentinecessari per chiedere risarcimenti alle in-dustrie.

Molti di loro morirono di stenti, i più — di-cono anche gli appunti e i ricordi degli ita-liani — speravano solo di arrivare da so-pravvissuti alla fine di un giorno dopo l’al-tro. Ogni mattino l’ansia incerta ricomin-ciava. La sopravvivenza o l’improvvisa con-danna a morte, dice Jost con gli occhi bassisui carteggi, dipendeva dal caso. O dall’u-more dei carcerieri, o dalla loro natura. Ognimattina, all’appello, poteva capitare di es-sere chiamati in venti — sorteggiati uno sutre, uno su cinque, uno su dieci per baracca

BAD AROLSEN

Un impiegato statale, arruola-to nel Regio Esercito, fu arre-stato a Villa Vicentina il 21 lu-glio 1944 e finì a Buchenwald.

Un panettiere triestino cadde nelle manidei nazisti il 2 marzo 1943 ad Albona e fuspedito a Dachau. Un milanese classe 1914fu acciuffato a Verona il 13 marzo 1944 e de-portato a Mauthausen. Un comunista fug-gito in Francia fu sorpreso a Marsiglia e in-viato a Buchenwald anche lui. Quattro pic-cole storie, quattro drammi italiani nell’in-ferno del Gulag hitleriano. Quattro storieitaliane che riemergono adesso dagli archi-vi centrali del terrore, cu-stoditi dalla Croce rossaqui nella placida Bad Arol-sen. Siamo venuti a scor-rerli, a ripercorrere il cam-mino doloroso della Me-moria tra le carte ingiallitedal tempo.

Grosse Allee numero 5 èl’indirizzo, il più bel vialealberato prussiano nellacittadina termale dell’As-sia del Nord. L’idillio nelverde custodisce terribiliricordi. «I dossier sugli in-ternati militari italiani esugli altri deportati prove-nienti dal vostro Paese so-no tanti, tantissimi», mi di-ce il gentilissimo Udo Jost,del servizio internazionale della Croce ros-sa, mentre mi accompagna tra palazzine in-tere adattate ad archivi. Un mare di fascico-li, cinquanta milioni di schedature per di-ciassette milioni di persone vittime dell’ap-parato repressivo nazista. Discrepanza checolpisce: per ogni nome ci sono spesso piùtrascrizioni e più fascicoli separati: attod’arresto, registrazione nel primo campo diarrivo, eventuale certificato di lavoro, even-tuale certificato di morte. «Stiamo corren-do una corsa contro il tempo per digitaliz-zare tutto», dice Jost, «ci vorrebbe il doppiodel personale, ma abbiamo già inserito nel-la memoria dei computer il 56 per cento deidati, salvandoli così dall’usura della cartanel tempo».

I nazisti erano meticolosi, fino all’isteri-smo, mi dice Jost. Questi dossier che la Cro-ce rossa ereditò dopo la guerra, e che dal1955 gestisce a Bad Arolsen, erano redatti amano con pazienza da amanuensi. Aveva-no voglia di mostrare la superiorità dellaprecisione ariana, documentare con fred-dezza l’orrore. E insieme erano mossi dallapaura. Paura che un qualsiasi sbaglio nelleschedature, se notato da un collega delato-re o da un superiore, sarebbe costato loro lacarriera, o peggio.

L’archivio di Bad Arolsen è gestito dallaGermania, dalle potenze alleate vincitricidella Seconda guerra mondiale, da Bene-lux, Italia, Israele, Grecia e Polonia. Il gover-no di Angela Merkel ha deciso di dare il viaall’accessibilità degli archivi del terrore an-che per gli storici. Non più solo per i soprav-vissuti o i loro familiari. Non possiamo cita-re nomi perché le norme internazionali dirispetto della privacy sono durissime, mapossiamo raccontare esempi di martirioquotidiano degli italiani e degli altri schiavidel Reich da tutta l’Europa occupata.

Le schede sugli italiani sono circa nove-centomila. Anch’esse di più del totale sti-mato degli internati militari italiani. Cioè glioltre seicentomila soldati fedeli alla Coro-na, a Badoglio e alla Resistenza che dopo lacaduta del fascismo scelsero la cobellige-ranza con le democrazie occidentali el’Urss contro l’ex alleato nazista. Ma i fasci-coli delle Ss, della Gestapo, del Reichssi-cherheitshauptamt (Ufficio centrale per lasicurezza del Reich, vertice e coordina-mento supremo del terrore) riguardavanoanche ebrei, prigionieri politici, civili arre-stati per semplici sospetti, giovani abili de-portati come schiavi dell’industria militare.

«Le Ss erano precise come un’impresa»,nota Jost, e sfoglia i calcoli dei pianificatorinazisti. «Per ogni forzato incassavano dalleaziende dai 4 ai 6 marchi del Reich al gior-no. Calcolo presto fatto. Se la Krupp avevabisogno di mille forzati per armare la Wehr-macht con i suoi cannoni, i forzati forniti

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LA MEMORIA DEL TERROREDagli archivi di Bad Arolsen, una scheda

di Dachau con i dati di un internato, ricavata

dal retro di un pacchetto di sigarette. Qui

sopra, il braccialetto preso a un deportato

Storie italiane sepoltenegli archivi dei lager

Le meticolose cartenaziste documentanol’orrore: le esecuzionidi centinaiadi prigionieriper festeggiareil compleannodi Hitler; le collezionidi pelle umana tatuata

Il soldato arrestato nel luglio ’44 e finito a Buchenwald. Il panettieretriestino spedito a Dachau. L’artigiano trentenne deportatoa Mauthausen. Il comunista inviato anch’egli a Buchenwald. Sonoquattro dei circa 900mila dossier di nostri connazionalinel maredi fascicoli custoditi dalla Croce Rossa a Bad Arolsen,che la Germania ha deciso di aprire. Siamo andati a scoprirli

ANDREA TARQUINI

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— a disinnescare le bombe d’aereo angloa-mericane inesplose. La sera si tornava inbaracca in cinque o sette al massimo.

I rischi non finivano mai: la moglie del co-mandante Koch — quello restato famosoper le foto con cui documentò la costruzio-ne di Sachsenhausen — quando il maritofacendo carriera passò a Dachau, sviluppòun hobby singolare. Collezionava tatuaggisu pelle umana. Non il numero di matrico-la impresso a sangue sull’avambraccio deldeportato: era troppo banale. No: collezio-nava ancore, sirene, navi, donne nude, pae-saggi. Tatuaggi veri insomma, quelli chenella vita di “prima” i deportati avevanoscelto di portare. Averne uno sulla pelle erala condanna a morte. Bastava che un solda-to o un ufficiale Ss se ne accorgesse e faces-se rapporto. Per Frau Koch era facile: ci pen-savano le Ss a eliminare il detenuto interes-sante scrivendo poi nel rapporto di un ten-tativo di fuga. E toccava ai medici nazistiasportare, essiccare e conservare quelcampione di pelle umana indegna di vita.

Il panettiere di Trieste arrivò nell’infernogià nel marzo 1943. Fu arrestato dalla Sit-tenpolizei, la buoncostume nazista. Proba-bilmente per presunti “atti immorali” o “of-fesa della razza”: bastava un flirt con una te-desca. Finì a Dachau, si ammalò, fu libera-to dai soldati americani. Nel 1963 ebbe daBad Arolsen fascicoli che lo aiutarono a ri-cevere un certificato d’invalidità.

«Si poteva sopravvivere per caso», notaJost. Come quando un’ispezione selettivaper i pidocchi salvava i pochi prescelti dalconto di una decimazione. E restava poiquale prova del lavoro forzato svolto per leindustrie tedesche. I grandi Konzern trae-vano guadagno anche loro, complici co-scienti, dall’apparato nazista: sulla magrapaga del forzato, che faceva risparmiare lo-ro miliardi, erano calcolati anche i contri-buti cassa malattia e pensioni. Non a bene-ficio del deportato, ma da versare sul fondoper i gloriosi ariani, i soldati tedeschi alfronte.

L’artigiano di Verona venne arrestato il

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 28 MAGGIO 2006

13 marzo ‘44 per atti immorali. Probabil-mente, un amore con una tedesca, oppurequalche frase sgradita su Hitler in osteria.Finì a Mauthausen. Per risparmiare carta, ilsuo dossier fu scritto sul retro delle paginedi schedatura di un detenuto politico spa-gnolo morto nel 1941. Lavorò per la Steyr, fuliberato dalla US Army, ebbe nel 1964 do-cumenti per fare causa ai suoi sfruttatori.

Tutte le aziende tedesche sfruttarono iforzati, dice Jost. Le grandi e le piccole. Co-sì come Stato, province, comuni, e persinole Chiese, nonostante le loro menti critichefinissero anche loro nei lager. Alla fine, nelfondo comune risarcimenti istituito pochianni fa sotto il governo Schroeder, hannopagato tutti per evitare il peggio. Risarci-menti, piccoli premi, pensioni integrative.Troppo poco per una vita rubata. Comequella del comunista arrestato a Marsigliail 9 aprile 1943. Il Befehlshaber der Si-cherheitspolizei (ufficiale comandante incampo della polizia di sicurezza) dispose ilsuo trasferimento immediato alla Gestapodi Parigi, e questa lo fece deportare a Bu-chenwald. Aveva una valigia con pantaloni,pullover, camicie, pantofole, 40 franchi, ef-fetti personali. Tutto fu sequestrato, tuttovenne consegnato al Deutsche Winterhilfe,il servizio per l’aiuto ai civili tedeschi in in-verno.

Anche il comunista di Marsiglia ebbe lafortuna di arrivare vivo al giorno in cui i GIamericani entrarono a Buchenwald. Lag-giù, narrano i dossier di Bad Arolsen, si po-teva morire per caso. Specie il 20 aprile,compleanno di Hitler. Era vanto d’ogni co-mandante di lager far uccidere trecentoprigionieri come regalo personale al Füh-rer. Ecco il Totenbuch, il libro dei morti, diBuchenwald: «giustiziato», «giustiziato»,«giustiziato»… Nome, data di nascita, oradell’esecuzione: una ogni due minuti. Ledonne ai lavori forzati, se concepivano figli,erano condannate all’aborto forzato. A me-no che il padre fosse un arianissimo ufficia-le tedesco.

Il tempo scorre ma non cancella la Me-moria, dice Jost sorridendo per la primavolta nel nostro lungo colloquio. «Io sonofelice di ricevere qui ogni giorno studenti discuole superiori tedesche. Li aiuto a ricor-dare, a capire. E sono felice anche d’un al-tro fenomeno. I sopravvissuti ci chiedeva-no di rado informazioni e aiuto, e ancor me-no i loro figli: avevano fretta di ricomincia-re dimenticando. Ora i nipoti sono grandi,e chiedono: hanno voglia di sapere cosa fuquella grande tragedia vissuta dai nonni,che ai loro bambini non fu mai raccontata».

BUROCRAZIA INSTANCABILEIn bianco e nero, da sinistra: il lager di Dachau;

il suo capo, Hans Otto Koch; bambini a Buchenwald

Intorno, oggetti sequestrati agli internati e schede

della burocrazia dei campi di concentramento

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la memoriaNaufragi

Poco prima della mezzanotte del 25 luglio di cinquant’anni fail transatlantico italiano diretto a New York si inabissavadopo essere entrato in collisione con una nave svedeseOggi un libro ci restituisce la cronaca di quelle ultime oredrammatiche, segnate dagli errori degli uominima soprattutto dai capricci del destino

I demoni dell’Andrea Doria,

Il 25 luglio 1956 l’Andrea Doria, uno dei più lussuositransatlantici italiani, di 29mila tonnellate, stava navi-gando nell’Atlantico, ed era quasi giunto al terminedella traversata. Partito da Genova, era diretto a NewYork, dove era atteso la mattina seguente. Lo stessogiorno, una bella nave svedese di dimensioni poco mi-

nori, la Stockholm, seguiva larotta inversa: partita da NewYork, era diretta a Copenaghen ea Goteborg. Mezz’ora prima del-la mezzanotte le due navi entra-rono in collisione, e il giorno suc-cessivo l’Andrea Doria, colpita amorte, affondò; la Stockholm,avendo subito danni minori,rientrò a New York. Avvennedunque, quella notte, una dellepiù gravi sciagure nella storiadella navigazione. Di chi la col-pa? Alvin Moscow, giornalistaamericano, ricostruì l’evento inun libro, preciso come un attogiudiziario e avvincente comeun romanzo, che adesso, a cin-quant’anni di distanza, vienepubblicato per la prima volta inItalia (Andrea Doria, Mondadorieditore).

Eccoci dunque, a partire dalpomeriggio di quella giornatafatale, nella plancia ora di unanave, ora dell’altra, accanto agliufficiali e ai timonieri. La giorna-ta estiva è tranquilla, l’oceano ècalmo; solo lo attraversano lun-ghe onde oceaniche, del tuttoinnocue.

Piero Calamai, comandantedell’Andrea Doria, un uomo dicinquantotto anni, genovese diorigine, appartenente a una fa-miglia di marinai (un fratello, colgrado di contrammiraglio, si tro-

va in quel periodo alla direzione dell’Accademia di Livorno),ha navigato tutta la vita. Taciturno, quasi timido, preferiscestare sul ponte di comando piuttosto che in compagnia deipasseggeri. Nel pomeriggio di questa giornata di luglio escedi tanto in tanto sull’aletta laterale, come fa spesso: fiuta l’a-ria. E ora dice (sono le 14,40): avremo nebbia. Infatti la nebbiaverrà. Niente di strano: la nebbia è frequente nei mesi estivi.Calamai ridurrà la velocità, ma di poco: da 23 nodi a 2l. Le re-gole della navigazione prescrivono una riduzione più severa,

tale da consentire di fermare la nave in uno spazio pari allametà della visibilità: pressoché impossibile. Ma c’è il radar.

Passiamo ora sulla plancia della Stockholm. Il comandan-te, Gunnar Nordenson, poco più di sessant’anni, grandeesperienza anche lui, fa una breve ispezione, poi si ritira. Tut-to come sul Doria, si direbbe. Con una differenza che avrà ilsuo peso: intorno alla Stockholm non c’è segno di nebbia. Co-sì che Ernst Carstens, il giovane ufficiale che assume la re-sponsabilità della rotta nella notte fatale, un ragazzone diventisei anni che ne dimostra sedici, è tranquillo mentre tie-ne d’occhio il timoniere, un ragazzo danese che ogni tanto sidistrae. Una traversata come tante altre.

C’è il radar, come si è detto. Oggidì, grazie a un miracolosostrumento che si chiama Gps, chi naviga sa sempre, con pre-cisione estrema, dove si trova, e può chiedere dove si trovanogli altri. Cinquant’anni fa, invece, si calcolava la propria posi-zione secondo la navigazione stimata (numero delle migliapercorse su una data rotta); l’effetto della corrente bisognavaindovinarlo (o calcolarlo col sestante, o col radiogoniometro).

Quanto alle altre navi che navigano nella zona, il radar in-dica la loro presenza, ma non la loro natura: può trattarsi diun peschereccio o di una corazzata. Quando scende la nottedel 25 luglio, i radar sono in funzione, naturalmente, tantosull’Andrea Doria quanto sulla Stockholm. A un certo mo-mento, reciprocamente, le due navi si vedono. Per gli svede-si splende anche la luna: il giovane Carstens può essere piùtranquillo che mai.

Con una riserva, però: col passare dei minuti, la nave se-gnalata dal radar della Stockholm si avvicina, ma le sue lucinon si vedono. Strano, in una bella nottata d’estate, con buo-na visibilità. Proprio strano? O non potrebbe trovarsi, la navesegnalata dal radar della Stockholm, in mezzo alla nebbia?Carstens non pensa alla nebbia: è così chiara la luna su di lui.Solo aumenta, a poco a poco, il suo disagio. E intanto si crea-no le circostanze che presto diventeranno tragedia.

Anche nella plancia della nave italiana le forze del male simettono all’opera. Calamai è sempre presente: ha cenato dasolo, in fretta, con una fettina di carne. I suoi ufficiali guarda-no il radar, lo tengono informato. C’è una nave, gli dicono, chesi avvicina. A che velocità? Con quale rotta? Si potrebbe ri-spondere con una certa precisione trascrivendo in un graficole posizioni successive dell’oggetto visibile sullo schermo.Ma la trascrizione in grafico non è compito di Calamai, che ol-tre tutto appartiene a una generazione precedente a quellacresciuta col radar. L’ufficiale al radar, d’altra parte, non ri-tiene necessaria la trascrizione: non è solito farla. Dice chel’altra nave incrocerà il Doria sulla dritta. È vero che l’incro-cio ideale è quello in cui ciascuna delle due navi mostrerà al-l’altra il fianco sinistro: luce rossa (quella che ogni nave ha sulfianco sinistro, appunto) contro luce rossa. Ma se la distanzaè buona si può anche passare dritta contro dritta: luce verde(sul fianco destro) contro luce verde. È la decisione di Cala-mai. E così si arriva alla tragedia.

Ci si arriva perché Carstens è convinto, a differenza degli

PIERO OTTONE

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

DA GENOVA A LONG ISLAND. Sopra, l’Andrea Doria nel 1953, due anni dopo il varo. Di seguito, l’ultima ora della nave fantasma ormai in bilico sull’Oceano

IL VIAGGIO VERSO L’ABISSO. Dopo il fianco affonda la prua. Le lance di sinistra restano salde ai loro posti anche quando l’acqua arriva a coprire quasi tutto lo scafo

CENTRAL AMERICAL’11 settembre 1857, affondano

con lei nell’Atlantico, per un uragano,

400 persone e 15 tonnellate d’oro

Il panico coinvolge anche i mercati

I DISASTRI

RMS ATLANTICSi scontra con una roccia

sottomarina vicino all’isola

di Meagher, Canada, nell’aprile

del 1873. Muoiono in 546

SS NORGECola a picco il 28 giugno 1904 sulla

scogliera di St. Helen nell’Atlantico

I morti sono 635 e i superstiti

attendono otto giorni i soccorsi

FIGLI RITROVATI/1Emma Ponzi, del New

Jersey, ritrova il figlio

Antonio sano e salvo

C’è nebbia, il radar segnalala presenza di un’altra imbarcazione

Il comandante Calamai decidedi incrociarla sul fianco destro: luce

verde contro luce verde

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tragedia greca sull’Oceanoitaliani, che le due navi si incroceranno sinistra contro sini-stra, a una distanza di sicurezza. Comunque, sempre turbatodal fatto che non vede le luci dell’altra nave, per eccesso diprudenza decide di accostare qualche grado a destra, in mo-do da aumentare la distanza. Calamai, invece, è convinto chel’altra nave sfilerà alla destra dell’Andrea Doria: e anche luidecide, per eccesso di prudenza, di aumentare la distanza, ac-costando a sinistra.

Le forze del male hanno così compiuto l’opera nefasta. Saràcollisione.

Cedo la parola ad Alvin Moscow. Sulla plancia dellaStockholm, «Carstens, ritornato sull’aletta di sinistra, fissavale luci con il binocolo. Poco prima aveva dato un’occhiata alradar. Mentre era al telefono (per comunicazioni di servizio)non aveva visto l’altra nave che cominciava ad accostare inmodo da passare davanti alla prua della Stockholm. La suamente non aveva registrato il cambiamento di posizione del-l’eco radar. E nemmeno quando aveva guardato la nave dal-le finestre della Stockholm, mentre andava verso l’aletta, siera reso conto di quello che stava accadendo. Ma quandogiunse sull’aletta, quel che vide lo agghiacciò. Non si trattavapiù, come aveva dato per scontato, di un passaggio a distan-za di sicurezza. Davanti a sé vide l’enorme murata di una co-lossale nave nera, sfavillante di luci come un parco di diverti-menti, che si parava di fronte allo Stockholm. In mezzo a quel-la fantasmagoria, vide brillare un fanale di via verde. Era lamurata di dritta dell’altra nave!».

Ora ci trasferiamo sulla plancia dell’Andrea Doria: «Il capi-tano Calamai vide l’altra nave, prima il profilo indistinto e poila prua, sbucare dalle tenebre davanti all’Andrea Doria. Quel-la prua slanciata sembrava puntare diritta verso di lui, fermoin piedi, impietrito, sul ponte di comando, consapevole che,qualunque cosa facesse, la sua nave non poteva sottrarsi alsuo destino. All’ultimo momento, l’istinto di conservazioneprevalse. Il capitano Calamai cercò di sfuggire all’orrore diquello spettacolo indietreggiando verso la porta della timo-niera. Fu allora che la Stockholm colpì».

Di chi la colpa, dunque? Vi sono stati errori, certamente, dauna parte e dell’altra; vi sono state trasgressioni; ma errori etrasgressioni relativamente lievi, come quella di non fermarela nave quando la visibilità è scarsa: nessuno lo fa. Forse vi so-no state imprecisioni nelle segnalazioni dei radar. Da unaparte e dall’altra, tuttavia, nessuno ha trascurato il suo dove-re. Uomini esperti, con lunga esperienza alle spalle, si sonoimpegnati al meglio della loro capacità.

A me sembra dunque che la sciagura del 25 luglio 1956 siastata soprattutto, come una tragedia greca, l’opera del fato: lanebbia che copre una parte della zona, non l’altra; il divariofra posizione reale e posizione presunta; la prudenza che in-duce gli uomini al comando delle due navi a prendere misu-re che dovrebbero aumentare la sicurezza e invece portanoalla collisione. La conclusione extragiudiziaria della sciagu-ra, avendo i due armatori deciso di pagare ciascuno i propridanni, mi sembra una conferma di questa conclusione, an-

che se i danni della società italiana erano molto superiori aquelli degli svedesi.

La ricostruzione di Alvin Moscow non si ferma alla collisio-ne. Lo scafo del Doria, con un’inclinazione di trenta gradi, ri-mane a galla per altre dodici ore; vi sono state scene di pani-co e scene di eroismo, e l’autore le racconta con precisione.Qualche esempio? Un ragazzo di tredici anni (citato con no-me e cognome) va su e giù per la coperta inclinata, passa fra ipasseggeri, cerca i genitori: tuttigli dicono che si saranno messi insalvo, uno che lo conosce cercadi alleggerire la tensione e glichiede se vuol fare «una partitel-la di ping pong», il ragazzo è be-ne educato e risponde «no, gra-zie». Presto si renderà conto chei genitori sono stati uccisi dallaprua della nave svedese, non livedrà mai più. C’è un prete chedà l’assoluzione generale, un al-tro che la nega, ritenendo chenon sia il caso.

Sono dolorose, per noi, le pagi-ne che descrivono lo stupore de-gli svedesi quando vedono arri-vare, sulle prime scialuppe di sal-vataggio (alcune mezzo vuote)uomini dell’equipaggio primadei passeggeri. Fra le navi cheportano soccorso la più impor-tante è l’Ile de France. Le vittime,alla fine, saranno una quaranti-na, su oltre mille persone.

Nella parte finale del libro sia-mo informati sulle sedute del tri-bunale che precedettero l’accor-do extragiudiziario, sulla perso-nalità degli avvocati e sul loro ca-rattere: non manca nulla. Nor-denson soffrì di una lieve trom-bosi cerebrale durante ildibattimento; Calamai, che soloall’ultimo momento, e con gran-de riluttanza, aveva acconsenti-to a lasciare la nave invece diaffondare anche lui (gli altri ufficiali minacciarono di resta-re a bordo se non li avesse seguiti) era ormai un uomo di-strutto, invecchiato di dieci anni, con le spalle curve e losguardo spento.

Si può trarre una lezione, da questa tragedia? Certo, essa in-segna che le insidie del mare sono sempre all’agguato, anchesu navi sicure, con equipaggi provetti. Ma questo non è solovero del mare: dobbiamo pur dire che la sicurezza totale nonc’è mai, in nessun momento della vita.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 28 MAGGIO 2006

La Stockholm sceglie invece la manovrasul fianco sinistro, luce rossa controluce rossa. I colossi vanno cosìuno verso l’altro e si scontrano: alla finei morti saranno una quarantina

LA CATASTROFE MINUTO PER MINUTO

Martedì 30 maggio esce in libreria “Andrea Doria”

(Mondadori, 420 pagine, 10,40 euro) di Alvin

Moscow. È la ricostruzione della vicenda prima,

durante e dopo la notte della catastrofe

dalla collisione alle scene di panico alle leggende

che fiorirono sulla nave come quella sui presunti

tesori a bordo inghiottiti dal mare

LA LUNGA AGONIA. Sopra, l’Andrea Doria nella notte della collisione è già inclinata. La mattina dopo il fianco di dritta incomincia a immergersi

L’ULTIMO ATTO. Dell’Andrea Doria resta a galla la poppa mentre le lance si staccano. È questa l’immagine che fa vincere il Pulitzer al fotografo Harry Trask. Poi, la fine

TITANICIl 14 aprile 1912 urta un gigantesco

iceberg durante il viaggio

inaugurale da Southampton

a New York. I morti sono oltre 1.500

I DISASTRI

VALBANERALa affonda a Cuba un uragano

nel settembre del 1919. Parte del relitto

riemerge dopo qualche giorno,

ma senza i corpi. Spariti in 488

DOÑA PAZAffonda al largo delle Filippine

il 21 dicembre 1987. Poteva trasportare

1.518 persone, ma a bordo

erano oltre 4mila, quasi tutti morti

FIGLI RITROVATI/2L’attrice Ruth Roman

ritrova su una banchina

del porto il figlio Dickie

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i luoghiGrandi fotografi

Ci sono ancora i vigili, in piedi, sul Corso, a presidio diquel crocicchio per tanti versi fatale. Solo che nessu-no, oggi, nessun pedone, nessun intrepido motorini-sta, o privilegiatissimo automobilista, si sognerebbemai di depositare un dono, il 6 di gennaio, per onora-re la Befana della Polizia municipale.

E invece 55 anni orsono, quando con fulminante infallibilitàHenri Cartier-Bresson, le spalle a piazza del Popolo, il tronco orien-tato verso piazza Venezia, Palazzo Chigi sulla destra, a sinistra la Ri-nascente, ecco, nel tempo in cui il Maestro metteva in azione l’oc-chio meccanico della sua Leica, i vigili urbani ottenevano ancoradai cittadini romani un tributo di gratitudine e forse anche d’inco-raggiamento. Così la sua foto, pregevole anche per il riflesso dellaluce attraverso i palloncini, mostra una specie di gruppo scultoreoin uniforme da pizzardone, e ai suoi piedi pacchi e pacchetti, fioc-chi, misteriosi bidoni “Alemagna” e bottiglie di vino.

Era il 1951. Una dozzina d’anni dopo la Befana dei vigili si esaurì.In modo anche un po’ ripugnante, tocca aggiungere, perché dive-nuti troppi e troppo cattivi, gli automobilisti della capitale scelseroproprio quel giorno per vendicarsi delle multe recando in dono —si disse — cibi e bibite d’innominabile provenienza organica. Sictransit gloria mundi.

Ma anche così, per vie traverse e ribaltamenti di senso, continuaad accrescersi la fama non solo artistica e documentale del piùgrande fotografo del mondo. E pure il suo Omaggio a Roma, comes’intitola la mostra di Palazzo Braschi.

Però intanto nessuna fantastica bambinetta attraversa più piaz-za dei Ponziani, a due passi dall’ex porto di Ripa Grande, con un bot-tiglione in braccio. Ci sono dei lavori in corso, proprio in questi gior-ni, e il bar non trova pace come dimostra il cartello «In vendita». Daisampietrini sgorgano ancora, ovunque a Trastevere, misteriosi ri-gagnoli: ma per il resto la piazza dove visse Santa Francesca Roma-na è così fitta di lamiere da trasformarsi in una non-piazza.

E quei ragazzi che vendono fiori in un’altra eccezionale foto nonsono extracomunitari, ma romani, o al massimo “burini”, campa-gnoli. Vero è che Pier Paolo Pasolini rinveniva nei loro tratti qual-cosa di persiano (Alì dagli occhi azzurri s’intitola un suo libro del1965) e comunque di poetico. D’altra parte l’immagine di quella fa-migliola che si “accomoda” sulla Ve-spa (papà, mamma e due figli) non èstata ripresa in India, ma in una di quel-le periferie romane nelle quali di lì a po-co — era il 1959 — Pasolini avrebbe gi-rato Accattone.Con il che, più che l’en-nesima “Roma sparita”, Cartier-Bres-son coglie una Roma a strapiombo neltempo e nello spazio. La Città Eterna,la sua piena e invisibile suggestione.

Purtroppo non è dato sapere dove ilMaestro viveva e chi frequentava nellaRoma degli anni Cinquanta. Ma certoquei frequenti soggiorni — le foto del-la mostra riguardano gli anni 1951,1952 e 1959 — non dovevano troppodistogliere il suo sguardo dalla quoti-diana epopea che andava a cercarsi ingiro per il mondo, saltabeccando leg-gero fra gli ultimi giorni del Kuomin-tang e la cremazione di Gandhi.

Solo un genio scomodissimo, dopotutto, solo chi era riuscito a trasfor-mare il reportage in arte poteva dire:«Per quanto riguarda la fotografianon capisco nulla». Per Cartier-Bres-son, infatti, la questione non era ca-pire, ma guardare, riconoscere, sen-tire. L’ordine, a quel punto, riprende-va a scorrere; tutto si ricollocava alsuo posto. Fotografare, diceva, «èprendere in trappola la vita», oppure «trattenere il respiro», o an-che «registrare in una frazione di secondo l’emozione e la bellez-za della forma». Nulla che potesse davvero comprendersi conl’intelletto. Altro non era, la fotografia, per l’ex assistente di JeanRenoir, se non «una mannaia che nell’eternità coglie l’istante chel’ha abbagliata». La sua stessa macchina fotografica, quella sua

prima e ultima Leica, era «un blocco di schizzi, lo strumento del-l’intuito e della spontaneità».

Dunque, Roma. La Roma della Civiltà Cattolica e del casoMontesi, di De Gasperi e di Togliatti, di Claudio Villa e della Ma-gnani, di Moravia, di Gadda, di Flaiano, di De Sica, di Fellini. AFontana di Trevi, dove Cartier-Bresson acchiappò al volo ungrappolo di giovanotti che si sporgevano a parlare con una invi-sibile presenza femminile, stavano per girare o appena avevanofinito di girare la famosa scena del bagno notturno di Anita Ek-berg.

Stile asciutto, essenziale, ma anche violazione di armonie pre-stabilite, massacri, ecatombi. Così sembrano di marmo pure lebianche carogne sventrate del mattatoio testaccino: a bracciaconserte, un lavorante guarda altrove, come se quello spettaco-lo di naturalezza barocca non lo riguardasse. E se a tratti l’istan-te decisivo coincide con la profezia — lungo le scale dai muri scre-polati, su quel balconcino affollato di ragazzini, le carte da giocose la combattono ormai con i giornaletti, simbolo dell’imminen-te cultura di massa — per fortuna ci sono anche grazia e riposo,nella vita. Per cui quel signore anziano con il cappello che leggeil giornale appoggiato alla fontana del Pantheon appare di granlunga pacificato, e forse addirittura consolante.

Un fatto di traiettorie. Non di rado le foto di Cartier-Bresson in-vitano a guardare chi guarda, a spiare la mira degli sguardi altrui.E allora sono miracoli di geometria, quali soli ne può generare unocchio educato dalla grande arte pittorica. C’è un prete, per dire,immerso nella lettura, al cimitero del Verano, le scarpe nere e lu-cide, la posizione compita. Ma il vero protagonista della foto è unangelo di pietra che gesticola sopra di lui. Anzi a veder bene ce n’èpure un altro, piccoletto. Angeli che pregano, annunciano, oc-cupano spazi e volumi, piccoli grandi angeli romani che ineso-rabilmente rinviano al Giudizzio universale di Giuseppe Gioa-chino Belli: «Cuattro angioloni, co’ le trommme in bocca / semetteranno uno pe’ cantone / a sonà: poi co’ tanto de voscione /cominceranno a dì: fora a chi tocca»...

Roma ringrazia Henri Cartier-Bresson del suo omaggio. Ro-ma, del resto, sarà diventata cattiva con i suoi vigili urbani e per-fino con se stessa, ma con i veri artisti, forse, ancora no.

FILIPPO CECCARELLI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

La Roma mai vistadi Cartier-Bresson

CENTRO E PERIFERIANella foto grande, la befana dei vigili urbani

a via del Corso. Nelle altre immagini in questa

pagina, momenti di vita quotidiana

nella Roma popolare dei primi Cinquanta

Vanno in mostra immagini ineditedel maestro francese, scattate

tra il 1951 e il 1959 nella Città EternaTestimoniano un passato scomparso

e anche una perduta capacità di guardare

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 28 MAGGIO 2006

Verso la fine degli anni Cinquanta ero un ragazzo ab-bastanza sveglio. Ma francamente non mi ero accor-to — come non se n’era accorto Cartier-Bresson, al-trimenti avrebbe lasciato qualche traccia — che dal-le parti di via Veneto, a Roma, si svolgeva ogni giornouna recita straordinaria chiamata «Dolce Vita», che

aveva trasformato la provincialissima-da poco internazionale Ro-ma nel luogo perverso dove un’aristocrazia decadente celebrava isuoi riti amorosi insieme con un fritto misto di mondani, soi disantintellettuali, giornalisti (ma quando mai?) e troie.

Di recente c’erano molti segnali, era vero, che la Roma di sempre,con le strade della periferia invase ogni mattina dalle pecore dell’a-gro, il Frascati, gli stornelli, il popolano de core e de coltello, la gre-vità dei modi, la cucina con cibi da città assediata, stesse in qualchemodo cambiando. Il turismo, dopo il film Vacanze Romane, avevapreso le proporzioni di uno tsunami. A Cinecittà si giravano cento-cinquanta film l’anno. E sui giornali si erano lette alcune storie dimalaffare cinematografico, con Lui che aveva “menato” Lei tra i ta-voli del caffè ed altri incidenti. E un principe, di quelli “boni”, avevasposato un’attrice. Ma non per questo qualcuno aveva gridato alTramonto dell’Occidente, come avevano fatto dopo la Prima guer-ra mondiale. Invece stavolta c’era Ennio Flaiano che «non si ritro-vava più» a Roma, come dieci anni prima, quando era arrivato inqualità di provinciale di genio. Seccato per essere considerato «di-vertente», sempre incerto tra il mestiere dello sceneggiatore e quel-lo dello scrittore, aveva lo svantaggio di chi faceva non bene ma be-nissimo tute e due le cose, e così l’incertezza aumentava. C’era Fe-derico Fellini, non ancora «il Grande Bugiardo», nel pieno delle suedoti d’incantatore che si trascinava dietro dall’infanzia un tale car-rozzone di meraviglie da circo da bastargli per gli anni a venire, re-duce dal successone dei Vitelloni.

Tirando fuori dal cassetto il seguito dei Vitelloni, che si chiamavaMoraldo in città, i due compari si accorsero che il soggetto era statosorpassato dai tempi, e si buttarono su quegli scarni dati di crona-ca, lavorando sul colore: abitudine pessima esecrata dai giornalistia parole ma praticata largamente. Così cominciarono a battere viaVeneto con il quadernetto di appunti, che durò un giorno, finendoper sedersi nei caffè accanto agli amici del Mondo. La sceneggiatu-

ra del film, che rispecchiava la realtà di Roma quanto le novelle del-le Mille e una notterispecchiavano la vita di Bagdad o del Cairo, ven-ne scritta in tre mesi nella casa di Ennio a Fregene. E quando Felliniritornò a via Veneto per girare il film, la trovò semivuota perché gliavventori della tentacolare strada, che doveva stare al lusso e voluttàcome Broadway stava agli spettacoli, dopo la tisana per il catarro sierano scusati dicendo che dovevano svegliarsi presto. Così il regi-sta fu costretto a chiedere agli amici di non muoversi dal caffè.

Il film piacque moltissimo, ed era un capolavoro con delle pec-che. Solo la bravura di Mastroianni, che per l’occasione si era fattostirare i riccioli da ciociaro e aveva indossato una giacca chiara diPiattelli e un paio di occhiali scuri tra il play boy e il mafioso, riuscì arendere plausibile la figura così fasulla del giornalista mondano. Ilritratto vero di Roma Fellini lo fece qualche anno più tardi nel filmomonimo, e faceva riferimento ad una Roma precedente a quellaimmaginata della Dolce Vita. Ricordate il “paino” che si alliscia i ca-pelli tenuti schiacciati da una retina stando nel terrazzino in piazzaSan Giovanni, e non ha nessuna intenzione di muoversi, e la moglieche lo vorrebbe giù in strada: «E vie giuù» «T’ho detto no, none!» «Edài, viè giù» «None, come te lo devo dire...». Tutto così per qualcheminuto. Irresistibile.

Il cinema significava per ragazzi intraprendenti avere la possibi-lità di lavorare come comparsa: 1500 lire al giorno, cestino compre-so per i film sull’antica Roma e mitologici. Si girava dalle parti di Ostiao a Cinecittà, e volendo rendere le battaglie più verosimili per le par-ti dei romani prendevano i giovanotti di Ostia e per quelle dei carta-ginesi, certi bulletti di Fiumicino. I due gruppi erano fieramente av-versi per via delle squadre di pallone e se le davano toste. Le compar-se femminili venivano tutte dai ceti popolari, perché dovevano esse-re «bone sotto panni», anche vistose, con i pepli che non trovavano ilvuoto ricadendo sul corpo, e disponibili. Mai vista una compagna discuola che andasse a lavorare come comparsa, era come andare aprostituirsi. Me le ricordo, le mie compagne, come delle ipocrite chemiravano al sodo, cioè a un buon partito, tutte casa e chiesa in com-pagnia di mammà. Si scatenavano solo oltre confine, sapendo chenessuno o quasi avrebbe riferito, e conoscerle a Parigi o a Londra erasempre molto divertente. Ma a Roma bisognava fare delle corti asfis-sianti e questo spiegava l’esodo in un certo senso forzoso ma libera-

torio verso Inghilterra o la Svezia.Con una ragazza conosciuta a Stoccol-

ma che si chiamava Ulla ho attraversatotutto il mezzogiorno d’Italia in lambret-ta, probabilmente il più bel viaggio dellamia vita. Per mantenersi agli studi di filo-sofia Ulla lavorava come infermiera in unospedale di Stoccolma: se penso a lei micompare la visione di una leggiadra in-fermiera con la crestina montata che al-le sei e mezza della mattina mi saluta perandare a lavorare mentre io controlloche mi abbia lascito sul comodino il ter-mos con il caffè e lo zabaione come le ave-vo insegnato. Che vergogna. Il più gran-de desiderio della ragazza era di fare unviaggio in Sicilia ed io le avevo promessoche se i miei esami al primo anno di uni-versità fossero andati tutti bene, sarem-mo partiti da Roma in lambretta. L’annosuccessivo gli esami andarono benissi-mo, la ragazza arrivò due giorni dopo intreno e l’indomani partimmo all’albaportandoci dietro un paio di costumi, unpallone e qualche camicia. In quegli an-ni per un ragazzo di Roma della mia etàl’Italia a sud di Salerno era completa-mente sconosciuta, come il centro del-l’Africa, e tutto fin dall’inizio ci sembròmeraviglioso. Ci fermavamo ogni quat-tro o cinque chilometri per tuffarci in un

mare ovunque incontaminato e dormivamo dove capitava. Quan-do arrivammo a un passo panoramico sulla litoranea da dove si ve-deva il golfo di Sapri, simile a un fiordo violetto, Ulla si strinse a medicendo: «Tutti questi profumi mi stordiscono. Mi sembra di esse-re nel giardino di Klingsor». Io non sapevo chi era Klingsor, ma fecidi sì con la testa e ripartii in direzione di Vallo Lucano.

STEFANO MALATESTA

Quei magici Cinquantala vita come un film

MESTIERI CHE CAMBIANOQui sopra, un venditore di fiori in piazza

A sinistra, l’uccisione dei bovini nel mattatoio

Nelle foto in alto, seminaristi e sacerdoti

di fine anni Cinquanta

LA MOSTRA

L’esposizione “Henri

Cartier-Bresson Omaggio

a Roma — Ritratti” sarà

aperta dal 31 maggio al 29

ottobre, presso il Museo

Palazzo Braschi, nella

capitale. Si potranno

ammirare due raccolte

di scatti dell’autore: una

di foto inedite scattate

a Roma nei suoi soggiorni,

l’altra dedicata ai ritratti

Negli anni in cui Cartier-Bresson fissai volti della “sua” Roma, la città attraversaun confine: da provinciale bella addormentataa capitale internazionale del cinemae della cultura. Così la racconta un testimone

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Un grande fotografo incontra un grande scrittore e gli propone un reportagemai tentato: fermare le immagini del suo mondo reale, nel nord-ovestdegli Stati Uniti, per dare visibilità a quello che è anche il suo mondo

letterario. Ne è nato “Carver Country”, un libro che affianca gli scatti di Bob Adelmanalle parole del narratore e che ci fa entrare a occhi aperti in quel paese “minimalista”dove già ci siamo addentrati come ciechi, appesi alla mano di chi racconta

Il più memorabile (per me) deiracconti scritti da Raymond Car-ver è quello intitolato Cattedrale.Chi non lo ha letto può guardarele foto del mondo di Carver ri-prodotte in questa pagina con

interesse superiore rispetto a chi, inve-ce, l’ha fatto.

Per spiegarmi a entrambe le catego-rie debbo riassumere bre-vemente quel che accadein Cattedrale. La voce nar-rante racconta di una serain cui la moglie gli annun-cia l’arrivo di un vecchioamico, per cui aveva lavo-rato a Seattle. La caratteri-stica fondamentale del-l’ospite è di essere cieco.Nel corso degli anni i duesi sono tenuti in contattoscambiandosi nastri regi-strati in cui si raccontava-no le rispettive vite: il ma-trimonio e il divorzio di lei,la recente vedovanza dilui. Il narratore è infastidi-to, non è chiaro se lo sia dipiù da questa complicità odal fatto di doversi con-frontare con una creaturasenza vista, esperienzaper lui inedita, alle cui in-sidie non si sente preparato. Tenta diesorcizzare il disagio con la sciocchez-za: «Forse potrei portarlo al bowling».

Poi il cieco arriva e la prima cosa checolpisce il narratore è che abbia «ungran barbone». La seconda è che nonporta occhiali scuri, mostrando occhiche rivelano soltanto poco a poco la lo-ro diversità. La terza è che fuma una si-garetta dopo l’altra («ricordavo di averletto da qualche parte che i ciechi nonfumano perché, si diceva, non poteva-no vedere il fumo che esalavano»). E co-munque a un certo punto della lungaserata in cui si mangia troppo (special-mente torta di fragole), si beve troppo(soprattutto whisky) e si guarda troppatv accadono due cose: la moglie si ad-dormenta, spingendo i due uomini nel-la landa desolata degli incontri forzati e,sullo schermo, appaiono le cattedrali.

È a questo punto che il racconto di-venta memorabile. Perché Carver è unminimalista quanto è minima l’espe-rienza che abbiamo del mondo: non ègranché, ma è tutto quel che abbiamo.Scrive di cose che sono il massimo chesia possibile raccontare. Il cieco dice:«Cattedrali. Se proprio vuoi saperlo,non ho un’idea molto chiara di cosasiano». Il narratore barcolla, fissa a lun-go una cattedrale sullo schermo e sichiede «come cominciare a descriver-la». Metti che ne vada della tua vita: co-me descrivi la cattedrale a un cieco? Ciprova, invano, finché il cieco ha un’i-dea: gli fa prendere carta e penna e di-

segnare una cattedrale. Gli tiene unamano sulla mano, mentre lo fa, a occhichiusi, lo segue nel quadrato che sem-bra una casa, sul tetto, lungo i campa-nili, intorno agli archi delle finestre, neicontrafforti, gli fa mettere dentro lagente, poi gli fa chiudere gli occhi.

«Be’? Stai guardando?».«Grandioso».Ecco, adesso anche chi non ha letto

Cattedrale può guardare le fotografiedel mondo di Carver. Quale sia il colle-gamento tra loro e il grandioso edificionel buio sarà chiaro alla fine. Dai di-spacci fotografici che ci spedisce BobAdelman Carver Country è una dellegrandi e sconosciute capitali america-ne, una delle tante città che si riprodu-

cono come non luoghi lungo la strada:motel con la tripla A, sagome di cowboya cavallo arrampicate sui pali della lu-ce, case sepolte nella neve, salotti di fin-ta armonia, gazebo sul retro, camerie-re al diner con la casacca rosa inamida-ta e i commenti inappropriati appicci-cati alla gonna, la fatica scaricata sullescarpe da ginnastica bianche con lasuola alta, lo squallore degli interni piùsovrastato che riscattato dall’immen-sità degli esterni.

Qui la strada principale non è “mainstreet”, ma la “desolation row” cantatada Bob Dylan («a mezzanotte gli agentie la ciurma sovrumana escono fuori earrestano tutti quelli che sanno più diloro, li portano nella fabbrica dove la

macchina dell’infarto viene legata alleloro spalle e poi il kerosene viene por-tato a valle dalle fortezze da assicurato-ri che controllano nessuno scappi dalvicolo della desolazione»), ci camminail padre di Bruce Springsteen come luilo racconta nell’introduzione parlataall’esecuzione dal vivo di The River, inpuro stile Carver («mi aspettava, di not-te, in cucina e ogni volta la prima cosache mi chiedeva, quando rincasavoera: che cosa pensi di fare della tua vi-ta»), insieme con il Mr. Jones dei Coun-ting Crows («passami da bere Mr. Jo-nes, credi in me, aiutami a credere inqualcosa, voglio essere qualcuno checrede in qualcosa»), il James Gandolfi-ni disperatamente vivo e moribondo di

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

Da Eureka a Yakimacercando nel buio

l’America che non c’è

GABRIELE ROMAGNOLI

Qui si descrive una “metropoli” grandee sconosciuta: motel con la tripla A,sagome di cowboy sui pali della luce,squallore di interni e esterni sconfinati

CarverRaymond

La strada principalenon è “main street”È piuttostola desolation rowcantata da Bob Dylan

AL LAVORORaymond Carver a Syracuse, stato di New

York, nel 1984. Nella foto grande, la sua

scrivania. A destra, il salotto della casa

di Port Angeles, stato di Washington,

e il taccuino dello scrittore. Il testo dice:

“Non posso. Sono troppo nervoso

per mangiare la torta”

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Romance & cigarettes e tutta l’umanitàdolente di Happiness di Todd Solondz.

Carver Country è un luogo dell’imma-ginario conficcato nella realtà, quel cheuna corsia d’ospedale qualsiasi era pri-ma di diventare quella narrata in Vitami-ne(«firmavo il cartellino per otto ore e poime ne andavo a bere con le infermiere»),un bar qualunque prima di trasformarsinel bar di Vuoi star zitta, per favore? («fis-sato a una grata metallica c’era un grossoguscio di vongola al neon da cui spunta-vano un paio di gambe umane»). Adel-man ha girato a lungo perché noi possia-mo oggi fare un tour visivo in questo Pae-se che non c’è. Ci ha riportato volti e og-getti, repertato il fantastico mostrando-cene, in negativo, la matrice. A un certopunto sbuca pure il cieco, quello che ha

ispirato Cattedrale. La didascalia ci infor-ma che il suo vero nome è Jerry Carriveau.Nell’immagine ha l’immancabile siga-retta (e un posacenere pieno di cicche), ilbicchiere di whisky e non porta occhialiscuri. Gli manca solo il barbone. Ci guar-da e ci mette a disagio. Perché? Non cer-to per lo sguardo inquietante. È che ci di-ce, come nel racconto originale, di chiu-dere gli occhi e non guardare più, nonguardare le foto, non leggere le didasca-lie, uscire da Carver Country. E qui tor-niamo a Cattedrale al suo gran finale, incui tutti hanno gli occhi chiusi.

«Be’? Stai guardando?».«Grandioso».La letteratura, quando lo è davvero, è

quel disegno a matita sulla carta (il qua-drato, i campanili, i contrafforti) e noiche leggiamo siamo la mano sulla manodi chi scrive. A occhi chiusi entriamo nelsuo mondo. Crediamo in lui perché vo-gliamo essere qualcuno che crede inqualcosa. Crediamo che, con qualchemovimento delle dita e molti sussultidell’animo, sarà capace di farci vedereuna cattedrale, qualunque cosa sia pernoi che in una cattedrale non siamo en-trati mai, come mai abbiamo attraver-sato Second Street a Eureka, mai ci sia-mo seduti alla tavola calda di Yakima emai abbiamo camminato lungo il marea Port Angeles. Ma è come l’avessimofatto ed è stato grandioso, appoggiati al-la mano di Carver, in un salotto qualun-que, senza mai aprire gli occhi e vederela televisione e, sul suo schermo, unacattedrale banalmente autentica, geo-metricamente perfetta, non storpiatadalla nostra difficoltà di immaginarla,disegnarla, entrarci dentro sederci econfessare, padre chiedo perdono, checosa pensiamo di fare della nostra vita.

C’eravamo già stati, a Carver Country,come a Ciudad de Garcia Marquez, o al’Ile de Vian. Aprire gli occhi, a volte, nonrivela niente.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 28 MAGGIO 2006

IL MONDO DI RAY

Si chiama “Carver Country - Il mondo

di Raymond Carver” la biografia per immagini

dello scrittore americano da cui sono tratte

le foto in queste pagine. Il volume (testi di Carver

medesimo, foto di Bob Adelman), edito in Italia

da Contrasto, sarà nelle librerie a settembre:

è una mappa del suo universo letterario

in cui luoghi dell’infanzia e della giovinezza

si sovrappongono agli scenari della narrativa

ISPIRAZIONEQui sopra, lo studio di Carver nella casa

di Syracuse, nello stato di New York

In basso, la cabina telefonica di Arcata,

in California, che ha ispirato

un testo dello scrittore

L’OSPITE CIECOCarver nello studio

della casa di Maryland

Avenue, a Syracuse

Qui sotto, Jerry Carriveau,

l’ospite cieco del racconto

“Cattedrale”

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NEW YORK

Lower East Side a New York. Evoca im-magini di musica salsa che fuoriescedalle finestre aperte di una casa popo-lare. O drag queen con i tacchi alti, che

sfilano di primo mattino lungo Avenue A. Oppurebattone e puttane e tipi eccentrici e tossicomani.O le luci delle macchine dei poliziotti, blu e rosse,che ruotano veloci fuori da una mescita di alcoliciassai mattiniera.

L’area è sempre stata una “walk on the wild si-de”, ben prima di Lou Reed, ma una delle cose chetendiamo a non associare con il Lower East Sidesono i giardini. Pare davvero difficilmente possi-bile che una delle aree più densamente popolateal mondo — dove sono di casa le Gangs of NewYork di Martin Scorsese — possa finire col farcievocare immagini di aiuole, bocche di leone, pe-tunie, barili di compost, macchie di verde o orten-sie. L’idea stessa di giardini che sorgono aManhattan — letteralmente all’ombra di uno deidistretti finanziari più importanti al mondo — pa-re quasi insensata.

Eppure, negli ultimi trent’anni l’area meglionota come Loisaida o Alphabet City, ha generatotutta una gamma di giardini comunitari che han-no cambiato radicalmente il panorama di quellache un tempo era una passeggiata tra eroinomanie siringhe. Realizzati su lotti di terreno abbando-nati che traboccavano di cumuli di macerie e pez-zi di cemento, i giardini sono un omaggio alla ma-gia, alla visione rivoluzionaria, allo spirito del-l’uomo, alla bellezza, alla fede, alla dignità e anche— è ovvio, considerato che questa è New York —all’avidità. Se la merda si tramuta in profumo, pri-ma o poi i mercanti arrivano strepitando.

* * *All’inizio degli anni Settanta buona parte di

New York è stata trattata con benevola indifferen-za sia dai politici sia dagli uomini d’affari. Si chiu-sero le caserme dei vigili del fuoco. Si mise il luc-chetto agli uffici pubblici. Si chiusero le stazioni dipolizia. Non si perseguirono penalmente i pro-prietari degli edifici che dettero fuoco alle loroproprietà per incassare i soldi dell’assicurazione.I fabbricati fatiscenti furono lasciati andare in ro-vina. In breve: si lasciarono andare in malora in-teri quartieri. Ciò di cui ci si dimenticò — e che di-menticano quasi sempre quanti sono al potere,allora come adesso — fu la intensa e imperituraesigenza umana di un tocco di bellezza, seppurpiccolo.

Secondo Michela Pasquali, un architetto italia-no di paesaggi che ha da poco pubblicato un suostudio intitolato Loisaida: New York City Com-munity Gardens (Linaria Books), i giardini sonoun esercizio di dinamica urbana creativa. Il libro,pieno di splendide fotografie, indaga il radicatodesiderio di avere giardini che, al pari della buonaarte, sono nati per rabbia e spontaneamente, dauno stato di necessità e dal desiderio. Il primogiardino comunitario nel Lower East Side, creatonel 1973, fu denominato “The garden of Eden”. Aquello seguì il “Liz Christy Farm and Garden” sul-la Bowery, una strada piena di ubriaconi e cian-frusaglie. Nessuno pensò granché a quel giardi-no, pareva solo che qualche sognatore vi facesseciò che di regola fanno i sognatori. Malgrado ciò,i giardini cominciarono a ricoprirsi di erba e pre-sto spuntarono un po’ ovunque in tutta la città,nei lotti di terreno abbandonati e specialmentenei quartieri più poveri come Harlem, Brooklyn eil Lower East Side.

Si andò così configurando una nuova categoriadi attivismo ambientale, una sorta di riconquistadella terra un tempo trascurata, una curiosa va-riazione sul tema della frontiera americana. In uncerto senso la gente disse: «Questa terra mi ap-partiene. Me ne starò qui e la vedrò germogliare».

I veri prodotti di questi giardini sono le mentiche gli stanno dietro. Walt Whitman una voltascrisse di ritenere che uno stelo d’erba vale più delmonotono lavoro delle stelle. Di sicuro, in un giar-dino sbocciato nell’ampia discarica degli scartidella città c’era qualcosa che catturava l’immagi-nazione della gente. Nelle margherite che spun-tavano dal cemento c’era anche qualcosa di in-traprendente, di ben piantato, di radicale, di sov-versivo, perfino di rivoluzionario. Arrivarono de-gli artisti e in quei giardini dipinsero murales. Ar-rivarono degli scultori e fecero spuntare fiori sel-vatici dalle vasche da bagno. Le famiglieiniziarono a coltivare orticelli in minuscoli lotti diterreno. Si crearono giardini cinesi. Aiuole di erbe

aromatiche. Si appesero agli alberi cassette pernutrire gli uccellini.

Oggi a New York esistono almeno ottocentogiardini comunitari e circa ottanta di essi si trova-no a Lower East Side. Gruppi di residenti del quar-tiere e di volontari ne assicurano la manutenzio-ne, investendo parte del lorotempo per un poco di pace edi quiete in giardino. Eccoliall’opera, dietro il filo spinatoe le catenelle di recinzione,che rivoltano le zolle o se nestanno seduti accanto a pic-coli stagni pieni di carpe, omeditano nei giardini cinesi,o consumano il pranzo neigazebo costruiti con materia-le di recupero. Si tratta di unesperimento di ingegnositàumana e di potere del cittadi-no comune. All People’s Gar-den. El Jardin de Los Ninos.Red Casita Garden. Perfino inomi hanno una loro poesia,una cadenza influenzata dal-la popolazione essenzial-mente ispanica.

Nessuna storia si esimeperò dall’avere un risvoltonegativo. Attenzione dun-que, là dove crescono i fiori,all’erbaccia dell’ironia. Il suc-cesso stesso di questi giardiniè la minaccia che incombe sudi loro. Non è certo una sco-perta che con i soldi non si di-scute, e gli appezzamenti di-smessi e abbandonati perqualche anno sono gli stessi ambiti oggi da pro-motori immobiliari e da politici. Il Lower East Si-de — dove uno stereotipo voleva che la gente si ad-dormentasse in compagnia degli scarafaggi — og-

gi è uno dei luoghi più ricercati della città e gli af-fitti sono balzati alle stelle. È una storia vecchia dimillenni: chi coltiva non possiede trattori. Quelliche lavorano la terra non ne raccolgono i frutti. Al-cuni chiamano questo fenomeno riconversionedi un quartiere popolare in residenziale. Altri

espropriazione. Otto anni fa sulla Nona

Strada, l’Holy Mary Mother ofGod Garden — che nome ave-va! — è stato spianato dai bul-ldozer per costruire apparta-menti in condominio. Il sin-daco Rudi Giuliani (che inqualche modo dopo l’11 set-tembre ha acquisito una buo-na reputazione) era da moltipunti di vista un fascista ap-partenente alla varietà giar-diniera. Intendeva svendere ilotti di terreno riscattati aipromotori immobiliari. Di-ceva: «Questa è l’economiadel libero mercato», «L’eradel comunismo è finita». Cosìlui e i suoi amici intimi nesvendettero parecchi. Oggisul retro dei condomini dimattoni marrone c’è un pic-colo giardinetto con un soli-tario albero nodoso. SantaMaria Madre di Dio, è il casodi dirlo!

Qualche altro giardino diNew York è a rischio e ci sonovoluti i gruppi di volontari —come i Green Guerillas o iGreen Thumb e il Better Mid-

ler’s New York Restoration Project — per arrestarela marea che li avrebbe cancellati. Le iniziative so-no prese in comune e sono fonte di un enorme or-goglio civico. Gli artisti si lasciano coinvolgere. I

bambini hanno un posto dove giocare. Vi si di-scutono le faccende che riguardano la comunità.La monotonia dello sguardo si interrompe e, di-ciamocelo, tutti abbiamo bisogno di un po’ di ver-de, anche se lo percepiamo solo con la coda del-l’occhio. I giardini non renderanno quei quartie-ri il paradiso, in alcun modo, ma di certo li riscat-tano dalla condizione precedente di area-fanta-sma disseminata di macerie.

Proprio domenica scorsa una quindicina di re-sidenti se ne stavano seduti nel gazebo fatto a ma-no dei giardini della Green Oasis sull’Ottava Stra-da. Bevevano caffè e condividevano ciambelle.Parlavano della minaccia dei promotori immobi-liari. Un’anziana signora con il cappello di pagliaha suggerito di inscenare una protesta, e un gio-vanotto in maglietta e bandana è sbottato dicen-do che «davanti ai soldi la gente se ne frega delleproteste». Lì vicino i bambini giocavano accantoalla montagnetta del compost e parlavano di unpesce in un piccolo stagno.

«Sally è morta la settimana scorsa, è andata nelparadiso dei pesci».

«Come fai a sapere che esiste un paradiso deipesci?».

«Perché esiste e basta». «E che succede se l’avessi gettata nello scarico

del gabinetto?». «Ci sarebbe andata ugualmente nel paradiso

dei pesci, solo che si sarebbe bagnata di più». Più giù lungo la strada la vita scorreva come

sempre, come invariabilmente capita in questezone. Una donna afro-americana ha attraversatola strada al semaforo, poco più in là rispetto algiardino comunitario. Un volto simile a un pezzodi terra perduta. Si è fermata e ha iniziato ad at-taccare al lampione un manifesto con la scritta“Persona Scomparsa”. Cercava Allen Green, for-se suo marito, forse suo fratello, forse soltanto unamico. Pareva triste, tanto da non poterle nem-meno rivolgere la parola. Il volantino diceva cheAllen Green si era suicidato e chiedeva l’aiuto dichiunque sapesse qualcosa. Non aveva ovvia-mente nulla a che vedere con i giardini, né col ver-de o con lo spazio, ma guardando in giro o attra-versando a piedi il vicino luogo pubblico era dav-vero possibile che Allen Green potesse alla fine es-sere trovato.

I giardini sono essi stessi un segno di speranza.

* * *A livello personale, il giardino più insolito nel

quale mi sono mai imbattuto è quello che ho sco-perto allorché effettuavo alcune ricerche per unromanzo intitolato I figli del buio, che si svolge perbuona parte tra i senzatetto dei tunnel della me-tropolitana. Sotto Riverside Park e la 98esimaStrada, in un bunker sotterraneo abbandonato vi-veva un uomo di nome Bernard Isaacs. Bernarddiceva di chiamarsi «il Signore dei Tunnel». Era unuomo robusto, alto, con le treccine rasta, facile al-l’ira e sempre pronto a dire la sua. Ma Bernardaveva anche un lato tenero e un pomeriggio mi hamostrato il suo «giardino», in un tratto ghiaiososottostante una griglia di ferro. Dal soffitto deltunnel, sei metri più in alto, filtrava qualche rag-gio di luce che illuminava il terreno per poche oreal giorno. Lì Bernard aveva piantato un albero,sotto un grande murales con gli Orologi che sisciolgono di Salvador Dalì. Era fragile e rachitico,ma era pur sempre un albero… e cresceva in dire-zione della luce. Il giorno che su un ramo ha sco-perto un’unica gemma verde, Bernard ha esulta-to di gioia.

Si sedeva lì accanto a pomeriggio inoltrato,mentre i treni Amtrak gli sfrecciavano sulla testa.Talvolta gli passava accanto furtivo un topo o daltunnel proveniva il grido disperato di qualcuno.Bernard scrollava le spalle e lanciava un sassolinoverso il topo, perché si allontanasse dal suo albe-ro. È diventato uno dei miei ricordi più durevoli diNew York: Bernard che come un emarginato diun’opera di Samuel Beckett se ne sta seduto ac-canto al suo albero sotterraneo, in un giardino dalui stesso creato, a maledire il mondo e i suoi ina-spettati lampi di bellezza.

E suppongo sia questo ciò che i giardini comu-nitari di New York rappresentano, uno stranopunto d’incontro tra spazi pubblici e privati,un’appassionata macchia di verde che dice: «Nonconta chi sono o dove sono. Ciò che io rappresen-to è ciò su cui mi trovo».

Copyright © Colum McCann 2006Colum McCann abita a New York

ed è uno scrittore. Il suo romanzo più recenteè “Dancer”, in italiano “La sua danza”

(Traduzione di Anna Bissanti)

COLUM MCCANN

la letturaMagie metropolitane

Un architetto italiano di paesaggi, Michela Pasquali,ha dedicato un libro fotografico ai sorprendentiCommunity Gardens di Loisaida, uno spicchio del LowerEast Side che da zona ultra-degradata di Manhattanoggi sta diventando di moda. Abbiamo chiestoa uno scrittore newyorkese di andare a vederli...

Questi spazi verdi, creatisu terreni traboccanti

di macerie urbane, sonoun omaggio alla bellezza

e allo spirito dell’uomo

È lo stesso successodi queste oasi a minacciarleNelle aree che le ospitano,un tempo disprezzate,ora gli affitti sono alle stelle

Un fiore cresce ad Alphabet City

Mendez mural garden

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

IL LIBRO

Le immagini in queste pagine

sono tratte dal volume “Loisaida -

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di Michela Pasquali, in uscita

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El sol brillante; 9th & C community garden; 9th & C community garden

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 28 MAGGIO 2006R

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Cento anni fa, il 3 giugno 1906, nasceva la straordinaria ballerina, cantante,attrice che dalla metà dei Venti fino ai primi Cinquanta ha incarnatoil sogno erotico di generazioni di maschi. Un mito femminile che ha lasciato

tracce nella letteratura e nell’arte ma che, negli anni di ferro della resistenza al nazi-fascismo,rivestì un ruolo importante come staffetta tra la Francia libera e la Gran Bretagna e per questonel 1975, il giorno dei suoi funerali, ebbe le ventuno salve di cannone degli onori militari

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

to avida sognando avventure e adulterii a Monte-carlo, Tangeri, Biarritz, era ancora vivo? Telefonaispacciandomi per giornalista (l’ultima professioneche all’epoca pensavo di fare), dicendo che volevointervistarlo. Lui fu molto cortese, scherzò sul suoessere ormai fuori moda: «Ne vous trompez-pas?Vous savez, je ne suis pas M. Jean-Paul Sartre…». Mapoi mi dette un appuntamento a casa sua per l’in-domani.

Dekobra abitava a Passy in un bel palazzo con sca-la di marmo e guida di velluto rosso, la data 1921 sulportone. Grande appartamento, arredo Déco, unostudio con due divani, una libreria e un piano a co-da. In quel 1958, lo scrittore di La madonna dei va-goni-letto — un libro che aveva fatto scandalo, pro-

curando a lui e all’editore Brenta-no enormi guadagni — aveva set-tantatré anni. Somigliava al suoquasi coetaneo Maurice Cheva-lier: gli stessi capelli bianchi, leguance rosee, la stessa decina dichili in più del peso-forma. Pullo-ver beige e pantaloni grigi, farfallablu a pallini bianchi. Parlammoper un’ora almeno, e lui rievocòtranquillo gli strepitosi successi diLa madone des sleeping-cars, Moncoeur au ralenti, Macao, Enfer dujeu, e i luoghi dove aveva ambien-tato le sue trame mondano-eroti-co-cosmopolite: Cannes, Deauvil-le, Marrakesh, Londra, Venezia.

Andandomene, mi fermai aguardare le fotografie sul piano acoda. C’erano Annabelle, la Dar-rieux, Sacha Guitry, Menjou ed al-

tri, ma la cornice più grande inquadrava una foto diJosephine Baker con indosso una pelliccia di cincil-là. L’aveva conosciuta? Il vecchio signore sembrò in-tenerirsi: sì, la conosceva bene ed erano ancora mol-to amici. Così tornammo a sederci, e Dekobra riper-corse la leggenda della “Perle noire”.

Il pubblico entusiasta degli ultimi Venti sino adoltre la metà dei Trenta, i capricci e le stravaganze —«les adorables folies» — di lei, i contratti mandati al-l’aria, l’andirivieni di mariti e amanti (Georges Si-menon compreso), le colazioni da “Fouquet” dovearrivava con un cucciolo di leopardo al guinzaglio.Nel 1927 avevano fatto un film insieme, La sirène desTropiques, soggetto e sceneggiatura di Dekobra. Enel ‘34 la Baker l’aveva chiamato a rivedere la sce-

Il racconto di un amico,Maurice Dekobra,scrittore di romanzi “osé”

UN CORPO FAMOSOTre locandine e manifesti

di altrettanti spettacoli

di Josephine Baker

A sinistra, la celeberrima “Revue

Nègre”, un disegno di Oris

SENO NUDOLe lunghe gambe

e il seno nudo

di Josephine Baker

in una foto

degli anni ’30

che la ritrae

in uno dei suoi

celebri costumi

di scena “osé”

A sinistra,

smoking

e cappello

a cilindro

in una foto

del 1932

per pubblicizzare

la rivista “La joie

de Paris”

al Casino de Paris

Èprobabile che mia zia avesse a quel tem-po, la fine dell’estate 1943, due amori. Lacosa certa è che trascorreva ore ed oresentendo sempre lo stesso disco. Siste-mava il grammofono in un angolo dellaterrazza sul giardino, girava la manovel-

la, poneva la puntina sul piatto. Un breve fruscio, edal grammofono si levava una voce insieme stridu-la e pastosa: «J’ai deux amours, mon pays et Paris…».A quell’ora il sole della campagna pugliese comin-ciava a declinare, le cicale già tacevano, l’afa dimi-nuiva. Finita la canzone, mia zia s’alzava dalla sdraioe faceva ripartire il disco. Quindici, venti, innumere-voli volte sino all’ora di cena, lenove o nove e mezza, quandoin terrazza s’accendeva la lucee iniziavano ad apparecchiarela tavola.

Non so come quel discofrancese fosse finito in casa no-stra. Forse fu durante uno diquei va e vieni — zii che aveva-no lasciato i loro reparti dell’e-sercito, amici ufficiali di mari-na venuti a trovarci sulla stradadel ritorno a casa — che si sus-seguirono per tutto il settem-bre ‘43. Io avevo dodici anni: ein quei lunghi pomeriggi pas-sati a sentire J’ai deux amoursimparai che cos’è l’esotico(«…la savane est belle», ripete-va il disco), e cos’è la nostalgia.

Se ripenso però ai quindicianni successivi, di JosephineBaker non trovo la minima traccia. A Parigi nell’in-verno del ‘51, per esempio, non succedeva mai chela si sentisse nominare. Il gusto era cambiato, le can-zoni s’erano fatte più tetre, e a Montmartre — dovela Baker aveva trionfato prima della guerra alle “Fo-lies Bergère” e al “Palace” — non mettevamo piede.Quell’inverno s’andava alla “Rose rouge” in rue deRennes, dove Juliette Gréco e Barbara cantavanoKosma-Prévert, Vian, Lemarque, Mouloudji, e giàcominciava a incombere la noia dei Brassens e Ferré.

Sette anni dopo, di nuovo a Parigi, cercando sul-l’elenco del telefono un nome che cominciava con“de”, l’occhio mi cadde su «Dekobra Maurice, hom-me de lettres». Dekobra, lo scrittore dei romanzi“osés” che la borghesia europea dei Trenta aveva let-

L’arte, l’amore, la guerratutte le vite della Perla nera

SANDRO VIOLA

Estate 1943, un discoche gira e frusciasul grammofonoe diffonde le notemalinconichedi “J’ai deux amours”E fa imparareche cos’è l’esoticoe che cos’è la nostalgia

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 28 MAGGIO 2006

PARIGI

Più che un ammiratore Jean-Claude Brialy èstato un amico. È lui che alla fine degli anni Sessan-ta ha riacceso i riflettori su una Josephine Baker af-faticata, delusa, già sessantenne. Quando la vedeall’Olympia, nel ‘64, Brialy ha poco più di trent’an-ni e ha già recitato per Rohmer, Godard, Rivette,Truffaut, Chabrol, Varda. La sua bellezza (il CaryGrant francese, lo chiamano) illumina la NouvelleVague, ma lui trova anche il tempo per dedicarsi adaltro. Nel ‘66 apre un ristorante sull’Ile-Saint-Louis(L’Orangerie) e una sera vi incontra un italo-fran-cese un po’ sovreccitato che lo conduce in una im-mensa proprietà in rue des Petits-Champs. «C’eraanche un piccolo teatro», ricorda Brialy, oggi piùche settantenne, ancora in grande forma, sedutonel foyer delle Bouffes Parisiens, teatro del quale èdirettore: «Io non potevo occuparmene, ma hopensato alla Baker».

Perché proprio a lei?«Perché ne aveva bisogno. Ricordo che prima di

conoscerla la vidi in una fotografia su Paris Match.Era seduta sullo scalone delle Milandes, il suo ca-stello in Dordogna, era quasi calva, una vecchissi-ma “negresse” in camicia da notte bianca, e avevaun fucile tra le gambe. La didascalia diceva: Jo-sephine Baker è rovinata, ma bisognerà ucciderlaper prenderle il castello. Anche Bardot nel ‘64 feceun appello e una raccolta di denaro, ma fu inutile.Troppi debiti. Le Milandes passarono a un nuovoproprietario».

E così la diva ebbe una nuovaribalta parigina e una resurre-zione artistica.

«Nel ‘67, a sessantun anni, laBaker debutta “Chez Josephi-ne”, il suo nuovo teatro in rue desPetits-Champs. Ricordo che ioero al Marigny in La pulce all’o-recchiodi Feydeau e la sua primacoincideva con la mia cinque-centesima replica. Avevo invita-to Anna Magnani, grande amica,la quale adorava Josephine per isuoi figli adottati, per la sua lottaper i diritti dei neri, oltre che perla sua arte».

Viene prima il gonnellino dibanane o la divisa militare? So-no più importanti le Folies Bergère e Broadway o ilcastello nel quale negli anni Cinquanta aveva rea-lizzato una città ideale, antirazzista e multirazzia-le? Il charleston nella Revue nègre o J’ai deuxamours cantata per i soldati francesi (assieme aMaurice Chevalier) sulla Linea Maginot?

«Tutto nella sua vita è stato importante perchéJosephine lo ha fatto con la stessa passione e gene-rosità. Era una donna allegra, entusiasta, disponi-bile. Faceva sempre più di quello che avrebbe po-tuto permettersi».

Si riferisce alla “Tribu Arc-en-ciel”, la tribù ar-cobaleno: dodici bambini di tutte le razze adottatinel corso delle sue tournée?

«Negli anni Sessanta, ormai adolescenti, le die-dero gran filo da torcere. Il suo quarto marito, il di-rettore d’orchestra Jo Bouillon, se ne era andato. Iomi ritrovai a fare la figura paterna. La Baker era sta-ta ricchissima, ma non aveva mai saputo ammini-strarsi. Nel ‘75, in quei pochi giorni dell’ultima rivi-sta al Bobino, avevo vietato ai bistrò della rue de laGaité di servirla. Vi entrava sempre con almenoquindici amici e pagava lei».

C’è una grande differenza tra la diciannoven-ne che nel ‘25 arriva al teatro degli Champs Ely-sées con la rivoluzionaria Revue nègre e la vec-chia diva che riempie di fiori la rue de la Gaité re-galando ai commercianti gli enormi bouquet de-gli ammiratori?

«Nessuna differenza. Le cose della vita, e Dio sa sene ha avute di tragiche, non sono mai riuscite a ina-ridirla. Negli anni Venti Parigi la ama per il suo cor-po, per la simpatia, per le smorfie e le boccacce. Ol-tre che bella e nuda, Josephine era buffa, era un’a-crobata, una contorsionista. Non dimentichiamoche poi prenderà la cittadinanza francese e che peril suo ruolo nella Resistenza de Gaulle le darà Legiond’Onore e Croce di Guerra. Non dimentichiamoche sia in Europa che negli Stati Uniti esigeva che isuoi musicisti (neri e bianchi) dormissero nei suoistessi alberghi, e che non sempre fu facile. Specienegli Stati Uniti».

L’ultima rivista è firmata Brialy. La Baker vi in-terpreta le tappe della sua vita. La prima è l’8 aprile1975; lei muore il 12. Qual è il suo ultimo ricordo?

«La rivista aveva debuttato nel ‘74 a Montecarlo,dove la principessa Grace le anticipò il denaro peracquistare una villa e installare tutta la Tribù. L’an-no dopo chiesi ospitalità ad alcuni teatri parigini.Me la negarono dicendo che Baker era ormai vec-chia e fuori moda. Accettò il Bobino, e ricordo i fio-ri, mai visti tanti fiori in vita mia, e le quattro paretidel suo camerino tappezzate di telegrammi: GoldaMeir, il re del Marocco, i Kennedy… Una mattinadopo la prima l’ho chiamata a casa. Sua sorella miha detto che Josephine si era alzata alle sei per fareun bucato. Tornata a letto non si è più svegliata. Èmorta felice, ringiovanita, appassionata. È mortacome il soldato che è sempre stata».

“Allegra e combattivafino all’ultima ribalta”

Il ricordo di Jean-Claude Brialy

LAURA PUTTI

neggiatura di Zou-Zou, il suo massimo successo ci-nematografico, coprotagonista uno Jean Gabin al-le prime armi. Il pomeriggio finì come doveva fini-re. Dekobra s’avvicinò al radiogrammofono, si-stemò un disco, e restammo venti minuti ad ascol-tare la voce di Josephine Baker: J’ai deux amours, Sij’étais blanche, Madiana, Pardon si je t’importune.

Tra la primavera e l’estate del ‘74, erano tra-scorsi sedici anni dal pomeriggio in casa Dekobra,incrociai la Baker per la terza ed ultima volta. Li-sbona ancora ferveva della “rivoluzione dei garo-fani”, e con gli amici giornalisti (Egisto Corradi,Piero Accolti, Bernardo Valli) andavamo spesso amangiare in un piccolo ristorante tra il Chiado e ilBairro Alto che si chiamava “A primavera”. Era unposto non male. Ma ad attirarmi in quel ristoran-te era soprattutto una foto appesa alla parete. Unafoto di Josephine Baker ancora giovane, ridente,seduta a un tavolo di “A primavera” — grande cap-pello nero, “chemisier” nero a grossi tondi bian-chi, orecchini, collana, bracciali — con a fiancoqualche amico.

Di quand’era la fotografia? I proprietari d’allora,figli della coppia che aveva aperto quarant’anniprima il ristorante, non lo sapevano. Tentavoquindi qualche ipotesi. Per prima cosa, veniva inmente il classico “passaggio da Lisbona” delle mi-gliaia d’ebrei e antifascisti in fuga dall’Europa in-vasa dagli eserciti nazisti, alla ricerca d’un traspor-to aereo o navale per l’America. Ma la Baker, ricor-davo, aveva militato nella Resistenza francese,dunque non s’era rifugiata oltreoceano. E allora,quand’era stata presa quella fotografia stupenda?

I dubbi durarono poco più d’un anno. Sino ad unpomeriggio in cui, sempre a Lisbona, avevo com-prato i giornali stranieri ed ero andato a leggerli al-la “Brazileira” del Chado. Sulla prima pagina di Lemonde c’era la notizia della morte di JosephineBaker, e nelle pagine interne una lunga biografiacon molti dettagli sulla sua attività di resistente.Adesso mi era chiaro quando e perché fosse capi-tata a quel tavolo della “A primavera”.

Tra il ‘40 e il ‘42, durante l’occupazione tedescadi Parigi e del nord della Francia, la Baker aveva in-fatti viaggiato varie volte tra la Francia non occu-pata e Londra, attraverso i Pirenei, la Spagna e ilPortogallo, portando documenti e informazioni.Perciò era stata decorata da De Gaulle con la Croixde guerre, la Légion d’honneur e La Rosette de laRésistance. Perciò il giorno dei suoi funerali allaMadeleine le vennero resi, con ventuno colpi dicannone, gli onori militari.

ESOTISMO SEXYAncora locandine e “affiches”

che attraverso i decenni

pubblicizzano l’esotismo sexy

con il quale la Baker faceva

riempire i teatri

Giovane, ridente,un gran cappellonero in testa,la sua fotocampeggiavasulla paretedi un ristorantedi Lisbona

LA VITA

L’INFANZIA

Josephine Baker

nasce a St. Louis

il 3 giugno 1906

da una lavapiatti

e un batterista.

Cresce facendo

la cameriera

I MATRIMONI

Si sposa e divorzia

quattro volte prima

di conoscere il suo

ultimo compagno,

Robert Brady

Adotta 12 bambini

di diverse etnie

IL SUCCESSO

La consacrazione

a Parigi negli anni ‘20

con la “Revue

Nègre” e soprattutto

nel film “Princesse

Tam-Tam”

degli anni ‘30

LA RESISTENZA

Durante la Seconda

guerra mondiale

trasporta messaggi

cifrati per la

Resistenza. Poi sarà

nominata Cavaliere

della Legion d’onore

IL MITO

Famosa per le sue

esibizioni “osé”

e il costume

con le banane cucite

sul gonnellino. Tra gli

appellativi “Venere

nera” e “Perla nera”

VECCHIO AMICOUn ritratto recente

di Jean-Claude Brialy

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spettacoliCannes 2006

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 28 MAGGIO 2006

NATALIA ASPESI

CANNES

Maisi era vista una moltitudine cosìavida di pigiarsi nei cinema di tut-to il mondo per vedere subito l’a-gognato Codice Da Vinci. Mai, al

Festival, un film era stato così unanimemente de-plorato e schernito dalla corporazione dei critici, quicomposta da più di quattromila esperti cosmopoli-ti. Per tutti bruttissimo e basta.

Riflessione: i Festival servono ormai solo comecassa di risonanza per i prodotti più costosi, furbi efrastornanti, affinché il popolo elettrizzato da tantoclamore mediatico corra estasiato per poi assopirsidistrutto, in questo caso, dalla pomposa verbositàesoterica? Oppure i critici, un tempo venerati dal po-polo grato dei cinefili, non li ascolta più nessuno, di-scettano nel deserto, parlano al vento o addiritturaservono al contrario: se ha detto che è brutto di sicu-ro mi piace, se piace a lui deve essere inguardabile.

I Festival cominciano ad avere l’affanno, e anchequesto che è il più ricco e organizzato e mastodonti-co, alla sua 59° edizione, ha perso il cuore e anche un

po’ di bussola. Schiacciato sotto il violento imperiodell’immagine, non cinematografica ma televisiva efotografica, ha dato in certi momenti l’impressioneche i film non fossero più così necessari, che basta-va, alle casse della città, alla fama del Festival e per-sino all’industria del cinema, che ogni sera un inces-sante su e giù di star sull’interminabile tappeto ros-so della famosa scalinata costituisse il grande spet-tacolo per la gente assiepata dietro labirinti di tran-senne e poliziotti in assetto di guerra, per gli stilistiche regalano o imprestano smoking e toilettes ai di-vi e poi ne informano via mail anche i sapienti cen-sori dell’Opus Dei, per non parlare dei gioiellierisponsor che obbligano le attrici, per questo ben pa-gate, a grondare diamanti, con conseguente ploto-ne di guardie del corpo alla Berlusconi.

D’altra parte, dichiara immalinconita la stampaamericana, non si sono visti capolavori, i cosiddettimaestri non sono stati tutti all’altezza della loro fa-ma, alcune opere molto attese hanno deluso, non cisono state scoperte sensazionali (e forse tra i giova-ni al primo film, che concorrono alla Camera d’Or, ilpiù amato è stato Kim Rossi Stuart con il suo intimi-sta Anche libero va bene). C’è stato un po’ di casinonella selezione delle opere in concorso; perché se untempo, per esempio, si aspettava frementi, miseroma rivelatore di un rustico talento esotico, un film gi-rato tra le capre non loquaci del Kazakistan, e se ne

discuteva poi per ore, oggi 150 minuti di un vecchionero di Capoverde che parla ininterrottamentementre una signora tossisce raccontando del suoparto disastroso e un giovanotto pela lentamenteuna mela, svuota la sala velocemente in venti minu-ti, di scollature, strascichi, gioielli e tutto. Ed è natu-rale, pur con tutti i suoi meriti sociocinefili, che met-terlo in concorso è stata per lo meno una bizzarria.

Certo risulta sempre più difficile per un festivalmantenere la tradizione di luogo di scoperta di cine-matografie emergenti in terre insospettabili come ildeserto del Gobi, di accoglienza dei famosi film d’ar-te che se non li vedi qui non li vedi da nessuna parte,di opere che dalla Croisette iniziano la loro deplora-ta ma fortunata vita di scandalo e vituperio. Questemanifestazioni sempre più gigantesche hanno bi-sogno di celebrità come del pane e le celebrità sonotali perché splendono all’interno di un’industria ci-nematografica miliardaria e perciò standardizzata:quella che ha abituato il pubblico globale a goderedello stesso prodotto, azzerando quello no globalcon qualche elemosina colta ma spesso presuntuo-sa, e neanche tanto ben riuscita.

Anche qui, culla del cinema che dovrebbe essereil migliore, il più illuminato, il più grande, ci si sta as-suefacendo all’andazzo del mercato ma anche del-la vita: i film sociali, come i problemi sociali, inner-vosiscono, i film politici, come la politica, annoiano,

i film storici, come la storia, paiono demodè. Al 59°Festival il cinema ha perso anche la sua lunga tradi-zione di ardimento erotico con conseguente pub-blico in abito da sera che fischia indignato, e politicipii che fuori di sé invocano la censura e viaggi a Fati-ma di famiglie che pretendono la messa al rogo del-la pellicola e anche del suo autore.

Neppure il passaggio dall’erotico sentimentale alporno esplicito per vedere come butta, ha risveglia-to le coscienze e non solo quelle. La gente si è assue-fatta alle immagini esplicite, al nudo integrale, al pe-lo, alle ragazze della moda che han sempre le gambespalancate, alle locandine dei film come quella quienorme sulle facciate degli alberghi in cui una si-gnorina svestita seduta sul gabinetto usa la cornettadel telefono per scopi non previsti. E per esempionessuno ha protestato per il mancato rispetto dellepari opportunità: infatti nei film più giulivi ha trion-fato come protagonista il membro maschile: se nesono visti singoli o a foresta, in ogni possibile avven-tura: per citarne una e non la più curiosa, in Destric-ted, antologia di vari autori, l’artista-regista MathewBarney mostra un giovanotto funestato da una suaspecie di cocomero gigante, che copula contentocon un Caterpiller da cinquanta tonnellate.

Sulla Croisette si vedevano i filmpiù illuminati, o comunque destinatia dare scandalo. Oggi fa notizia solola parata dei divi. Perché il pubblicoè assuefatto e neanchelo slittamento verso il pornoriesce a scuoterlo

Gli affanni del Festivalche non sa più stupire

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i sapori46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

Tradizioni golose

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Nell’antico borgo

marinaro della Cote

Vermeille, a pochi

km dal confine

con la Catalogna

spagnola,

l’economia è divisa

tra il vino (Collioure

e Banyuls, il celebre

vino da cioccolato) e le acciughe, pescate tra golfo

del Leone e golfo di Guascogna

DOVE DORMIRECASA PAÏRAL

Impasse des Palmiers

Tel. (0033) 04.68820581

Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELE NEPTUNE

Route de Port-Vendres

Tel. (0033) 04.68820227

Chiuso lunedì, menù da 50 euro

DOVE COMPRAREMAISON ROQUE

Route Nationale 40

Tel. (0033) 04.68820499

Collioure (Francia)Nel piccolo borgo

marinaro del Cilento,

le alici vengono

ancora pescate

con una rete

antichissima,

la menaica. Da ora

a luglio, si fanno

battute di pesca

notturna a bordo delle menaidi (gozzi a remi),

alle quali possono partecipare gli appassionati

DOVE DORMIRELA LOCANDA DEL FIUME

Via Fiori, Pisciotta

Tel. 0974.973876

Camera doppia da 90 euro, colazione compresa

DOVE MANGIAREANGIOLINA

Via Passariello 2

Tel. 0974.973188

Senza chiusura, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREPICCOLA SOCIETÀ COOPERATIVA MENAIDE

Via Scirocco 2

Tel. 339.5406060

Marina di Pisciotta (Sa)È il terminale

occidentale

del bellissimo

Sentiero Azzurro,

che collega

le Cinque Terre

tra loro, in un trionfo

di verde e scogliere

a picco sul mare

La pesca all’acciuga va in crescendo per tutto

giugno, e culmina nel giorno di San Pietro e Paolo

DOVE DORMIRELOCANDA IL MAESTRALE

Via Roma 37

Tel. 0187.817013

Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL CILIEGIO

Località Beo 2

Tel. 0187.817829

Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREVINERIA U PUSSU

Via XX Settembre 27

Tel. 0187.817688

Monterosso (Sp)

«Le acciughe fanno il pallone/che sotto c’è l’alalunga/se non butti la rete/non te ne lascia una».Dieci anni fa, Fabrizio De Andrè e Ivano Fossa-ti hanno raccontato (e cantato) così il millena-rio rito della pesca di giugno, quando le acciu-ghe varcano lo stretto di Gibilterra, affaccian-

dosi ai mari di Francia e Spagna e da lì si dirigono verso le nostrecoste, dove le acque più calde favoriscono la riproduzione.

I pescatori liguri sono i primi, perché i più prossimi ai confini, amisurarsi con l’Ala Lunga, una varietà di tonno pregiato, destina-to qualche giorno più tardi a incrociare le tonnare di Carloforte eFavignana. Gli acciugai lo temono per la sua capacità di bruciaresul tempo la calata in acqua delle reti pronte a imprigionare le ac-ciughe attratte dal plancton illuminato dal faro della lampara.

Dalla barca alla scatola di latta, il tempo di lavorazione, neces-sariamente brevissimo, è ormai appannaggio di pochi irriducibi-li. A Monterosso, dove la chiamano «u pan du ma» (il pane del ma-re) e abita molte pagine del ricettario locale (sotto sale, al verde, ri-piene, marinate, fritte, in tortino), l’acciuga, fresca e conservata,ha rischiato di scomparire, e solo la nascita di un presidio SlowFood ha consentito a un piccolo gruppo di pescatori di ridarle di-gnità e valore. Stesso percorso per Marina di Pisciotta, dove tradi-zione ancora vuole che le donne aspettino sulla spiaggia il ritornodegli uomini dal mare, per pulire le acciughe — battezzate alici perquestioni di geografica lessicale, un po’ come spigola e branzino— mentre ancora le squame sono lucenti e l’occhio vivo.

Siamo alle solite: lasciamo morire di fame il nostro miglior ar-tigianato alimentare, anche quando la materia prima è poveris-sima. E nei pochi casi in cui resta in vita, tra mille fatiche e com-promessi, lo releghiamo innicchie per super-gourmand.Eppure, basta spostarsi sullecoste francesi e spagnole perscoprire paesi interi monode-dicati a questa o quella lec-cornìa: borghi deliziosi comeCollioure e Ondarroa vivonograzie alle acciughe, di cuipropongono l’intera filiera,dalla pesca alla vendita.

Ogni fase della lavorazione èeseguita a regola d’arte: unavolta pulite per la salagione, laprecisionec o n

cui vengono di-sposte nei conte-nitori è mirabile,funzionale allaperfetta conser-vazione e matu-razione dellecarni nelle latte.Addirittura, nei

Paesi maestridell’“acciughe-

ria” le confezioniportano impressa la

data di pesca: “mille-simate” come un vino

pregiato, per valutare ledifferenze di consistenza e

intensità di sapore da una sta-gione all’altra. Sugli scaffali spesso si

trovano in scatolette e vasetti confezionati in maniera sofisticata,preziosi come gioielli. Perché anche nel cibo l’occhio vuole la suaparte. E l’acciuga è bella ed elegante, una sorta di Audrey Hepburndel mare: lunga, slanciata, colorata come un abito da sera, azzur-ra-blu sul dorso e argentea sul ventre. Il gusto delicato e persi-stente deriva da ciò di cui si nutre — plancton, piccoli crostacei,larve di molluschi — e dalla diversa salinità del mare in cui vive.

Bella, buona e sana. La regina del pesce azzurro, infatti, metted’accordo medici e chef senza pesare sul portafoglio: costa poco,meno del più economico dei pesci “monoporzionati”, è una fon-te generosa di antiossidanti e vanta una meravigliosa versatilitàgastronomica.

Se l’acquolina in bocca vi assale, organizzate una gita a Drone-ro, terra cuneese dove l’acciuga — grazie alla storica via del sale— è di casa. Nel prossimo fine settimana, il 3 e 4 giugno, le dedi-cheranno una festa in piena regola (“Festa di giugno, acciughee...”), con tanto di convegni, laboratori del gusto e degustazioni.Assaggiatela abbinata a una fetta di pane cotto a legna, spalmatacon burro a latte crudo: vi tratterrete a stento dal chiedere asilopolitico-gastronomico.

LICIA GRANELLO

Dalla rete del pescatore alla scatola di latta, al piatto. Dietro questo pescebuono, sano, economico ci sono secoli di storia mediterranea. Che oraDronero, terra cuneese sulla Via del sale, celebra con una Festa di giugno

LA COLATURA

Le alici si pescano in

primavera, quando il tenore

di grassi è basso. Si allineano a

strati con il sale, in un terzigno di

rovere chiuso da pietre marine.Il

liquido affiorante si raccoglie fino a

fine autunno e si versa nuovamente

nel terzigno, perché "coli" attraverso

le alici in salamoia, uscendo da un

foro. Col liquido ottenuto si

condisce pasta, verdure,

pesci

Il pane del mare

IN SAOR

Le cipolle, affettate

sottili e fatte

soffriggere,

si bagnano

con due bicchierini di aceto

di vino bianco, lasciando

sobbollire per 3’. Con questa

salsa, si coprono le acciughe

infarinate, fritte e adagiate

a strati con pinoli e uva passa,

spruzzate con aceto caldo

MARINATE

Per la “cottura”

a freddo togliere

alle acciughe

fresche testa,

spina, interiora, poi lavarle,

asciugarle e allinearle

su un piatto. Lasciar riposare

tre ore con un un’emulsione

di extravergine, limone,

prezzemolo, aglio,

peperoncino e sale

SOTT'OLIO

Si dissalano

per un’ora in acqua

fresca cambiata

alcune volte

C’è chi aggiunge qualche

cucchiaio d’aceto

Dopo averle private di pelle

e lische, si asciugano

e si coprono con olio

extravergine delicato,

aggiungendo rametti di timo

SOTTO SALE

La conservazione

più antica parte

dalle acciughe

fresche, private

di testa e interiora, sciacquate

sotto l’acqua corrente

e tamponate con un

canovaccio. Nel contenitore,

si alternano strati di pesce

e sale, si chiude con un peso

e si lasciano riposare 40 giorni

AL VERDE

La ricetta

del piemontese

bagnet vert

si ottiene

aggiungendo olio a un trito di

prezzemolo, tuorlo sodo,

mollica bagnata nell’aceto,

aglio, sale. Varianti: un po’

di zucchero, peperoncino,

pomodoro, peperoni

Si appoggia sulle acciughe

Acciuga

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 28 MAGGIO 2006

Qualche anno fa, a Dolceacqua, terra di rossesse,sotto il Castello dei Doria, un oste sprovvedutomise in menù, per attirare i numerosi villeg-

gianti piemontesi, una bagna cauda fredda, ignaroche la medesima, comunque, anche in pieno agosto,se non bollente come il fritto misto, va almeno intie-pidita. La trattoria cambiò l’oste di lì a poco e la bagnacauda scomparve, cedendo spazio al più ovvio pinzi-monio. Già, perché i Liguri tendono a dimenticare cheil piatto regale della tavola piemontese è composto, inbuona parte, da prodotti che partono dalla Riviera:acciughe, olio, aglio rosato. Certo, di là dalle piccoleAlpi ci aggiungono i cardi gobbi di Chieri, i peperonidi Carmagnola, i topinanbur o le patate rosse di SanDalmazzo. Ci aggiungono cipolle o quant’altro, masenza l’acciuga e l’olio, bagna cauda non si dà.

Ma i Liguri non ricordano, non ricordano le legionidi Cesare, strette sulla Via Romana, verso le Gallie, tra-scinandosi armature e anfore ricolme di “macheto”,quella pasta d’acciughe da far rinvenire con acqua eolio sul fuoco, nei paioli di coccio. Lo stesso “mache-to” che usavano ancora, denso e nero come lucido dascarpe, i vecchi pescatori sulle spiagge di Capo Mor-tola o dei Balzi Rossi, pochi anni fa.

«La trota scende. L’acciuga sale», diceva il Rebissu,un pescatore che andava col salabro a cercare le“sbandate” alla foce della Roja, a Ventimiglia, le pic-cole fario instupidite dal contatto con l’acqua marina.Ma l’acciuga più che “salire”, saltava. Un salto così al-to, dalla Liguria all’Alto Piemonte, da meritarsi il tito-lo di «Pesce di Montagna». Povera acciuga che dopoaver provato le correnti di Spagna e Portogallo, diFrancia e di Liguria doveva affrontare le mille “vie delsale” che dai litorali rivieraschi s’inerpicavano per legole delle valli che portavano alle grandi pianure pie-montesi e lombarde.

Costavan due lire: valevano niente. Ciò che valeva,nelle botticelle che le contenevano, stava sotto di lo-ro. Era il sale. Quello sì che era «oro puro», con cui sibenedivano i cristiani, mettendogli sale in zucca, e sisfamavano animali e umani. Le gabelle regie colpiva-no il commercio di sale, gli ufficiali vegliavano sullesaline e i trasporti. E gli “sfrosadori”, i contrabbandie-ri, cercavano vie alternative, pericoli, trucchi per por-tare il sale in Piemonte, senza pagar dazio. E quellodell’acciuga fu un gran bel trucco, poveri Doria, po-veri Savoia. In botte si metteva un tot di sale e un totd’acciughe. Se il tutto veniva preso per acciuga, il gio-co era fatto. L’acciuga volava in Piemonte trascinan-dosi dietro la vita a granuli rosa, a scaglie bianche co-me neve.

Poi venne il giorno in cui le gabelle del sale cadde-ro. Quel giorno gli “sfrosadori” si guardarono con ap-prensione. Che fare? Le vie erano tracciate, c’eranoavamposti, villaggi come Moschieres, paesi comeDronero, attrezzati nel ricevere, stivare, distribuire ilprodotto. E gli “sfrosadori” che nel tempo avevan vi-sto e capito che l’acciuga protetta dal sale non venivabuttata, ma usata per insaporire polenta e pane, siconvertirono in mercanti d’acciughe. Uno strato disale, uno strato d’acciughe. Sul fondo del barile le piùpiccole e più magre, in alto, ad apertura, una bella ro-sa con le più grasse e fresche.

Che pioggia d’acciughe fu, tra la Liguria e il Pie-monte. Una per ogni stella che di notte si faceva in cie-lo. Dronero diventò il luogo cardinale: sulla piazza gliacciugai con i loro carrettini blù forniti di peso e fre-no, costruiti a Demonte, aspettavano di ricevere i pre-ziosi barilotti, contrattarne qualità e peso e poi lan-ciarsi per lunghi decenni del Novecento verso la pia-nura: Cuneo, Alba, Torino, Asti, fino a Milano. «Ac-ciughe», «Acciughe belle», «Acciughe belle-fresche».Non c’era mercato, cascina, paese, cittadina che nonaspettasse il «pesce di montagna». Quella lacrima digioia e di fatica che veniva dal mare.

Abbiamo chiesto allo scrittore

Nico Orengo, autore di numerose

opere ambientate tra Liguria

e Piemonte, e fra queste “Il salto

dell’acciuga”, di raccontare la storia

affascinante di un “cibo viaggiatore”

I contrabbandieri di salee il “pesce di montagna”

NICO ORENGO

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le tendenze48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

Ulisse costruì la sua abitazione intorno al talamonuziale. A Versailles i sovrani ricevevano i dignitariin camera. E anche per noi le funzioni del luogopiù intimo della dimora stanno cambiando: lo usiamoper mangiare, guardare la tv, lavorare al computerGrazie a elementi d’arredo davvero innovativi

E il lettoconquistòla casa

LEGNO, PIETRAE COERENZAGrande asciuttezza

formale per il tavolino

Paris. Il minimalismo

è in controtendenza,

ma non per Armani

RivoluzioneAlcova

L’ABBRACCIO DELLA NOTTERealizzato secondo i principidel Feng Shui, il letto Mantraè basso, per rispettareil centro di gravità dell’uomoDisegnato dal bio-architettoMauro Bertamè per Feg

Quando Ulisse deve edificare la dimora incui andrà a vivere con la sua compagna,va a cercare un maestoso ulivo, ne fa illetto coniugale e intorno ci costruisce lacasa. Poco pratico, forse, ma è un belsimbolo della centralità del talamo. Al-

la Corte di Francia fra Seicento e Settecento, in uncontesto sociale altamente ritualizzato, le dame piùraffinate ricevono a letto, e a letto incrociano i lorobrillanti conversari con gli eletti degni di condivi-derne la confidenza. Il re stesso indugia nella ceri-monia mattutina del risveglio e della vestizione, cuisono legati precisi, ambìti incarichi di corte con i re-lativi privilegi, ostentando e concedendo il propriocorpo in quanto incarnazione dello Stato e del suopotere concesso per elezione divina. Due esempiche identificano alternativamente la camera da let-to come luogo dell’intimità e come spazio in cui la di-mensione sociale è ritualizzata: tutti conoscono ilproprio ruolo, la parte, e la interpretano con atten-zione.

Ancora oggi nella casa convivono i due spazi sim-bolici del privato e del pubblico. È spazio privato perl’io e per la famiglia, pubblico per gli amici e le per-sone che vi ammettiamo. E due sono le stanze chesottolineano quei due spazi simbolici opponendo-ne le funzioni: il bagno e la camera da letto. Ma se ilbagno il suo diritto, il suo spazio, i suoi metri quadri,se li è dovuti guadagnare facendosi largo nella casa enella storia, alla camera da letto, come anche Ome-ro testimonia, tale privilegio è sempre stato ricono-sciuto. Oggi ogni angolo domestico è promiscuoperché ibrido, contaminato e incrociato con le piùdiverse funzioni. La cucina diventa soggiorno e ilsoggiorno diventa cucina, il bagno diventa beautyfarm o palestra, e la camera da letto il posto dove simangia, si guarda la tv, si lavora al computer. Certoa causa di case sempre più piccole perché semprepiù costose, ma anche perché questa è la tendenzagenerale, confermata dalla nascita di oggetti versa-tili, che si possono adattare alle più diverse funzioni,spesso perfino trasformabili grazie a intelligenti so-luzioni costruttive.

Oggi dunque, potrebbe essere saggio restituire lacamera da letto al suo originario destino di intimità,ovvero ristabilire di nuovo la centralità del letto. Quelletto che Ulisse ricava faticosamente da un ulivo,ben radicato nel terreno a garantire la stabilità dellacasa, e che oggi abbiamo disponibile in versioni as-sai più pratiche. Merita di essere ricordato, peresempio, che continua a essere in ottima saluteNathalie, il letto che Vico Magistretti progetta nel1978 per Flou, proponendo l’idea allora rivoluzio-naria di un letto senza sponde, dettaglio che rendeimprovvisamente più facile rifarlo. Oggi il letto esi-ste in innumerevoli varianti: grazie a cerniere si apreper contenere la biancheria. La te-stiera può essere flessibile, recli-nabile a piacere, consideratoche a letto si finisce per faretante cose, anche leggere omangiare. Invece del como-dino, si sviluppano struttureportanti laterali,spesso mobili peravvicinarsi o allon-tanarsi, elementiaggettanti, ripianilaterali di servizio etante altre soluzio-ni fra cui si troveràcertamente quellapiù adatta a ciascu-no.

AURELIO MAGISTÀ

Spazi domestici

IL TEMPO CORREUomino

è un orologio-sveglia

che corre mentre

scorre il tempo

Di Diamantini

&Domeniconi

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INTERSEZIONIDiamante

è costituita da tre

fasce impreziosite

da cristalli,

che ricordano

un bracciale

Di Marchetti

illuminazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 28 MAGGIO 2006

IN ASTRATTOIl porta-cd Cubiteca,

disegnato

da Di Liddo&Perego,

ha il valore decorativo

di un quadro astratto

I più stravaganti

potranno anche

lasciarlo vuoto

APPESOA UN RAMO

Funzione basilare,

forma originale

È di Oakom

l’appendiabiti

in legno a forma

di albero

Disponibile

in più colori

Negli ultimi anni gli ambientidomestici all’interno delleabitazioni hanno assunto

nuove immagini e nuove priorità.Soprattutto bagno e camere sonostate oggetto di numerose inter-pretazioni a livello di gusto, formae rapporto con gli altri spazi dellacasa.

La camera da letto in particolaremodo si è ampliata nelle immagi-nazioni di ogni singolo progettistaassumendo dimensioni e caratte-ristiche completamente fuori daicanoni tradizionali di progettazio-ne: grazie all’utilizzo del colore,dei materiali, dell’arredamentoparticolare e della sua disposizio-ne all’interno dello spazio, dell’il-luminazione calda o fredda, del-l’utilizzo di pavimenti particolari,di tessuti e di tanti altri elementi lacamera può nascondere emozionie infondere nuove sensazioni.

La trasparenza dell’ambienteimpreziosito dall’inserimento dipareti in vetro permette alla came-ra di interagire con gli altri spaziabitativi; il colore enfatizza volu-mi, materiali come pareti rivestitedi legno o pietra danno maggioreimportanza a ciò che vanno a rico-prire, il letto diventa poi il nucleoprincipale dell’area, nella quale ilsuo posizionamento garantisce unsicuro potenziale emotivo; bastipensare ai letti al centro dello spa-zio, ad armadiature nascoste al-l’interno di nicchie, a cabine ar-

madio invece proiettate all’e-sterno con lastre trasparen-

ti di vetro.Si parlava di illumina-

zione. Questo è l’elemento princi-pale per rendere l’ambiente sen-suale: luci con potenze differenti,nascoste, luci magari colorate, lucispot o indirette,lampade a so-spensione basse,sopra a comodinio importanti lam-padari in vetro alcentro della ca-mera: la scelta diquesti elementiporta ad un risul-tato differente ediverso l’uno dal-l’altro.

Lo spazio ca-mera da lettoquindi assume ungusto più sofisti-cato rispetto aglianni passati. Nonè quindi più suffi-ciente progettareuno spazio suffi-cientemente am-pio per ospitareletto e armadio: ilcompito del progettista per darepiù valore all’ambiente deve anda-re oltre a limitazioni dimensionali,deve dare carattere al suo “allesti-mento”, le sue idee attraverso isuoi disegni devono esprimere ca-rattere con impronte ovviamentepersonalizzate.

Alla fine, quindi, alla camera daletto non si associa solo la funzio-ne del “dormire” o del “riposare”,ma anche funzioni di immagine edi forza all’interno della casa.

L’autore è architettoe designer

IL PERSONAGGIONella foto qui sopra,

Carlo Colombo,

eclettico esperto

di ambienti e oggetti:

è infatti architetto,

arredatore di interni

e designer

SEDUTI E SDRAIATIHappy, di Flexform, è un lettino-chaise

longue da usare in ambienti

in cui convivono zona giorno

e zona notte

TUTTA D’UN PEZZOOC Chair

è una poltroncina

dall’avvolgente seduta

monoscocca, rivestita

in tessuto o pelle. Di Simon

Pengelly per La Palma

STRANE COPPIEInusuale accostamento

di ceramica (nella base

a cono), e vetro soffiato

(paralume). Un’idea

di Sottsass per B&B Italia

LEGAMILa coppia non è una prigione: per questo vale l’ironia del letto

di Promemoria che, non a caso, ha nome di donna: Loren

CARLO COLOMBO

La super-stanzache sa creare

emozioni nuove

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MAGGIO 2006

l’incontroDive felici

ROMA

Sessanta: e allora? StefaniaSandrelli dice che non li«sente». «Forse perché ho lafortuna di non dimostrarli,

almeno non tutti. Qualche settimana fami hanno festeggiato a Viareggio, unaspecie di anticipato compleanno vir-tuale, non ho provato trepidazioni par-ticolari, mi è servito per digerire la sca-denza del 5 giugno. Cosa può cambiaredi tanto drammatico da un giorno al-l’altro solo per un numero? Ho festeg-giato gli ottanta e i novanta di MarioMonicelli, non l’ho mai visto cambiare.Lui è il mio faro, in parte sono come lui.Anzi, anch’io esenterò Walter Veltronidall’organizzare funerali di Statoquando sarà il momento», dice l’attricecon la sua voce inconfondibile, ridentee fresca. La stessa dell’adolescente che,innocente eppure scandalosa, nel ‘61seduceva Mastroianni in Divorzio all’i-taliana, il film da cui è partita la sua bel-la carriera di attrice, mai interrotta.

Dunque il 5 giugno «sarà solo unagrande festa di famiglia, un pranzo sulmio bel terrazzo romano. L’unico pen-siero che mi viene in mente è la felicitàdi vedere come si è disposta bene la vi-ta dei miei figli. Certo, con l’età la bel-lezza si appanna un pochino, ma pertanti anni sono stata accompagnata daifischi per la strada, ero anche stufa. Vabene così. Non critico chi ricorre allachirurgia estetica, ma non fa per me,quando ci penso provo una sensazionesgradevole, fisica, come quando ascuola sentivo il gesso scricchiolaresulla lavagna».

Del resto il fascino c’è ancora, vistoche nell’ultima vacanza in montagnac’era un principe che voleva sposarla.«Diceva che ero il suo sogno, avrebbefatto qualunque cosa per realizzarlo.

cosciente, sapevo quello che facevo e laresponsabilità che mi assumevo, maero felice di farlo. Andai a partorire a Lo-sanna, Gino mi era accanto, la ricordocome un’esperienza magica».

Per la libertà del vivere, per i suoi per-sonaggi tra innocenza e perversione,negli anni Sessanta Stefania Sandrellifu un simbolo di trasgressione, riaffer-mato in seguito quando fece La chiavecon Tinto Brass o i film erotici di BigasLuna. «Non c’è nulla di cui mi pento,ogni scelta l’ho fatta al momento giu-sto. Se penso oggi alla ragazza di queglianni non la vedo così distante da me.Non pensavo di trasgredire, seguivo imiei sentimenti, non sentivo i limitidella mentalità di allora, per me era tut-to naturale, non c’era provocazione osenso del peccato, era il mio diritto allalibertà, senza vergogna. Oggi la libertàsembra un dato di fatto, i giovani nonsentono limiti, ma a volte dubito che siavera libertà. Ho la sensazione che tuttosia un po’ fiction, parte di un inconsa-

L’ho raccontato a Giovanni, abbiamoriso fino alle lacrime, non è stato gelo-so, ma secondo me ha fatto finta». Gio-vanni Soldati è il compagno di vita, unlegame fatto di pazienza — «a volte ilmio caratterino esplode e divento in-sopportabile» — di piccoli scontri, disolidarietà e di intesa profonda.

«Giovanni è Giovanni, è il mio incon-tro, senza di lui non saprei come fare.Qualche notte fa ho sognato che avevaun’altra, mi sono svegliata a pezzi, l’hoaggredito. Devi dirmi se ami un’altra,non devi nascondermi niente, possocapirlo, può capitare di perdere la testapiù a te che a me, tu sei più giovane! Po-vero Giovanni, ci ha messo un bel po’per convincermi che era solo un bruttosogno. Certo, dal lato estetico non è ilpiù bello del mondo, ogni tanto lo met-to a dieta, ma solo per la salute, a mepiace così».

Se la presenza di Giovanni Soldatinella vita è molto importante per la se-renità della Sandrelli, ci sono altri ele-menti che, secondo lei, l’aiutano a con-servare la spontaneità allegra e la vita-lità che la caratterizzano. L’infanzia el’adolescenza a Viareggio per esempio.«Se prendi la bici, come facevo da ra-gazzina, e ti fai un giro da nord fino alladarsena e ti fai tutto il viale dei tigli, titrovi tra mare e montagna a respirareun senso di spazio e di libertà che resta-no dentro per sempre. Nel mio primoviaggio in America tutti si stupivano deigrandi spazi, io chiedevo: “Tutto qui?”.Io dico sempre che a Viareggio siamotutti forestieri, io per prima, mio padreera di Firenze, mia madre di Pistoia equindi cresciuti nella convivenza natu-rale con le diversità».

Soprattutto, a cercare un segreto,quello di Stefania è di sentirsi «prontaalla vita, sempre, a tutto quello che la vi-ta mi offre. Anche nei periodi di stan-chezza, affronto la giornata con curio-sità, con sentimenti positivi». A pocopiù di quattordici anni era pronta al ci-nema: «Lo sognavo da sempre, sonocresciuta con il cinema, dallo schermoho imparato a conoscere meglio l’Ita-lia, ho imparato le parole dell’amore.Non è stato facile lasciare Viareggio,avevo nove anni quando è morto miopadre, a farmi da padre c’erano gli zii,erano dieci. Ho dovuto lottare control’ostilità di tutti loro per arrivare a sali-re sul treno. Ho capito l’importanzadella volontà e della tenacia».

Era pronta per Gino Paoli, un uomosposato, alla fine degli anni Cinquantauno scandalo, una relazione peccami-nosa. «Sono io che l’ho cercato, seguivosolo i sentimenti. Amo moltissimo Ve-nezia perché la sento fragile, precaria,quando sono triste mi rallegra, ma so-prattutto perché è a Venezia, duranteuna breve vacanza, che abbiamo con-cepito Amanda. Pioveva sempre, pas-sammo tutto il tempo nella camerad’albergo. Ho voluto io la maternità, èvero che nel mio carattere c’è una par-te di vaghezza sbadata, ma non sono in-

pevole reality show che imita la vita».Oggi la trasgressione nella vita del-

l’attrice resiste nel suo ruolo di nonna:«Ho quattro nipoti, vanno dai tre agliotto anni. Con loro mi scateno, gioco al-la pari, li vizio, li sgranocchio, li ripren-do con la telecamera, li adoro. Amandae Vito, i miei figli, mi sgridano, si preoc-cupano, dicono che sono troppo paz-zerellona. Ma non sono in grado di fre-narmi. Anzi, consiglio a tutti di giocarecon i bambini, aiuta a restare giovani».

La figlia Amanda, oltre a sgridarla co-me nonna, le rimprovera un piccolo di-fetto. Dice che si affida troppo a chi latrucca, a chi le consiglia come vestirsi,le piacerebbe vederla più semplice,meno addobbata. «Ha ragione, maquando mi fido di qualcuno perdo tut-to il mio senso critico», dice la Sandrel-li. E forse il difetto diventa virtù nel ci-nema. I più grandi registi del cinemaitaliano, Germi, Monicelli, Scola, Ber-tolucci, fino alla generazione di Virzì edi Muccino, l’hanno amata per la suaplasmabilità, per l’adesione istintiva eimmediata ai personaggi.

«Il cinema è la mia passione, alimen-tata dalla fortuna di lavorare con i mae-stri più importanti. Provo una grandericonoscenza, mi hanno insegnato tut-to, mi hanno arricchito la memoria diricordi indimenticabili. L’immagine diBertolucci per esempio, che a Parigi sulset di Il conformistaaspettava l’alba perseguire i percorsi della luce: sembravaun sacerdote. E il divertimento puro deiduetti tra Benigni e Walter Matthau du-rante Il piccolo diavolo: andavo sul setanche quando non dovevo lavorare.Ho lavorato con autori molto diversi traloro, ma che hanno in comune la gran-de passione per il cinema».

Non c’è nostalgia nelle parole dellaSandrelli, «perché la stessa passione laritrovo in tanti autori di oggi, Virzì,Muccino, Velia Santella. E la nostalgianon mi piace, è un freno alla vita. Pen-so soltanto che un tempo c’era più ve-rità, più onestà nei rapporti tra le per-sone, nella politica». A proposito di po-litica, la Sandrelli considera un regaloper il compleanno gli esiti delle elezio-ni. «È stato bello ritrovare un Paese chesperiamo sarà diverso da quello degliultimi anni. Stava diventando un’Italiache tornava indietro, rischiando di per-dere i diritti acquisiti, un Paese ostile achi viene da fuori, inconcepibile per meche amo le differenze», dice la Sandrel-li e scherza sul futuro: «Una volta par-lando con Fassino dicevo che un gior-no o l’altro mi sarebbe piaciuto fare po-litica attiva. “La prendo in parola”, harisposto serio. Chissà. Per ora ci sonotroppe altre cose che mi impegnano».

Una è il debutto nella regia con unprogetto che insegue da anni, un film suCristina da Pezzano, figlia di Tomma-so, astronomo e astrologo, chiamatoalla corte di Parigi da re Carlo V. «Erauna donna del medioevo che, dopo es-sere cresciuta nel lusso e nei fasti,quando Carlo V morì cadde in disgrazia

insieme alla sua famiglia, ma riuscì areinventarsi una vita con un coraggioincredibile, raro per l’epoca. La sua èanche una bella storia d’amore, vorreiraccontarla con la leggerezza di La ra-gazza con l’orecchino di perla, con laguerra solo sullo sfondo. Cristina è unsimbolo di energia femminile, mi piacela forza di vivere in una vita dalle stellealle stalle. Forse un po’ mi identifico,anch’io ho passato momenti dramma-tici ma ho sempre reagito, sono andataavanti, perché sono curiosa della vita,comunque. Dico sempre che mi piace-rebbe arrivare a cent’anni per vederecome va a finire».

Negli ultimi dieci anni nella vita del-la Sandrelli è entrata la televisione.«Non mi piaceva, mi sembrava poconobile rispetto al cinema, pensavo chenon l’avrei mai fatta. Ci sono cascatadentro e ci sono rimasta. Mi diverto esoprattutto c’è il vantaggio che i ruolifemminili che mi propongono sonodonne poco più che quarantenni».

La televisione le offre ora la possibi-lità di lavorare con sua figlia in una mi-niserie dal titolo Azione civile, con la re-gia di Andrea Barzini. «Siamo già statemadre e figlia nell’85, era nel film L’at-tenzionedal romanzo di Moravia con laregia di Giovanni Soldati, ma eravamoinsieme solo per una scena. In questocaso saranno sei puntate. Amanda èuna donna sposata che per una serie didissesti finanziari è costretta a tornareda me, sua madre, divorziata, un altrocompagno, un altro figlio. Tra screzi edissapori cercano di recuperare unrapporto che si era perduto. Una fami-glia allargata, un po’ come la nostra,useremo parecchio del nostro vissuto.Amanda e io siamo molto diverse, leirazionale, io istintiva, anche noi abbia-mo avuto i nostri litigi, ma il legame tranoi è fortissimo. Lavorare insieme cosìa lungo ci aiuterà a conoscerci meglio ea renderlo ancora più solido».

Sono cresciutacon il cinema,lo sognavoda sempreDallo schermoho imparatoa conosceremeglio l’Italia,ho imparatole parole dell’amore

Il 5 giugno la ragazzina innocentee scandalosa che seduceva MarcelloMastroianni in “Divorzio all’italiana”compirà sessant’anni. “Che cosa puòcambiare di tanto drammatico

da un giorno all’altro?”,chiede lei. Bellezzae fascino ci sono ancoraIl segreto? Sentirsi“pronta alla vita,sempre”. Negli anniSessanta fu un simbolodi trasgressione, oggi

dice: “Non c’è nulla di cui mi pentoNon c’era provocazione, c’era il miodiritto alla libertà senza vergogna”

MARIA PIA FUSCO

Stefania Sandrelli

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