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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013 NUMERO 453 CULT La copertina STEFANO BARTEZZAGHI e ENRICO FRANCESCHINI Il romanzo infinito Così le storie sopravvivono ai loro creatori Il libro LEONETTA BENTIVOGLIO La gioia della lentezza nella favola di Sepúlveda All’interno Straparlando Enrico Lucherini: “Ero un attore cane allora ho deciso di raccontare balle” Cinema PAOLO D’AGOSTINI e MARIA PIA FUSCO Festival di Roma si scalda la gara McConaughey superstar L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del mondo Tutti i colori di Rothko Paolo Jannacci, un ultimo album per mio papà Spettacoli GUIDO ANDRUETTO Bambini a tavola, cosa mangiavano i comunisti La storia SIMONETTA FIORI ei libri in mano? Sembrerebbe un bibliotecario. La penna sul foglio? Uno spasimante che scrive all’a- mata. Sugli altari, i santi si riconoscono perché esi- biscono gli oggetti della loro predicazione o del lo- ro martirio. Nessun accessorio, invece, può dare un’identità certa allo scrittore. Resta la faccia. Ma non è forse giusto così? La materia prima dello scrittore non è l’a- nima? E il volto non è lo specchio dell’anima? Ed eccoli i volti degli scrittori, sui giornali, sulle copertine, in tivù, li riconosciamo, volti nudi, volti significanti, volti-testo che i letto- ri sbirciano, scrutano, percorrono ruga per ruga in cerca di quel che non ci troveranno, o forse sì, ma cosa troveranno davvero? In Scrit- tori, un librone curato da Goffredo Fofi per Contrasto, ora ne ave- te quante ne volete, di facce d’autore. Che cosa vi diranno? Anche Leonardo Sciascia cercava ardentemente qualcosa nei volti dei suoi compagni d’arte. Collezionava ritratti di scrittori, antichi e moderni: ne ha lasciata una raccolta alla sua Racalmuto. Ne trasse anche una mostra, a Torino, dal titolo rubato a un verso di Paul Valéry: Ignoto a me stesso. (segue nelle pagine successive) MICHELE SMARGIASSI uttele mie foto dovrebbero recare questa didascalia: «Non è così che sono. È così che sono quando vengo fotografato». Non mi è mai piaciuto fare sessioni fo- tografiche, né ho mai trovato convincenti i risultati. A volte (come in questo caso) sono lusinghieri, a vol- te mi sembra che non mi rappresentino. Ma non penso mai che il fotografo abbia colto qualche essenza nascosta del mio essere (come potrebbe, in un incontro fugace di un’ora al mas- simo?). E nemmeno, quando vengo fotografato, guardo o penso ai potenziali lettori dei miei libri. Perché il rapporto con loro non è un confronto, come invece è una foto. Io non li prendo di petto, mi sie- do accanto a loro e ognuno di noi guarda verso fuori. Una foto che rappresenti questa relazione sarebbe uno scatto sfocato del mio orecchio destro, con i capelli che stanno diventando grigi, il mio grosso naso e l’occhio destro. Le inquadrature frontali degli scritto- ri hanno lo scopo di mostrarli mentre pensano, in altre parole men- tre «sono scrittori». (segue nelle pagine successive) con i commenti di ALESSANDRO BARICCO, EMMANUEL CARRÈRE e ORHAN PAMUK JULIAN BARNES DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI D T Scrittore Quando lo in si mette posa È così importante sapere che faccia hanno i nostri autori preferiti? Lo abbiamo chiesto ad alcuni di loro SALMAN RUSHDIE ALL’EDINBURGH BOOK FESTIVAL NEL 2005 © GERAINT LEWIS/WRITER PICTURES CONTRACT ANTONIO GNOLI Repubblica Nazionale

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  • LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 10NOVEMBRE 2013NUMERO 453

    CULT

    La copertina

    STEFANO BARTEZZAGHI e ENRICO FRANCESCHINI

    Il romanzo infinitoCosì le storiesopravvivonoai loro creatori

    Il libro

    LEONETTA BENTIVOGLIO

    La gioiadella lentezzanella favoladi Sepúlveda

    All’interno

    Straparlando

    Enrico Lucherini:“Ero un attore caneallora ho decisodi raccontare balle”

    Cinema

    PAOLO D’AGOSTINI e MARIA PIA FUSCO

    Festival di Romasi scalda la garaMcConaugheysuperstar

    L’arte

    MELANIA MAZZUCCO

    Il Museodel mondoTutti i coloridi Rothko

    Paolo Jannacci,un ultimo albumper mio papà

    Spettacoli

    GUIDO ANDRUETTO

    Bambini a tavola,cosa mangiavanoi comunisti

    La storia

    SIMONETTA FIORI

    ei libri in mano? Sembrerebbe un bibliotecario. Lapenna sul foglio? Uno spasimante che scrive all’a-mata. Sugli altari, i santi si riconoscono perché esi-biscono gli oggetti della loro predicazione o del lo-ro martirio. Nessun accessorio, invece, può dareun’identità certa allo scrittore. Resta la faccia. Ma

    non è forse giusto così? La materia prima dello scrittore non è l’a-nima? E il volto non è lo specchio dell’anima?

    Ed eccoli i volti degli scrittori, sui giornali, sulle copertine, in tivù,li riconosciamo, volti nudi, volti significanti, volti-testo che i letto-ri sbirciano, scrutano, percorrono ruga per ruga in cerca di quel chenon ci troveranno, o forse sì, ma cosa troveranno davvero? In Scrit-tori, un librone curato da Goffredo Fofi per Contrasto, ora ne ave-te quante ne volete, di facce d’autore. Che cosa vi diranno? AncheLeonardo Sciascia cercava ardentemente qualcosa nei volti deisuoi compagni d’arte. Collezionava ritratti di scrittori, antichi emoderni: ne ha lasciata una raccolta alla sua Racalmuto. Ne trasseanche una mostra, a Torino, dal titolo rubato a un verso di PaulValéry: Ignoto a me stesso.

    (segue nelle pagine successive)

    MICHELE SMARGIASSI

    uttele mie foto dovrebbero recare questa didascalia:«Non è così che sono. È così che sono quando vengofotografato». Non mi è mai piaciuto fare sessioni fo-tografiche, né ho mai trovato convincenti i risultati.A volte (come in questo caso) sono lusinghieri, a vol-te mi sembra che non mi rappresentino. Ma non

    penso mai che il fotografo abbia colto qualche essenza nascosta delmio essere (come potrebbe, in un incontro fugace di un’ora al mas-simo?). E nemmeno, quando vengo fotografato, guardo o penso aipotenziali lettori dei miei libri. Perché il rapporto con loro non è unconfronto, come invece è una foto. Io non li prendo di petto, mi sie-do accanto a loro e ognuno di noi guarda verso fuori. Una foto cherappresenti questa relazione sarebbe uno scatto sfocato del mioorecchio destro, con i capelli che stanno diventando grigi, il miogrosso naso e l’occhio destro. Le inquadrature frontali degli scritto-ri hanno lo scopo di mostrarli mentre pensano, in altre parole men-tre «sono scrittori».

    (segue nelle pagine successive)con i commenti di ALESSANDRO BARICCO,

    EMMANUEL CARRÈRE e ORHAN PAMUK

    JULIAN BARNES

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    ScrittoreQuando

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    È così importantesapere che faccia hannoi nostri autori preferiti?

    Lo abbiamo chiesto ad alcuni di loro

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    ANTONIO GNOLI

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  • LA DOMENICA■ 26

    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    SAMUEL BECKETT(Henry Cartier-Bresson)Parigi, 1964

    SAUL BELLOW(Ferdinando Scianna)Capri, 1984

    PAUL AUSTER(Bruce Davidson)New York, 1994

    JOHN DOS PASSOS(Philippe Halsman)New York, 1948

    CLARICE LISPECTOR(anonimo)Recife, 1936 ca.

    ANITA DESAI(Leonard Freed)Roma, 2000

    MICHAIL BULGAKOV(anonimo)Mosca, 1926

    PHILIP ROTH(Elliott Erwitt)Connecticut, 1990

    HEINRICH BÖLL(Isolde Ohlbaum)Merten, 1981

    La copertina

    MARTIN AMIS(Lord Snowdon)Londra, 1978

    ZADIE SMITH(Eamonn McCabe)Londra, 2005

    VIDIADHAR SURAJPRASAD NAIPAUL(Lord Snowdon)Londra, 1979

    CORMAC McCARTY(Gilles Peress)El Paso, 1992

    ITALO CALVINO(Gianni Giansanti)Roma, 1984

    IAN MCEWAN(Lord Snowdon)Londra, 1978

    SIMONE DE BEAUVOIR(Henry Cartier-Bresson)Parigi, 1947

    DORIS LESSING(Lord Snowdon)Londra, 2000

    NAGIB MAHFUZ(Chris Steele Perkins)Il Cairo, 1989

    JAMES ELLROY(Bruce Gilden)Connecticut, 1991

    GÜNTER GRASS(René Burri)Berlino, 1961

    M. HOUELLEBECQ(Martine Franck)Parigi, 1998

    H.M. ENZENSBERGER(René Burri)Monaco, 1960

    BRET EASTON ELLIS(Debra Hurford Brown)Londra, 2010

    Balzac ne diffidava e Salinger li sfuggivacome la pestema alla fine la forza dell’immagine vince

    quasi sempre su quella dell’immaginazione. L’ultima confermain un volume che raccoglie i più bei ritratti d’autore

    Grandifotografipergrandiscrittori

    MICHELE SMARGIASSI

    (segue dalla copertina)

    Identico concetto espresso da Kafka a un amico: il ri-tratto fotografico? «Un non-conosci te stesso mec-canico». S’illudeva allora Sciascia? Successero duecose curiose, a quella mostra. Si scoprì da un con-fronto di date che il ritratto di Luigi Pirandello nonpoteva essere il suo. Chi era dunque quel signore

    bonario con la faccia da Pirandello? Cioè con la faccia dascrittore? Un farmacista, un notaio? Che caso sapiente,questo incidente capitato proprio al poeta delle identitàincerte. E poi, il ritratto di Erskine Caldwell. Era, forse peruna svista, l’unico vivente in quella galleria: ma morì duegiorni dopo l’inaugurazione. «Per dovere di catalogo»,scrisse quasi irriverente Giovanni Arpino. Sciascia invececi vide un segno. Una prova dell’entelechiadel ritratto: nelvolto fotografato dello scrittore si legge sempre un destinogià scritto. Pensò a un ritratto di Pasolini preso da Dino Pe-driali. Da rabbrividire.

    Diffidano dunque i letterati del proprio ritratto. «Vir-ginia Woolf mi accusò di averla violentata facendole ilritratto», si lamentò Gisèle Freund, «ma non ci si cambiad’abito due volte per farsi violentare...». Diffidano, mapoi ci cascano tutti. Perfino Balzac, convinto che ogniscatto sbucciasse via, come da una cipolla, una pellico-la dal corpo mistico dell’uomo, finì nel Panthéon di Na-dar. Diffidano giustamente: il volto dello scrittore è pre-potente, invadente. Condiziona l’immaginario del let-tore. Volerlo o no, Leopold Bloom ha per noi i tratti sca-vati di Joyce, e Simenon con la pipa è Maigret. Per que-sto, forse, Salinger detestava i fotografi e li fuggiva comela peste. O forse perché lo ripresero a tradimento men-tre usciva da un supermercato. Uno scrittore somiglia auno scrittore anche quando spinge il carrello della spe-sa? Sì, rispose Roland Barthes, perché così li vuole l’in-dustria culturale: devono apparire esseri speciali che

    «secernono letteratura» in ogni momento, anche invo-lontariamente, anche in spiaggia sotto l’ombrellone.

    Il volto dello scrittore è un volto speciale, aureolato?Beffarda, la rivista Life nel 1947 fece un contro-esperi-mento: mostrò ai suoi lettori ventotto fototessere, senzadidascalie, di scrittori di gialli mescolati a serial killer, e liinvitò a distinguere gli uni dagli altri. Non conosciamo l’e-sito. Ma qualcuno avrà scoperto con sorpresa che in fon-do uno scrittore talvolta può avere veramente una facciada scrittore. Ma forse è un caso. L’immagine fotograficacrea non il letterato, ma la sua scena. Si dice che fu una fo-to di gruppo (c’erano Beckett, Robbe-Grillet, Simon, Ser-raute) presa da Mario Dondero nel ’59 sul marciapiededavanti alle Éditions de Minuit, a creare il noveau roman.Di quella scena i letterati sono attori consapevoli. Foto-grafata da Ulf Andersen, Julia Kristeva ammise: «questa èla maschera che mi protegge, e che mostro a voi». Molti diloro la indossano con sapienza. Hemingway e Twain, perdirne due, gestirono meticolosamente le proprie appari-zioni fotografiche suggerendo una lettura dell’opera at-traverso l’esposizione del corpo.

    Mostrarsi o no? Ma la domanda è già risolta. Ci guarda-no a centinaia, in libreria, dalle vetrine della quarta di co-pertina. Walt Whitman, pioniere anche in questo, pub-blicò alcune edizioni di Foglie d’erba con il suo ritratto alpostodel nome in frontespizio. Il volto dello scrittore ora èpubblico come il volto dei politici, un volto senza aura, rag-giungibile, negoziabile, consumabile. Eppure, come ver-seggiò Montale sul dagherrotipo d’un avo, «resta / chequalcosa è accaduto, forse un niente / che è tutto». In unafoto c’è sempre uno scarto fra la costruzione che intendeessere e la realtà indefinita che vi s’intrufola. Se il fotografoè fortunato, scrisse Josif Brodskij, nel ritratto dello scritto-re coglierà «una poesia non compiuta, che non ha ancorail prossimo verso».

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  • ÁGOTA KRISTÓF(Isolde Ohlbaum)Solothurn, 2005

    JOHN STEINBECK(Philippe Halsman)New York, 1953

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    (segue dalla copertina)

    Ma io non penso mai a «essere uno scrittore» quando mi fotografano, tanto meno pen-so: «Devo sembrare un tipo buono e amichevole, così piacerò ai potenziali lettori».È più probabile che stia pensando a quello che potrei cucinare per cena. Recente-mente, un fotografo che aveva fatto molti ritratti di scrittori mi ha chiesto di poter ri-

    trarre anche me. È stato molto educato e quindi ho ritenuto che si meritasse una spiegazione co-me si deve. «Il fatto è», gli ho detto, «che quando vengo fotografato lo percepisco come un perio-do di tempo che mi viene sottratto, tempo in cui magari avrei potuto fare qualcos’altro, tempoche non sarò mai in grado di recuperare. Perciò essere fotografato spesso mi fa pensare alla mor-te». Sono andato avanti così per un po’, poi mi sono fermato. Il fotografo sembrava confuso.«Quindi è un no?», mi ha chiesto.

    Ai vecchi tempi, scrittori come Graham Greene ed Evelyn Waugh potevano andare avanti pertutta la loro carriera editoriale con solo due foto di copertina: una quando erano astri nascenti,una quando erano romanzieri affermati. Oggi tutti — giornali, riviste, radio o programmi tv — siaspettano, come se fosse un loro diritto, una tua immagine inedita, e di conseguenza io sono sta-to fotografato centinaia di volte. E in generale ho scoperto che preferisco di gran lunga essere fo-tografato dalle donne che dagli uomini. Sono sempre gli uomini che se ne escono con le cazzate(«Perché non si mette quel cappello lì?», «Perché è di mia moglie»), che vogliono che tu apra unombrello in un giorno di sole, che ti metta seduto per terra in un angolo della stanza e così via.Qualcuno prova a intimidirti; altri ti spiegano con magniloquenza che c’è un concept dietro allafoto (un concept che raramente include l’aver letto i tuoi libri). Una volta sono stato fotografatoda Richard Avedon, e ho saputo poi che mi considerava la persona più difficile che si era mai tro-vato a ritrarre (e, a quanto pare, aveva distrutto i risultati). L’ho preso come un complimento. Ledonne sono più tranquille, più gentili, palesemente meno sicure di sé. Ricordo benissimo la ses-sione con Jillian Edelstein, nel 1991. Era venuta per fotografare me e mia moglie per un progettosulle coppie che lavorano insieme (mia moglie era il mio agente letterario) e dopo ci chiese se po-teva farci delle foto da soli. Io indossavo un giubbotto di pelle scamosciata blu scuro. Mi chiesedi tirare su la lampo (cosa che faccio raramente, se non proprio mai) e poi di sollevare il colletto(cosa che non faccio mai). Mi fidai di lei e feci come mi diceva, anche se nella foto, con quelle spal-le strette, sembro un po’ un cardinale di Manzù. E dato che mi fidavo, il sorriso che si vede nellafoto è più sincero del solito, o almeno mi sembra più sincero a guardarlo ora. Ma resto comun-que convinto che non era così che ero ventidue anni fa. Era così che ero quando mi fotografava-no ventidue anni fa.

    (Traduzione di Fabio Galimberti)

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    Se fai lo scrittore di mestiere, una delle cose più fastidiose che ti possano capitare è trovar-ti nella necessità di fare un servizio fotografico. Io ho sempre cercato di limitare al mini-mo le possibilità che la cosa mi accadesse: per dire, non ci sono mie foto sui miei libri (co-sa che, peraltro, quando ho cominciato sembrava una bestemmia: ma lì mi ero impun-

    tato: niente foto in quarta di copertina e nemmeno nel risvolto: ancora adesso, quando vedo lafaccia di un mio collega bella grande sulla quarta di copertina rimango incredulo, non riesco acapire, mi vergogno per lui). Comunque ogni tanto accade. Nel caso specifico di questa foto suibinari non ricordo bene a che punto ero della mia carriera, ma sicuramente avevo già superatola fase in cui ti arrendi al fotografo e fai uno dei tre tipi classici di foto “da scrittore”: 1. Fissi l’ob-biettivo con una certa mansueta intensità e ti tieni su il mento con una mano, possibilmente unpo’ esangue; 2. Non ti fai la barba e fissi l’obbiettivo con odio; 3. Sorridi cordiale mentre tieni inbraccio il tuo cane. Quindi, con Koch abbiamo passato la giornata a studiarci qualcosa d’altro.Probabilmente gli avevo chiesto di fotografarmi da più lontano possibile, col teleobbiettivo: nonche mi fosse antipatico, anzi, è la macchina fotografica che mi è antipatica. Per il resto ricordo so-lo che alla fine era stata una bella giornata. Di sole. La foto più bella non credo che sia mai uscita:c’ero io che ridevo con tre vecchietti al tavolo di una bocciofila. Non avevo l’aria di essere unoscrittore, peraltro.

    Odio la quarta di copertina

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    Alessandro Baricco

    Per esempio BeckettEmmanuel Carrère

    La fotoè stata scattata durante il Festival di Cannes, maggio 2007. Io facevo parte della giu-ria e assolvevo al mio compito con impegno e coscienziosità. Tra i miei doveri di giura-to, oltre a quello di guardare tre film al giorno (senza cadere addormentato durante laproiezione), c’era anche quello di posare per i fotografi. Prendevo il mio lavoro sul serio

    e ascoltai il consiglio del fotografo che mi chiedeva di saltare… Quella posa non era destinata al-la quarta di copertina di qualche libro. La mia opinione è che gli scrittori devono avere un’ariapensosa, mite e comprensiva nel ritratto in quarta di copertina, anche se non sono di quell’u-more quando posano per la foto. Leggere un romanzo significa accettare di passare un po’ di tem-po in intimità con qualcuno che magari non conosci di persona. Quando leggo un romanzo nonmi limito a trasformare mentalmente in immagini le parole del testo, mi immagino anche la fac-cia dell’autore, specialmente se il testo mi piace. Se nella quarta di copertina non c’è la tua foto,il lettore forse apprezzerà il testo e ti immaginerà con la faccia di suo zio o di un suo caro amico.Non è una tragedia, ma è impreciso.

    Non vorrei mi scambiaste per vostro zio

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    Orhan Pamuk

    Se proprio devo, meglio una donnaJulian Barnes

    ‘PATRICIA HIGHSMITH(Martine Franck)Fontainebleau, 1974

    ALESSANDRO BARICCO(Roberto Koch)Torino, 1997

    EMMANUEL CARRÈRE(Lise Sarfati)Parigi, 2004

    ORHAN PAMUK(Alex Majoli)Cannes, 2007

    IL VOLUME

    Scrittori (da cui sonotratte le immaginipubblicate in queste pagine)è edito da Contrasto(512 pagine,29,90 euro). Curatoda Goffredo Fofi

    raccoglie 250 ritrattidi scrittori dai primi del ’900 a oggi realizzati da grandifotografi. Dal 21 al 24 novembrealcune foto saranno espostesulle facciate dei più prestigiosiedifici del centro di Milano

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Mi sembra normale che i lettori possano disporre della mia foto. Senza essere esibi-zionista, quando scrivo cerco di essere onesto, mostrandomi per quello che sono.Con il lettore cerco di costruire un legame di complicità e d’amicizia, cui l’imma-gine fotografica può dare un contributo. Ma l’efficacia di una foto dipende anche

    dal legame che si crea tra me e il fotografo. Con Lise Sarfati, che pure conoscevo pochissimo,c’è stata subito intesa. Le sue foto di una Russia decrepita e alla deriva mi erano piaciute tan-tissimo. Ed è come se l’eco di quel mondo si trovasse un po’ anche negli scatti che mi ha fatto.Oggi è raro leggere uno scrittore di cui non si conosca il ritratto. L’ideale di una lettura vergined’ogni immagine a me però non interessa, anche perché amo molto le foto degli scrittori. Al-cuni hanno volti eccezionali. Penso per esempio a Beckett. Tra la sua opera e il suo ritratto misembra che ci sia una coerenza assoluta. E nella bellezza del suo viso è come se fosse presenteuna parte della forza della sua scrittura.

    (Testo raccolto da Fabio Gambaro) ‘JULIAN BARNES(Jillian Edelstein)Londra, 1991

    ERNEST HEMINGWAY(Robert Capa)Sun Valley, 1940

    HERTA MÜLLER(Vincent Mentzel)Amsterdam, 2010

    GEORGE B. SHAW(Yousuf Karsh)Londra, 1943

    KENZABURO OE(Denis Allard)Parigi, 2012

    ISMAIL KADARÉ(Richard Kalvar)Parigi, 1991

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    L’attualitàNuove trincee

    vendersi le competenze acquisite e i softwa-re brevettati nel mercato civile, diventandoin qualche caso milionari. La loro divisa èquella classica verde oliva, ma il loro reparto,oggi il più numeroso dell’esercito israeliano,è molto, molto speciale: non sono comanda-ti da un “generale” qualsiasi, bensì da un “ca-po dipartimento per la preservazione dellafollia” (Head of the Department of the Law forPreserving Madness); il primo ordine cheviene loro impartito è “state fuori dagli sche-mi”; un quinto dell’orario di servizio è libero,purché speso a pensare e inventare. Una di-

    sciplina da Silicon Valley, certo non da caser-ma. Militari creativi, e parecchio.

    Un tempo soltanto il fatto di nominarla inpubblico avrebbe potuto provocare l’arrestoper rivelazione di segreto militare, ma ades-so la Unit 8200 — quella che si occupa dellaguerra elettronica: è suo il virus Stuxnet cheha fatto impazzire il sistema informatico chegestisce le centrifughe proibite in Iran — hasuperato i muri della censura, è diventato unmarchio e attrae un numero crescente di gio-vani per le grandi opportunità che offre an-che dopo la leva. Due volte a settimana due-

    cento studenti delle scuole superiori — scel-ti per capacità — frequentano seminari in di-verse zone del Paese per essere ammessi, do-po un’ulteriore scrematura, a un corso tenu-to da ex ufficiali addetti alla cyberwar. Ma i di-plomati in questi corsi non ottengono auto-maticamente l’ingresso nella Unit 8200. De-vono superare ancora i test rigorosissimi chel’Idf (Israeli Defence Forces, l’esercito) im-pone agli aspiranti.

    Se questi ragazzi rappresentano l’avan-guardia di tutti i cyberwarriors del mondo èperché Israele è già dentro una cyberwar. Lesue reti governative sono tra le maggiormen-te attaccate, con aggressioni quotidiane chesuperano le decine di migliaia fino alle cen-tomila nei periodi più caldi. Durante la guer-ra di Gaza, un anno fa, mentre i caccia israe-liani bombardavano Hamas i tecnici infor-matici civili hanno respinto milioni di tenta-tivi di attacco sui siti web governativi. «Unaguerra invisibile ma che si avverte e si avver-tirà sempre di più», dice il premier BenjaminNetanyahu quando parla degli attacchi chele reti civili subiscono ogni giorno, dalla El Al,la compagnia aerea di bandiera, alla BancaUNIT 8200

    TEL AVIV

    anno tra i 19 e i 23 anni, sono icervelli più brillanti della gio-ventù israeliana e si trasfor-mano nei migliori cyberwar-

    riors del mondo. Per entrare nella Unit 8200devono superare una selezione durissima al-la fine delle scuole superiori. Per tre anni la-vorano in un palazzo in una località segretanella periferia di Tel Aviv. Poi potranno ri-

    FABIO SCUTO

    H

    È lo Stato più esposto agli attacchiinformatici e perciò ha selezionatola truppa con computerpiù all’avanguardia del pianetaSoldati-cervelloni che dopo tre anni di levafanno la fortuna delle aziende hi-techdella Silicon Wadi. Tanto per dirne una:da chi pensate sia stata inventatala chiavetta Usb se non dal battaglionecomandato da un “capo dipartimentoper la preservazione della follia”?

    Israelereparto

    cyberwar

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    centrale, alla Borsa, ai sistemi di comunica-zione da parte di hacker islamisti o per contodi governi stranieri. Negli anni, l’8200 è di-ventata la più grande unità dell’esercitoisraeliano, con diverse migliaia di militari im-piegati. Ed è paragonabile nella sua funzio-ne, e nella sua efficienza, alla Nsa americana.È divisa in due dipartimenti: la ricerca di nuo-ve soluzioni informatiche da utilizzare inazione o in preparazione dei soldati e la rac-colta di informazioni dalla sua base centralenel deserto del Negev, dove si trova una dellepiù grandi stazioni di ascolto del mondo ingrado di monitorare le chiamate telefoniche,le e-mail e altre comunicazioni in tutto il Me-dio Oriente, l’Europa, l’Asia e l’Africa, così co-me rilevare le rotte delle navi e le loro comu-nicazioni.

    Il sistema di lavoro dei “creativi” è del tut-to simile a quello delle grandi aziende infor-matiche come Google, Intel, Microsoft, Sam-sung, che non a caso hanno aperto grandi fi-liali in Israele in cerca di talenti. “Stay hungry,stay foolish”, prima di Steve Jobs l’avevanogià pensato quelli dell’Idf. I due responsabilidell’unità non possono essere nominati per

    motivi di sicurezza, ma i loro titoli rivelanoabbastanza. Il tenente-colonnello K. è ChiefTechnology Officer — un titolo che si trovasolo nelle aziende hi-tech — e il comandan-te T. è il capo dipartimento per la preserva-zione della follia di cui sopra. È lui il respon-sabile dell’innovazione strategica del team.T. assicura che le idee del gruppo siano quel-le giuste mentre K. si occupa del loro svilup-po e della loro esecuzione. «Ci sono casi in cuibisogna saper adottare rapidamente nuovetecnologie e ci sono casi in cui non ci sono ebisogna inventarle», spiega l’ufficiale K.: «Inquesto settore non c’è quasi nessuno chepossiamo emulare, siamo i primi e quindidobbiamo produrre innovazione da soli». Atrecentosessanta gradi.

    Davvero in pochi, per esempio, potrebbe-ro collegare la divisa verde dell’esercito israe-liano con l’ambiente della moda. Così comela maggior parte degli utenti di Stylit.com —un sito dove un personal stylist virtuale vi aiu-ta a scegliere i vestiti secondo il vostro gustoe budget, usato negli Usa dalle grandi griffedel prêt-à-porter — non sa di adoperare unatecnologia i cui algoritmi sono stati sviluppa-

    ti per monitorare e prevenire attacchi ka-mikaze. Bene. Yaniv Nissim, l’inventore diStylit, è un veterano della Unit 8200, uno diquelli che ha partecipato al programma cheaiuta gli ex militari dell’unità a commercia-lizzare le loro invenzioni sul mercato civile,un programma che ha generato più miliona-ri in Israele delle scuole di Business Admini-stration. Sono invenzioni israeliane l’istantmessaging, la chiavetta Usb, i firewall e i col-legamenti sicuri che consentono la maggiorparte delle operazioni bancarie, così come lametà delle app dell’iPhone. Aziende israelia-ne leader in tutto il mondo come Nizza, Com-verse, Check Point sono state create tutte daex soldati della Unit 8200 su tecnologia svi-luppata mentre erano arruolati. Nuove start-up come Stylit sperano di emulare il succes-so di Waze, il navigatore social-network svi-luppato da un ex cybersoldier e acquistato daGoogle due mesi fa per più di un miliardo didollari. Grandi algoritmi sviluppati per pre-venire attacchi nemici sono alla base diAny.Do, una delle applicazioni persmartphone più popolari del mondo, e Rom-pr, una app mobile attraverso la quale i geni-

    tori possono condividere informazioni sulleattività dei più piccoli, e non, della famiglia:l’amministratore delegato Noa Levy e le altretre co-fondatrici hanno tutte servito nell’u-nità hi-tech dell’esercito israeliano.

    Il colonnello Nir Lempert, ex vice-coman-dante dell’Unit 8200 e presidente dell’asso-ciazione dei suoi ex soldati, racconta comequei ragazzi siano addestrati a risolvere i pro-blemi in team multidisciplinari, basati sumetodi aziendali. Sono incoraggiati a pensa-re in modo diverso. «La missione centrale delgruppo è quella di salvare vite, prevenendoattacchi terroristici e di altro tipo», dice Lem-pert. «Insegniamo alla nostra gente che lamissione è così importante che non c’è alcu-na possibilità di fallimento». Perché «il cy-berspazio», aggiunge Amos Yadlin, ex capodei servizi segreti militari e ora rettore dell’I-stituto di studi strategici di Herzliya, «conce-de a piccoli Stati e ai singoli individui un po-tere che finora era appannaggio solo delle su-perpotenze. La cyberwar ha la stessa portatainnovativa che ebbe l’Aeronautica nelleguerre del XX Secolo».

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    LA MISSIONELa Unit 8200 si occupadi intelligence e sicurezzainterna. È l’equivalentedell’Nsa Usa e del Gchqbritannico

    L’ATTIVITÀIl reparto raccogliee archivia grandi quantitàdi dati per analizzarlie decodificarli nel casosiano messaggi criptati

    LE BASILa più importante è a Urimnel deserto del NegevIntercetta telefonate,e-mail e comunicazioniinternazionali

    LE DIMENSIONIAd oggi la Unit 8200è considerato il repartopiù numeroso all’internodell’Idf (Israel DefenceForces), l’esercito israeliano

    IL VIRUSNel 2010 scoppia il casoStuxnet: un virus creatodalla Unit 8200per sabotare gli impiantinucleari iraniani

    LE INNOVAZIONIMolte delle tecnologiesviluppate dalla Unit 8200si trovano oggi sul mercato:come la chiavetta Usb,i firewall e diverse app

    TOP SECRETIn queste paginele unicheimmaginidei soldatidi Unit 8200,reparto specialeisraeliano,durantel’addestramento

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  • LA DOMENICA■ 30

    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    La storia La leggenda poggia su un fatto storico: le carestie nell’Urss degli Anni ’20 e ’30

    PRIMA PAGINALa copertina del 1944 de La Domenica del Corrierecon la falsa notizia della deportazione in Urss dei bambini italiani; qui sopraun biglietto di auguri per la Pasqua del 1944 mostra in un fumetto i bimbi deportati in Siberia da Stalin

    ILLUSTRAZIONIL’orco comunista con le sembianzemongole di Stalin e un bimbo simbolo del nuovo anno, il 1955: “Sono appenaarrivato e già la tua ombra mi perseguita”Un manifesto del 1946 invita le madri a votare Dc per “salvare i propri figli”A destra in senso orario tre manifesti della Rsi (1944):nel secondo il bombardamentodi Gorla, quando (20 ottobre1944) gli Alleati colpirono una scuola di Milanouccidendo 184 bambini; nel terzo “Baffone”stritola un bimbo:“Se la Russiavincesse la guerra”

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    Settant’anni dopo uno studioso indaga sulle origini di un mito che ancora oggi viene alimentato

    ggi dicono che accada il contra-rio, che siano i bambini a man-giarsi i comunisti, o quel che restadi loro. Ma quella dell’orco rosso,terrifico divoratore dell’infanzia,non è una favola che si possa fa-cilmente liquidare. Perché come

    tutte le leggende racconta molti dei pregiudizi, de-gli odi e dei timori di una comunità. E nel nostro ca-so racconta la storia di un Paese che fatica a cre-scere, ancora prigioniero d’una credulonità con-tadina e di un’eccitazione emotiva comprensibilesolo in tempo di guerra. Un’Italia che ancora nonriesce a chiudere completamente con una delle in-venzioni più fortunate e resistenti della comunica-zione politica novecentesca. La bestia di Pollicinoridipinta con le sembianze mongole di Stalin. O,più in generale, la leggenda dei comunisti che sinutrono di carne tenera.

    Lo specchio moltiplicatore del web la riproduceovunque nella scena planetaria. Basta un click per-ché si riverberi in tutte le lingue del mondo. Unostorico da sempre attento alla mentalità, StefanoPivato, s’è preso la briga di andare a contare i sitisull’argomento, stupefatto dall’enorme diffusio-ne del mito. Ma soltanto da noi può vantare un re-cord che attiene alla durata e soprattutto al suo ra-dicamento, non solo nei recessi dell’immaginariopopolare ma nella dignità ufficiale della sfera pub-blica. Ed è il bel saggio di Pivato a farcelo notare (Icomunisti mangiano i bambini. Storia di una leg-genda, Il Mulino). Dal ventennio nero a quello az-zurro, dagli articoli di Mussolini a quelli contem-poranei del Giornale, da Guareschi a Berlusconi,passando per Cossiga che regala gustose bamboli-ne di zucchero al neopremier D’Alema, il ceto po-litico e intellettuale italiano si mostra affezionato auno degli archetipi più perturbanti della vulgataanticomunista. E se non mancano le ragioni stori-che — la lunga esperienza del fascismo che di quelmito fu l’iniziale propagatore e la presenza in Italiadel più grande partito comunista d’Occidente —bisognerebbe però affidarsi a un bravo psichiatracollettivo per risalire alle cause di una patologiaancora corrente.

    A svuotarne il senso originario non sono bastateneppure le armi della satira, che ha risposto con ol-tre cinquant’anni di ritardo a un accorato appellodi Pietro Ingrao rivolto all’intellighenzia italiana:«Ci sarà mai uno scrittore che sappia bollare que-sti seminatori di discordia?». Ci ha provato PaoloVillaggio in uno dei suoi racconti surreali, immagi-nando un ingolosito Togliatti che ordina bambinifritti, mentre Nenni appesantito da una fastidiosagastrite ne ordina uno crudo, «possibilmente an-cora vivo». E se Gaber cantava «Qualcuno era de-mocristiano perché i comunisti mangiavano ibambini», più di recente Crozza ne ha ricavato unpersonalissimo albero alimentare: «Fassino è la di-mostrazione che i bambini non fanno ingrassare».Ma soltanto sette anni fa Palazzo Chigi dovevachiedere scusa al governo di Pechino per una gaf-fe del premier, che aveva evocato prelibati bolliti dineonati in salsa cinese.

    Come tutte le leggende, anche questa dell’an-tropofagia comunista parte da un elemento direaltà, che però viene stravolto nell’estro cupodella propaganda. E l’origine va cercata nelle pra-tiche cannibaliche fiorite in Urss tra gli anni Ventie Trenta nei luoghi delle carestie. Figli sbranati perfame. Costolette umane servite al mercato nero.Vedove che rivendicano la carne del marito mor-to. E genitori allucinati che per nutrire i primoge-niti sacrificano i minori. Tragedie della fame checon passo biblico sono state narrate da Koestler,da Salamov, da Grossman e da una preziosa lette-

    ratura storiografica che ha fatto luce sulle grandicarestie sovietiche e più tardi sull’assedio di Le-ningrado. Storie terrificanti che però ci parlanonon di comunisti vocati al cannibalismo per ciecafede, bensì di povera gente vittima del comuni-smo, condannata a farsi bestia anche in conse-guenza della sciagurata collettivizzazione forzatadelle campagne voluta da Stalin. Quello dell’an-tropofagia — ci ricorda Pivato — è un fenomenotrasversale alle diverse nazionalità, dettato dacondizioni eccezionali e non dal credo politico. Ilregime sovietico tentò di soffocarlo con il carceree le fucilazioni. Ma la propaganda di Mussolini fuabile nel trasformare la disperazione in ideologia,promuovendo la cannibalizzazione a metafora diun sistema vorace. In questa operazione fu certoaiutata dalle prime notizie — queste sì veridiche— che giungevano dall’inferno comunista, tra igulag e le esecuzioni di massa. E il clima di forteemotività portato dalla guerra avrebbe fatto il re-sto.

    L’orco comunista arrivò in Italia nel Natale del1943. Le famiglie furono raggelate da un articolocomparso sulla prima pagina de La Stampa. “I ra-gazzi e bimbi italiani saranno deportati in Russia.Partiranno dalla Sicilia per un viaggio lungo lungo,che per i più non avrà ritorno”. Anche qui la fanta-sia dei cronisti galoppò a briglia sciolta. Scene di di-sperazione nei porti dell’isola. Donne straziate daldolore. Padri suicidi insieme ai figli, strappati conla morte a un destino crudele deciso niente menoche da Vysinskij, procuratore generale delle gran-di purghe staliniane. La notizia ballò per giorni egiorni, con tanto di naufragio di una delle navi euna crescente corresponsabilità di alleati inglesi eamericani. I disegni di Walter Molino sulla Dome-nica del Corriere e i manifesti della Repubblica So-ciale provvidero a fornirne una documentazioneiconografica. Naturalmente si trattava di una “bu-fala”, una delle più clamorose costruite dal fasci-smo durante la guerra. Nessun bambino italiano fudeportato in Unione Sovietica. Ma la favola era giàscritta, nutrita dai timori ancestrali di una comu-nità scossa dalla guerra. Nell’immaginario nazio-nale era entrato il terribile Moloch rosso.

    La storia però resterebbe incompleta se non ag-giungessimo che in Italia l’orco esisteva già da tem-po. E non con il volto peloso di Stalin ma in abiti ta-lari, «simbolo di un fagocitante cannibalismo cat-tolico». Pivato evoca le tavole di Galantara — irri-verente vignettista anticlericale — che sul finiredell’Ottocento riproduceva «preti e frati con sem-bianze feroci dietro le sbarre di una prigione». Oanche «nell’atto di stritolare tra le mani fanciulli in-difesi». O ancora «con bocche smisurate pronte ainghiottire frotte di scolaretti». Era in gioco il con-trollo dell’educazione dei bambini, che con la na-scita dello Stato italiano era stata affidata alle scuo-le laiche. La satira cattolica non restò certo a guar-dare, sfigurando in panciute fattezze i nemici del-la sinistra accusati di furto di tessere. Un appetitobestiale si stava impadronendo dell’iconografia edel linguaggio pubblico italiano, presto tradottonelle sembianze di lupi, pescecani, avvoltoi, pio-vre e serpenti scagliati contro il nemico. Comin-ciava così quella «zoologia del terrore» che avreb-be caratterizzato la cannibalizzazione politica delNovecento.

    Da qui arriva anche il nostro orco comunista,che attraversa indenne il XX secolo. Fino a far ca-polino nelle redazioni e nelle istituzioni pubblichedel nuovo millennio. Anche quando i comunistinon ci sono più. E quel polveroso Barbablù rischiadi diventare la favola triste di un paese mai diven-tato adulto.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    OIL LIBROTutte le illustrazionipubblicate in questepagine sono tratteda I comunistimangiano i bambini.Storia di una leggendadi Stefano Pivato(Edizioni il Mulino, 184 pagine, 14 euro)

    Quell’orco natonel Natale del ’43SIMONETTA FIORI

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    “Non riusciva ad andare in montagna perché poi lassù gli mancava il tram”. Passeggiando per le strade della Milanoamata e cantata da Enzo insieme al figlio PaoloChe ci apre i cassetti di casa ripescando ricordi e appunti privatiE che ora sta curando l’album postumo del papà

    GUIDO ANDRUETTO

    MILANO

    «Papà diceva sempre chenon riusciva ad andare inmontagna perché glimancava il tram». PaoloJannacci sorride e si emoziona mentre guarda ibinari che circondano il monumento alle Cin-que Giornate, zona Porta Vittoria, una di quel-le a cui è più affezionato e che anche Enzo ama-va molto. Amava tutta la città, sempre ricam-biato.

    A poco più di sette mesi dalla sua scomparsaMilano gli renderà omaggio ancora una volta,tra pochi giorni, il 18 novembre, a Palazzo Ma-rino, Sala Dell’Orologio, quella delle grandi oc-casioni. Verrà presentato qui il suo album po-stumo (L’artista uscirà il 26 novembre per l’eti-chetta Ala Bianca). Ed è questa l’occasione cheha spinto suo figlio Paolo a riannodare il filo deiricordi e ripescare dall’album di famiglia vec-chie fotografie — Enzo giovane, lui bambino —e poi tanti appunti, fogli volanti, bloc notesd’hotel, sacchetti per il mald’aria dell’ Alitalia, sui qua-li il padre provava testi, boz-ze di sigle, scalette, amarisfoghi e dolcissimi pensieri.Come questo, «comunquevada ti sono vicino e ti vo-glio bene», e si rivolgeva aun figlio con cui condivide-va tutto, anche l’incantesi-mo della musica.

    Seduti su una terrazza diun bar del centro, adessoPaolo ricorda: «Mi vengonoin mente certi suoi silenzi, ece ne sono stati tanti, eognuno aveva un suo sen-so. Poteva essere l’attesa,l’intesa, o lo stupore. A vol-te è solo con il silenzio cheparlavamo. Ma non ci sia-mo mai allontanati. La no-stra relazione era fatta di vi-cinanza e di complicità.Quando mi scrisse quel bi-gliettino voleva farmi capi-re che l’importante è voler-si bene e che tutti i problemisi possono superare. Nonha mai smesso di reggermisul piedistallo, per tutta lavita lo ha fatto».

    La vita è sempre stata ilcuore delle canzoni di EnzoJannacci, un mondo di pa-role e di note in movimentoin cui si mescolano poesia,arte, intrattenimento, ca-baret, teatro, attualità. «Lecanzoni del papà sono sem-pre state molto fedeli allasua linea di pensiero. Era unlibero pensatore, dicevaquello che gli sembrava piùcorretto, sempre, anche nelsuo lavoro di medico. Cre-deva che la vita dovesse es-sere vissuta in un determi-nato modo e che ci fosserodelle cose più o meno sba-gliate, più o meno diverten-ti da dire, e le raccontava, semplicemente. Mi fapiacere che oggi la gente stia mostrando inte-resse verso i suoi brani più datati, intendo quel-li scritti negli anni ’60, perché se uno scopreoggi che certe cose le diceva già cin-quant’anni fa, allora significa che la realtà ei rapporti tra le persone non sono poi cam-biati così tanto». Paolo si interrompe, pren-de fiato, è una mattina assolata di novem-bre, sembra quasi primavera a Milano, e gliocchi gli brillano. «Questo album è unascommessa. Voglio che sia perfetto, stiamoancora rivedendo tanti di quei dettagli in que-sti ultimi giorni... Sarà un disco popolare».

    Del contenuto non è dato sapere granché, se

    non che ci sarà un solo brano inedito, Desolato,con musiche di Paolo e testo scritto da Enzo e dalrapper J-Ax. Non mancheranno alcuni cavalli dibattaglia: La sera che partì mio padre, Maria meporten via, Un amore da 50 lire, naturalmenteL’artista. «Sono canzoni che adoro cantare —confessa Paolo, polistrumentista con una voca-zione per il jazz e la musica leggera — se vogliamoforse le più ingenue, ma solo perché raccontanostorie facili. Prendi Un amore da 50 lire, dove c’èquesto povero che si innamora di una ragazza e lefa la corte, ma alla fine lei gli allunga 50 lire perchéè convinta che stia lì a chiederle la carità. Storieminime, ma che mettono a nudo le emozioni, eanche un certo modo di vedere la vita. Musicalmelo ricorda subito, mi ricorda com’era fatto, comeviveva la musica. E allora…Concertoinvece tira inballo me perché mi sento ancora un ragazzino chepuò sbagliare. Mio papà era uno sapeva andaredritto al cuore delle questioni. Soprattutto negliultimi anni toglieva tutto quello che non era utile.Privilegiava la sostanza alla forma. Una capacitàche hanno solo i grandi artisti». E Jannacci lo è sta-to. «Ha sempre avuto rispetto per il pubblico equesta cosa me l’ha inculcata a martellate. Mi ha

    insegnato l’importanza di rispettare gli altri, il be-ne comune. Sono valori importanti che a mia vol-ta sto cercando di trasmettere a mia figlia».

    Paolo Jannacci ha quarantuno anni che nondimostra. Sa bene che la passione per la musicaè «un dono» e anche che «poi il talento devi col-tivarlo, mantenerlo, e quando fai fatica a studia-

    SpettacoliUltime parole

    re diligentemente ti senti in colpa, lo senti tuttoil peso della responsabilità». E poi c’è il pia-noforte, «il migliore amico di papà e anche ilmio. Diceva che era l’unico che non lo aveva maifatto uscire con le ossa rotte, il solo che non loaveva mai tradito, quello che sapeva ascoltare isuoi segreti più intimi». E poi ancora c’è la tele-visiùn, quella che la g'ha na forsa de leun: «Quel-la che faceva lui mi è sempre piaciuta molto. E

    penso a Saltimbanchi si muore, super speri-mentale, e poi a Ci vuole orecchio, Gran sim-

    patico e a Trasmissione Forzata, con DarioFo. Io e lui insieme negli anni Novantaabbiamo fatto Milano Bolgia Umana. Epoi lo speciale di Che tempo che fa daFabio Fazio, bellissimo, quello lì se loricordano tutti....».

    Riprendiamo a passeggiare e davan-ti a noi scorre la Milano dell’Expo chesarà, con la sua nuova skyline: «Nonera mica un nostalgico, uno di quelliancorati all’idea della vecchia Milano,all’immagine del Naviglio per dire. Alpapà le novità piacevano, tutto quel-lo che era nuovo lo incuriosiva, grat-tacieli compresi. Sapeva che le radicisono importanti ma allo stesso tempoguardava con interesse ogni elementod’innovazione, di cambiamento. Ov-

    vio, oggi è cambiato radicalmente ilmondo del lavoro che lui ha raccontato

    in canzoni come Vincenzina e la fabbri-ca, adesso le fabbriche si svuotano, ma

    non importa, quello che lui e Beppe Violavolevano cantare era, credo, la tristezza di

    entrare lì dentro per essere sfruttati».

    Jannacci

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    “Io, lui, più un pianoforte che non tradisce mai”

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  • APPUNTIQui sotto Lettera da lontano:scritta nel 2001citava in un passaggiol’attivista italiana Silvia Baraldini;in questo appunto preparatoper un’esibizione a Sanremodopo il G8 Jannacci sostituisce il nome della donna con quello di Carlo Giuliani. Più sotto ancorauna dedica al padre scritta da Enzo in terza persona per l’uscitadell’album Come gli aeroplani (2001)Da sinistra, la scaletta per un concerto, note per il testo di Ah che sarà, appunti per Il suonatore di contrabbasso(1998) e, sotto, una scala musicale su un taccuino d’hotel

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    Tuttosu miopadre

    FOTOGRAFIEEnzo e Paolo Jannacci(di spalle nella fotogrande e, a destra,da piccolo con la tromba)

    Grazie a nessunoEnzo Jannacci,su questo suo ultimo lavoro,non intende ringraziare nessuno,perché piuttosto amareggiato da chi per più di quattro anni ha trovato un modo sublime di umiliarlo, incensandolo primae dandogli una pedata nel culosubito dopo; in silenzio,per non farsi capire.Jannacci comunque intendededicare queste sue ultimecanzoni, completamente nuove,a suo padre (che almeno è sullacopertina del disco) e a tutticoloro che continuano a credere,malgrado tutto, in certi valoricome il rispetto e l’altruismo;con i quali è cresciutoe nei quali continua a credere,perché siamo unitida un dono comune:“Non abbiamo smarritoil significato del latino charitas,che non si celebrae non si gonfia di orgoglio”

    (S. Paolo, Lettera ai Corinzi,13)

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    NextAutarchie

    L’elettricità con il vento o con il sole, l’acqua piovana raccolta e trattata, come gasl’idrogeno. Vivere scollegati da qualsiasi rete già oggi è possibile

    Èil sogno — per nulla segreto — ditutti o quasi. Vivere senza bollet-te. Niente luce. Niente acqua.Niente rifiuti. Niente gas. Averetutto gratis, ovvero tutto dallanatura e in modo naturale. Il bel-

    lo è che qualcuno ci è riuscito. Qualcuno? Il13 aprile 2006 il quotidiano Usa Today sti-mava che in America ci fossero centottan-tamila famiglie in questa felice condizionee che ogni anno aumentassero del trentaper cento.

    Si chiama vivere Off Grid e letteralmentevuol dire “staccato dalla rete”, che nell’epo-ca di Internet suona strano ma qui non par-liamo di web. Parliamo di tutte le altre reti. Ilche può essere una scelta, nei paesi ricchi

    dove sono sempre più numerosi quelli cheanelano a una casetta lontana da ogni stress(il caso dell’attrice Daryl Hannah, l’ex sire-na a Manhattan che da tempo ha lasciatoHollywood per un casale molto “off” sulleMontagne Rocciose è il più celebre); oppu-re può essere una necessità, come nei paesiin via di sviluppo, dove però non è solo si-nonimo di povertà estrema bensì del tenta-tivo di realizzare un modello di sviluppo di-verso (infatti in alcuni paesi africani il go-verno ha addirittura istituito un Diparti-mento dell’Off Grid).

    Per questo, se consideriamo anche il Ter-zo Mondo, parliamo di quasi due miliardi dipersone: è un fenomeno, insomma. Con isiti internet che insegnano passo passo co-me si fa (e mettono in contatto chi ha un ter-reno abbandonato con chi vuole occupar-

    lo); le riviste che preparano a sopravviverein caso di fine del mondo (con un sapore avolte vagamente paramilitare); e persinodei programmi tv di buon successo (Livingwith Ed dove impari tra l’altro a riutilizzarelo scarico del gabinetto e farne dell’utilecompostaggio...).

    Infine c’è l’Italia dove da qualche anno,soprattutto al Nord, fioriscono soluzioni OffGrid basiche (ti procuri l’energia elettricache consumi con un pannello fotovoltaico,di norma) o integrate: per esempio, nelleMarche Energy Resources offre fotovoltai-co, geotermico, minieolico e biomasse. Inquesto momento però ci siamo guadagnatiparecchia attenzione internazionale so-prattutto perché ad Arezzo hanno inventa-to una scatola, grande come un baule, chepuò rendere in un attimo totalmente Off

    Grid qualunque abitazione. Si chiama OffGrid Box, costa cinquemila euro ed è lo stru-mento più rapido per il Total Off Grid (pervalutarne la portata, pensate che ancoraqualche giorno fa sul New York Timessi par-lava di Off Grid per abitazioni autosuffi-cienti solo dal punto di vista elettrico). Lo hainventato e realizzato una cooperativa to-scana che ha un nome che dice già tutto: sichiama La Fabbrica del Sole, la guida un to-nitruante fisico di 40 anni, Emiliano Cec-chini, e qualche anno fa ebbe una certa no-torietà perché realizzò un idrogenodotto adArezzo che riforniva di idrogeno, appunto,le numerose aziende orafe locali. Quale ri-compensa il Comune affidò loro un terrenoabbandonato dove ospitare un laboratorioper studiare e sviluppare queste tecnologieinnovative. «Non c’era nessun tipo di rete»

    RICCARDO LUNA

    COME FUNZIONA

    Viene prodotta dalle fonti rinnovabili presenti nel territoriocircostante:fotovoltaico, eolico, idroelettrico,geotermico

    ENERGIA

    ELETTRICA

    ACQUAPOTABILE

    BOMBOLADELL’ACQUA CALDA

    SCATOLA DI CONTROLLO

    Chi fa da sé non paga le bollette

    IMPIANTOGEOTERMICO

    ACCUMULATOREDI ACQUA CALDA

    FILTRODELL’ ACQUA

    CALDAIA

    RICICLODELL’ACQUA

    RADIATORE

    DOCCIA

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    Da fenomeno in ascesa per ricchi snob ai progetti di sviluppo in Africa E ora arriva (dall’Italia) la soluzione per la middle class

    IL PROGETTOUna casa Off Grid di 100mq per una famiglia di 4 persone usa:● 3kW di fotovoltaico

    ● una cisterna da 6.500 litriper l'acqua piovana● 6 batterie per la corrente elettrica

    In questo modo ogni giorno si può:● fare 4,3 docce calde oppure purificare 14,2 litri di acqua sporca● raccogliere 249 litri di acqua piovana e usarlaper annaffiare fino a 236 piante del giardino per 60 giorni di seguito quando non piove● alimentare 10 lampadine a basso consumoper 6 ore, alimentare per 4 ore computer/Tv, tenere sempre acceso il frigo e fare 4 lavatrici/lavastoviglie a settimana

    RIFIUTI ORGANICI

    È un container di dimensioni ridotte,come un cubo di tre metridi lato. Dentro ha tutti gli impianti per rendereautosufficiente la casa: il sistema di approvvigionamento di acqua e gas, quello per depurare gli scarichi,immagazzinare l’energiaelettrica e il caloreprodotti da fontirinnovabili. Si mette in giardino, si collega alla casa e il gioco è fattoCosto: 5000 euro

    OFF GRID BOX

    progetto più bello è in Sud Africa dove conl’organizzazione umanitaria Oxfam si stan-no costrueando cinque asili Off Grid: «I pri-mi due sono già finiti. È una emozione gran-dissima per noi perché lì prima i bambinibevevano l’acqua delle pozzanghere».

    In Italia l’Off Grid è ancora vista più comeuna soluzione da super ricchi che voglionostarsene in un casale arroccato da qualcheparte o in una torre vicino al mare. «È unaquestione culturale» dice Cecchini che perquesto, accanto al box, ha varato una Aca-demy dove tutti, bambini compresi, in tregiorni possono imparare il bello di viveresenza reti. La sede della scuola doveva esse-re sull’isola di Capraia dove un immobile apicco sul mare, in passato destinato al car-cere, era considerato perfetto per lo scopo,ma il vescovo di Livorno si è inserito nel ban-

    do per farselo assegnare, non senza pole-miche, e per il momento l’Academy partiràa dicembre nella campagna senese.

    Intanto, attratti da un mercato che po-trebbe non essere piccolo, si muovonoanche i primi colossi: AEG, Alcatel Lucent,il Fraunhofer Institute e altri sono dietroun progetto europeo da sei milioni di eu-ro partito tre anni fa e in dirittura di arrivoper realizzare un prototipo Off Grid «chepossa essere trasportato facilmente e su-bito installato in un luogo isolato», da usa-re per missioni umanitarie e di pace, manon solo. Non è il solito Off Grid per farsila corrente elettrica con un pannello foto-voltaico: nel progetto si parla anche diidrogeno e gestione delle acque. Sembrafatto ad Arezzo…

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Quella piovana vieneraccolta in una cisterna,potabilizzata,demineralizzata e rilanciatanell’edificio per farelavatrici, docce,pulizie, annaffiare le piante: si risparmiano oltre 40mila litri di acqua potabilel’anno

    ACQUA

    È la molecola con le caratteristiche migliori per produrre energia: può essere usato nell’edificio come gas per caldaie, forni e fornelli di cucina

    IDROGENO

    racconta Cecchini «e così decidemmo di farda soli. Il ciclo chiuso delle fogne. La raccol-ta e il trattamento dell’acqua piovana per ibagni. L’elettricità con il solare. E come gasnaturalmente l’idrogeno. Oltre al fatto cheil riscaldamento viene dal solare termico ed’estate la sovrapproduzione del calore fal’aria condizionata con il solar cooling». Nel2006 la Fabbrica del Sole, o meglio Hydro-Lab, funzionava totalmente Off Grid: «Insette anni non abbiamo mai pagato unabolletta». Il sogno diventato realtà.

    Di qui l’idea di mettere queste tecnologieal servizio di una casa. In maniera facile edeconomica. Con un box in stile Ikea. Il pri-mo modello è stato presentato un mese faalla Maker Faire di Roma e da tutto il mon-do sono subito fioccati ordini: «Oklahoma,Canada, Australia...» dice Cecchini. Ma il

    Letteralmente

    “sconnesso dalla

    rete”:

    di solito si riferisce

    a un edificio

    rispetto alla rete el

    ettrica

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    Possono essere compostati per ripristinare il contenutoorganico dei terreni e realizzareorti domestici, risparmiando fino a 80 euro al mesenell’acquisto di ortaggi

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    BATTERIA

    CISTERNA DELL’ ACQUA

    Il calore può essere ottenuto grazie a pannelli solari a tubisottovuoto. Quello prodotto nel periodo estivo va ad alimentareuna macchina ad assorbimento per far funzionare i frigoriferiSi risparmia fino a 4mila euro l’anno di bollette

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    Repubblica Nazionale

  • Lavorare i tuorli con formaggio, sale e pepeVersare sulle uova latte,panna e maizenaportati a bolloreMescolare, versarenegli stampi di silicone,infornare 15’ a 120°Affettare la cipolla, cuocere 10’ con extravergine, sfumare col vinoDopo altri 5’, unire timo,maggiorana e peperoncino,mantecando col burroSaltare i funghi tagliatia quadrotti con poco olio,salare, pepare, unirealla cipolla. Cuocere in padellale uova di quaglia con burroe un cucchiaio di acqua Abbrustolire la mollica di panee avvolgerla nelle fettedi guancialeVelare il piatto con la cremacotta, guarnire con i porcini, il guanciale e le uova

    Elio Sironi guida le cucinedel nuovo “Ceresio7”a Milano, dove rileggei piatti della tradizionein chiave contemporanea

    LA RICETTA

    helo scontro abbia inizio. Da una parte, Umberto Eco: «E lo iniziava ai mi-steri della finanziera, una sinfonia di creste di gallo, animelle, cervella e te-sticoli di vitello, filetto di manzo, funghi porcini, mezzo bicchiere di mar-sala, farina, sale, olio e burro, il tutto reso asprigno da una alchemica dosedi aceto...». (Il cimitero di Praga). Dall’altra Jean Anthelme Brillat-Savarin:«Il tartufo non è per certo un vero afrodisiaco, ma esso può, in talune oc-casioni, rendere le donne più arrendevoli e gli uomini più desiderosi di pia-cere» (La fisiologia del gusto).

    Una sfida imperiale, da orgasmo gastronomico, che l’autunno inoltra-

    to scatena al primo calare delle temperature. Se il caviale, — altro sedu-cente oggetto del desiderio alimentare — è a disposizione in qualsiasi mo-mento dell’anno, in quanto frutto addomesticato degli allevamenti, por-cini e tartufi bianchi hanno bisogno di rabbrividire per salire sulla passe-rella del gusto. I boleti hanno cominciato a giocare a rimpiattino con i cer-catori già da qualche settimana, mentre i loro cugini sotterranei hanno bi-sogno che la terra si raffreddi per attivare tutte le molecole aromatiche efacilitare il compito dei cani. La magia di porcini e tartufi è assoluta fin dalmomento della ricerca. Il paesaggio è lo stesso per entrambi e uguale è an-che la gelosia ossessiva degli appassionati, pronti a sopportare qualunque

    tortura pur di non svelare la toponomastica dei loro tesori. Si cerca in soli-tudine, svegliandosi così presto che la torcia è d’obbligo, così come vestitipesanti e scarponcini. Il tempo di godere dell’affacciarsi dell’alba e già sitorna a casa: fazzoletto o cestino più o meno pieni misurano il successodell’alzataccia. Che crescano sotto terra o facciano capolino nel sottobo-sco, porcini e tartufi detestano l’acqua: andare oltre spazzolino e straccioinumidito per ripulirli significa dilavarne l’aroma, il massimo dei sacrilegiculinari. Ma guai a sottrar loro la giusta dose di umidità (veicolo delle mo-lecole aromatiche): il riso che li accoglie nei vasetti diventa profumatissi-mo a discapito degli sciagurati ospiti culinari. Discorso analogo per le cot-ture: comunque risicate nel caso dei porcini, vietatissime con i tartufi bian-chi, cui Ferran Adrià dedicò qualche anno fa un non-piatto, servendoli dasoli, in lamelle impalpabili, dentro un ampio balon da vino, per sancirnelo status di profumo da mangiare.

    Dedicate i prossimi fine settimana ai re dell’autunno, celebrati in fiere,mostre-mercato e menù dedicati nelle zone più vocate per la raccolta, dal-l’appennino tosco-emiliano, paradiso dei porcini, alle crete senesi, terrabenedetta dei tartufi. Per trovarli a braccetto sui banchi, spingetevi in Lan-ga, dove l’insalata di porcini e tartufi bianchi è venerata nelle cucine e suitavoli, e il tartufo bianco trova la sua consacrazione mondiale nell’asta inprogramma oggi al castello di Grinzane Cavour. Se avete da parte una bot-tiglia seria di Barbaresco o Barolo, è il giorno giusto per sacrificarla con unrisotto o una fonduta: non riuscendo a scegliere tra porcini e tartufi, met-teteli entrambi. Nessuno vi biasimerà.

    &© RIPRODUZIONE RISERVATA

    LA DOMENICA■ 36

    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

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    I saporiCaccia all’oro

    Il derby del bosco

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    Porcino

    RisottoExtravergine e spicchio d’aglio,i funghi tagliati a listarelle,spadellati. Poi il riso,sfumato con vino biancoAlla fine, prezzemolo tritato

    FritturaInfarinati, oppure passati in uovo (con o senza latte) e pangrattato, prima di friggerein extravergineAsciugare prima di servire

    PappardelleFunghi passati brevemente in padella con aglio e olioSi aggiunge la pasta al dente,mantecando con acqua di cottura e prezzemolo

    InsalataTagliati molto sottili, conditi con extravergine e poco saleA piacere uova sode sbriciolate,lattuga, lamelle di Parmigiano,sedano, acciughe

    GrigliaMarinatura in extravergine con sale, pepe e aglio. Cuocereprima la parte delle lamelle,ungere, voltare e ruotare per disegnare la rigatura

    Porcini, uovae crema cottadi Parmigiano

    Ingredienti (4 persone)Per i funghi:4 funghi porcini di Borgotaro1/2 cipolla rossa 2 cucchiai di olio di oliva1/2 bicchiere di vino bianco dolce timo, maggiorana, peperoncino20 g. di burroPer le uova:8 uova di quaglia20 g. di burromollica di pane abbrustolita 4 fette di guanciale tagliato sottilePer la crema cotta:300 ml. di latte fresco 300 ml. di panna liquida 160 g. di tuorli 120 g. di Parmigiano 20 g. di maizena sale e pepe di Cayenna

    Anno record per entrambi, simili i paesaggiautunnali, identica la gelosia ossessivadegli appassionati, uguali le regole basilariEppure la sfida tra i cultoriè sempre viva: risotto o fonduta,pappardelle o tajarin?

    Risotto ai funghi porcini

    Repubblica Nazionale

  • Permia fortuna i funghi e, in anni di abbondanza, i tartufi, mi ral-legrano la vita da sempre. Con tutta la materia con cui comecuoco ho a che fare, ballo felice dentro la mia professione, col-tivando così anche una personalissima passione per quelle casset-te e per quei segreti fagottini. Porcini, ovuli, e qualche fratello mino-re condividono l’esposizione nottetempo nel fiorentinissimo mer-cato ortofrutticolo. Mi aggiro là dove uomini dalle grandi mani trat-tano e coltivano con attenzione quasi femminile ciò che produco-no, e con altrettanta grazia altri uomini — alleati alle loro donne —si fanno primordiali raccoglitori di ciò che natura regala. Li vedi ac-canto ai loro furgoni dove espongono e proteggono la loro merce, eti immagini famiglie intere che vanno per segrete fungaie. I primi,più mansueti, già soddisfatti di ciò che hanno saputo trovare, le lo-ro compagne, più fiere, rivendicano il giusto prezzo.

    Diverso per il tartufo, dove la vendita ha un suo riserbo e dove or-

    mai gli sms la fanno da padroni. «Tre etti», «mezzo chilo», «poche mabelle palle». E anche lì vedi uomini soddisfatti, prima dei loro canipoi della raccolta, e sono sempre più le donne a imporre il prezzo.Donne di San Gimignano per il tartufo bianco, donne della Garfa-gnana o del Casentino per tutti i funghi che da noi vengono venduticon mazzetti di nepitella. L’ultimo fungo di faggio, fra l’altro regala-tomi, pesava un chilo e sei. E me lo sono mangiato con un amico ac-compagnandolo con qualche boccone di un buon pane, dopo aver-lo arrostito in un fuoco vivo per pochi minuti. Prima lo avevo farcitocon otto piccoli pezzetti d’aglio, un goccio d’olio di Capezzana, ni-pitella tritata, una macinatura di pepe nero. Stappando un fantasti-co barbaresco così per dar soddisfazione ai piemontesi.

    L’autore guida le cucine del Cibreo,del Cibreino e del Teatro del Sale a Firenze

    A tavola

    Ballando felice nel mercato di notteFABIO PICCHI

    &© RIPRODUZIONE RISERVATA

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    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    Gli indirizzi

    LA LOCANDA DEL CASTELLO P.zza Vittorio Emanuele 4, tel. 0577-802939San Giovanni d’Asso (Si)Camera doppia da 120 euro, colazione inclusa

    FATTORIA DEL COLLE Località Colle, tel. 0577-662108Trequanda (Si)Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

    IL MOLINELLO Località Molinello, tel. 0577-704791Asciano (Si)Camera doppia da 75 euro, colazione inclusa

    DOVE DORMIREDA ROBERTO TAVERNA IN MONTISIVia Umberto I, tel. 0577-845159San Giovanni d’Asso (Si)Chiuso lunedì, menù da 30 euro

    IL CONTE MATTOVia Taverne 40, tel. 0577-662079Trequanda (Si)Chiuso martedì, menù da 25 euro

    LA TINAIA Località Casa Bianca, tel. 0577-704362Asciano (Si)Chiuso mercoledì, menù da 30 euro

    DOVE MANGIARECOOPERATIVA IL TARTUFO DELLE CRETE SENESIVia 20 Settembre 15/A Tel. 0577-803213San Giovanni d’Asso (Si)

    MACELLERIA RICCIStrada Provinciale Traversa dei Monti 4Tel. 0577-662252Trequanda (Si)

    PODERE PERETOLocalità Pereto, tel. 0577-704371Rapolano Terme (Si)

    DOVE COMPRARE

    Plin di polenta ,burro e tartufobianco

    Preparare l’impasto (sfoglia),farlo riposare in frigo un paiodi ore. Portare al bollore il latte e l’acqua, salare e versarela polenta a pioggia, girandocon una frusta. Cuocerea fuoco basso per mezz’ora,condire con sale, pepe,extravergine e ParmigianoRaffreddare una notte in frigonella pellicola, poi rilavolarlaleggermente e spianaresu una teglia utilizzandouna tasca. Stendere la pastamolto sottile,con un cucchiaino, adagiarela polenta fredda a intervalliregolari di 1 cm. Ripiegare la pasta su se stessa, stringere la sfoglia di pastacome per dare dei pizzicotti(plin, in piemontese)Cuocere 3’ in acqua salata,sciogliere il burro e spadellarea fuoco basso. Servirecon pioggia di tartufo bianco

    Alessandro Boglionegestisce il ristorantedel Castello di Grinzane Cavour,(Cuneo) cuore storicodella cucina piemontese

    LA RICETTA

    Tartufo

    FondutaFontina tagliata sottile,ammollata nel latte, cotta a bagnomaria unendo i tuorlid’uovo. Sopra, tartufo bianco a lamelle. Servire con crostini

    Uova in cocotteUn tuorlo per ogni stampinoimburrato. Sopra, mix di bianchimontati, panna liquida,Parmigiano, sale e pepeIn forno 5’ a 200° e altri 5’ a 180°

    TajarinQuaranta tuorli per chilo di farina, un’ora di riposo in frigo,poi pasta tirata a due millimetri di larghezza e uno di spessore Burro fuso (con o senza salvia)

    AlbeseFette sottilissime di girello o coscia, marinate in extravergineinfuso con chiodo di garofano e pepe in grani, sbattuto con forchetta “sporca” d’aglio

    GelatoFiordilatte servito in un balonprofumato con cognacSopra, tartufo grattugiato a neve con un Microplane: moltiplica la superficie aromatica

    Ingredienti (4persone)Per la sfoglia:900 g. di farina BurattoMulino Marino100 g. di semola rimacinata 20 g. di sale6 uova intere6 tuorli25 g. di olio extravergineacqua q.bPer il ripieno:1 litro d’acqua1 litro di latte300 g. di polenta grezzaMulino MarinoPer condire:50 g. di burrotartufo bianco d’Alba

    Tajarin al tartufo bianco

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 38

    DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013

    A tre anni suonava e a dieci a Parigidava i primi concerti. Eppure nella casadi uno dei più celebri violinisti al mondo, oggi sessantanovenne, ci sono più libriche dischi: “Leggo molto e sottolineo

    ciò che mi somiglia di piùE poi scrivo, perché l’artesolo come astrazionenon serve a nessuno: deve essere comunicata”Quanto alla musica,

    la sua è una battaglia quotidiana:“Appena pensi di averraggiunto la perfezionearriva uno più bravo di te”

    ROMA

    i ricorda come di-ce il poeta?». UtoUghi ti fredda aogni pie’ sospinto,

    e tu che cerchi di afferrare il riferimen-to letterario prima di fare una brutta fi-gura. Uno dei più noti violinisti al mon-do ama citare in continuazione interipassi, che ha mandato a memoria, deilibri della sua vita: «Quando non suo-no, leggo. E sottolineo le cose che misomigliano di più». Nel suo apparta-mento romano, dal quale si vede nettala cupola di San Pietro e in cui confessaperò di passare solo pochi mesi l’anno(«Saranno tre in tutto, sono sempre inviaggio per i concerti) sembrano esser-ci più libri che dischi, più letteraturache musica. «La lettura ha per me unposto primario. E devo dire che se èmolto comune l’interesse dei musici-sti per la letteratura, più raro è quellodei letterati per la musica. Mi ricordoBorges, mio amico e piuttosto a digiu-no di musica, che mi diceva: “Una del-le mie grandissime colpe è che non so-no degno di un concerto per violino”».

    Comincia presto la storia musicaledi Ughi, ed è quella tipica di tanti musi-cisti di successo. Inizia a imbracciare ilviolino a soli tre anni, spinto com’è dauna predisposizione lampante per lamusica. A dieci anni è già a Parigi aprendere lezioni da un grande del No-

    vecento, George Enescu. Da adole-scente è in giro per il mondo a dare con-certi. Una carriera di successi conse-guiti da subito, nonostante qualchemossa sbagliata, come quando rinun-cia a seguire David Ojstrach in Russiaper prepararsi al più prestigioso e diffi-cile premio violinistico, il Tchajkov-skij: «Quello è un super rimpianto, mi èrimasta la sensazione di aver perso untreno. Un’esperienza con un grandecome lui sarebbe stata molto impor-tante; avevo sedici anni non ebbi il co-raggio di partire per la Russia. Ed è stra-no perché di natura sono avventuroso,mi piacciono le esplorazioni, ma inquel caso mi mancò lo slancio». Il ta-lento di Ughi è però sufficiente perchéil suo violino lo porti a risultati straor-dinari, anche non previsti: «Ho inizia-to a fare musica molto presto ed era ilmio maestro che mi spingeva a farequalche concerto per prendere fami-liarità col pubblico. Le cose sono venu-te da sole, non ho mai deciso di fare ilconcertista. Mi sono accorto che avevodelle possibilità dagli inviti che riceve-vo, dalle personalità che mi avvicina-vano. E poi perché avevo la gioia di suo-nare, senza di quella non si va avanti. Ionon ho mai pensato alla carriera, è unacosa che viene o non viene. Allo stessomodo spero di accorgermi in tempo senon sarà più il caso di continuare. Senon sarò più in grado di fare delle ese-cuzioni decorose, sarò il primo a dirmidi smettere per dedicarmi magari al-l’insegnamento. È difficile come arti-sta valutarsi per ciò che si è, ma bisognaavere la forza e il coraggio di guardarsiallo specchio. La musica è una sfida in-finita, è una battaglia continua ingag-giata con la materia e la materia è la tec-nica: ciò che sembra perfetto oggi do-mani non lo è più. C’è sempre qualcu-no che, proprio quando pensi di averraggiunto il massimo in un’interpreta-zione, fa meglio di te».

    Sono gli incontri, e anche gli scontri,con i grandi musicisti quelli che ali-mentano la voglia di migliorarsi e con-tinuare. Ughi ha conosciuto le maggio-ri personalità musicali della secondametà del secolo scorso. Dalle paroleesortative di Sergiu Celibidache ai ca-pricci, sempre perdonabili, di MarthaArgerich, ogni volta ha imparato qual-cosa: «Qualsiasi incontro con un gran-de artista o con la sua musica è una tra-sfusione di sangue nuovo, sono arric-

    chimenti di cui non si può fare a meno.Quello che muove l’artista è l’amore.Tutti i grandi artisti che ho conosciutoerano grandi per questo. La mia pas-sione per la musica è la stessa di quan-do ero ragazzo, spero non si esauriscamai». Intanto a un libro ha affidato al-cuni dei più rilevanti ricordi della suavita anche di musicista: le vicende rac-contate in Quel diavolo di un trillo,pubblicato da Einaudi, vanno dall’in-fanzia a Busto Arsizio alla carriera in-ternazionale in tutto il pianeta. «Accet-tando di scrivere ho tenuto a mente Ci-cerone quando scrive che un uomoche raggiungesse il cielo e le stelle sa-rebbe triste di non poter comunicarequello spettacolo. Ecco, l’arte, a un li-vello spirituale, come pura astrazione,non serve. Deve incontrare la materia-lità terrena ed essere comunicata agliuomini».

    A sessantanove anni Ughi è convin-to di avere ancora molto da fare, di con-frontarsi col repertorio classico e con leinterpretazioni dei maestri e di affron-tare la musica contemporanea dallaquale però sembra faticare a pescare:«Il violino è uno strumento prevalente-mente lirico, melodico; la musica dioggi non sempre lo è. Per quanto mi ri-guarda il grande repertorio violinisticosi esaurisce nella prima metà del No-vecento. Però ci sono compositori an-cora in vita — come Penderecki, Gu-bajdulina, Pärt, Dutilleux — che sonoriusciti a continuare la tradizione in uncampo nuovo di ricerca». Ma soprat-tutto Ughi non pensa solo a sé. Si im-pegna da anni per una ripresa dellamusica in Italia: «Ho viaggiato molto,ho suonato in angoli remoti del piane-ta dove quasi non c’è cultura musicale.Quando fai bene la bella musica, vedila gioia negli occhi delle persone. Noi inEuropa, culla della civiltà musicale, og-gi siamo surclassati dagli orientali per-ché lì i ragazzi studiano musica per es-sere persone migliori, non necessaria-mente per diventare professionisti».Con rabbia tratteggia il quadro deso-lante della cultura musicale italiana:«Nelle scuole non si fa niente. E credoche sia colpa anche dei musicisti: senon si muove il Ministero, dobbiamofarlo noi. Io sono andato più volte dapiù ministri dell’istruzione chiedendodi istituire cicli, corsi, lezioni… Ma so-no tutti sordi. Quel poco di musica chesi ha nelle scuole è fatta malissimo, sa-rebbe meglio lasciar stare. Il nostro èun Paese in cui si mettono gli inse-gnanti sbagliati nei posti sbagliati. I mi-nistri credono di spadroneggiare e in-vece è il contrario, sono loro a dover es-sere al servizio dei cittadini. E che direpoi della musica in chiesa: nenie or-rende. Ho parlato con Monsignor Ra-vasi, mi ha promesso che farà qualco-sa per recuperare il valore della musicasacra, ma anche qui non si muoveniente. Forse bisogna che intervengadirettamente il Papa. Lui è una figurache mi piace, uno che si mette al servi-zio dei fedeli». L’impegno di Ughi nel-la diffusione della cultura musicale haspesso avuto comunque esito positivo,per esempio qualche anno fa sulla Rai:«Facevo delle puntate da varie parti delmondo, cercando di legare la musica ailuoghi e alle altre arti. Se la musica sispiega, si collega al contesto, senza ri-

    correre però troppo alle parole, funzio-na anche in tv». Viene fuori dal mae-stro, spessissimo mentre si conversacon lui, un’incrollabile voglia di mi-gliorare le cose, di salvarsi. Forse è lostesso spirito del padre, che aveva fat-to la guerra e che in guerra aveva persoil fratello, Bruto, di cui Uto è il diminu-tivo dato al bimbo che oggi si interroga,ma con fiducia, sul nostro futuro. «Di-pende da noi, ogni singolo individuodeve fare qualcosa. Io nel mio piccolocerco di dare un contributo, ma mi ren-do conto di essere quasi fuori dal tem-po: la musica non può risolvere i pro-blemi, è un aiuto a sollevare moral-mente. Credo sia ora di mettere da par-te gli interessi personali, di fare le coseper la comunità e non per se stessi. Mipiace ricordare l’associazione ArturoToscanini, con cui collaboro da qual-che anno. Loro hanno iniziato con po-co in provincia, oggi sono una realtànazionale. La musica avrà un futuro seci saranno persone così generose chenon fanno le cose per soldi ma per al-largare la cultura». Ughi cita EdmundBurke: «“L’unica cosa necessaria per iltrionfo del male è l’inerzia dei buoni”.La quiescenza è la colpa. Non possia-mo cambiare da soli un Paese, ma pos-siamo influenzare le scelte. Si deve de-nunciare ciò che non va, contestare,costringere alle dimissioni. Bisognaavere coraggio, cosa che oggi è rara perpaura delle ripercussioni. Il nostro er-rore è l’omertà».

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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    Nelle scuolesi fa pocoe quel pocosi fa malissimoI ministri sono sordima è colpaanche dei musicistiMeglio lasciar perdere

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    Repubblica Nazionale