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PAULUS online – International magazine on Saint Paul / Anno II n. 20 - Maggio 2010 1 Un paolinista di frontiera HEINRICH SCHLIER (1900-1978) di Vincenzo Vitale Iniziamo con questo articolo una serie dedicata ai grandi teologi e/o biblisti che ci hanno fatto conoscere san Paolo. Sono tante – spesso poco conosciute – le grandi voci che hanno detto qualcosa di significativo sull’Apostolo. Voci che meritano di essere conosciute. La prima figura che vi proponiamo è Heinrich Schlier (1900-1978), un neotestamentarista tedesco che è stato anche un valido studioso di Paolo. Un nome non molto conosciuto oggi, al di fuori della cerchia degli esperti, e che per la verità, anche in vita, sembrò relegato in secondo piano. Eppure la serietà dei suoi studi è innegabile. Il frutto maturo dei suoi studi su Paolo è senz’altro rappresentato da Linee fondamentali di una teologia paolina (originale tedesco del 1978; tradotto in italiano da Queriniana nel 1985 e ristampato lo scorso anno nella prestigiosa collana “Biblioteca di teologia contemporanea”). In occasione della domenica di passione del 1980, il cardinal Joseph Ratzinger gli dedicò un ricordo con parole altamente elogiative: «Quando Heinrich Schlier fu chiamato da questo mondo il 26 dicembre 1978, l’opinione pubblica vi ha prestato scarsa attenzione. Un uomo che parlava ad alta voce Schlier non lo è mai stato. Egli, che era un maestro della Parola e che era attaccato alla Parola con un amore appassionato, perché cercava nelle parole colui che è la Parola, ha mantenuto proprio per questo quel profondo rispetto davanti alla parola che gli vietava un chiacchiericcio vuoto e rumoroso. Poiché sapeva della parola, sapeva anche la grandezza del silenzio. Il motivo per cui la sua opera non è diventata theologia publica, è per me allo stesso tempo anche il motivo della profondità e la durevolezza della sua opera. Apprezzarla, metterla a frutto e darle parola per l’annuncio e la vita di fede nella Chiesa sarà ancora per lungo tempo un compito dei teologi». Ma chi era Schlier?

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Un paolinista di frontiera

HEINRICH SCHLIER (1900-1978)

di Vincenzo Vitale

Iniziamo con questo articolo una serie dedicata ai grandi teologi e/o biblisti che ci hanno fatto conoscere san Paolo. Sono tante – spesso poco conosciute – le grandi voci che hanno detto qualcosa di significativo sull’Apostolo. Voci che meritano di essere conosciute.

La prima figura che vi proponiamo è

Heinrich Schlier (1900-1978), un neotestamentarista tedesco che è stato anche un valido studioso di Paolo. Un nome non molto conosciuto oggi, al di fuori della cerchia degli esperti, e che per la verità, anche in vita, sembrò relegato in secondo piano. Eppure la serietà dei suoi studi è innegabile. Il frutto maturo dei suoi studi su Paolo è senz’altro rappresentato da Linee fondamentali di una teologia paolina (originale tedesco del 1978; tradotto in italiano da Queriniana nel 1985 e ristampato lo scorso anno nella prestigiosa collana “Biblioteca di teologia contemporanea”).

In occasione della domenica di passione del 1980, il cardinal Joseph Ratzinger gli dedicò un ricordo con parole altamente elogiative: «Quando Heinrich Schlier fu chiamato da questo mondo il 26 dicembre 1978, l’opinione pubblica vi ha prestato scarsa attenzione. Un uomo che parlava ad alta voce Schlier non lo è mai stato. Egli, che era un maestro della Parola e che era attaccato alla Parola con un amore appassionato, perché cercava nelle parole colui che è la Parola, ha mantenuto proprio per questo quel profondo rispetto davanti alla parola

che gli vietava un chiacchiericcio vuoto e rumoroso. Poiché sapeva della parola, sapeva anche la grandezza del silenzio. Il motivo per cui la sua opera non è diventata theologia publica, è per me allo stesso tempo anche il motivo della profondità e la durevolezza della sua opera. Apprezzarla, metterla a frutto e darle parola per l’annuncio e la vita di fede nella Chiesa sarà ancora per lungo tempo un compito dei teologi». Ma chi era Schlier?

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A contatto con i grandi teologi degli anni Venti Heinrich Schlier, evangelico luterano, fece i suoi studi teologici negli anni Venti a Lipsia e

soprattutto Marburgo. Più tardi riconoscerà il suo debito a maestri del calibro di Karl Barth, di Rudolf Bultmann e di Martin Heidegger. Da Bultmann apprese a maneggiare i metodi esegetici della scuola storico-religiosa, che guardava molto al mondo greco in cerca di paralleli per situare i testi del Nuovo Testamento. Ma presto il discepolo avrebbe preso tutt’altra strada rispetto al progetto di “demitizzazione” del NT e all’interpretazione esistenziale portata avanti dal maestro. Da Heidegger ereditò la passione per l’ermeneutica, che lo accompagnò per tutta la sua vita di studioso, alla ricerca di una metodologia adeguata per l’esegesi del Nuovo Testamento.

Sono anni di formazione intellettualmente intensi, come attesta il filosofo Hans-Georg Gadamer, l’autore di Verità e metodo: nelle sue memorie egli rievoca le serate in casa di Bultmann, soprannominate “Graeca bultmanniana”, che si svolsero per una quindicina d’anni. Una sera alla settimana, dalle 20.15 fino alle 23, un gruppo di giovani studiosi – tra cui Bornkamm, Dinkler e Schlier – si radunava per leggere i classici della letteratura greca: uno del gruppo era “condannato” a leggere una traduzione in tedesco, gli altri seguivano sul testo greco. Sarebbe poi seguita la discussione. A conclusione della prima parte della serata, una bottiglia di vino faceva il giro dei partecipanti. Bultmann, che si serviva per ultimo, la posava per versarne solo le poche gocce che si raccoglievano nel suo fondo.

Schlier consegue la libera docenza nel 1928 con uno studio intitolato Christus und die Kirche im Epheserbrief (Cristo e la Chiesa nella lettera agli Efesini), pubblicato nel 1930. Lo studio sulla lettera agli Efesini (alla quale dedicherà un commentario vero e proprio nel 1957) gli rende chiara la reciproca relazione tra Cristo e la Chiesa: non si può pensare Cristo senza la Chiesa e viceversa, poiché essa è il suo “prolungamento” (Christus prolongatus). Già da questo primo periodo emerge quello che sarà il centro di interesse delle sue ricerche – la Chiesa – tema dal cui studio riceverà impulsi decisivi per un passo fondamentale per la sua vita: la conversione al cattolicesimo. Nel 1953, infatti, Schlier entrerà presso i Gesuiti del Collegio Germano-ungarico di Roma.

Le chiese evangeliche e il nazismo Era destinato – com’era ovvio – alla carriera accademica, ma la sua formazione verrà bloccata

dalle vicende ecclesiali del cosiddetto Kirchenkampf. Gran parte delle chiese evangeliche tedesche, subirono il fascino del nazionalsocialismo, salito al potere nel 1933. Il movimento dei Deutsche Christen (cristiano-tedeschi), in particolare, vinse le elezioni ecclesiali di quell’anno con oltre 70% dei voti. I Deutsche Christen rappresentavano una versione fortemente nazionalista del luteranesimo, con un forte accento antisemitico e una teologia alquanto approssimativa, che sostanzialmente abbandonò le grandi confessioni di fede del luteranesimo.

Foto d’epoca mostrano altari di chiese con la svastica accanto alla croce e grandi raduni ecclesiali con il saluto nazista. Queste vicende provocarono una violenta spaccatura all’interno delle chiese evangeliche tedesche, soprattutto in seguito alla promulgazione del cosiddetto “paragrafo ariano”, una legge statale del regime che escludeva i non-ariani dagli uffici pubblici e che i Deutsche Christen estesero alla Chiesa evangelica. Questo episodio avviò la crisi che sfociò nei sinodi confessanti di Barmen e Dahlem (1934), dai quali, grazie alla risoluta ispirazione teologica di Karl Barth, nacque la Chiesa confessante, che rifiutava – in nome delle Scritture e delle confessioni di fede – l’allineamento alle direttive dei Deutsche Christen. Un rappresentante di punta della Chiesa confessante, oggi molto noto, fu il teologo e pastore Dietrich Bonhoeffer, ritenuto uno dei più rappresentativi dell’ala “radicale”. Ma la Chiesa confessante, secondo calcoli recenti, non raccolse più di un terzo degli evangelici di Germania. Una minoranza che il regime ostacolò in tutti i modi.

In queste vicende, Schlier non esitò a rifiutare l’arianizzazione della Chiesa che i Deutsche Christen volevano imporre con la forza. Nel loro programma c’era anche la degiudaizzazione del cristianesimo. Fece scalpore un conferenziere che, nel 1933, propose addirittura di eliminare

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l’Antico Testamento dalle Scritture cristiane in quanto rappresentante di una morale di «trafficanti di bestiame e ruffiani». Nelle turbolente discussioni del tempo san Paolo, che si vanta della propria appartenenza a Israele, diventa un bersaglio polemico spesso menzionato. Nelle memorie del gerarca nazista M. Borman è riportata un’affermazione di Hitler del 1941, secondo la quale san Paolo avrebbe trasformato «un locale movimento ariano di opposizione alla robaccia ebraica [il gruppo intorno a Gesù, ndr] in una religione sovratemporale che postula l’uguaglianza di tutti gli uomini, causando la fine dell’impero romano».

Il nazionalismo trasferito in teologia – e giustificato teologicamente con gli “ordinamenti della creazione”, al grido dello slogan nazista “sangue e razza!” – contagiò anche eminenti teologi, come Hirsch, Kittel (l’editore del Grande lessico del Nuovo Testamento) e Althaus (celebrato studioso di Paolo). È da notare che il nome di Schlier compare nella «Perizia sul paragrafo ariano» e nella dichiarazione «Nuovo Testamento e questione razziale» del 1933, testi critici nei confronti delle posizioni razziste propugnate dai Deutsche Christen.

In questo clima ecclesiale turbolento, Schlier, alla chiusura da parte della Gestapo (1936) del seminario per predicatori di Wuppertal-Elberfeld dov’era destinato come docente, fu assunto dalla Theologische Schule della Chiesa confessante a Elberfeld. Anche questa venne però chiusa dal regime e si dovettero continuare le lezioni nella clandestinità, in luoghi forzatamente provvisori e sempre col pericolo di essere scoperti. Sono conservati i programmi che Schlier, come direttore, esigeva dagli studenti per dimostrare la loro padronanza delle Scritture, delle confessioni di fede e della teologia recente: in tempi di confusione teologica, egli tenne saldo il timone della sua comprensione luterana del cristianesimo. Nel 1940 accettò un posto di pastore nella comunità confessante di Elberfeld. In una lettera di quell’anno a Bultmann si trovano osservazioni scoraggiate sulla «dittatura assoluta di questa burocrazia ecclesiale priva di ogni scrupolo» (ossia i direttivi ecclesiali allineati al regime) dalla quale dovette accettare, nonostante tutto, il posto di pastore.

Nella fotografia: inverno 1942 a Ispei, il paese dove Schlier abitò per molti anni. Heinrich Schlier (al centro) con i figli. Da sinistra: Thomas, con i pattini da ghiaccio; Veronika, che diventaterà teologa; Barbara e Christoph. Foto dall’Archivio Thomas Schlier.

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Il dopoguerra e la conversione al cattolicesimo Il tema ecclesiale, come visto, toccava Schlier da vicino e fu proprio il suo percorso di studio di

neotestamentarista a portarlo alla decisione di convertirsi al cattolicesimo (1953). Di questo passo lo studioso diede un Breve rendiconto (Kurze Rechenschaft), dove spiega le motivazioni che lo portarono alla scelta [cfr. il brano che proponiamo nell’Antologia dei suoi scritti, ndr].

Sostanzialmente, si trattò della scoperta del “principio cattolico” che egli rintraccia nella decisione irrevocabile di Dio per il mondo, per cui «in Gesù Cristo, il Verbo fatto carne (Gv 1,14) e nella sua storia tutto è stato deciso concretamente una volta per sempre»; la Chiesa da parte sua «corrisponde alla irrevocabile decisione di Dio» ed è vista come «l’esposizione della decisione presa da Dio, la prova e la dimostrazione della sua estrema e concreta decisione». In altre parole, Schlier arrivò a vedere nella Chiesa la concretizzazione del kerygma apostolico. Schlier riconosce il debito di queste idee a Erik Peterson, un altro noto teologo che aveva discusso con Barth e Bultmann ed era passato al cattolicesimo negli anni Venti. A quest’idea egli dedicherà il saggio “Ciò che permane cattolico. Tentativo di fissare un principio di cattolicità”, nel volume La fine del tempo.

Dopo il passaggio al cattolicesimo, Schlier abbandonò la facoltà teologica di Bonn, dove insegnava per essere assunto come professorio onorario della facoltà di filosofia. Fu in seguito anche membro della Pontificia commissione biblica, oltre che consulente della Conferenza episcopale tedesca, per la quale seguì la “traduzione unitaria” della Bibbia (Einheitsübersetzung). Dal 1957 fu editore, con Karl Rahner, dell’importante collana scientifica Quaestiones disputatae. Le opere e gli scritti scientifici

Gli scritti di Schlier abbracciano generi molto diversi tra di loro: commentari scientifici, articoli del Grande lessico del Nuovo Testamento, saggi, articoli brevi, meditazioni edificanti, prediche. Caratteristico dei suoi scritti – tutti sul Nuovo Testamento – è il suo muoversi tra interesse esegetico e dogmatica: Schlier non limita mai il suo studio al dato puramente storico e filologico, ma cerca la verità racchiusa dal testo (dimensione teologica), attraverso una lettura al contempo spirituale ed ecclesiale. Forse è anche questo un motivo che non rende popolare l’opera di Schlier: troppo biblica per i dogmatici, troppo dogmatica per i biblisti. In questo egli era un uomo di frontiera, così come lo fu nel portare con sé, anche da cattolico, l’eredità protestante e il retaggio culturale che gli veniva dai suoi maestri. Una delle sue preoccupazioni costanti era propria quella di un’interpretazione adeguata delle Scritture (vedi il saggio del 1964, dedicato a Bultmann, “Che cosa significa esegesi biblica”, contenuto in Riflessioni sul Nuovo Testamento).

Quanto agli studi paolini, abbiamo già citato lo scritto per l’abilitazione, dedicato alla lettera agli Efesini, che gli apre l’orizzonte della coappartenenza a Cristo e alla Chiesa.

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Importante è anche un articolo del 1948/49 intitolato “L’intento principale della Prima lettera ai Corinzi”, nel quale vede Paolo contrapporre il kerygma inteso come norma fondamentale della fede (la tradizione – paradosis – apostolica ne è il nocciolo) alla «rivelazione personale e individuale per mezzo dello Spirito carismatico» (quella degli “entusiasti” di Corinto, e che ricorda molto il principio protestante di lettura della Bibbia). Appare qui ciò che poi verrà sviluppato come “principio cattolico” e il legame tra dogma (inteso come sviluppo del kerygma), obbedienza di fede e Chiesa.

Nel 1947 sostiene una discussione con Barth sul sacramento del battesimo, obiettando a quest’ultimo, su base esegetica, che il battesimo non ha solo valore simbolico (di segno) ma è «causa strumentale della nostra purificazione, necessario alla salvezza». L’articolo in questione (“L’insegnamento ecclesiale sul battesimo”, ristampato ne Il tempo della Chiesa) tocca l’interpretazione di Romani 6 e lo vede opporsi al rifiuto di Karl Barth di battezzare i bambini.

Ma, oltre a numerosi articoli su temi specifici paolini, in cui si sottolineano, in modo inusuale per un esegeta protestante, la dimensione sacramentale ed ecclesiale, Schlier dedicò a tre lettere paoline commentari di ampio respiro: si tratta di Lettera ai Galati (1949, italiano 1965), La lettera agli Efesini (1957, italiano 1973) e La lettera ai Romani (1977, italiano 1982). Quest’ultimo è stato elogiato dal luterano Wilckens (a sua volta specialista della lettera) come il secondo grande commentario cattolico alla Lettera ai Romani dopo quello di Otto Kuss.

Infine, ecco l’opera citata in apertura dell’articolo, che è la sintesi dei suoi studi paolini: Linee fondamentali di una teologia paolina (1978, italiano 1985). Fu un’opera in un certo senso pionieristica, poiché si presentava come il tentativo di dare un quadro complessivo non tanto storico (presupposto) ma sistematico di una teologia ispirata a Paolo: esistevano a quel tempo studi sulla teologia delle singole lettere o di aspetti di una lettera, ma non studi globali sul pensiero paolino. L’autore stesso afferma di voler «presentare una teologia che sia paolina, vale a dire che sia caratterizzata contenutisticamente dal kerygma delle lettere paoline e che abbia un rapporto obiettivo con la teologia dell’apostolo Paolo» (p. 5), precisando che «il confronto spirituale, la nostra riflessione teologica, caratterizzata dal kerygma paolino […] è in fondo niente altro che un processo di traduzione di ciò che l’Apostolo ha detto […]: di una traduzione che è anche riproposta attualizzante del messaggio» (p. 7). L’opera non ha la pretesa di essere esaustiva, ma presenta i grandi temi paolini: il discorso su Dio (“Il Dio che è Dio”, cap. 1), la situazione del mondo (“Il mondo così com’è”, cap. 2), la grande ‘svolta’ (“La manifestazione della giustizia di Dio in Gesù Cristo”, cap. 3), “Lo Spirito e l’evangelo” (cap. 4) e “La fede” (cap. 5). L’opera è giunta alla sua quarta edizione nel 2004.