2014 2 · enrico lucchese · lauro maGnani · anne markham schulz · mitchell merlinG · Giuseppe p...

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Ricche MinereRivista semestrale di storia dell’arteAnno i, numero 2Settembre 2014

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Sommario

contributi

lorenzo Finocchi Ghersi

Peruzzi o Raffaello? Osservazioni sul cantiere di villa Chigi alla Lungara .....5

tatiana kustodieva

Ecce Homo di Giampietrino: due versioni di una composizione ........... 21

Franco paliaGa

Meccanismi della contrattazione di dipinti tra Venezia e Firenze nel tardo Seicento . 33

Giuseppe pavanello

Gli stucchi veneziani del Settecento: le fonti e le opere (I) ...................................51

alberto craievich

La sala di Fetonte in palazzo Loredan-Cini ............................ 99

paolo mariuz

Antonio Canova: la Statua equestre di Napoleone Bonaparte ................................109

attualità

Joanna Cannon, Religious Poverty, Visual riches. Art in the Dominican Churches of Central Italy in the Thirteenth and Fourteenth Centuries (d. zaru) .................................................. 129

Denis Ton, Giambattista Crosato. Pittore del Rococò europeo (p.o. krückmann) ..................................... 133

Italian Futurism. 1909-1944: Reconstructing the Universe (e. crispolti)................................................. 137

Piero Manzoni 1933-1963 (e. prete) .......................................................149

Lorenzo Finocchi Ghersi

Peruzzi o Raffaello? Osservazioni sul cantiere di villa Chigi alla Lungara

La villa che Agostino Chigi si fece costruire sul Tevere tra il primo e il secondo decen-nio del Cinquecento sul “modello” che gli diede Baldassarre Peruzzi, “condotto con quella bella grazia che si vede, non murato ma veramente nato”1, costituisce uno dei ca-pisaldi più esaltanti del pieno Rinascimento romano, in un momento in cui, per la gran-diosità del complesso architettonico e deco-rativo, la villa può essere messa a pari solo con i grandi cantieri vaticani del Belvedere, della Sistina e delle Stanze del nuovo appar-tamento di Giulio II nel Palazzo Apostolico (fig. 2). Mentre su questi temi le ricerche de-gli ultimi cinquant’anni sono state nume-rose e proficue di nuove e interessanti preci-sazioni sulle date e sulla partecipazione dei vari artefici, dovute anche alle vaste campa-gne di restauro conservativo dei cicli a fre-sco nella volta della Sistina e nelle Stanze2, altrettanto non può dirsi per la villa Chigi, per la conoscenza della quale rimangono basilari gli studi di Christoph Luitpold Frommel, proposti nella sintesi d’avanguar-dia del 19613, e riaggiornati con una seconda monografia sulla villa e le sue decorazioni, uscita nel 20034. L’insolita circostanza che, di fatto, un solo studioso, pur di così alta ed eccezionale rilevanza, si sia dedicato nell’ar-co di oltre mezzo secolo a un’opera d’arte e di architettura di tale complessità, fa com-prendere perché le posizioni sulla cronolo-gia del cantiere, sui caratteri stilistici e di-

stributivi dell’edificio, nonché sulle ragioni delle stesse decorazioni pittoriche, siano rimaste sostanzialmente immutate da mol-to tempo, tanto da far pensare che tutto sia chiaro nella storia artistica della villa, in ge-nere sempre vista come paradigma dell’ar-monia formale del Rinascimento, risultato delle magnifiche invenzioni di Baldassarre Peruzzi, Raffaello, Sebastiano del Piombo e il Sodoma, che, come noto, vi furono attivi all’interno.

Un fine studioso come Arnaldo Bruschi, così scriveva nel 1987: “Al di là della prima impressione di unità e omogeneità – confe-rita dallo schema apparentemente simme-trico e dalla ripetizione degli ordini su tutti i fronti – l’impianto della Farnesina (come già quello della Villa a Le Volte a Siena), se esaminato con attenzione e con occhi disin-cantati, colpisce per la sua singolare disor-ganizzazione spazio-strutturale. All’interno di un perimetro simmetrico e regolare rit-mato da paraste (in realtà anche queste non tutte ad esatta uguale distanza tra loro), sono spinti quasi a forza spazi e strutture, in vista soprattutto – come suggeriva Plinio il Giovane descrivendo le sue celebri ville – dell’‘amenità’, del ‘diletto’, della ‘comodità’ privata”5.

La lunga citazione si giustifica poiché è questo il punto da cui qui si vuole ripartire per riconsiderare la cronologia dell’edificio finora accettata, secondo la quale l’intera

1. Artista del XVI secolo, Facciata nord di villa Chigi alla Lungara, con progetto di decorazione. New York, The Metropolitan Museum of Art

Tatiana Kustodieva

Ecce Homo di Giampietrino: due versioni di una composizione

È in esposizione temporanea all’Ermitage un dipinto di Giampietrino, di collezione privata pietroburghese, raffigurante un Ecce Homo con la Vergine (fig. 1)1. Spetta a Shell aver dimostrato in modo convincente che il pittore milanese Giovanni Pietro Rizzoli (Lomazzo lo ricorda come un seguace di Leonardo da Vinci con il nome di Rizzo o Riccio), attivo tra il 1508 e il 1549, sia pro-prio Giampietrino, comparso nella bottega del maestro nella seconda metà degli anni novanta del Quattrocento2. È interessante notare che già nel 1912 Liphart, conservato-re della pittura italiana dell’Ermitage, aveva intuito, redigendo il catalogo della pinaco-teca, tale identificazione: “Giampietrino, di fatto Giovanni Pietro Rizzo”3.

Non sono note opere firmate da Giam-pietrino: ne esiste una datata raffigurante la Madonna con il Bambino e i santi Girolamo e Giovanni Battista creata per la chiesa di San Marino a Pavia. Sulla cornice sono indicati i nomi dei committenti e l’anno 1521. Uno dei problemi della scuola di Leonardo da Vinci è la mancanza di attribuzioni certe: la pala di San Marino, oggi considerata capolavo-ro di Giampietrino, a suo tempo era stata attribuita a Bernardino Lanino, Salaino, Cesare da Sesto. Il nome di quest’ultimo ap-parve non casualmente, dal momento che in quell’opera si percepiscono echi della sua Madonna con san Giorgio e san Giovanni Batti-sta (San Francisco, M. H. de Young Memo-

rial Museum). In altre parole, ciò significa che gli artisti non soltanto subivano l’in-fluenza del grande maestro ma confronta-vano gli esiti raggiunti, l’uno con l’altro.

Agli inizi del secolo scorso era accettato comunemente il parere secondo il quale l’al-tare di San Marino fosse una sorta di apogeo dell’arte lombarda nella rappresentazione delle figure, del paesaggio e degli elementi decorativi.4 In effetti, Giampietrino è uno dei seguaci di maggior talento di Leonardo. Nei propri quadri egli “dimostra non solo grande maestria tecnica, ma anche un’alta sensibilità per l’armonia delle linee e della forma”5. Giovanni Pietro Rizzoli è l’unico pittore della scuola di Leonardo ad aver rie-laborato i disegni del maestro con Leda ingi-nocchiata, conferendo alla sua opera, ora a Kassel, un’intonazione originale.

All’Ermitage sono conservati alcuni suoi dipinti, selezione abbastanza completa della sua attività creativa. Si tratta per la maggior parte di opere religiose di carattere intimo, concepite per la devozione privata. Godette, senza dubbio, di grande popolarità presso i contemporanei la Maddalena penitente, atte-stata dal gran numero di varianti eseguite dal maestro e di copie di bottega. L’esempla-re di Pietroburgo (fig. 2) si riferisce al tipo di raffigurazioni nelle quali la figura della Mad-dalena è rappresentata con le mani giunte in preghiera, la nudità del corpo avvolta dagli splendidi capelli che lasciano parzialmen

1. Giampietrino, Ecce Homo con la Vergine. Pietroburgo, collezione privata, in deposito temporaneo all’Ermitage

Franco Paliaga

Meccanismi della contrattazione di dipintitra Venezia e Firenze nel tardo Seicento

Nell’ambito degli scambi e delle leggi di mercato riguardante il commercio dei di-pinti sviluppatosi nel corso del Seicento, il rapporto instaurato tra le città italiane, così come tra queste e gli stati esteri, si fonda su un sintomatico ed esemplare fenomeno, nel quale oltre a essere privilegiata la trattativa privata, condotta in forma segreta, diventa una caratteristica peculiare la vendita del-le opere d’arte “per corrispondenza”, cioè tramite le segnalazioni epistolari attraver-so una fitta reti di informatori. Il fenome-no riguardò quel tipo di contrattazione che si svolgeva lontano dal luogo dove il dipin-to era stato segnalato e perciò distante dal-la residenza dell’acquirente. Per sopperire a questo “difetto di lontananza” per utilizza-re una felice formula usata da Serenella Rol-fi1, il disegno o lo schizzo tratto dal dipinto posto in vendita costituì uno strumento ne-cessario attraverso il quale l’acquirente po-teva prendere visione del pezzo in vendita e meditare sul suo acquisto.Il caso del collezionismo mediceo a comin-ciare dal cardinale Leopoldo (1617-1675) e proseguito con il penultimo granduca di Toscana, Cosimo III (1642-1723) e il figlio Ferdinando (1663-1713) rappresenta uno straordinario esempio di tale pratica, parti-colarmente diffusa nello scambio delle rela-zioni artistiche tenuto dagli agenti toscani con il resto d’Italia2. Nei carteggi del cardi-nale Leopoldo con i propri agenti sparsi nel-

la penisola, impegnati nel segnalare in ogni città le varie opportunità di acquisto di qua-dri, sono stati rinvenuti in talune circostan-ze disegni di composizioni di dipinti po-sti in vendita come per l’Assunta di Guido Reni proveniente dalla confraternita di San-ta Maria degli Angeli di Spilambergo (Mo-dena), allora di proprietà del conte Odoardo Pepoli a Bologna oggi alla Bayerische Sta-atgemäldesammlungen di Monaco3, il cui disegno fu eseguito nel 1675 da Jacob Fer-dinand Voet4, oppure lo schizzo della Ma-donna dal collo lungo di Parmigianino, già nella cappella Tagliaferri della chiesa di San-ta Maria dei Servi a Parma, oggi nella Galle-ria Palatina di Palazzo Pitti5, così come per altri, grazie soprattutto all’attività del corri-spondente veneziano Paolo Del Sera (1617-1672)6.

La pratica di inviare disegni di presenta-zione sarà adottata in forme assai diffuse durante il governo di Cosimo III soprattut-to nei confronti del mercato artistico vene-ziano. Sino dal 1640 tra la città lagunare e Firenze si stabilì un’intensa trama di scambi epistolari. Per quasi un secolo giunsero alla corte granducale lettere con allegati disegni e “bozze” di opere in vendita. Gli oggetti ac-quistati, poi, viaggiavano attraverso un si-stema postale di trasporto molto efficiente e di cui i Medici erano stati all’avanguardia in Europa. Sin dal XVI secolo esistevano in-fatti specifiche istruzioni da seguire per l’a

1. Andrea Celesti, Martirio di san Giovanni Battista, particolare. Firenze, Archivio di Stato

Giuseppe Pavanello

Gli stucchi veneziani del Settecento: le fonti e le opere (i)

“6°.) Im Pallast Foscarini. 7°.) Im Pallast Zenobrico, alli Cornini. 8°.) Im Pallast Pi-sani. 9°.) Im Pallast Maffetti, bey St. Paolo. 10°.) Im Pallast Sagredo bey St. Sofia. 11°.) Im Pallast St. Steffano. 12°.) Im Pallast Duodi”. Così, con indicazioni numeriche, Johann Caspar Füssli, nella ‘voce’ Carpo-foro Mazzetti Tencalla del suo testo sugli artisti della Svizzera edito nel 1774, elenca i palazzi veneziani in cui ha lavorato lo stuc-catore ticinese assieme al più anziano ‘com-pagno’ Abbondio Stazio1.

La lista verrà in parte ricalcata una tren-tina d’anni dopo da Gian Alfonso Oldelli, nella medesima ‘voce’ nel suo Dizionario storico ragionato degli uomini illustri del Canton Ticino apparso a Lugano nel 1807: “I palaz-zi Foscarini, Zobenico alli Carmini, Pisani, Maffetti presso S. Paolo, Sagredo presso S. Sofia, Duodi”2.

Può sorprendere, ma è forse solo que-stione di ordine alfabetico, che le maggiori informazioni sull’attività dei due stuccatori non siano date nell’altra ‘voce’ “Stazio Ab-bondio”, maestro di Mazzetti Tencalla, in cui si specifica solo che “lavorò nella casa Albrizzi e in figure, e in ornati”, ma dopo

aver scritto: ”Oltre ai tanti lavori eseguiti col fedel’amico e compagno Mazzetti Tencalla, come già abbiamo accennato nell’articolo appunto di Mazzetti Tencalla”3. E prosegue: “Stazio e Mazzetti Tencalla fecero lega insie-me così stretta, che uno non voleva lavora-re senza dell’altro: lega che disciolse la sola morte”. Nato nel 1685, Mazzetti Tencalla si spegneva a Venezia nel 1743; Stazio, più vecchio di vent’anni, essendo nato nel 1663-1665 circa, moriva più tardi, sempre a Vene-zia, nel 17454.

Non è omogeneo il dibattito critico sul-lo stucco veneziano negli ultimi anni del Seicento e nel primo Settecento, per cui fondamentali si rivelano nuove acquisizio-ni archivistiche, correttamente interpre-tate, o riletture delle fonti. Emblematica la vicenda del casino Zane, dato a Stazio, quindi attribuito a Pietro Roncaioli, ora definitivamente assegnato a Stazio, in compagnia di Andrea Pelli, grazie a carte d’archivio relative ai lavori promossi da Marino Zane5. Proprio le tecniche impie-gate e la composizione della bottega di uno stuccatore rendono, infatti, arduo in-dividuare le varie mani all’opera anche nel

“in una parola non avvi, direi quasi, in Venezia, palazzo, e casa di qualche considerazione, in cui non si veggano i lavori di questi due grandi amici, e indivisi compagni Stazio, e Mazzetti Tencalla” (Gian Alfonso Oldelli)

1. Abbondio Stazio e Carpoforo Mazzetti Tencalla, Decorazione di sopraporta con Giochi di putti. Venezia, palazzo Zenobio ai Carmini

Alberto Craievich

La Sala di Fetonte in palazzo Loredan-Cini

Il mito di Fetonte non compare di frequen-te nella decorazione dei palazzi veneziani. Alla fine del Seicento lo si ritrova nel sof-fitto della cosiddetta ‘alcova’ di ca’ Corner della ca’ Granda a San Maurizio compiuto da Giovanni Segala e poco dopo lo vediamo in uno dei medaglioni realizzati ad affresco da Louis Dorigny sulle pareti del salone di ca’ Zenobio (fig. 3)1. Le sue raffigurazio-ni più celebri – e riuscite – a opera di arti-sti veneziani sono invece in Terraferma: la grande tela da soffitto di Sebastiano Ricci per palazzo Fulcis a Belluno e, soprattutto, la decorazione ad affresco della villa Baglio-ni a Massanzago, il capolavoro giovanile di Giambattista Tiepolo2.

In questi casi l’accento della narrazione è posto sul tragico epilogo della vicenda, un palese ammonimento, come nel mito dei figli di Niobe, ad ambire a grandi imprese ma sempre senza oltrepassare i limiti delle proprie forze, pena l’inevitabile caduta3. In tal senso, non pare un caso che lo si ritrovi nelle dimore di famiglie veneziane come gli Zenobio e i Baglioni, ‘nobili di Candia’, che avevano acquistato il titolo poco prima.

Del tutto esente da questa intonazione morale e allo stesso tempo drammatica è l’interpretazione del soggetto eseguito ad affresco nel soffitto di una sala del piano nobile di palazzo Loredan a San Vio, con-tigua alla ‘loggia’ coperta che si affaccia sul Canal Grande (fig. 1). Vi si raffigura, infatti,

solo la parte iniziale del mito con il giova-ne Fetonte che chiede ad Apollo di guidare il carro del sole. Come di consuetudine per gli artisti veneziani del Settecento, la scena non si svolge nella sfarzosa reggia celeste immaginata dal poeta latino ma in pieno cielo, con il dio che riceve il proprio figlio assiso su un trono di nubi attorniato dalle personificazioni delle Stagioni mentre una delle Ore si appresta ad aggiogare i cavalli del Sole4.

L’edificio dov’è conservato ebbe una certa notorietà per essere stato, verso la fine del XIX secolo, la residenza veneziana di Carlo Maria di Borbone, ossia il pretendente carlista al trono di Spagna con il nome di Carlo VII5.

Esso, tuttavia, è celebre soprattutto per essere stato la dimora veneziana di Vittorio Cini, che vi collocò le sue straordinarie col-lezioni. L’aspetto attuale del palazzo si deve proprio a quest’ultimo proprietario che, in accordo con quanto aveva fatto compiere nella rocca di Monselice, diede luogo a una ricostruzione ‘in stile’ degli spazi. Questa volta, al posto di un immaginario e sceno-grafico medioevo, il riferimento non poteva che essere il ‘tempo felice’ del Settecento ve-neziano, riportato in auge presso il grande pubblico nella mostra del 1929 tenutasi a Venezia nel palazzo della Biennale proprio sotto la direzione di Nino Barbantini, il consigliere artistico di Vittorio Cini6. Oltre agli arredi, in modo non dissimile da quan

1. Girolamo Brusaferro, Abbondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Decorazione del soffitto della sala di Fetonte. Venezia, palazzo Loredan-Cini

Paolo Mariuz

Antonio Canova: la Statua equestre di Napoleone Bonaparte

Dopo la battaglia di Jena, la città venne oc-cupata dalle truppe francesi il 13 ottobre 1806. Proprio in quella data Hegel confida-va all’amico Friedrich Niethammer: “Ho vi-sto l’imperatore, questa anima del mondo, passare a cavallo per la città per uscire in ri-cognizione; è, in effetti, una sensazione me-ravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, stando su un ca-vallo, s’irradia per il mondo e lo domina”1.

Con lettera del 20 dicembre 1806 Giu-seppe Bonaparte, allora re di Napoli, com-missionò a Canova una statua equestre di Napoleone da collocare nella capitale del re-gno per eternare l’eroica figura del fratello, lasciando libero l’artista di stabilire le di-mensioni e l’attitudine dell’invitto condot-tiero2. Lo scultore accettò senza esitare l’in-carico rispondendo il 23 dello stesso mese: «Ambizioso grandemente di non render-mi indegno di tanti favori, io mi occuperò al più presto possibile della magnifica im-presa»3. Tenendo effettivamente fede a tale promessa, stimolato forse anche dal dover-si misurare con un genere, quello appunto del monumento equestre, del tutto nuovo per lui, l’artista si mise subito al lavoro con-centrandosi innanzitutto sul Cavallo la cui prima formulazione plastica data al genna-io 18074. Tra il 24 del mese e il 21 di quello successivo Vincenzo Malpieri eseguì la for-ma persa e il getto del modellino5. Stupisce

la rapidità: si tratta, comunque, del primo ‘movimento’, a cui subentra una fase di ri-flessione e decantazione dovuta anche alla necessità di definire le dimensioni dell’ope-ra e la sua collocazione. A tale riguardo ri-sulta di particolare interesse lo scambio epi-stolare che Canova intrattenne tra agosto e settembre del 1807 con Jean Baptiste Wi-car, allora direttore dell’Accademia di Bel-le Arti della città partenopea, e il ministro dell’interno, André-François Miot6: entram-bi portavoce dei desideri del re, Giuseppe Bonaparte, che voleva vedere l’artista quan-to prima a Napoli, non oltre comunque la metà di ottobre, con il modello del monu-mento per poter scegliere il luogo più ade-guato e soddisfacente dove situarlo. Inoltre, dato che si attendeva una imminente visi-ta dell’Imperatore, il modello, dipinto di co-lor bronzo, avrebbe dovuto essere collocato nel luogo prescelto e dunque atto a resistere alle intemperie. Canova dovette dar fondo a tutta la pazienza e diplomazia per far fron-te a richieste così stravaganti e sarà costret-to a ripetere più volte i motivi per i quali tali desiderata erano del tutto irrealistici e inat-tuabili. Innanzitutto le dimensioni del mo-numento, che non potevano certo essere in-feriori a quelli di Giuseppe II e di Pietro I, non avrebbero mai consentito di poterne realiz-zare il modello in un tempo così limitato, a soli otto mesi dalla commissione; e anche se fosse stato possibile in un lasso di

1. Antonio Canova, Studio per la Statua equestre di Napoleone Bonaparte. Bassano del Grappa, Museo-Biblioteca-Archivio

ISSN 2284-1717

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